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I.
Abbiamo, fin dalle prime pagine di questa pubblicazione, detto, e insisteremo a ripetere, che la Legge Morale è il criterio sul quale deve giudicarsi il valore degli atti sociali e politici che costituiscono la vita delle Nazioni e delle diverse dottrine che s'assumono di dirigerle: e lo spettacolo che abbiamo innanzi d'una grande Nazione caduta in fondo per essersi sviata da quella Legge dovrebbe essere oggi luminosa conferma al nostro principio. Ciò ch'è vero per tutte le Nazioni, lo è doppiamente per le Nazioni che sorgono. Nella moralità dei loro ordini sociali e delle norme che ne dirigono la condotta politica sta non solamente il compimento del Dovere, ma il pegno del loro avvenire. Come la vita del commercio ed ogni vasto sviluppo economico posano sul credito, la vita complessiva d'un popolo e l'incremento nazionale posano sulla fiducia che gli altri popoli pongono in esso; e quella fiducia ha bisogno d'un programma definito accettato e invariabilmente mantenuto nelle transazioni interne e segnatamente internazionali del nuovo popolo. Dai mercati economici alle alleanze politiche, tutto si schiude agevolmente a una Nazione che vive d'una vita normale fondata sopra un principio morale la cui sorgente è nota e le cui conseguenze sono logicamente e praticamente dedotte negli atti: dove manca, dove non esiste norma dall'arbitrio infuori degli individui e dei capi, i popoli guardano diffidenti, sospettosi, gelosi. Un trionfo carpito al delitto o all'altrui codardìa può affascinarli o impaurirli a concessioni e a riverenza apparente, ma per breve tempo, e il primo indizio di decadimento o fiacchezza li muterà. Par avere negato l'idea di Nazionalità, anima dell'Epoca nuova e sostituito alla potenza d'un principio la propria, genio, forza e prestigio del primo Napoleone sparirono davanti al subito inaspettato fremito dell'Europa rifatta ostile non sì tosto parve interrompersi per lui il corso delle vittorie. E la Francia dell'ultimo Napoleone, orgogliosa pochi anni addietro della sommissione abjetta di tutti i Governi Europei non trovò, nella prima ora di crisi, un solo alleato. Gli stessi fati s'apprestano all'Inghilterra, s'essa persiste a cancellare nella sua politica esterna quel culto al principio di Libertà che la fece potente e inspira tuttavia la sua vita interna.
Per noi - ed è la dottrina dei nostri Grandi da Dante in poi - ogni essere, individuale o collettivo, ha un fine, e il fine ch'è parte del Disegno divino regna sovrano: l'esistenza di quel fine genera il dovere di raggiungerlo, di tentarlo almeno. La vita è una missione. Il compimento più o meno continuo, più o meno potente della missione costituisce il merito e quindi il progresso della vita.
L'Umanità ha un fine: scoperta progressiva della Legga Morale e incarnazione di quella Legge nei fatti. Il mezzo, il metodo, per raggiungere quel fine, è l'Associazione: l'associazione, progressiva anch'essa, delle facoltà e delle forze umane, la comunione più e più vasta, più e più intensa d'ogni vita coll'altre vite, l'amore trasfuso nella realtà. Quando tutti i figli di Dio saranno liberi, eguali e affratellati in una fede comune di pensieri e d'opere, e la coscienza della Legge splenderà in ogni vita come splende il sole in ogni goccia di rugiada diffusa sui fiori dei campi, il fine sarà raggiunto. L'Umanità trasformata ne intravederà un altro.
Le Nazioni sono gli individui dell'Umanità: tutte devono lavorare alla conquista del fine comune: ciascuna a seconda della propria posizione geografica, delle proprie singolari attitudini, dei mezzi che sono ad essa naturalmente forniti. L'insieme di queste condizioni costituisce per essa un fine speciale da raggiungersi sulla direzione del fine comune.
Dov'è coscienza del fine speciale e speciale attitudine ad accostarsi attraverso quel fine al fine comune ch'è l'ideale dell'Umanità, ivi è Nazione: dove non è, è gente, frazione di popolo destinato presto o tardi a confondersi con un altro.
Il Patto Nazionale, ch'è battesimo e mallevadorìa di fraterno progresso ad un popolo, riconosce, nella Dichiarazione di principî che deve essere preambolo al Patto, il fine comune a tutti e addita nel proprio insieme il fine speciale, la parte di lavoro che spetta, nel lavoro generale, a quel popolo. Ogni qual volta un popolo rinnega il fine comune o svia dal bene di tutti esclusivamente al proprio il frutto dei progressi compiti verso il fine speciale, la Nazione retrocede. Raggiunto il loro fine speciale, le Nazioni morivano un tempo per lungo corso di secoli: oggi, la conoscenza del fine comune, della vita collettiva allora ignota dell'Umanità e della legge di Progresso che la governa, lo impedisce; ma la Nazione colpevole smarrisce per un tempo ogni virtù iniziatrice e non si ritempra ad essa fuorchè espiando.
La dichiarazione del fine speciale costituisce il vincolo di libera associazione nel quale i milioni appartenenti a un gruppo determinato riconoscono di far parte d'una Nazione e ordinano il loro lavoro interno: l'analogia dei fini speciali costituisce la baso di più perenni e più intime relazioni tra popolo e popolo: la dichiarazione del fine comune determina le alleanze.
Santa è ogni guerra comandata dalla necessità d'un progresso vitale verso il fine comune assolutamente vietato per ogni altra via o contro chi contende ad un popolo libertà di compiere la propria missione: ogni altra è delitto di fratricida; e le Nazioni affratellate nella conoscenza accettata del fine comune dovrebbero collegarsi contr'essa. Come i membri d'una famiglia, i popoli sono, a seconda dei loro mezzi, solidali e chiamati a combattere il Male ovunque s'accampa, e a promuovere il Bene ovunque può compiersi. Le Nazioni che rimangono spettatrici inerti di guerre ingiuste e inspirate da egoismo dinastico o nazionale, non avranno, il giorno in cui saranno alla volta loro assalite, che spettatori.
Son queste per noi le norme regolatrici d'ogni politica internazionale e le abbiam fin d'ora affermate perchè giudicheremo a seconda gli eventi europei: norme semplici e piane come tutte quelle che derivano da un concetto morale; ma la loro prova sta nella Storia che, interrogata a dovere, dimostra ogni violazione di esse aver generato conseguenze funeste ai violatori e ai popoli che, potendo, non impedirono. La scienza del come dirigere le cose umane è più semplice e men difficile ch'altri non pensa, se mova da pochi principî derivati tutti da una idea di religione e di Dovere: non diventa complessa e oscura e raddensata di semi-diritti storici cozzanti gli uni cogli altri e sorgente inesauribile di piati e dissidî, se non quando, cancellata ogni fede comune e illanguidito ogni senso collettivo di religione, la vita politica delle Nazioni è data agli arbitrî d'un materialismo che ha l'io per principio e la forza, il fatto transitorio, per prova. In quel materialismo ebbe nascita la Diplomazia, scienza intricatissima e incerta di transazioni fra i molteplici fatti, di concessioni disegnate per un tempo alla menzogna e alla corruzione per un tempo dominatrici, e di formole destinate a coprir le intenzioni: scienza funesta all'educazione dei popoli e sterile sempre quanto ai fini da raggiungersi, che l'Instituzione repubblicana abolirebbe, decretando pubblicità per le relazioni tra popolo e popolo.
Oggi e da tre secoli in poi non esiste principio comune nè quindi norma determinata alle relazioni internazionali. Vivo e fecondo il concetto Cristiano, una influenza direttrice morale si manifestava tratto tratto modificando, per quanto era allora possibile, in un senso uniforme, gli eventi creati dalle circostanze e dalle passioni. La predicazione che aveva lentamente tramutato le tremende invasioni degli uomini del nord in Italia e altrove in colonizzazioni territoriali e aveva più dopo, promovendo a un tempo l'emancipazione dei servi di gleba, gettato colle Crociate in nome dell'Europa un guanto di sfida al fatalismo d'Oriente, proferiva di tempo in tempo, coi Concilî e colle epistole pontificie, parole di pace, d'unità morale, di fede comune. I tempi erano semi-barbari: il Feudalismo smembrava popoli che tendevano a conglomerarsi, a unificarsi: il dualismo, impiantato nel Cristianesimo stesso, tra il mondo delle anime e quello dei corpi, erano cagioni insuperabili e perenni di discordie e di guerre: pur nondimeno, una tendenza generale, frutto d'alcuni principî morali davanti ai quali s'incurvavano tutte le fronti, signoreggiava talora quella tempesta, accorciava le guerre o ne traeva un avviamento alla caduta degli ordini feudali e all'avvicinarsi dei popoli. Ma, cominciato nel XVI secolo il lento dissolversi del Cristianesimo, si schiuse un vuoto, non colmato finora in Europa: vuoto d'una fede morale comune, d'un patto solennemente o tacitamente riconosciuto, movendo dal quale i popoli potessero intendersi e fidare l'uno nell'altro; e sull'orlo di quel vuoto alternarono sistemi dettati da inspirazioni isolate o da cupidigie dinastiche; sterili, inefficaci tutti. Taluni fra gli scrittori accettati come maestri di diritto internazionale si richiamarono all'antichità come se norme dettate per popoli politeisti potessero mai dirigere le relazioni di popoli sui quali era passato l'alito del Cristianesimo: poi venne, promossa dall'Inghilterra, la dottrina d'equilibrio europeo che conchiuse in Vestfalia un patto d'eguaglianza fra due credenze irreconciliabilmente nemiche e con altri trattati una sospensione d'ostilità tra Francia, Austria e Spagna che doveva durare perpetua e cessò con Luigi XIV: poi nuovi tentativi in Utrecht e altrove che sfumarono davanti al lampo della spada di Federico II e conchiusero col sorgere del militarismo Prussiano e coll'iniquo smembramento della Polonia. L'equilibrio diede da circa settanta anni di guerra all'Europa; la ponderazione si tradusse in un sistema d'armi e d'armati sempre crescenti a impedire le guerre e nel principio che decretò in Campoformio la vendita di Venezia a compenso degli ingrandimenti francesi sul Reno: la conquista operata da una Potenza deve controbilanciarsi da conquiste dell'altre. Tutti quei sistemi, figli del concetto materialista, erano condannati a perire nell'impotenza, nell'anarchia, nel delitto. Mancava ad essi la sanzione di Dio.
Oggi, quasi disperando di trovare rimedio ai conflitti, le Nazioni inchinano, duce l'Inghilterra, alla teorica del non intervento; teorica che non ha principio sul quale si fondi, ma è negazione di tutti i principî conquistati fino a noi intellettualmente dall'Umanità: unità di Dio e della Legge Morale, unità dell'umana famiglia, unità d'intento assegnato a noi tutti, fratellanza e associazione dei popoli, dovere di combattere il Male e di promovere il trionfo del Bene. Ateismo trasportato nella vita internazionale o deificazione, se vuolsi, dall'egoismo, quella teorica, la cui suprema formola fu data in Francia da un uomo di stato monarchico colle parole: chacun chez soi, chacun pour soi, tocca gli estremi dell'immoralità e dell'assurdo: se accettata da tutti, sottrarrebbe una delle più potenti leve al Progresso che la Storia ci addita compìto quasi sempre con atti d'intervento; se praticata, com'è attualmente, dagli uni e non dagli altri, schiude l'adito a chi vuol fare trionfare inique pretese e sa di non dover temere che alcuno, in nome dell'eterna Giustizia, gli contenda la via. La Nazione che s'assumesse di costituirla norma generalmente regolatrice delle relazioni internazionali si condannerebbe a guerra perpetuamente rinascente con quanti ricuserebbero d'accettarla: limitandosi a proclamarla per sè, abdicherebbe la metà della propria vita, perderebbe la stima e l'amore dei popoli e non si sottrarrebbe alla necessità della guerra. Il grido di pace a ogni patto inalzato in Inghilterra da tutta una scuola influente, alla quale erano capi Cobden e Bright, confortò la Russia ad osare e determinò in gran parte la guerra della Crimea.
Il sangue di tutti i martiri, popoli o individui, che intervennero santamente e santamente morirono a pro del Giusto e del Vero al di là della loro terra nativa, solleva una eterna protesta contro questa fredda, abjetta, codarda dottrina, che per noi credenti è bestemmia contro il Dovere e indizio innegabile dell'assenza e della necessità d'una fede.
Quanto alla vita internazionale dell'Italia d'oggi, non occorre spendervi lunghe parole: non esiste. Gli uomini della monarchia non hanno coscienza di missione Italiana nel mondo, nè concetto o disegno politico da uno infuori: trascinare di giorno in giorno, attraverso brevi espedienti e sempre seguendo chi sembra momentaneamente potente, una incerta e fiacca esistenza. Le rare frasi, rubate a un dispaccio russo o britannico e proferite con sussiego di chi ha una dottrina, da chi regge per le faccende Estere, farebbero sorridere se non facessero arrossire. Guerre e paci ci furono sempre dettate. L'avvenire d'Italia e la moralità non ebbero parte nelle nostre alleanze. Invocammo, sorgendo, dicendolo almeno, per la libertà, l'ajuto d'un regnatore tiranno; sorgendo, dicendolo almeno, per l'unità della Nazione, l'ajuto di chi la vietava col possesso iniquamente ottenuto e serbato di Roma e ci richiedeva d'uno smembramento di terre nostre che gli fu senza indugio concesso: ci collegammo colla Prussia contro l'Austria: ci collegavamo pochi anni dopo colla Francia Imperiale contro la Prussia e l'unificazione Germanica, se le precipiti disfatte francesi e il nostro accennare, agitando, a fatti - altri ha recentemente scoperto una potente agitazione della Sinistra - non lo impedivano: ci collegheremo domani - e i gazzettieri di parte monarchica, impauriti del trovarsi senza padrone, cominciano a preparare il terreno - nuovamente coll'Austria. La nostra Diplomazia ha detto ai Greci, unita coi difensori del Turco: non rivendicate le vostre terre: ha promesso, richiesta, all'Inghilterra di non mover piede nella recente guerra senza avvertirla: ha corteggiato insistente il proscrittore della Polonia. La Storia dovrà indicare i primi dodici anni dell'Italia risorta, nella sua vita internazionale, con un segno di negazione.
II.
Noi non abbiamo oggi politica internazionale. Manca a chi regge la fede in una norma morale e nel dovere della Nazione che il Governo è chiamato a rappresentare. Questa assenza di fede, questo oblio della missione Italiana nel mondo, ci condannano a vivere nel presente, senza intelletto della nostra tradizione, senza concetto dell'avvenire, prostrati davanti ai fatti e tremanti di essi. Gli organi governativi scrivono articoli a provare che, caduta la potenza francese, unica politica per noi è il non averne alcuna. Così, tra l'Italia sorta a Nazione e il vecchio Ducato di Modena, di Toscana o di Parma non corre divario: ambi deboli, passivi, senza scopo, senza nome tra i popoli, senza voto efficace nel congresso delle Nazioni, senza potenza iniziatrice di civiltà. Ora, un Popolo che non reca, sorgendo, un nuovo elemento di progresso al lavoro comune, una pietra all'edifizio lentamente inalzato dall'Umanità, non ha ragione di vita nè vita: ricadrà inevitabilmente sotto il dominio diretto o indiretto del primo potente che vorrà impadronirsene. Come in ogni consorzio, così nel consorzio internazionale, chi non compie un ufficio, chi non produce, perde il diritto di vivere.
E nondimeno, se v'è popolo che abbia dalla posizione geografica, dalle tradizioni, dalle naturali attitudini, dall'aspettazione vivissima sui primi moti italiani oggi per le ripetute delusioni sopita, degli altri popoli, un grande ufficio da compiere sulle vie dell'incivilimento europeo, è certamente il nostro: se v'è momento in cui un popolo possa, volendo, assumersi un'alta missione e creare a sè stesso un vasto e fecondo avvenire, è questo in cui, smarrita nel moto ascendente delle Nazioni ogni iniziativa, tutti invocano chi raccolga la lampada della vita caduta visibilmente dalle altrui mani e la sollevi a conforto e scorta delle genti travagliate dal dubbio e minacciate dalla invadente tenebra dell'egoismo. Quei che ponevano pochi dì sono la vita per impedir che cadesse, dovrebbero più che altri pensarci.
L'Italia ha evidentemente dalla Storia, dalle condizioni dell'Europa, dai caratteri del suo risorgere, una doppia missione: compiendola, essa si porrebbe a capo d'un'Epoca.
La prima - abolizione del Papato, conquista pel mondo dell'inviolabilità della coscienza umana e sostituzione del dogma del Progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia - è missione religiosa della quale ora non intendiamo parlare e da maturarsi a ogni modo, prima che i decreti d'un popolo di credenti non vengano a compirla col pacifico apostolato. Ma la seconda - sviluppo del principio di Nazionalità come regolatore supremo delle relazioni internazionali e pegno sicuro di pace nell'avvenire - è missione politica, connessa intimamente coll'altra, perchè guida a un nuovo riparto Europeo che fu sempre, in tutte le grandi Epoche storiche, preludio a una trasformazione religiosa, e da compirsi coll'influenza morale, appoggiata, occorrendo e sotto il momento propizio, dall'armi.
Nazionalità è infatti la parola vitale dell'Epoca che sta per sorgere. Le guerre combattute in Europa dagli ultimi anni del primo Impero fino a noi originarono quasi tutte da quel principio: suscitate da popoli rivolti a conquistarsi nazionalità o a proteggerla dagli assalti altrui o promosse da monarchie tendenti a impadronirsi di moti nazionali antiveduti inevitabili e sviarli dal segno. I popoli chiamati da tendenze provvidenziali a conglomerarsi per vivere di vita normale e compire liberamente e spontanei un ufficio in Europa sono oggi, i più, smembrati, divisi, servi d'altrui, aggiogati a chi ha fine diverso, separati per opera di violenza da rami della stessa famiglia, deboli quindi e inceppati nei loro moti, nelle loro legittime aspirazioni. L'Europa come escì dalle conquiste e dai trattati dinastici non è l'Europa quale il dito di Dio segnava coi grandi fiumi e colle grandi linee di montagne la divisione del lavoro alle generazioni de' suoi abitanti. E finchè nol sia, la pace che tutti cerchiamo è sogno di menti illogiche che imaginano potersi conquistare senza la Giustizia i suoi frutti. Le Nazioni rappresentano le diverse facoltà umane chiamate a raggiungere associate, non confuse e sommerse l'una nell'altra, il fine comune e hanno eterno il diritto di vivere di vita propria: non si associa chi non vive e non comincia dall'affermare la propria individualità. I panteisti della politica che sconoscono quel diritto e paventano nel principio di nazionalità un germe di gare e guerre continue, dimenticano che le Nazioni non furono sinora libere mai nè fondate sulla coscienza popolare, ma soggiacquero, nella loro vita politica, al monopolio delle famiglie regie e delle avide loro ambizioni: negano il disegno provvidenziale indicato dalle configurazioni geografiche e rivelato dalla Storia; sopprimono i mezzi che fanno possibile il raggiungersi dell'intento; e avvalorano, senza avvedersene, il concetto di monarchia universale che accarezzò nel passato la mente d'ogni regnatore potente e inondò l'Europa di sangue sparso senza santità di sagrificio, nè frutto. Le Nazioni sono unico argine al dispotismo d'un popolo, come la libertà degli individui al dispotismo di un uomo.
Il rimaneggiamento della carta d'Europa è nei fati dell'Epoca e si compirà attraverso una serie di battaglie inevitabili. Ma la Nazione che si farà, con saviezza d'intelletto ed energia di volontà, centro del moto, accorcierà quella serie fatale e sarà per molti secoli iniziatrice di progresso all'Umanità.
Là, nel pensiero che agita in oggi prima d'ogni altro le menti europee, sta la base della vera vita internazionale d'Italia. Da esso deve inspirarsi nella scelta delle sue alleanze. Il suo luogo è a capo delle Nazioni che sorgono, non alla coda delle Nazioni che da lungo sono e accennano a declinare.
L'Italia è un fatto nuovo, un Popolo nuovo, una vita che jeri non era: non ha legami fuorchè i voluti dalla Legge Morale, sovrana su tutte le Nazioni, giovani o antiche: non fa parte nei trattati dinastici anteriori al suo nascere, nè è quindi vincolata da essi, quando non consuonino colle norme del Giusto e dell'eterno Diritto. Dovrebbe dirlo altamente e operare liberamente a seconda. La tradizione è santa e dobbiamo rispettarla; ma, come in religione non è Tradizione quella d'una sola chiesa o d'un'epoca sola, ma quella dell'Umanità che le abbraccia, le domina e le spiega tutte, la tradizione politica non è tutto il passato, è quella parte di passato soltanto che interpreta la Legge Morale e segna la via che guida al Progresso: è la tradizione nel Bene, non quella che si svia nel Male e che, accettata, tenderebbe a perpetuarlo. E un Popolo che sorge a Nazione ha non solamente il dovere di respingere da sè le colpe dei padri, ma una splendida opportunità per compirlo. Ogni nuova vita è pura. Dio non la dà perchè s'insozzi del fango accumulato dalle vite corrotte anteriori.
L'Italia, se intende ad essere grande, prospera e potente davvero, deve incarnare in sè questo concetto del riparto d'Europa a seconda delle tendenze naturali e della missione dei popoli. Essa deve piantare risolutamente sulle sue frontiere una bandiera che dica ai popoli: Libertà, Nazionalità, e informare a quel fine ogni atto della sua vita internazionale.
È la nostra terza missione nel mondo. La Roma dei Cesari involò alla Repubblica il concetto dell'Unità politica, e quanto e dove era allora possibile, lo tradusse in fatto coll'armi delle Legioni: la Roma dei Papi tentò il concetto dell'Unità morale e riescì in parte colla parola de' suoi sacerdoti e de' suoi credenti; ma l'una e l'altra non riconobbero - nè lo potevano allora - il moto collettivo provvidenziale delle Nazioni, non videro nel mondo che la propria potenza, e gli individui umani che dovevano subirla non ebbero intermediarî cooperatori tra sè e il fine proposto e non trovarono quindi stromento a raggiungerlo fuorchè quello dell'autorità assoluta dispotica sui corpi e sull'anima. La Roma del Popolo, della Nazione Italiana, credente nel Progresso, nella vita collettiva dell'Umanità e nella divisione del lavoro tra le Nazioni, deve affratellarle all'impresa: guidatrice e soccorritrice.
E alla doppia missione che diciamo prefissa all'Italia accennano le necessità prime del nostro risorgere, che non potè iniziarsi se non intimando guerra al Papato, custode della vecchia autorità illimitata, e all'Impero d'Austria, negazione, potente oltre ogni altra in Europa, della nazionalità; nè potrà compirsi se non procedendo innanzi e fino alle ultime conseguenze su quella via. Ciò che per altri può essere semplicemente dovere morale, è legge di vita per noi.
Le migliori alleanze, anche per popoli già costituiti, viventi di vita normale e senza missione speciale, son quelle che si stringono con chi è abbastanza potente e abbastanza vicino per giovare all'intento, ma non lo è tanto da potere, sotto pretesto di servizî resi o tentazione d'operazioni miste e comuni, imporre la propria volontà e varcare per egoismo d'ingrandimento i limiti apertamente stipulati nei patti dell'alleanza; e di quali danni possa essere feconda la violazione di questa norma ha fatto recente e dolorosissima prova l'Italia. Per noi, popolo nuovo e che non può entrare degnamente e con securità d'avvenire nella comunione delle Nazioni se non aggiungendo agli elementi esistenti un nuovo e utile elemento di vita, le alleanze durevoli non possono fondarsi che sulla conformità della fede politica e dell'intento. I nostri alleati naturali sono tra i popoli che tendono con diritto ad assodare la loro unità nazionale o a conquistarsela con probabilità di successo. Le Nazioni costituite da lungo, e potenti per tradizione, guarderanno per lungo tempo, con istinti di gelosia e di sospetto, a una Nazione che sorge e il cui progresso le minaccia di nuove influenze e di concorrenza economica. Tra i popoli nuovi soltanto noi troveremmo amicizia sincera fondata sull'importanza della nostra per essi, riconoscenza degli ajuti negati da altri e prestati da noi, incremento ai nostri già avviati commerci, nuovi mercati crescenti col crescere della vita suscitata in quelle terre risorte, giovamenti d'ogni sorta senza pericoli.
La politica internazionale d'Italia dovrebbe anzi tutto, e per acquistarsi potenza agli ulteriori sviluppi, tendere a costituirsi anima e centro d'una Lega degli Stati minori europei stretta a un patto comune di difesa contro le possibili usurpazioni d'una o d'altra grande Potenza. La Spagna, il Portogallo, la Scandinavia, il Belgio, l'Olanda, la Svizzera, la Grecia, i Principati Romano-danubiani costituirebbero così coll'Italia una forza materiale di più che 64 milioni d'uomini stretti a un patto d'indipendenza e di libertà al quale non sarebbe difficile d'acquistare l'adesione dell'Inghilterra e che potrebbe efficacemente resistere a ogni tentativo d'usurpazione meditato, com'è generalmente, da una sola Potenza e guardato con diffidenza dall'altre.
L'influenza morale dell'Italia s'eserciterebbe intanto, ingrandita da questa Lega, nella direzione del futuro riordinamento europeo: Unità Nazionali frammezzate possibilmente di libere confederazioni protette nella loro indipendenza e barriera alle collisioni. La costituzione definitiva della Penisola Iberica per mezzo dell'unione del Portogallo e della Spagna, la trasformazione della Confederazione Elvetica in confederazione delle Alpi coll'unione ad essa della Savoja e del Tirolo tedesco, l'Unione Scandinava, la Confederazione repubblicana dell'Olanda e del Belgio, sarebbero intento e tèma perenne di predicazione gli agenti italiani.
Ma il vero obiettivo della vita internazionale d'Italia, la via più diretta alla sua futura grandezza, sta più in alto, là dove s'agita in oggi il più vitale problema europeo, nella fratellanza col vasto, potente elemento chiamato a infondere nuovi spiriti nella comunione delle Nazioni o a perturbarle, se lasciato da una improvvida diffidenza a sviarsi, di lunghe guerre e di gravi pericoli: nell'alleanza colla famiglia Slava.
I confini orientali d'Italia erano segnati fin da quando Dante scriveva
........A Pola presso del Carnaro
Ch'Italia chiude e i suoi termini bagna.
Inf., IX, 113.
L'Istria è nostra. Ma da Fiume, lungo la sponda orientale dell'Adriatico, fino al fiume Bojano sui confini dell'Albania, scende una zona sulla quale, tra le reliquie delle nostre colonie, predomina l'elemento slavo. E questa zona che sulla riva Adriatica abbraccia, oltrepassando Cattaro, la Dalmazia e la regione Montenegrina, si stende, sui due lati della catena del Balkan, verso oriente fino al Mar Nero, risalendo nella direzione settentrionale attraverso il Danubio e la Drava, all'Ungheria ch'essa invade aumentando d'anno in anno in proporzione più rapida di quella dell'elemento magyaro.
Tra questa zona, popolata d'un dodici milioni di slavi, e la zona superiore e continua, slava anch'essa, che dalla Galizia s'espande da un lato alla Moravia e alla Boemia, dall'altro alla Polonia per raggiungere attraverso il Ducato di Posen e la Lituania il Mar Baltico, s'interpongono, impedimento provvidenziale alla realizzazione della sognata unità panslavistica, la Moldavia, la Valacchia, la Transilvania; ma son terre Daco-Romane, legate a noi, da Trajano in poi, per tradizioni storiche, affinità di lingua e affetti che non hanno bisogno, ad assumere importanza, fuorchè d'essere da noi coltivati; e mentre scemano il pericolo minacciato dallo Tsarismo, possono giovare a noi come anello di congiungimento tra le due zone nelle nostre relazioni colla famiglia slava. E questa sua seconda zona, popolata di 18 a 20 milioni di slavi, sembra disegnata, anch'essa provvidenzialmente, come barriera futura tra la Russia e la Germania del nord.
Là, nell'alleanza colle popolazioni di queste due zone, stanno, lo ripetiamo, la nostra missione, la nostra iniziativa in Europa, la nostra futura potenza politica ed economica.
Dell'agitazione slava, del moto, crescente negli ultimi cinquanta anni, che affatica le popolazioni delle due zone e le sospinge a costituirsi Nazioni, dovremo parlare più volte e additare le immense conseguenze del fatto di una vasta famiglia umana, muta finora e senza vita propria costituita e ordinata, chiedente oggi, come la famiglia teutonica sul perire del politeismo, diritto di parola, e di comunione coll'altre famiglie europee. Ma possiamo intanto affermare che per quanti hanno studiato con occhio attento e profondo quel moto, il suo non lontano successo è certezza. Non si tratta più d'impedirlo o dissimularlo, ma di dirigerlo al meglio e di trarne, allontanandone i pericoli, le conseguenze più rapidamente favorevoli al progresso europeo. Il moto delle razze slave che, salutato e ajutato come fatto provvidenziale, deve ringiovanire di nuovi impulsi e d'elementi d'attività la vita europea e preparare, ampliandolo, il campo alla trasformazione religiosa e sociale fatta oggimai inevitabile, può, se avversato, abbandonato o sviato, costare all'Europa vent'anni di crisi tremenda e di sangue.
E i pericoli sommano in uno: che il moto ascendente slavo del mezzogiorno e del nord cerchi il proprio trionfo negli ajuti russi e conceda allo Tsar la direzione delle proprie forze. Avremmo in quel caso un gigantesco tentativo per far cosacca l'Europa, una lunga e feroce battaglia a pro d'ogni autorità dispotica contro ogni libertà conquistata, una nuova èra di militarismo, il principio di nazionalità minacciato dal concetto d'una monarchia europea, Costantinopoli, chiave del Mediterraneo, e gli sbocchi verso le vaste regioni asiatiche in mano allo Tsar: invece di una confederazione slava fra i tre gruppi, slavo-meridionale, boemo-moravo e polacco, amici a noi e alla libertà, l'unità russo-panslavistica ostile: invece di 40 milioni d'uomini liberi, ordinati dal Baltico all'Adriatico a barriera contro il dispotismo russo, cento milioni di schiavi dipendenti da un'unica e tirannica volontà.
Il pericolo, checchè altri abbia scritto, non esisteva allo iniziarsi dell'agitazione slava: fu creato dalla falsa immorale politica adottata dalle monarchie. Il moto slavo sorse, come il nostro, spontaneo dagli istinti e dal giusto orgoglio dei popoli, dai germi di futuro cacciati nelle tradizioni storiche e nei canti popolari, dagli esempî d'altre Nazioni, dal destarsi d'idee che volevano e non trovavano libero sfogo, dalla coscienza svegliata al senso d'una missione da compiersi scritta nel disegno divino che informò l'Europa a fati progressivi comuni. Cagioni siffatte s'avvivano sempre a un alito di libertà e le libere tendenze s'afforzavano naturalmente dagli ostacoli al moto risiedenti tutti nella resistenza e nelle persecuzioni delle monarchie alle quali gli agitatori slavi si trovavano e si trovano ancora aggiogati. Ed è tanto vero che il concetto di federazione slava, pel quale nel 1825 caddero martiri in Russia Pestel, Mouravieff, Bestoujeff e altri ufficiali, assumeva bandiera repubblicana. Ma il rifiuto d'ogni appoggio, la diffidenza di tutti governi e popoli, l'ostinazione dei gabinetti inglesi e francesi a non vedere in una santa aspirazione di popoli se non un maneggio segreto russo e a volerne impedire lo sviluppo col sorreggere l'Impero Turco e l'Austriaco, ricacciarono in parte gli Slavi, avversati, negletti, fraintesi e disperati d'ajuto, verso chi insisteva a susurrare promesse d'eserciti e di guerre emancipatrici. Non piegammo noi Italiani, bestemmianti pochi dì prima ai Francesi in Roma e plaudenti ai ricordi d'Orsini, alle promesse e alle offerte del Bonaparte?
La via che additiamo all'Italia farebbe svanir quel pericolo. Freme intorno alle radici d'ogni moto nazionale un pensiero di libertà e quel pensiero, ch'è anima in Polonia e altrove d'una poesia ignota all'Italia e superiore a ogni poesia posteriore a Byron e Goethe, avrebbe, cancellando ogni fiacchezza verso la Russia dello Tsar, potente e immediato sviluppo il giorno in cui un forte popolo repubblicano stenderebbe agli Slavi una mano fraterna. Chi scrive sa come gli uomini a capo del moto slavo sorridessero alla speranza di quel giorno e si affrettassero a dircelo quando, tra il 1860 e il 1861, il moto italiano assumeva sembianza di moto popolare e Garibaldi, allora fidente nelle forze vive della sua Nazione, guidava i nostri volontarî a scrivere nelle terre meridionali una delle più belle pagine della nostra Storia. La speranza cadde negli animi d'allora in poi. Il machiavellismo servile e l'ignorante paura dei ministri della monarchia spensero l'entusiasmo di quei popoli che avevano intraveduto nell'Italia la Nazione iniziatrice e la videro inferiore a' suoi fati. Ma una parola di fratellanza che accennasse a fatti virili e inaugurasse una politica nuova fondata sul principio di nazionalità ridesterebbe in un subito le sopite speranze e richiamerebbe gli Slavi dall'accettazione forzata d'un ajuto che non amano e del quale paventano, a più largo e popolare concetto. La politica sostenitrice dell'Impero Austriaco e del Turco è, nelle sue conseguenze, politica russa e fomentatrice del panslavismo.
L'Impero Turco e l'Austriaco sono irrevocabilmente condannati a perire. La vita internazionale d'Italia deve tendere ad accelerarne la morte. E l'elsa del ferro che deve ucciderli sta in mano agli Slavi.
III.
Le prime e più importanti conseguenze del moto slavo saranno il disfacimento dell'Impero d'Austria e dell'Impero Turco in Europa. Chi non antivede inevitabili quei due fatti e non sente la necessità di promoverne lo sviluppo, tanto che giovi al progresso generale della civiltà e all'avvenire d'Italia, non usurpi alla sua il nome di politica internazionale: viva, come i ministri della monarchia, d'espedienti, ottenga un giorno un apparente vantaggio scontandolo il dì dopo col disonore e la soggezione del paese, passi senza norma e pegno securo d'alleanza in alleanza per trovarle perdute tutte quando più importerà di non essere soli, tremi davanti alla Francia, davanti alle vittorie prussiane, davanti alle stolide minacce papali e condanni - finchè il paese lo tollera - una Nazione di ventisei milioni d'uomini e che fu due volte iniziatrice nel mondo a nullità assoluta in Europa. Sgoverni e taccia. Senza norma morale, senza intelletto del futuro, senza coscienza d'un fine determinato e un metodo costantemente e arditamente seguìto a raggiungerlo, non esiste vita internazionale possibile.
Rotta appena a occidente dalla stretta zona che si stende da Vienna a Innsprück, a oriente dalla Moldavia non germanica, e avversa essa pure per le sue genti smembrate all'Austria, la circonferenza dell'Impero Habsburghese è slava e da quella larga zona di circonferenza partono raggi che solcano in ogni direzione l'interno. Cifra di popolazione straniera alla razza che governa cedendo, e progresso regolarmente crescente delle agitazioni nazionali condannano l'Impero a dissolversi. Cominciato da noi, seguìto timidamente finora dall'Ungheria, il moto disintegrante non può oggimai più arrestarsi.
A mezzogiorno, le popolazioni slave predominano sulla Turchia. L'Impero Turco è condannato a dissolversi, prima forse dell'Austriaco; ma la caduta dell'uno segnerà prossima quella dell'altro. Le popolazioni che insorgeranno in Turchia per farsi Nazioni sono quasi tutte ripartite fra i due Imperi e non possono agglomerarsi senza emanciparsi dall'uno e dall'altro. L'Impero Austriaco è un'Amministrazione, non uno Stato; ma l'Impero Turco in Europa è un accampamento straniero isolato in terre non sue, senza comunione di fede, di tradizioni, di tendenze, d'attività, senza agricoltura propria, senza capacità d'amministrazione, invasa un tempo dai Greci, oggi dagli Armeni disseminati sul Bosforo, ostili al Governo che servono: immobilizzata dal fatalismo maomettano, la razza conquistatrice, ricinta, affogata da popolazioni cristiane, avvivate dall'alito della libertà occidentale, non ha dato da oltre a un secolo un'idea, un canto, una scoperta industriale e conta meno di due milioni d'uomini circondati da tredici o quattordici di razze europee, slave, elleniche, daco-romane, assetate di vita, anelanti insurrezione. E a questa insurrezione non manca per aver luogo a convertirsi rapidamente in vittoria se non l'accordo fra quei tre elementi gelosi anch'oggi per vecchî ricordi di guerre e oppressioni reciproche, l'uno dell'altro.
Proporre e far prevalere le basi di questo accordo è missione italiana.
Sorti in nome del Diritto Nazionale, noi crediamo nel vostro, e vi profferiamo ajuto per conquistarlo. Ma la nostra missione ha per fine l'assetto pacifico e permanente d'Europa. Noi non possiamo ammettere che lo Tsarismo russo sottentri, minaccia perenne alla Libertà, ai vostri padroni; e ogni vostro moto isolato, limitato a uno solo dei vostri elementi inefficace a vincere, incapace s'anche vincesse di costituire una forte barriera contro l'avidità dello Tsar, giova alle sue mire d'ingrandimento. Unitevi: dimenticate gli antichi rancori: stringetevi in una Confederazione e sia Costantinopoli la vostra Città Anfizionica, la città dei vostri Poteri Centrali, aperta a tutti, serva a nessuno. Ci avrete con voi. È questo il linguaggio che dovrebbe tenere a quelle popolazioni l'Italia. L'Italia repubblicana lo terrebbe. L'Italia monarchica non lo terrà mai.
E mentre consigli e profferte siffatte spianerebbero la via a una soluzione della tormentosa questione d'Oriente favorevole al principio di nazionalità e avversa un tempo all'ambizione russa, profferte simili inoltrate alle popolazioni della Dalmazia, del Montenegro, della Croazia e delle terre daco-romane, preparerebbero il disfacimento dell'Impero d'Austria e compirebbero il concetto della nostra politica. Suonata dai popoli sommossi l'ora suprema, la costa occidentale dell'Adriatico diventerebbe la nostra base d'operazione per ajuti efficaci ai nuovi alleati. Le nostre navi da guerra riscatterebbero l'onore violato della bandiera conquistando agli slavi del Montenegro lo sbocco del quale abbisognano, le Bocche di Cattaro, e agli slavi della Dalmazia le città principali della costa Orientale. Lissa, chiamata giustamente da altri la Malta dell'Adriatico e campo d'una nostra immeritata disfatta che importa per l'onore del navilio di cancellare, rimarrebbe stazione italiana.
Il moto slavo-meridionale si diffonderà naturalmente, quando avrà luogo, lungo i Carpati, attraverso la Galizia e il gruppo Boemo-Moravo, alla Polonia, santa, martirizzata, immortale Nazione colla quale noi abbiamo già, dal periodo delle Legioni di Dombrowski in poi, vincoli di speciale affetto fraterno e patti di futura alleanza.
Ajutatrice del sorgere degli slavi illirici e di quelli che costituiscono gran parte della Turchia europea, l'Italia acquisterebbe, prima fra tutte le Nazioni, diritto d'affetto, d'inspirazione, di stipulazioni economiche coll'intera famiglia slava.
I vantaggi, all'Europa e all'Italia, del concetto politico al quale rapidamente accenniamo e del quale la nostra Nazione potrebbe, volendo, farsi iniziatrice, sono innegabili e di una importanza vitale.
Al nord la Federazione slava, frapposta fra la Russia e la Germania e alla quale, svelta dall'Impero d'Austria, potrebbe aggiungersi l'Ungheria, sarebbe a un tempo tutela alla Germania contro il predominio russo, tutela alla Francia e all'Italia contro il minacciato predominio teutonico: alleata agli Slavi non amici della Germania, l'Italia minaccierebbe, occorrendo, con essi l'invasore alle spalle.
A mezzogiorno e a oriente, data per sempre Costantinopoli alla Libertà occidentale e inalzata contro lo Tsarismo una barriera di giovani popoli federati a difendere la propria indipendenza, la Russia sarebbe consegnata ai suoi limiti naturali, la civiltà e la produzione europea conquisterebbero un immenso e singolarmente fecondo terreno, due delle tre grandi vie al mondo asiatico sarebbero schiuse e normalmente assicurate al commercio d'Europa e segnatamente, mercè la nostra iniziativa slavo-ellenica-daco-romana, a quello d'Italia.
Abbiamo nominato il mondo asiatico. Ed è infatti verso quello, se guardiamo nel futuro e oltre ai nostri confini, che convergono oggi le grandi linee del moto europeo. Popolata un tempo dalle emigrazioni asiatiche che ci recarono i primi germi di civiltà e le prime tendenze nazionali, l'Europa tende oggi provvidenzialmente a riportare all'Asia la civiltà sviluppata da quei germi sulle proprie terre privilegiate. Figli delle razze vèdiche, noi, dopo un lungo e faticoso pellegrinaggio, ci sentiamo quasi da mano ignota sospinti a cercar nei luoghi che ci furono cuna un vasto campo alla nostra missione morale trasformatrice dell'idea religiosa, un vasto terreno alla nostra attività industriale e agricola trasformatrice del mondo esterno. L'Europa preme sull'Asia e la invade nelle sue varie regioni colla conquista inglese nell'India, col lento inoltrarsi della Russia al nord, colle concessioni periodicamente strappate alla China, colle mosse americane attraverso le Montagne Rocciose, colle colonizzazioni, col contrabbando. Prima un tempo e più potente colonizzatrice nel mondo, vorrà l'Italia rimanere ultima in questo splendido moto?
Schiudere all'Italia, compiendo a un tempo la missione d'incivilimento additata dai tempi, tutte le vie che conducono al mondo asiatico: è questo il problema che la nostra politica internazionale deve proporsi colla tenacità, della quale, da Pietro il Grande a noi, fa prova la Russia per conquistarsi Costantinopoli. I mezzi stanno nell'alleanza cogli Slavi meridionali e coll'elemento ellenico fin dove si stende, nell'influenza italiana da aumentarsi sistematicamente in Suez e in Alessandria e in una invasione colonizzatrice da compirsi, quando che sia e data l'opportunità, nelle terre di Tunisi. Nel moto inevitabile che chiama l'Europa a incivilire le regioni africane, come Marocco spetta alla Penisola Iberica e l'Algeria alla Francia, Tunisi, chiave del Mediterraneo centrale, connessa al sistema sardo-siculo e lontana un venticinque leghe dalla Sicilia, spetta visibilmente all'Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte, importantissima per la contiguità coll'Egitto e per esso e la Siria coll'Asia, di quella zona africana che appartiene veramente fino all'Atlante al sistema europeo. E sulle cime dell'Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo.
Sono i disegni, ai quali accenniamo e che andremo via via svolgendo, utopie? Gli uomini della monarchia lo diranno e schernendo: sono uomini pratici. Ma la storia più pratica d'essi ha registrato e dirà che, scherniti dagli uomini pratici, noi predicavamo trentanove anni addietro l'Unità d'Italia ed è, materialmente almeno, quasi compita; che, scherniti, annunziavamo fin da quel tempo l'Unità Germanica, e si sta compiendo; scherniti, affermavamo perduta in Francia ogni potenza d'iniziativa e i fatti d'oggi provano che soli avevamo veduto il vero. I pratici dicevano nel 1848 impossibili le Cinque Giornate, ed ebbero luogo: ci predicevano nel 1849 che non avremmo potuto difendere Roma contro i Francesi due giorni, e la difendemmo due mesi: dicevano ai Veneti che si affrettassero a calare la bandiera repubblicana perchè senza l'ajuto dinastico sarebbero stati incapaci di resistere all'Austria tre settimane, e Venezia si dava alla monarchia, non riceveva ajuto alcuno da essa e nondimeno durava diciotto mesi. I pratici non seppero finora che movere quando s'avvidero che inoltravano davvero, sull'orme nostre, usurpare guastandoli i nostri disegni, porsi indosso a tempo e insozzandolo di codardie, imprevedute da tutti fuorchè da noi, il manto tessuto dalle nostre mani. I pratici cedevano tremanti Nizza e Savoja a un uomo del quale i poveri utopisti repubblicani del Messico iniziavano, resistendo trionfalmente, la rovina. I pratici si vincolarono a rispettare il territorio del Papa, diedero in pegno la scelta di Firenze a metropoli e s'arretrerebbero anch'oggi davanti a Roma, se gli utopisti non minavano il trono a Luigi Napoleone e la parola repubblica non si proferiva dagli utopisti in Parigi. Meschina parodia dei dottrinarî francesi, i pratici moderati non hanno dato un'idea, un precetto morale, un giorno di vera vita all'Italia. Tra le angustie di un disavanzo che promettono cancellar d'anno in anno e che ricompare d'anno in anno ostinato, tra gli espedienti di nuove tasse aggiunte alle antiche non pagate o incompiutamente pagate, tra disegni d'alleanze contraddittorie colla Francia un giorno, colla Prussia un altro, coll'Austria un terzo, i vinti di Lissa e Custoza trascinano un'esistenza che poggia sul trionfo rimpicciolito d'alcune idee nostre, d'alcune formule usurpate a noi, guaste da essi come le vivande imbandite da altri erano guaste dalle Arpìe irruenti; ma pur potenti abbastanza per sedurre gl'Italiani a rispetto. Governano alla giornata ajutandosi delle forze passive che trovano, senza virtù per creare un solo nuovo elemento o per infondere uno spirito di progresso negli esistenti. Irridono alle idee perchè hanno l'amaurosi dell'anima e non possono intendere ciò che non vedono.
Le grandi idee, noi lo abbiamo detto più volte, fanno i grandi popoli. E le idee non sono grandi pei popoli se non in quanto travalicano i loro confini. Un popolo non è grande se non a patto di compire una grande e santa missione nel mondo, come appunto l'importanza e il valore d'un individuo si misurano da ciò ch'ei compie a pro della società nella quale ei vive. L'ordinamento interno rappresenta la somma dei mezzi e delle forze raccolte pel compimento dell'opera assegnata al di fuori. Come la circolazione e lo scambio danno valore alla produzione e l'avvivano, la vita internazionale dà valore e moto alla vita interna d'un popolo. La vita nazionale è lo stromento; la vita internazionale è il fine. La prima è opera d'uomini; la seconda è prescritta e additata da Dio. La prosperità, la gloria, l'avvenire di una Nazione sono in ragione del suo accostarsi al fine assegnato.