Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME PRIMO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI

NOTE AUTOBIOGRAFICHE.

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NOTE AUTOBIOGRAFICHE.

 

Una domenica dell'aprile 1821, io passeggiava, giovanetto, con mia madre e un vecchio amico della famiglia, Andrea Gambini, in Genova, nella Strada Nuova. L'insurrezione Piemontese era in quei giorni stata soffocata dal tradimento, dalla fiacchezza dei Capi e dall'Austria. Gli insorti s'affollavano, cercando salute al mare, in Genova, poveri di mezzi, erranti in cerca d'ajuto per recarsi nella Spagna dove la Rivoluzione era tuttavia trionfante. I più erano confinati in Sampierdarena aspettandovi la possibilità dell'imbarco; ma molti si erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li spiava fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle foggie degli abiti, al piglio guerresco, e più al dolore muto, cupo, che avevano sul volto. La popolazione era singolarmente commossa. Taluni fra i più arditi avevano fatto proposta ai Capi, credo Santarosa ed Ansaldi, di concentrarsi tutti nella città, impossessarsene e ordinarvi la resistenza; ma la città dicevano, era militarmente sprovveduta d'ogni difesa, mancavano ai forti le artiglierie, e i Capi avevano ricusato e risposto: serbatevi a migliori destini. Non rimaneva che soccorrere di danaro quei poveri e santi precursori dell'avvenire; e i cittadini vi si prestavano liberalmente. Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardo scintillante che non ho mai dimenticato, s'accostò a un tratto fermandoci: aveva tra le mani un fazzoletto bianco spiegato, e proferì solamente le parole: pei proscritti d'Italia. Mia madre e l'amico versarono nel fazzoletto alcune monete; ed egli s'allontanò per ricominciare con altri. Seppi più tardi il suo nome. Era un Rini, capitano nella Guardia Nazionale che s'era, sul cominciar di quel moto, istituita. Partì anch'egli cogli uomini pei quali s'era fatto collettore a quel modo; e credo morisse combattendo, come tanti altri dei nostri, per la libertà della Spagna.

Quel giorno fu il primo in cui s'affacciasse confusamente all'anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria.

Io era già inconsciamente educato al culto dell'Eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi usavano col patrizio e col popolano: nell'individuo essi non cercavano evidentemente se non l'uomo e l'onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell'animo mio, s'erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre e dell'amico nominato più sopra; delle Storie di Livio e di Tacito che il mio maestro di Latino mi faceva tradurre; e della lettura di alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della Chronique du Mois pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia. Ma l'idea che v'era un guasto nel mio paese contro il quale bisognava lottare, l'idea che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò che in quel giorno per non lasciarmi più mai.

L'immagine di quei proscritti, parecchi dei quali mi furono più tardi amici, mi seguiva ovunque nelle mie giornate, mi s'affacciava tra i sogni. Avrei dato non so che per seguirli. Cercai raccoglierne nomi e fatti. Studiai, come meglio potei, la storia del tentativo generoso e le cagioni della disfatta. Erano stati traditi, abbandonati da chi aveva giurato concentrare i loro sforzi all'intento; il nuovo re aveva invocato gli Austriaci: parte delle milizie piemontesi li aveva preceduti in Novara; i capi del moto s'erano lasciati atterrire dal primo scontro e non avevano tentato resistere. Tutte queste nozioni ch'io andava acquistando sommavano a farmi pensare: potevano dunque, se ciascuno avesse fatto il debito suo, vincere; perchè non si ritenterebbe? questa idea s'impossessava più sempre di me, e l'impossibilità d'intravvedere per quali vie si potesse tentare di tradurla in fatti m'anneriva l'anima. Sui banchi dell'Università - v'era allora una Facoltà di Belle Lettere che precedeva di due anni i corsi legali e medici e ammetteva i più giovani - di mezzo alla irrequieta tumultuante vita degli studenti, io era cupo, assorto, come invecchiato anzi tratto. Mi diedi fanciullescamente a vestir sempre di nero; mi pareva di portar il lutto della mia patria. L'Ortis che mi capitò allora fra le mani mi infanatichì: lo imparai a memoria. La cosa andò tanto oltre, che la mia povera madre temeva di un suicidio.

Più dopo quella prima tempesta si racquetò; e diè luogo a men travolti pensieri. L'amicizia ch'io strinsi coi giovani Ruffini - ed era per essi e per la santa madre loro un amore - mi riconciliò alla vita e concesse sfogo alle ardenti passioni che mi fermentavano dentro. Parlando con essi di lettere, di risorgimento intellettuale Italiano, di questioni filosofico-religiose, di piccole associazioni - ch'erano preludî alla grande - da fondarsi per avere di contrabbando libri e giornali vietati, l'anima si rasserenava: intravvedeva possibile, comecchè su piccola scala, l'azione. Un piccolo nucleo di scelti giovani d'intelletto indipendente, anelante a nuove cose, si raggruppava d'intorno a me. Di quel nucleo, la cui memoria dura tuttavia nel mio core come ricordo di una promessa inadempita, nessuno è rimasto a combattere per l'antico programma, da Federico Campanella in fuori, oggi Membro di un Comitato di Provvedimento per Venezia e Roma in Palermo; morti gli uni, disertori gli altri: taluno fedele tuttavia alle idee, ma inattivo. Allora quella plejade fu salute all'anima tormentata. Io non era più solo.

 

Ho detto ch'io non intendo scrivere la mia vita, e balzo all'anno 1827. Sul finire, credo, dell'anno anteriore, io aveva scritto le mie prime pagine letterarie, mandandole audacemente all'Antologia di Firenze, che, molto a ragione, non le inserì e ch'io aveva interamente dimenticate, finchè le vidi molti anni dopo inserite, per opera di N. Tommaseo, nel Subalpino: versavano su Dante, ch'io dal 1821 al 1827 aveva imparato a venerare, non solamente come poeta, ma come Padre della Nazione.

Nel 1827 fremevano accanite le liti fra classicisti e romantici, tra i vecchi fautori d'un dispotismo letterario la cui sorgente risaliva per essi a duemila e più anni addietro e gli uomini che, in nome della propria ispirazione, volevano emanciparsene. Eravamo, noi giovani, romantici tutti. Ma a me pareva che pochissimi, se pur taluno, si fossero addentrati a dovere nelle viscere della questione. I primi, Arcadi di Roma, Accademici della Crusca, professori e pedanti, andavano ostinatamente scrivendo imitazioni fredde, stentate, senza intento, senz'anima, senza vita: i secondi, non dando base alla nuova Letteratura fuorchè la fantasia individuale, si sbizzarrivano in leggende dei tempi di mezzo, inni menzogneri alla Vergine, disperazioni metriche non sentite, e in ogni concetto d'un'ora che s'affacciasse alla loro mente intollerante d'ogni tirannide, ma ignara della santità della Legge che governa, come ogni altra cosa, anche l'Arte. E parte di questa Legge è che l'Arte o compendii la vita di un'Epoca che sta conchiudendosi o annunzii la vita di un'Epoca che sta per sorgere. L'Arte non è il capriccio d'uno o d'altro individuo, ma una solenne pagina storica o una profezia: e se armonizza in la doppia missione, tocca, come sempre in Dante e talora in Byron, il sommo della potenza. Or, tra noi, l'arte non poteva essere se non profetica. Gli Italiani non avevano da tre secoli vita propria, spontanea, ma esistenza di schiavi immemori che accattavano ogni cosa dallo straniero. L'Arte non poteva dunque rivivere se non ponendo una lapide di maledizione a quei tre secoli e intonando il cantico dell'avvenire. E a riuscirvi bisognava interrogare la vita latente, addormentata, inconscia del popolo, posar la mano sul core pressochè agghiacciato della Nazione e spiarne i rari interrotti palpiti e desumerne riverenti intento e norme agli ingegni. L'ispirazione individuale doveva sorgere con indole propria dalle aspirazioni della vita collettiva italiana, come belli di tinte varie e d'infiorescenza propria sorgono, da un suolo comune a tutti, i fiori, poesia della terra. Ma la vita collettiva d'Italia era incerta, indefinita, senza centro, senza unità d'ideale, senza manifestazione regolare, ordinata. L'arte poteva dunque prorompere a gesti isolati, vulcanici: non rivelarsi progressiva, continua, come la vita vegetale del Nuovo Mondo, dove gli alberi intrecciando ramo a ramo formano l'unità gigantesca della foresta. Senza Patria e Libertà noi potevamo avere forse profeti d'Arte, non Arte. Meglio era dunque consecrare la vita intorno al problema: avremo noi Patria? e tentare direttamente la questione politica. L'Arte Italiana fiorirebbe, se per noi si riuscisse, sulle nostre tombe.

Questi pensieri - che l'ingegno sommo e l'amor del paese devono avere di certo suggerito a Manzoni e che tralucono divinamente nei Cori delle sue tragedie ed altrove, raumiliati poi dalla soverchia mitezza dell'indole e dalla fatale rassegnazione insegnatagli dal Cattolicismo - erano allora pensieri di pochi. Predominava a tutto quel subuglio di letterati non cittadini la falsa dottrina francese dell'arte per l'arte. Soli, sul campo della Critica fecondatrice, ne davano indizio nell'Antologia Tommaseo e Montani. In me rinfiammavano l'idea dell'aprile 1821 e determinavano la mia vocazione di rinunziare alla via delle lettere per tentare l'altra più diretta dell'azione politica.

E fu il primo grande mio sacrificio. S'affaccendavano in quel tempo nella mia mente visioni di Drammi e Romanzi Storici senza fine, e fantasie d'Arte che mi sorridevano come imagini di fanciulle carezzevoli a chi vive solo. La tendenza della mia vita era tutt'altra che non quella alla quale mi costrinsero i tempi e la vergogna della nostra abjezione.

La via dell'azione a ogni modo era chiusa: e la questione letteraria mi parve campo ad aprirmela quando che fosse.

Esciva allora in Genova, edito dal tipografo Ponthenier, un giornaletto d'annunzî mercantili; e doveva, in virtù di non so quale prescrizione governativa, limitarsi a quell'angustissima sfera. Era l'Indicatore Genovese. Persuasi il librajo ad ammettere annunzî di libri da vendersi, coll'aggiunta di due o tre linee quasi a definirne il soggetto e m'assunsi di scriverle. Fu quello il cominciamento della mia carriera di Critico. A poco a poco gli annunzî impinguarono e diventarono articoli. Il Governo, assonnato allora come il paese, non se ne avvide o non se ne curò. L'Indicatore si trasformò in giornale letterario. Gli articoli estratti da quel giornale, ristampati molti anni dopo tra gli Scritti d'un Italiano vivente, in Lugano, e che ricompariranno in questa edizione, non hanno valore intrinseco, ma rivelano l'intento con cui da me e da pochi altri giovani amici si scriveva e s'intendeva la questione del Romanticismo. La controversia letteraria si convertiva in politica: bastava mutare alcune parole per avvedersene. Erano guerricciuole, zuffe di bersaglieri sul limite di due campi. Per noi l'indipendenza in fatto di Letteratura non era se non il primo passo a ben altra indipendenza: una chiamata ai giovani perchè ispirassero la loro alla vita segreta che fermentava giù giù nelle viscere dell'Italia. Sapevamo che tra quelle due vite essi avrebbero incontrato la doppia tirannide straniera e domestica e si sarebbero ribellati dall'una e dall'altra. Il Governo finì per leggere e irritarsi di quella tendenza. E quando, sul finir del primo anno, noi annunziavamo imbaldanziti ai lettori che il Giornale s'ingrandirebbe, un divieto governativo lo spense.

Ma quei lavorucci dettati con impeto giovanile, e il fine ardito che trapelava, m'avevano fruttato un grado qualunque di fama in Genova e conoscenze d'uomini altrove che lavoravano poco dopo con me sulla via più dichiaratamente emancipatrice. Un mio rimprovero a Carlo Botta, storico di tendenze aristocratiche, senz'ombra d'intelletto filosofico, ma il cui stile foggiato talora a gravità tacitiana e lo sdegno alfieriano contro ogni straniero infanatichivano allora la gioventù, mi valse contatto cogli uomini, timidi i più, ma d'animo italiano dell'Antologia di Firenze. E due articoli d'un altro studente, Elia Benza di Portomaurizio, giovine d'alto sentire e di forte ingegno isterilito poi, con mio dolore, dalla soverchia analisi e dai conforti della vita domestica, pel Dramma I Bianchi e i Neri, ci diedero a corrispondente il Guerrazzi. Guerrazzi aveva già scritto, non solamente quel Dramma, ma la Battaglia di Benevento; e nondimeno, tanta era la separazione tra provincia e provincia d'una stessa terra, il di lui nome era ignoto fra noi: il Dramma, capitatoci a caso, ci aveva, di mezzo a forme bizzarre e a una poesia che rinegava ogni bellezza d'armonia, rivelato un ingegno addolorato, potente e fremente di orgoglio italiano. Io risposi alla di lui lettera, e s'intavolò fra noi un carteggio fraterno allora e pieno d'entusiasmo per promuovere l'avvenire. Quando il Governo Sardo soppresse l'Indicatore Genovese, il vincolo tra noi e i giovani Livornesi che facevano corona a Guerrazzi era già stretto di tanto da suggerirci l'idea di continuare la pubblicazione sotto il titolo d'Indicatore Livornese in Livorno.

Era la prima lotta che imprendevamo coi governucci che smembravano la povera Patria, e il senso di quella lotta ci crebbe l'ardire. Le tendenze politiche si rivelarono in quel secondo Giornale nel quale scrittori più assidui eravamo Guerrazzi, Carlo Bini ed io più esplicito e quasi senza velo. Parlammo di Foscolo, al quale, tacendo degli altri meriti, gl'Italiani devono riverenza eterna per avere egli primo cogli atti e gli scritti rinvigorito a fini di Patria il ministero del Letterato - dell'Esule, poema di Pietro Giannone, allora proscritto, di fede incorrotta, ch'io imparai più tardi a conoscere ed a stimare - di Giovanni Berchet delle cui poesie, magnifiche d'ira italiana, moltiplicavamo allora noi studenti le copie e che mi toccò di vedere nel 1848 immiserito tra patrizî moderati e cortigiani regî in Milano. Osammo tanto, che l'intormentito Governo Toscano, compito l'anno, c'intimò di cessare. E cessammo. Ma quei due giornali avevano intanto raggruppato un certo numero di giovani potenti di una vita che volea sfogo; avevano toccato efficacemente nell'anime corde che fin allora giacevano mute; avevano - e questo era il più - provato ai giovani che i Governi erano deliberatamente avversi a ogni progresso e che libertà d'intelletto non era possibile se non cadevano.

Tra quell'armeggiare letterario, io non dimenticavo lo scopo mio e andava guardandomi attorno a vedere s'io potessi trovare uomini capaci d'avventurarsi all'impresa. Serpeggiavano tra noi voci vaghe di Carboneria rinata, d'un lavoro segreto comune alla Francia, alla Spagna, all'Italia. Cercai, spiai, interrogai tanto che finalmente un Torre, amico e studente di Legge, mi si rivelò membro della Setta o come dicevano allora dell'Ordine e mi propose l'iniziazione. Accettai.

Io non ammirava gran fatto il simbolismo complesso, i misteri gerarchici e la fede - o piuttosto la mancanza di fede politica - della Carboneria, come i fatti del 1820 e del 1821, da me studiati quanto meglio io poteva in quelli anni, me l'additavano. Ma io era allora impotente a tentare cosa alcuna di mio e mi s'affacciava una congrega d'uomini i quali, inferiori probabilmente al concetto, facevano ad ogni modo una cosa sola del pensiero e dell'azione e sfidando scomuniche e pene di morte, persistevano, distrutta una tela, a rifarne un'altra. E bastava perchè io mi sentissi debito di dar loro il mio nome e l'opera mia. Anch'oggi, canuto, credo che, dopo la virtù di guidare, la più alta sia quella di saper seguire: seguire, intendo, chi guida al bene. I giovani, troppo numerosi in Italia e altrove, che si tengono, per rispetto all'indipendenza dell'individuo, segregati da ogni moto collettivo d'associazione o di partito ordinato, sono generalmente quelli che più rapidamente e servilmente soggiacciono a ogni forza ordinata governativa. La riverenza all'Autorità vera e buona, purchè liberamente accettata, è l'arme migliore contro la falsa e usurpata.

Accettai dunque. Fui condotto una sera in una casa presso San Giorgio, dove, salendo all'ultimo piano, trovai chi doveva iniziarmi. Era, come seppi più tardi, un Raimondo Doria, semi-corso; semi-spagnuolo, d'età già inoltrata, di fisionomia non piacente. Mi disse con piglio solenne come la persecuzione governativa e la prudenza necessaria a raggiunger l'intento vietavano le riunioni e come quindi mi si risparmiassero prove, cerimonie e riti simbolici. M'interrogò sulle mie disposizioni ad agire, a eseguire le istruzioni che mi verrebbero via via trasmesse, a sagrificarmi, occorrendo, per l'Ordine. Poi mi disse di piegare un ginocchio e, snudato un pugnale, mi recitò e mi fece ripetere la formula di giuramento del primo grado, comunicandomi uno o due segni di riconoscimento fraterno, e m'accomiatò. Io era Carbonaro.

Uscendo, tormentai di domande l'amico che m'aspettava, sull'intento, sugli uomini, sul da farsi, ma inutilmente: bisognava ubbidire, tacere e conquistarsi lentamente fiducia. Mi felicitò, dell'avermi le circostanze sottratto a prove tremende e, vedendomi sorridere, mi chiese con piglio severo che cosa avrei fatto se m'avessero, come ad altri, intimato di scaricarmi nell'orecchio una pistola caricata davanti a me. Risposi che avrei ricusato, dichiarando agli iniziatori che, o la carica cadeva, per mezzo d'una valvola interna, nel calcio della pistola ed era farsa indegna d'essi e di me, o rimaneva veramente nella canna ed era assurdo che un uomo chiamato a combattere pel paese cominciasse dallo sparpagliarsi quel po' di cervello che Dio gli aveva dato. Fra me stesso io pensava con sorpresa e sospetto che il giuramento non conteneva se non una formula di obbedienza e non una parola sul fine. L'iniziatore non aveva proferito sillaba che accennasse a federalismo o unità, a repubblica o monarchia. Era guerra al Governo, non altro.

La contribuzione colla quale ogni affigliato doveva alimentare la Cassa dell'Ordine consisteva di 25 franchi all'atto della iniziazione e di 5 franchi mensili: contribuzione grave e a me, studente, più che ad ogni altro. Pure mi parea buona cosa. Grave colpa è raccogliere danaro altrui e usarne male; più grave l'esitare davanti a un sacrificio pecuniario quando le probabilità stanno perchè giovi a una buona causa. Oggi gli uomini - ed è uno dei più tristi sintomi che io mi sappia dell'egoismo abbarbicatosi all'anime - argomentano per un franco. E mentre si gettano ogni somme ingenti a procacciare a stessi conforti non reali, ma artificiali i più, gli uomini che per una impresa come quella di fondar la Patria o di crear libertà dovrebbero far moneta del sangue, lamentano l'impossibilità di sacrifici frequenti, e pongono, anzichè schiuder la borsa, la vita, l'onore, la dignità dell'anima loro o di quella de' loro fratelli a pericolo. I cristiani dei primi secoli versavano sovente a' piedi del sacerdote, a pro dei loro fratelli poveri, tutta quanta la loro ricchezza, non serbandosi che il puro necessario alla vita. Tra noi, è impresa utopistica, gigantesca, quella di trovare tra ventidue milioni d'uomini, che cicalano di libertà, un milione che dia un franco per l'emancipazione del Veneto. I primi avevano fede: noi non abbiamo se non opinioni.

Ebbi, non molto dopo, l'iniziazione al secondo grado e facoltà d'affigliare. Conobbi due o tre Carbonari, fra gli altri un Passano, antico Console di Francia in Ancona, che dicevano alto dignitario dell'Ordine; vecchio, pieno di vita, ma che si pasceva più di piccolo raggiro e d'astuzie che non d'opere tendenti virilmente e logicamente allo scopo. Rimasi nondimeno sempre in una assoluta ignoranza del loro programma o del che facessero; e cominciai a sospettare che nulla facessero. L'Italia non appariva nei loro discorsi che come terra diseredata d'ogni potenza per fare: appendice più che secondaria di altrui. Si professavano cosmopoliti: bel nome se vale libertà per tutti; nondimeno, a ogni leva è necessario, per agire, un punto d'appoggio e quel punto d'appoggio ch'io intravvedeva fin d'allora in Italia, era per essi visibilmente in Parigi. Fervevano allora in Francia le liti d'opposizione, nella Camera e fuori, alla Monarchia di Carlo X, ed essi non sognavano e non parlavano che di Guizot, di Barthe, di Lafayette e dell'Alta Vendita Parigina. Io pensava che avevamo dato noi Italiani l'Istituzione dei Carbonari alla Francia.

Fui richiesto di stendere in francese una specie di memorandum, indirizzato a non so chi, in favore della libertà della Spagna e a provare l'illegalità e le tristi conseguenze dell'intervento Borbonico del 1823. Mi strinsi nelle spalle e lo stesi. Poi, giovandomi delle facoltà che m'erano date, mi diedi ad affigliare tra gli studenti. Presentiva il momento in cui, crescendo di numero e formando tra noi un nucleo compatto avremmo potuto infondere un po' di giovine vita in quel corpo invecchiato. Continuavamo intanto, aspettando che si potesse far meglio, la zuffa contro quei che chiamavamo i Monarchici delle Lettere. E scrissi il lungo articolo d'una Letteratura Europea, che dopo lunghe contestazioni, note e corrispondenze fu ammesso nell'Antologia di Firenze e troverà luogo in questa edizione. Finalmente, all'appressarsi visibile della tempesta in Francia, i nostri Capi parvero ridestarsi a un'ombra d'attività. E mi fu commesso di partire per la Toscana a impiantarvi la Carboneria. La missione era più grave ch'essi non pensavano. Le abitudini della famiglia, dalle quali io non aveva mai desiderato d'emanciparmi, s'opponevano inappellabilmente alla gita, quindi alla possibilità d'avere i mezzi che erano necessarî. Dopo lunghe esitazioni, risolsi compire a ogni modo l'incarico. Dissi ch'io mi recava per due giorni in Arenzano presso uno studente amico di casa, raggranellai sotto diversi pretesti un po' di danaro dalla buona mia madre, e mi preparai a partire.

Il prima della partenza - e cito questo fatto perchè mostra per quali vie si trascinasse allora la Carboneria - mi fu intimato di trovarmi a mezzanotte sul Ponte della Mercanzia. Vi trovai parecchi de' miei giovani affigliati convocati essi pure senza sapere il perchè. Dopo lungo aspettare, comparve il Doria; e lo seguivano due ignoti, ammantellati sino agli occhi e muti come due spettri. Il core ci balzava dentro per desiderio e speranza d'azione. Fatto cerchio, il Doria dopo un breve discorso rivolto a me sui biasimi colpevoli e sulle intemperanze dei giovani inesperti e imprudenti, accennò ai due ammantellati e dichiarò ch'essi partivano il dopo per Barcellona onde trafiggervi un Carbonaro reo d'avere osato sparlare dei Capi, però che l'Ordine, quando trovava ribelli, schiacciava. Era una risposta a' miei lagni rivelati da qualche affigliato zelante. Io ricordo ancora il fremito d'ira che mi sorse dentro alla stolta minaccia. Mandai, su quei primi moti dell'animo, a dire ch'io non partiva più per Toscana e l'Ordine schiacciasse pure. Poi, racquetato e ammonito dagli amici ch'io sacrificava senza avvedermene la causa del paese all'offeso individuo, mutai consiglio e partii, lasciando lettera a rassicurare la mia famiglia.

In Livorno fondai una Vendita: affigliai parecchi Toscani ed altri d'altre provincie, tra i quali ricordo un Camillo d'Adda, lombardo, allievo di Romagnosi e ch'esciva allora, credo, dalle prigioni dell'Austria, e Marliani, che moriva anni dopo difendendo Bologna contro gli Austriaci. Commisi il resto a Carlo Bini, anima buona e candida, serbatasi incontaminata attraverso una gioventù passata fra i rozzi e rissosi popolani della Venezia2, ingegno potente, ma che imprigionato fra le cure mercantili e fatto indolente da un profondo scetticismo, non di principii, ma degli uomini e delle cose d'allora, non potè rivelarsi che a lampi. Una immensa rettitudine d'animo e una immensa capacità di sagrificio per ciò ch'ei credeva bene, sagrificio tanto più meritevole quanto meno ei credea nel successo, erano doti immedesimate con lui. Ei rideva con me delle formalità e del simbolismo dei Carbonari, ma credeva, com'io credeva, nell'importanza d'ordinarci, sotto qualunque forma si fosse, all'azione.

Viaggiammo insieme a Montepulciano dov'era allora relegato Guerrazzi, colpevole d'aver recitato alcune solenni pagine in lode d'un prode soldato italiano, Cosimo Delfante, tanto quei miseri Governi d'allora s'adombravano d'ogni ricordo che potesse guidarci a sentire men bassamente di noi. Avrebbero, se fosse stato in loro potere, abolito la Storia.

Vidi Guerrazzi. Ei scriveva l'Assedio di Firenze e ci lesse il capitolo d'introduzione. Il sangue gli saliva alla testa mentr'ei leggeva ed ei bagnava la fronte per ridursi in calma. Sentiva altamente di , e quella persecuzioncella che avrebbe dovuto farlo sorridere gli rigonfiava l'anima d'ira. Ma ei sentiva pure altamente della sua Patria nei ricordi della passata grandezza e nei presentimenti de' suoi fati futuri; e mi pareva che l'orgoglio italiano, e l'orgoglio dell'io, non gli avrebbero forse impedito di sviarsi quando che fosse, ma gli avrebbero resa impossibile ogni bassezza e ogni transazione con chi egli avrebbe sentito da meno di quel ch'egli era. Non aveva fede. La fantasia potente oltremodo lo spronava a grandi cose: la mente incerta, pasciuta di Machiavelli e di studî sull'uomo del passato più che d'intuizioni sull'uomo avvenire, lo ricacciava nelle anatomie dell'analisi, buone a dichiarare la morte e le sue cagioni, impotente a creare e ordinare la vita. Erano in lui due esseri combattenti, vincenti e soggiacenti alternativamente: mancava il nesso comune, mancava quell'armonia che non discende se non da una forte credenza religiosa o dagli impulsi prepotenti del core. Stimava poco: amava poco. Io cercava in lui una scintilla di quell'immenso affetto che si versava dagli occhi di Carlo Bini, mentr'egli commosso dalla lettura delle magnifiche pagine che i giovani d'Italia sanno a memoria, lo guardava d'un guardo di madre pensoso unicamente dal suo soffrire. Erano i tempi (1829), nei quali ci venivano, aspettate con ansia, di Francia, le lezioni storiche di Guizot e le filosofiche di Cousin, fondate su quella dottrina del Progresso che contiene in la religione dell'avvenire, che splendeva, rinata da poco, nei discorsi eloquenti di quei due e che non prevedevamo dovesse miseramente arrestarsi un anno dopo all'ordinamento della borghesia e alla Carta di Luigi Filippo. Io l'aveva attinta dal Dante nel Trattato della Monarchia, pochissimo letto e sempre frainteso. Ed io parlava con calore dei due Còrsi, della Legge, del futuro che doveva presto o tardi irrevocabilmente escirne. Guerrazzi sorrideva tra il mesto e l'epigrammatico. E quel sorriso m'impauriva come s'io avessi intravveduto tutti i pericoli di quell'anima privilegiata: m'impauriva di tanto, ch'io partii senza parlargli a viso aperto del motivo principale della mia gita e commettendo a Bini di farlo. E nondimeno io l'ammirava potente e benedetto d'un nobile orgoglio, che, come dissi, m'era mallevadore dell'avvenire. Stringemmo allora una fratellanza che più tardi si ruppe, non per mia colpa.

Tornato in Genova, trovai mali umori tra gli alti dignitarî dell'Ordine. A me fu detto di non dare conto del mio lavoro al Doria; poco dopo, redarguito di non so che, egli ebbe intimazione da chi stava più in alto di lui d'allontanarsi per un certo tempo dalla città, e promise farlo. Ma un giorno ch'io esciva di casa sull'alba per recarmi a una campagna (Bavari) dove stava allora mia madre, lo incontrai sulla via, e ne feci riferta. Non so di dove egli escisse a quell'ora; ma tramava, irritato, vendetta contro l'Ordine, i suoi lavori e i nuovi affigliati.

Scoppiava l'insurrezione francese del luglio 1830. I capi s'agitavano senza intento determinato, aspettando libertà da Luigi Filippo. Noi giovani ci diemmo a fondere palle e a prepararci per un conflitto che salutavamo inevitabile e decisivo.

Non ricordo le date; ma poco dopo le tre Giornate di Francia, mi venne ingiunto di recarmi ad ora determinata al Lion Rouge, albergo esistente allora nella salita San Siro, dove avrei trovato un maggiore Cottin di Nizza o Savoja, il quale avea ricevuto, dicevano, il primo grado di Carboneria da Santa Rosa e invocava il secondo ch'io doveva conferirgli. Eravamo noi giovani maneggiati dai Capi a guisa di macchine e sarebbe tornato inutile chiedere perchè scegliessero me a quell'ufficio invece d'altri a cui fosse già noto il maggiore. Accettai quindi l'incarico. Soltanto, côlto da non so quale presentimento, mi intesi, prima di compierlo, coi giovani Ruffini, intimi di mia madre, intorno a un modo di corrispondenza segreta da praticarsi per mezzo delle lettere della famiglia nel caso possibile d'imprigionamento a cui soggiacessi. E l'antiveggenza giovò.

Mi recai, nel giorno assegnato, all'albergo, nelle cui stanze intravidi il Passano, che fece sembianza di non conoscermi. Chiesi del Cottin e lo vidi. Era uomo piccolo di statura con un guardo errante che non mi piacque: vestiva abito non militare: parlava francese. Gli dissi, dopo d'essermi fatto riconoscere fratello, o, come allora dicevano, cugino, ch'ei doveva sapere perch'io venissi. Introdotto nella sua stanza da letto, chiuso l'uscio, ei piegò un ginocchio ed io, cavata, com'era d'uso, una spada dal bastone, cominciava a fargli prestare il giuramento, quando si schiuse subitamente un piccolo uscio praticato, accanto al letto, nel muro, e s'affacciò da quello un ignoto. Mi guardò e richiuse. Il Cottin mi pregò d'acquetarmi, dichiarò ch'era quegli un domestico suo fidatissimo e si scusò dell'avere dimenticato di chiudere l'usciolo a chiave. Compita l'iniziazione, il maggiore mi disse ch'ei si recava tre giorni a Nizza dove avrebbe lavorato utilmente fra la milizia, ma che la memoria lo tradiva e ch'io avrei fatto bene a dargli la formula del giuramento in iscritto. Ricusai, dicendogli che non era abitudine mia scrivere cose siffatte: scrivesse egli sotto mia dettatura. Scrisse, e m'accomiatai, scontento di quella scena.

L'ignoto, come seppi più dopo, era un carabiniere regio travestito.

Trascorsi pochi giorni io era nelle mani della polizia.

Io aveva sulla persona, al momento in cui la sbirraglia s'impossessò di me, materiale per tre condanne: palle da fucile, una lettera in cifra del Bini, un ragguaglio delle tre giornate di Francia stampato su carta tricolorata, la formula di giuramento del secondo grado e inoltre, dacchè fui preso sull'uscio di casa mia, un bastone con entro lo stocco, fra le mani. Riuscii a liberarmi di ogni cosa: quella gente aveva le tendenze, non l'ingegno della tirannide. La lunga perquisizione fatta in casa e fra le mie carte non fruttò scoperte pericolose. Fui nondimeno, e quantunque il commissario (Pratolongo) sostasse e mandasse per ordini, tratto alla caserma dei carabinieri in Piazza Sarzano.

fui interrogato da un vecchio commissario per nome Bollo, il quale, dopo avermi tentato in ogni modo possibile, nojato della mia freddezza, pensò atterrirmi provandomi ch'io era tradito, e mi disse a un tratto ch'io, il tal giorno, la tal ora, nel tal luogo, aveva iniziato al secondo grado di Carboneria, il maggiore Cottin. Un lieve brivido mi corse l'ossa; mi contenni nondimeno, e risposi ch'io mal poteva confutare un romanzo, ma sperava che il maggiore sarebbe venuto a confronto con me.

Non venne. Egli aveva, accettando la parte di agente provocatore, stipulato che non se ne sarebbe fatto motto nel processo. Rimasi parecchi giorni nella caserma, esposto al sogghigno e ai motteggi dei carabinieri, il più letterato fra i quali m'additava ai compagni come una nuova edizione di Jacopo Ortis, corrispondendo, mercè un pezzetto di matita ch'io m'era trovato mangiando, fra i denti - il pranzo m'era mandato da casa - e col quale io scriveva nella biancheria, rimandandola. Diedi in quel modo avviso agli amici perchè distruggessero alcune carte pericolose agli affigliati toscani. Seppi che erano stati imprigionati altri con me, Passano, Torre, un Morelli avvocato, un Doria librajo, ed uno o due ignoti: nessuno dei giovani affigliati da me.

Governava allora in Genova un Venanson, lo stesso che, richiesto da mio padre delle mie colpe, rispondeva non esser tempo di dirle; ma ch'io era a ogni modo dotato di certo ingegno e tenero di passeggiate solitarie notturne, e muto generalmente sui miei pensieri; e al Governo non andavano a sangue i giovani d'ingegno dei quali non si sapeva che cosa pensassero.

Una notte, destato subitamente, mi vidi innanzi due carabinieri, i quali m'ingiunsero d'alzarmi e di seguirli. Pensai si trattasse d'un interrogatorio; ma l'avvertirmi d'un d'essi ch'io non lasciassi il mantello, mi fece accorto ch'io doveva escire dalla caserma. Chiesi dove s'andasse: risposero non poterlo dire. Pensai a mia madre che, udendomi il dopo sparito, avrebbe ideato il peggio, e dichiarai risolutamente ch'io non sarei partito se non trascinato, quando non mi venisse concesso di scrivere un biglietto alla famiglia. Dopo lunghi dubbî e consigli col loro ufficiale, concessero. Scrissi poche linee a mia madre dicendole ch'io partiva, ma che non temesse di male alcuno, e seguii i miei nuovi padroni. Trovai all'uscio una portantina nella quale mi chiusero. Quando si fermò, udii a un tempo uno scalpito di cavalli, indizio di partenza per luogo lontano e la voce inaspettata di mio padre che mi confortava ad avere coraggio.

Non so come egli fosse stato informato della partenza, dell'ora e del luogo. Ma ricordo ancora con fremito i modi brutali dei carabinieri che volevano allontanarlo, il loro sospingermi dalla portantina nella vettura, sì ch'io potei appena stringergli la mano, e il loro avventarsi furente, per riconoscere un giovane che stava fumando a poca distanza e m'avea salutato del capo. Era Agostino Ruffini, uno dei tre che mi furono più che amici, fratelli, morto anni sono, lasciando perenne ricordo di , non solamente fra gli Italiani, ma tra gli Scozzesi che lo conobbero esule e ne ammirarono il core, l'ingegno severo e la pura coscienza.

Eravamo davanti alle carceri di Sant'Andrea. Scese da quelle un imbacuccato che fecero salire nella vettura ov'io era e vi salirono pure due carabinieri armati di fucile; e partimmo. Nel prigioniero riconobbi poco dopo Passano. Uno dei due carabinieri era l'ignoto del Lione Rosso.

Fummo condotti a Savona (Riviera Occidentale) in Fortezza e tosto disgiunti. Giungevamo inaspettati, e la mia celletta non era pronta. In un andito semibujo dove mi posero, ebbi la visita del governatore, un De Mari, settuagenario, il quale motteggiandomi stolidamente sulle notti perdute in convegni colpevoli e sulla tranquillità salutare ch'io troverei in Fortezza - poi rispondendomi, sul mio chiedere un sigaro, ch'egli avrebbe scritto a S. E. il Governatore di Genova per vedere se poteva concedersi - mi fece piangere, quand'ei fu partito, le prime lagrime dall'imprigionamento in poi.

Erano lagrime d'ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio d'uomini ch'io sprezzava.

Fui dopo un'ora debitamente confinato nella mia celletta. Era sull'alto della Fortezza: rivolta al mare e mi fu conforto. Cielo e Mare - due simboli dell'infinito e, coll'Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri - mi stavano innanzi quand'io cacciava il guardo attraverso l'inferriate del finestrino. La terra sottoposta m'era invisibile. Le voci dei pescatori mi giungevano talora all'orecchio a seconda del vento. Il primo mese non ebbi libri: poi, la cortesia del nuovo governatore, cav. Fontana, sottentrato per ventura all'antico, fe' sì ch'io ottenessi una Bibbia, un Tacito, un Byron. Ebbi pure compagno di prigionia un lucherino, uccelletto pieno di vezzi e capace d'affetto, ch'io prediligeva oltremodo. D'uomini io non vedeva se non un vecchio sergente Antonietti che m'era custode benevolo, l'ufficiale al quale si affidava ogni giorno la guardia e che compariva un istante sull'uscio, ad affisare il suo prigioniero, la donna piemontese, Caterina, che recava il pranzo, e il comandante Fontana. L'Antonietti mi chiedeva imperturbabilmente ogni sera s'io avessi comandi, al che io rispondeva invariabilmente: un legno per Genova. Il Fontana, antico militare, capace d'orgoglio italiano, ma profondamente convinto che i Carbonari volevano saccheggio, abolizione di qualunque fede, ghigliottina sulle piazze e cose siffatte, compiangeva in me i traviamenti del giovine e tentò, a rimettermi sulla buona via, ogni arte di dolcezza, fino a tradire le sue istruzioni conducendomi la notte a bere il caffè colla di lui moglie, piccola e gentile donna imparentata, non ricordo in qual grado, con Alessandro Manzoni.

Intanto, io andava esaurendo gli ultimi tentativi per cavare una scintilla di vita dalla Carboneria coi giovani amici lasciati in Genova. Ogni dieci giorni io riceveva, aperta s'intende e letta e scrutata dal Governatore di Genova a da quello della Fortezza, una lettera di mia madre e m'era concesso risponderle, pur ch'io scrivessi in presenza dell'Antonietti e gli consegnassi aperta la lettera. Ma tutte queste precauzioni non nuocevano al concerto prestabilito tra gli amici e me, ed era che dovessimo formar parole, per sovrappiù di cautela, latine, colla prima lettera d'ogni alterna parola. Gli amici dettavano a mia madre le prime otto o nove linee della sua lettera; e quanto a me, il tempo per architettare e serbare a memoria le frasi ch'io dovrei scrivere, non mi mancava. Così mandai agli amici di cercare abboccamento con parecchi fra i Carbonari a me noti, i quali tutti, côlti da terrore, respinsero proposte ed uomini; e così seppi l'insurrezione Polacca, ch'io per vaghezza d'imprudenza giovanile annunziai al Fontana, il quale m'aveva accertato poche ore prima tutto essere tranquillo in Europa. Di certo, ei dovè raffermarsi più sempre nell'idea che noi avevamo contatto col diavolo.

Bensì, e il terrore fanciullesco dei Carbonari in quel solenne momento, e le lunghe riflessioni mie sulle conseguenze logiche dell'assenza d'ogni fede positiva nell'Associazione, e una scena ridicola ch'io m'ebbi col Passano (il quale incontrato da me per caso nel corritojo mentre si ripulivano le nostre celle, al mio susurrargli affrettato: ho modo certo di corrispondenza; datemi nomi, rispose col rivestirmi di tutti i poteri e battermi sulla testa per conferirmi non so qual grado indispensabile di Massoneria), raffermavano me nel concetto formato già da più mesi: che la Carboneria era fatta cadavere e che invece di spendere tempo e fatica a galvanizzarla, era meglio cercar la vita dov'era, e fondare un edificio nuovo di pianta.

Ideai dunque, in quei mesi d'imprigionamento in Savona, il disegno della Giovine Italia; meditai i principii sui quali doveva fondarsi l'ordinamento del partito e l'intento che dovevamo dichiaratamente prefiggerci: pensai al modo d'impianto, ai primi ch'io avrei chiamato a iniziarlo con me, all'inanellamento possibile del lavoro cogli elementi rivoluzionarî Europei. Eravamo pochi, giovani, senza mezzi e d'influenza più che ristretta; ma il problema stava per me nell'afferrare il vero degli istinti e delle tendenze, allora mute, ma additate dalla storia e dai presentimenti del core d'Italia. La nostra forza dovea scendere da quel Vero. Tutte le grandi imprese Nazionali si iniziano da uomini ignoti e di popolo, senza potenza fuorchè di fede e di volontà che non guarda a tempo ad ostacoli: gl'influenti, i potenti per nome e mezzi, vengono poi a invigorire il moto creato da quei primi e spesso pur troppo a sviarlo dal segno.

Non dirò qui come gli istinti e le tendenze d'Italia, quali m'apparivano attraverso la Storia e nell'intima costituzione sociale del paese, mi conducessero a prefiggere intento all'Associazione ideata l'Unità e la Repubblica. Accennerò soltanto come fin d'allora il pensiero generatore d'ogni disegno fosse per me, non un semplice pensiero politico, non l'idea del miglioramento delle sorti d'un popolo ch'io vedeva smembrato, oppresso, avvilito: ma un presentimento che l'Italia sarebbe, sorgendo, iniziatrice d'una nuova vita, d'una nuova potente Unità alle nazioni d'Europa. Mi s'agitava nella mente, comunque confusamente e malgrado il fascino ch'esercitavano su me in mezzo al silenzio comune le voci fervide di coscienza direttrice uscenti allora di Francia, un concetto ch'io espressi sei anni dopo; ed era che un vuoto esisteva in Europa, che l'Autorità, la vera, la buona, la Santa Autorità nella cui ricerca sta pur sempre, confessato a noi stessi o no, il segreto della vita di tutti noi, negata irrazionalmente da tanti i quali confondono con essa un fantasma, una menzogna d'Autorità e credono negar Dio quando non negano che gli idoli, era svanita, spenta in Europa, che quindi non viveva in alcun popolo potenza d'iniziativa. È concetto che gli anni, gli studî e i dolori hanno confermato irrevocabilmente nell'animo mio e mutato in fede. E se mai, ciò ch'io non credo, mi fosse dato, fondata una volta l'Unità Italiana, di vivere un solo anno di solitudine in un angolo della mia terra o in questa ove io scrivo e che gli affetti m'hanno fatta seconda patria, io tenterò di svolgerlo e desumerne le conseguenze più importanti ch'altri non pensa. Allora da quel concetto non maturato abbastanza balenava, come stella dell'anima, un'immensa speranza: l'Italia rinata e d'un balzo missionaria di una Fede di Progresso e di Fratellanza, più vasta assai dell'antica, all'umanità. Io aveva in me il culto di Roma. Fra le sue mura s'era due volte elaborata la vita Una del mondo. , mentre altri popoli, compìta una breve missione, erano spariti per sempre e nessuno aveva guidato due volte, la vita era eterna, la morte ignota. Ai vestigi potenti d'un'epoca di Civiltà che aveva avuto anteriormente alla Greca, sede in Italia, e della quale la scienza storica dell'avvenire segnerà l'azione esterna più ampia che gli eruditi d'oggi non sospettano, s'era sovrapposta, cancellandola nell'oblìo, la Roma della Repubblica conchiusa dai Cesari, e avea solcato, dietro al volo dell'aquile, il mondo noto coll'idea del Diritto, sorgente della Libertà. Poi, quando gli uomini la piangevano sepolcro di vivi, era risorta più grande di prima e, risorta appena, s'era costituita, coi Papi, santi un tempo quanto oggi abbietti. Centro accettato d'una nuova Unità che levando la legge dalla terra al cielo, sovrapponeva all'idea del Diritto l'idea del Dovere comune a tutti e sorgente quindi dell'Eguaglianza. Perchè non sorgerebbe da una terza Roma, la Roma del Popolo Italico, della quale mi pareva intravedere gli indizî, una terza e più vasta Unità che armonizzando terra e cielo, Diritto e Dovere, parlerebbe, non agli individui, ma ai popoli, una parola di Associazione insegnatrice ai liberi ed eguali della loro missione quaggiù?

Queste cose io pensava tra l'inchiesta serale dell'Antonietti e i tentativi per convertirmi del governatore Fontana, nella mia colletta in Savona: queste io penso oggi, con più logico e fondato sviluppo, nella stanzuccia, non più vasta della mia prigione, ov'io scrivo. E mi valsero nella vita accuse d'utopista e di pazzo, e oltraggi e delusioni che mi fecero sovente, quando fremeva tuttavia dentro me una speranza di vita dell'individuo, guardare addietro con desiderio e rammarico alla mia celletta in Savona, tra il mare e il cielo, lungi dal contatto degli uomini. L'avvenire dirà s'io antivedeva o sognava. Oggi il rivivere d'Italia, fidato a materialisti immorali celebrati grandi da un volgo ignaro e corrotto, condanna le mie speranze. Ma ciò ch'è morte agli altri popoli è sonno per noi.

Da quell'idee io desumeva intanto che il nuovo lavoro dovea essere anzi ogni altra cosa morale, non angustamente politico: religioso, non negativo; fondato sui principî, non su teoriche d'interesse; sul Dovere, non sul benessere. La scuola straniera del materialismo aveva sfiorato l'anima mia per alcuni mesi di vita Universitaria; la Storia e l'intuizione della coscienza, soli criterî di verità, m'avevano ricondotto rapidamente all'idealismo de' nostri padri.

Il mio processo era stato rimesso a una Commissione di Senatori in Torino, fra i quali non ricordo che il nome d'un Gromo. La promessa data al Cottin limitava tutte le testimonianze a mio danno a quella del carabiniere che m'avea veduto, collo stocco snudato, nella stanza dell'iniziato. Contro quella stava la mia; e s'equilibravano. Era chiaro ch'io doveva essere assolto. Avrei adunque avuto campo al lavoro.

Fui difatti assolto dalla Commissione Senatoriale. Se non che il Governatore Venanson, odiato e odiatore in Genova, irritato dallo sfregio e pauroso della taccia di calunniatore che la popolazione, vedendomi libero, gli avrebbe avventato, corse a gettarsi ai piedi del re clementissimo, Carlo Felice, accertandolo che per prove fidate a lui solo io era colpevole e pericoloso, e il re clementissimo, commosso al dolore inquieto del Governatore, calpestò la sentenza dei giudici e i miei diritti ed il dolore muto de' miei genitori, e fece intimarmi che o mi scegliessi soggiorno, rinunziando a Genova, a ogni punto delle spiaggie liguri, a Torino e ad altre città d'importanza, Asti, Acqui, Casale o altra piccola città dell'interno - o ch'io andassi in esilio a tempo indefinito da prolungarsi o accorciarsi dalla volontà regia a seconda dei meriti o demeriti della mia condotta. E il bivio mi fu posto da mio padre che s'affrettò a Savona per liberarmi dall'ultima noja dell'essere ricondotto in Genova fra gendarmi, dacchè al decreto del clementissimo era aggiunta la disposizione ch'io non vedessi alcuno fuorchè i miei più vicini parenti. Il Passano, in virtù dell'antico consolato in Ancona e della nascita in Corsica, era stato già prima di me ridonato a libertà senza patti e passeggiava le vie di Savona: abitudine antica d'ogni governo regio in Italia d'aborrire la Francia e adularla a un tempo e compiacerle e servirle.

Era intanto scoppiata, poco prima della mia liberazione, l'insurrezione del Centro (febbrajo 1831). Intesi in Genova che gli esuli Italiani si addensavano sulla frontiera confortati di larghe speranze e d'ajuti dal nuovo Governo di Francia. In una delle minori città di Piemonte, ignoto fra ignoti, io mi sarei veduto condannato a un'assoluta impotenza dalla vigilanza della polizia e imprigionato nuovamente al primo atto sospetto. Per queste ragioni scelsi l'esilio che mi dava libertà piena e ch'io allora fantasticava brevissimo. Lasciai la famiglia; dissi a mio padre, ch'io non doveva rivedere più mai, di star di buon animo e che la mia era assenza di giorni; e partii. Traversai la Savoja che la libertà moderata non aveva ancora fatta francese, e il Cenisio; e mi recai in Ginevra. Di io doveva avviarmi a Parigi, e la sollecitudine materna m'avea dato compagno di viaggio uno zio che avea abitato per lunghi anni la Francia.

Andai a visitare Sismondi, lo storico delle nostre repubbliche, pel quale io avea commendatizia d'una amica sua, Bianca Milesi Moion. M'accolse più che cortese, e con lui la moglie Jessie Mackintosh scozzese. Sismondi lavorava allora intorno alla Storia di Francia. Era buono, singolarmente modesto, di modi semplici e affabili, italiano d'anima; e m'interrogò con ansia d'affetto sulle cose nostre. Mi parlò di Manzoni del quale ammirava oltre ogni sua cosa il Romanzo, e dei pochi i quali davano segno di vita intellettuale rinascente. Deplorava in noi le tendenze appartenenti tutte al XVIII secolo, ma le spiegava colla necessità della lotta. Le sue non n'erano emancipate quant'ei credeva; e la sua scienza non oltrepassava i limiti delle teorica dei Diritti e la conseguenza unica di questa teorica, la Libertà. E d'altra parte l'amicizia che lo stringeva ai capi della scuola dottrinaria d'allora, Cousin, Guizot, Villemain, annebbiava visibilmente i suoi giudizî sugli uomini e sulle cose. Nelle tendenze di quegli uomini dei quali egli io sospettavamo l'intento, nel culto esclusivo, frainteso, della libertà, e nelle condizioni della sua Svizzera egli avea succhiato il federalismo e lo predicava siccome ideale di reggimento politico ai molti esuli Italiani, segnatamente lombardi, che gli stavano intorno e pendevano dalle sue ispirazioni: non era fra essi chi sospettasse possibile e desiderabile l'Unità. M'introdusse, nel Cerchio di Lettura, a Pellegrino Rossi, il quale si limitò ad additarmi un tale seduto in un angolo e creduto spia. Non so quale indefinito senso di sconforto s'insignoriva di me vedendo dappresso quelli esuli ch'io aveva fino a quel giorno ammirati rappresentanti l'anima segreta d'Italia. La Francia era tutto per essi. La politica m'appariva nei loro discorsi come scienza, maneggio, calcolo diplomatico di transazioni opportune, non fede e moralità.

Mentre a ogni modo io m'accomiatava un giorno da Sismondi chiedendogli s'io poteva far cosa alcuna per lui in Parigi, un esule lombardo che avea sempre ascoltato attentamente i miei discorsi senza mover parola, mi chiamò in disparte e mi susurrò nell'orecchio che, s'io aveva desiderio d'azione, mi recassi in Lione e mi presentassi agli Italiani che troverei raccolti nel Caffè della Fenice. Lo guardai con vera riconoscenza, chiedendogli il nome. Era Giacomo Ciani, condannato a morte dall'Austria nel 1821.

In Lione, trovai fra i nostri una scintilla di vera vita. Predominava negli esuli che v'erano raccolti, e v'accorrevano ogni giorno, l'elemento militare. Trovai molti di quelli uomini ch'io aveva veduto dieci anni addietro errare, coll'ira della delusione sul volto, per le vie di Genova; e avevano d'allora in poi onorato il nome Italiano nell'armi difendendo la libertà Spagnuola o la Greca. Vidi Borso de' Carminati, ufficiale che nel 1821 s'era in Genova, in Piazza de' Banchi, cacciato fra il popolo irruente e i soldati ai quali era stato ordinato fuoco contr'esso, militare d'alte speranze, salito più tardi ai più alti gradi nelle guerre spagnuole, e che avrebbe levato grido di nelle nostre, se l'indole irritabile, incauta, intollerante d'ogni sopruso, non lo avesse travolto, per odio ad Espartero, in un tentativo indegno di lui che gli costò vita e fama: Carlo Bianco, che mi diventò amico e del quale riparlerò: un Voarino, ufficiale di cavalleria, un Tedeschi ed altri, piemontesi tutti, proscritti del 1821 e in mezzo ad una maggioranza costituzionale monarchica, non per fede ma perchè monarchica era la Francia, repubblicani. Erano accorsi per partecipare in una invasione che stava ordinandosi della Savoja da un Comitato, membri del quale ricordo il generale Regis, un Pisani, un Fechini. La spedizione contava da forse duemila italiani e un certo numero d'operai francesi. I mezzi abbondavano, però che la bandiera monarchica e la credenza che il Governo Francese spingesse al moto avevano raccolto esuli ricchi, patrizî, principi, uomini d'ogni colore, all'impresa. I preparativi si facevano pubblicamente: la bandiera tricolore Italiana s'intrecciava nel Caffè della Fenice, stanza del Comitato, alla bandiera Francese; i depositi d'armi erano noti a tutti: correvano comunicazioni continue tra il Comitato e il Prefetto di Lione.

Le stesse cose avevano luogo ad un tempo sulla frontiera Spagnuola. Luigi Filippo non era ancora stato riconosciuto dalle monarchie assolute: cercava d'esserlo; e agitava per atterrire e costringere. Come Cavour diceva, trent'anni dopo ai plenipotenziarî raccolti in Parigi: o riforme o rivoluzioni, la nuova monarchia di Francia diceva ai re titubanti: o accettazione dei Borboni secondogeniti o guerra di rivoluzione. I re accettarono e Luigi Filippo tradì. Era il terzo tradimento regio ch'io vedeva compirsi quasi sotto gli occhi miei nelle cose d'Italia: il primo era la vergognosa fuga del principe Carlo Alberto, carbonaro e cospiratore, al campo nemico: il secondo era quello di Francesco IV duca di Modena, il quale avea protetto la congiura tessuta in suo nome dal povero Ciro Menotti, poi, al momento dell'esecuzione, lo avea assalito coll'armi e tratto prigione fuggendo a Mantova, per poi impiccarlo quando l'Austria gli spianò le vie del ritorno.

Un giorno, mentr'io mi recava alla Fenice pieno l'animo di speranza per l'azione imminente, vidi la gente affollarsi a leggere uno stampato governativo affisso sulle cantonate. Era una dichiarazione severa contro il tentativo italiano, una intimazione di sciogliersi agli esuli e una minaccia brutale di visitare col rigore delle leggi penali chiunque s'attentasse di violare frontiere amiche e compromettere coi Governi la Francia. Il bando esciva dalla Prefettura. Trovai il Comitato atterrito: le bandiere sparite, l'armi sequestrate in parte, il vecchio generale Regis in pianto. Gli esuli imprecavano al tradimento e ai traditori: vendetta sterile di quanti in una impresa di patria fidano in altro che nelle proprie forze. Taluni ostinati, magnanimi nella fede che il re galantuomo Luigi Filippo non potesse deludere a quel modo le speranze degli uomini della libertà, insinuavano che il Governo avveduto non intendesse se non a levarli anzi tratto d'ogni sospetto di cooperazione, ma non pensasse a impedire. Mi avventurai a proporre che si sciogliesse il problema mandando un nucleo d'armati, quasi antiguardo della spedizione e frammischiandovi quanti più si potesse degli operai francesi, sulla via di Savoja; e fu fatto. Ma un drappello di cavalleria li raggiunse e li sciolse a forza: primi a ubbidire i francesi, ai quali l'ufficiale parlò di doveri verso il paese e della necessità di lasciare al Governo la cura delle imprese liberatrici. La spedizione era fatta impossibile. Cominciò la cacciata degli esuli. Parecchi furono condotti ammanettati fino a Calais, e imbarcati per l'Inghilterra.

Fra quel subuglio di fughe, d'imprigionamenti, minaccie e disperazioni, Borso mi rivelò ch'egli e pochi altri repubblicani partivano la stessa notte alla volta di Corsica, per di raggiungere in armi l'insurrezione, che ancor durava, del Centro, e mi chiese s'io volessi seguirli. Accettai senz'altro. Celai la subita determinazione allo zio, lasciandogli poche linee pregandolo di tranquillarsi sul conto mio e a tacere per pochi giorni colla mia famiglia; e partii. Nella diligenza che ci portava a Marsiglia trovai Bianco, Voarino, Tedeschi, un Zuppi, se non erro, napoletano, e non so chi altri. Borso con tre o quattro compagni seguiva in altra vettura. Viaggiammo sempre senza quasi fermarci fino a Marsiglia: da Marsiglia a Tolone; e da Tolone sopra un legno mercantile napoletano, attraverso il mare più tempestoso ch'io abbia veduto mai, a Bastia. mi sentii nuovamente, con gioja di chi rimpatria, in Terra Italiana.

Non so che cosa abbiano fatto dell'isola, d'allora in poi, l'insistenza corruttrice francese e la colpevole noncuranza dei Governi d'Italia; ma nel 1831 l'Isola era Italiana davvero: Italiana non solamente per aere, natura e favella, ma per tendenze e spiriti generosi di patria. La Francia v'era accampata. Da Bastia e Ajaccio in fuori dove l'impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d'Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava ricongiungersi alla gran Madre. Il Centro dell'Isola, dov'io feci una breve corsa con Antonio Benci, toscano, collaboratore dell'Antologia e ricovratosi, per minaccia di persecuzioni, in Corsica, guardava unanime ai Francesi come a nemici. Quei ruvidi ma buonissimi montanari, armati quasi tutti, non parlavano che di recarsi a combattere nelle Romagne; e c'invocavano Capi. Leali, ospitali, indipendenti, gelosi oltremodo delle loro donne, avidi d'eguaglianza e sospettosi del forestiero per temenza di violata dignità, ma fraterni a chi stende loro la mano come d'uomo a uomo e non come d'incivilito a selvaggio, vendicativi ma generosamente e di fronte e avventurando nella vendetta la vita, quei Corsi del centro mi sono tuttavia un ricordo d'affetto e di speranza ch'essi non saranno sempre divelti da noi. La Carboneria, recatavi dai profughi napoletani, era allora dominatrice dell'Isola, e i popolani ne facevano quel che ogni uomo dovrebbe fare d'una associazione liberamente accettata, una specie di religione. Come alla vigilia d'una grande impresa, molti i quali avevano giurato vendetta l'un contro l'altro, si riconciliavano in essa. N'era capo venerato dagli isolani un Galotti, lo stesso che riconsegnato al tiranno di Napoli da Carlo X stava a rischio di morte, quando la rivoluzione di luglio lo rivendicò a libertà. Conobbi con lui La Cecilia ed altri proscritti del mezzogiorno d'Italia, convenuti da più punti nell'isola, pel disegno dei miei nuovi amici politici.

Ed era di recarsi, come dissi, nel Centro, ma capitanando una colonna di due o più migliaja di Corsi ch'erano ordinati e con armi. Mancava il danaro pel noleggio dei legni e per un lieve sussidio da lasciarsi alle famiglie povere degli isolani che doveano seguirci. E questo danaro ch'era stato, a quanto dicevano, sacramentalmente promesso da uomini legati a un Bonnardi prete patriota e affigliato di Buonarroti, non venne mai. Due dei nostri, Zuppi e un Vantini dell'Elba che fu poi fondatore di parecchi alberghi in Londra ed altrove, furono inviati al Governo Provvisorio di Bologna a offrirgli l'ajuto e chiedergli la somma indispensabile, e da quel Governo inetto che non fidava se non nella diplomazia e s'atterriva dell'armi ebbero risposta di stranieri barbari: chi vuole la libertà se la compri. D'indugio in indugio, l'intervento Austriaco riconquistò nella prima metà di marzo le terre insorte ai padroni. Sfumata ogni speranza d'azione e consunti i pochi mezzi ch'io aveva, lasciai la Corsica e mi condussi in Marsiglia dove mi richiamava, in nome della famiglia, lo zio.

E in Marsiglia ripigliai l'antico disegno di Savona, la fondazione della Giovine Italia. V'affluivano gli esuli da Parma, da Modena, dalle Romagne, oltrepassando il migliajo. Frammisto ad essi, conobbi in quell'anno i migliori, Nicola Fabrizi, Celeste Menotti fratello del povero Ciro, Angelo Usiglio, Giuseppe Lamberti, Gustavo Modena, L. A. Melegari, Giuditta Sidoli, donna rara per purezza e costanza di principii, e altri molti, giovani, ardenti, capaci e tutti convinti degli errori commessi e ch'io aveva in animo di distruggere. Erano elementi preziosi al lavoro, e taluni d'essi lo provarono all'Italia negli anni che seguirono. Ci affratellammo della saldissima tra le amicizie, che è quella santificata dall'unità d'un intento buono: amicizia che con alcuni, come con Nicola Fabrizi, vive anch'oggi carissima, con altri, come Lamberti, non fu interrotta se non dalla morte, con nessuno fu da me primo tradita. Abbozzai le norme dell'Associazione e trasmisi cenno delle mie intenzioni ai giovani amici di Genova e di Toscana.

Intanto nell'aprile di quell'anno, morto Carlo Felice, sottentrava re nei dominî Sardi il cospiratore del 1821, Carlo Alberto, e con lui fra i deboli che abbondavano ed abbondano, un'onda di speranze che la idea del cospiratore si tradurrebbe in azione dal re. Dimenticavano che la sua non era idea, ma solamente velleità d'ambizione, e che il pericolo di perdere la piccola corona lo ritrarrebbe dal tentare coll'ardire necessario la grande. Il sogno a ogni modo affascinava le menti, e mi fu risposto che la mia proposta era buona, ma riuscirebbe importuna e non troverebbe seguaci se non quando cadessero le illusioni sul nuovo re.

Da quelle risposte germogliò in me il pensiero di scrivere a Carlo Alberto per via di stampa.

Io non credeva allora credo in oggi che possa dalla Monarchia venir salute all'Italia, cioè all'Italia com'io la intendo e la intendevamo noi tutti pochi anni addietro: Una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale e degna della propria missione. il presente mi costringe finora a mutare avviso. La Monarchia Piemontese non avrebbe mai preso l'iniziativa del nostro moto, se l'uomo del 2 dicembre non le profferiva l'ajuto de' suoi eserciti e Garibaldi coi cinque sesti degli uomini di parte repubblicana non le profferivano cooperazione; or chi mai poteva prevedere cose siffatte? E nondimeno, la Monarchia Piemontese ci darà - se pur mai - una Italia smembrata di terre ch'erano, sono e saranno sue concesse, in compenso ai servigi resi, alla dominazione straniera e serva aggiogata della politica francese e disonorata per alleanze funeste col dispotismo e debole e corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione e coi germi delle risse civili e delle autonomie provinciali risorti. Oggi e mentr'io scrivo il mal governo inerente all'istituzione monarchica prepara rapidamente una crisi di separatismo nel mezzogiorno d'Italia che s'era affacciato alla nuova vita ebbro d'Unità e del grande ideale di Roma. Ma se l'Unità Monarchica è oggi pregna di pericoli, era, quand'io deliberai di scrivere quella Lettera e per un uomo della tempra di Carlo Alberto, una assoluta impossibilità. Scrivendo a lui ciò ch'egli avrebbe dovuto trovare in per fare l'Italia io intendeva semplicemente scrivere all'Italia, ciò che gli mancava per farla. Mal dunque s'apposero gli uomini i quali si fecero più tardi un'arme di quello scritto sia per giustificare, coll'esempio altrui, stessi della diserzione dalla bandiera, sia per accusarmi d'incertezza o d'arrendevolezza soverchia nelle dottrine. Se non che a me importa poco oggimai dell'opinione degli uni o degli altri; e solamente per la stima ch'io serbo profonda all'ingegno suo e alla sua tenacità di propositi, mi dolse trovare fra gli ultimi Carlo Cattaneo3.

A lui vorrei ricordare, senza rimprovero ma perch'ei non dimenticasse come la necessità sia talora padrona di tutti noi, ch'egli repubblicano come io sono e convinto che l'intervento monarchico avrebbe sviato l'insurrezione dal segno, abdicò nondimeno nel 1848 il potere - quando compito il trionfo con sole forze di popolo, egli era, per l'energica condotta del Comitato di guerra da lui presieduto, moralmente padrone dei combattenti lombardi - in mano d'uomini ch'ei pur disprezzava inetti e traditori anzi tratto del concetto della Nazione. Quanto a me individualmente - e sia detto una volta per sempre - la teoria politica che dice a un uomo bambolo in fascie: tu regnerai dall'alto, impeccabile sempre e inviolabile e solamente combattuto ne' tuoi Ministri, sullo sviluppo della vita d'una Nazione fidato in tutte le sue manifestazioni al principio d'elezione, mi pare più che errore, contradizione e follìa che condanna il popolo a retrocedere o agitarsi perennemente e periodicamente a nuove rivoluzioni. E sparirà, quando vinte la servilità e la paura che signoreggiano l'anime nostre, la democrazia, ch'oggi abbiam sulle labbra, entrata davvero nei nostri cuori c'insegnerà che l'onesto operajo non è da meno d'un discendente di dieci generazioni di re - quando il tocco di mano del secondo non ci parrà evento più rilevante nella nostra vita che non quello del primo - quando sapremo che lo Stato deve governarsi come si governa da ciascun di noi l'amministrazione delle faccende private, scegliendo, ovunque si trovino unite, probità e capacità intellettuale.

Scrissi la lettera al Re, e la lessi, prima di stamparla, a un solo fra gli Italiani coi quali era in contatto, Guglielmo Libri, scienziato illustre, capo in quell'anno d'una cospirazione contro il Gran Duca in Toscana, accusato, credo a torto, di tradimento, ma tratto più dopo, e mi duole il dirlo, dal materialismo che stava in cima alle sue dottrine e da un esagerato scetticismo su tutti uomini e su tutte cose, a tradire la dignità dell'anima e i doveri ch'egli, ingegno potente davvero, dovea compiere verso il paese. Il Libri lodò, ma cercò svolgermi dal pubblicare la Lettera, schierandomi innanzi, conseguenze inevitabili, l'esilio perpetuo, l'abbandono d'ogni cosa più cara, le delusioni che mi sarebbero compagne sulla via. E m'esortava a lasciare la politica militante e consacrarmi alla Storia.

Fui ribelle ai consigli e stampai.

Fu quello il mio primo scritto politico. Non serbo, e non meritavano d'essere serbate, alcune pagine ch'io aveva scritte prima in francese, col titolo la Notte di Rimini, maledizione alla Francia di Luigi Filippo, che il National pubblicò mutilate - (1861).


 

 

 





2 Quartiere di Livorno.



3 Vedi Archivio triennale delle cose d'italia - Capolago, Tipografia Elvetica, vol. 2.



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