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La lettera, pubblicata in Marsiglia, entrò in Italia in piccolo numero d'esemplari indirizzati, dacchè io non aveva allora altri modi, in via epistolare e per posta a uomini ch'io non conosceva se non di nome, in diverse città dello Stato Sardo. La violazione delle lettere non v'era ancora, come fu poi, ridotta a sistema. Ma tre o quattro ristampe clandestine la diffusero poco dopo per ogni dove. Il re l'ebbe e la lesse. Non andò molto che una Circolare governativa spedita a tutte le autorità di frontiera dava i miei connotati, perchè, s'io mai tentassi introdurmi, fossi imprigionato senz'altro. S'avveravano le previsioni del Libri.
Lo scritto intanto era accolto dai giovani con favore, indizio ch'io parlando dichiaratamente d'Unità di Patria trovava un'eco nell'anime incerte, inconscie fin allora delle loro tendenze ingenite. Raccolsi quell'indizio con vera gioja. Era il primo conforto ad osare. L'Unità, comechè presentita di secolo in secolo da taluni fra i nostri Grandi, era, era sul campo della politica pratica, ciò che gli uomini battezzano, sorridendo, del nome utopia. Nessuno la sospettava possibile. La parte più illuminata della vecchia emigrazione era universalmente federalista. Nè credo che da Melchiorre Gioja in fuori in un libriccino dimenticato, un solo degli scrittori politici sorti in Italia nel periodo dell'invasione francese contemplasse l'unità politica della patria comune. Miravano a una lega di Stati. E d'altra parte la questione di libertà preoccupava più assai le menti che non quella della Nazione. Or dove mai può essere libertà dove la forza non l'assecura? E da qual principio può scendere un'associazione di liberi se non dai diritti dell'individuo o dal principio d'una comune missione fidata da Dio a tutti quanti i figli d'una stessa terra? A me la dottrina dei diritti, dottrina americana, inglese, francese del XVIII secolo, pareva fin d'allora metà del problema, e impotente tanto a fondare Governo vero quanto a promovere l'Educazione progressiva dei Popoli.
Le illusioni fondate su Carlo Alberto sfumavano rapidamente davanti a' primi suoi atti. E' non aveva neppure decretato il richiamo degli esuli che avevano giurato con lui, molti de' quali erano stati trascinati nella congiura del 1821 dal solo suo nome e parecchi gli erano stati ajutanti, compagni, amici. Ripensai, interrogai prima di decidere. Carlo Bianco, col quale io viveva allora in Marsiglia, mi comunicò l'esistenza d'una società segreta capitanata da lui sotto l'alta direzione di Buonarroti chiamata degli Apofasimèni. Era un ordinamento militare complesso di simbolismo, giuramenti e gradi molteplici che uccidevano colla disciplina l'entusiasmo del core, sorgente d'ogni grande impresa; e mancava inoltre d'un principio morale predominante. Ora, io non concepiva una Associazione se non come educatrice a un tempo e insurrezionale. L'armonia fra il pensiero e l'azione signoreggiava in me ogni concetto. E finalmente i moti del Centro erano, nel mio modo di vedere, un colpo mortale alla supposta vitalità dell'Associazione. O gli Apofasimèni, io diceva a Bianco, si frammisero ad essi, e sono a quest'ora esuli, dispersi o noti; o si tennero in disparte, ed è prova che non erano forti. Più dopo, conobbi alcuni dei capi, un Berardi, parmi, di Bagnacavallo tra gli altri: erano inetti o, come quest'ultimo, spie.
L'esistenza o no d'altra società non era del resto cagione di dubbiezze per me: m'era chiaro che dopo una disfatta come quella dell'insurrezione del Centro d'Italia, non esisteva possibilità di successo se non per un lavoro rifatto di pianta con elementi non noti e giovani. Ma si trattava di ben altro. Si trattava di tentar d'avviare l'educazione morale d'un popolo: si trattava di cercare non solamente che l'Italia fosse, ma che sorgesse grande, forte, degna delle sue glorie passate e colla coscienza della sua missione futura. E tutte le mie convinzioni erano diametralmente opposte alle tendenze predominanti. L'Italia era materialista, machiavellizzante, credente nella iniziativa francese, tendente a emanciparsi e migliorare le proprie condizioni nei diversi suoi Stati più che a ricomporsi in Nazione, poco curante dei principî supremi e presta ad accettare ogni forma di reggimento, ogni ajuto, ogni uomo che promettesse sottrarla ai suoi patimenti immediati. Io credeva, allora più per istinti che per dottrina, che il problema dell'oggi fosse problema religioso e tutti gli altri gli fossero secondi. Ciò ch'altri chiamava teorica di Machiavelli non era per me che Storia e Storia d'un periodo di corruttela e decadimento che bisognava sotterrar col passato. Mi fremeva dentro il pensiero dell'iniziativa Italiana e a ogni modo io sentiva che non si risorge senza fede in sè, e che quindi bisognava prima d'ogni altra cosa distruggere la servile soggezione all'influenza francese. E per questo era mestieri mover guerra all'idolatria degli interessi immediati e sostituirle il culto dei principî, del Giusto, del Vero, e convincer l'Italia che il sagrificio e la costanza nel sagrificio erano le sole vie per le quali conseguirebbe, quando che fosse, vittoria.
La Carboneria - traduco qui alcune pagine6 ch'io scrissi per gli Inglesi nel 1839, perchè compendiano lo idee che mi s'affaccendavano nella mente allora e mi determinarono a fondare la Giovine Italia - la Carboneria m'appariva come una vasta associazione liberale, nel senso attribuito a quel vocabolo in Francia sotto la monarchia di Luigi XVIII e di Carlo X, efficace a diffondere lo spirito d'emancipazione, ma condannata dall'assenza d'una fede positiva, determinata a mancare di quella potente unità, senza la quale riesce impossibile il trionfo pratico d'ogni difficile impresa. Sorta, in sul maturarsi della caduta d'una gigantesca ma tirannica unità, l'unità napoleonica, tra i frammenti d'un mondo, tra giovani speranze e vecchie pretese a contrasto, tra presentimenti tuttavia mal definiti di popolo opposto ai ricordi d'un passato che i Governi si preparavano a dissotterrare, la Carboneria aveva portato l'impronta di tutti quei diversi elementi e si era affacciata in dubbia attitudine nel crepuscolo diffuso in quel periodo di crisi su tutta Europa. La protezione regia incontrata al suo nascere e finchè s'era sperato in essa uno stromento di guerra contro la Francia Imperiale, aveva più sempre contribuito a comunicare all'Istituzione quella incertezza di moti che sviava gli animi dalla vera idea nazionale7. Vero è ch'essa aveva, tradita, respinto poi quel giogo da sè; ma serbando inconscia taluna fra le antiche abitudini e segnatamente una fatale tendenza a cercar capi nell'alte sfere sociali e a considerare la rigenerazione Italiana come parte più degli ordini superiori che non del popolo, principale operatore delle grandi rivoluzioni. Ed era errore vitale, inevitabile bensì ad ogni consorteria politica alla quale manchi una salda religiosa credenza in un vasto e fecondo principio, bandiera suprema su tutti eventi. Or siffatto principio mancava alla Carboneria. Essa non aveva per arme che una semplice negazione: chiamava gli uomini a rovesciare, non insegnava il come s'inalzerebbe sulle rovine dell'antico il nuovo edifizio. Esaminando il problema, i Capi dell'Ordine avevano trovati tutti gli Italiani concordi sulla questione d'Indipendenza, non su quella dell'Unità Nazionale o sul modo d'intendere la Libertà. Impauriti dalle difficoltà e incapaci di scegliere risolutamente tra i diversi partiti, s'appigliarono a una via di mezzo e scrissero sulla bandiera Indipendenza e Libertà; di definire il come dovesse intendersi e provocarsi la Libertà non curarono: il paese, dicevano - e il paese era per essi nell'alte classi della società - deciderebbe più tardi. La parola unione fu similmente sostituita alla parola Unità, e il campo lasciato aperto ad ogni possibile ipotesi. D'eguaglianza non facevano motto o richiesti ne parlavano con modi sì incerti che ogni uomo poteva a seconda delle proprie tendenze interpretarla politica, civile, o semplicemente cristiana. Così senza porgere soddisfacimento ai dubbî che agitavano le menti, senza dire a quei ch'essa chiamava a combattere quale programma potrebbero offrire al popolo che doveva secondarli, la Carboneria s'era data ad affratellare. E aveva trovato in tutte le classi copia d'adepti, perchè in tutte era copia di malcontenti ai quali non si chiedeva se non di prepararsi a distruggere la condizione di cose esistenti e perchè il profondo mistero ond'erano ravvolti i menomi Atti della Setta affascinava la fantasia oltremodo mobile degli Italiani. Il presentimento delle esigenze di quella moltitudine d'affratellati ripartiti fra le spire della intricata molteplice gerarchia suggeriva l'adozione di numerosi, strani, incomprensibili simboli che celassero il vuoto delle dottrine; poi l'ingiunzione d'una cieca obbedienza ai cenni di capi invisibili. Ma era difesa contro quelle esigenze, più che mezzo d'azione; e però l'esecuzione delle prescrizioni procedeva fiacca e a rilento. La severità della disciplina era men di fatti che di parole.
La forza numerica della Società aveva a ogni modo raggiunto un grado di potenza ignoto a quante altre associazioni vennero dopo. Ma la Carboneria non aveva saputo trarne partito. Diffusa nel popolo, non aveva fede in esso: non lo cercava per condurlo dirittamente all'azione, ma per attirare con quell'apparato di forze gli uomini d'alto rango nei quali solamente essa riponeva fiducia. L'ardore dei giovani affratellati che sognavano patria, repubblica, guerra e gloria davanti all'Europa era fidato alla direzione d'uomini vecchi d'anni, imbevuti dell'idea dell'Impero, freddi, minuziosi, diseredati d'avvenire e di fede, che lo ammorzavano invece di suscitarlo. Più dopo, quando il numero gigantesco degli affigliati e la impossibilità di serbare più a lungo il segreto la convinsero che bisognava operare la Carboneria, aveva sentito il bisogno d'una unità più potente, e non sapendo trovarla in un principio, s'era data a cercarla in un uomo, in un principe. Ed era stata la sua rovina........
Intellettualmente, i Carbonari erano machiavellici e materialisti. Predicavano libertà politica, e dimenticando che l'uomo è uno, quei tra loro che si occupavano di letteratura, predicavano sotto il nome di classicismo la servitù letteraria. Si dicevano nel loro linguaggio simbolico Cristiani e intanto, confondendo superstizione e fede, papato e religione, disseccavano il vergine entusiasmo dei giovani con uno scetticismo rubato a Voltaire e negazioni rubate al secolo XVIII. Erano settarî, non apostoli di una religione nazionale. Ed erano tali nella sfera politica. Non avevano fede sincera nelle Costituzioni, ridevano fra di loro della monarchia; e l'acclamavano nondimeno, dapprima perchè s'illudevano a trovare in essa una forza della quale pensavano abbisognare; poi perchè la monarchia li liberava dall'obbligo di guidare le moltitudini ch'essi temevano e mal conoscevano; da ultimo perchè speravano che il battesimo regio dato alla insurrezione avrebbe ammansato l'Austria o conquistato l'ajuto di qualche grande potenza, Francia o Inghilterra. Avevano dunque cacciato lo sguardo su Carlo Alberto in Piemonte, sul principe Francesco in Napoli: d'indole naturalmente tirannica il primo, ambizioso, ma incapace di grandezza; ipocrita e traditore fin da' primi suoi passi il secondo; e avevano commesso all'uno ed all'altro i fati d'Italia, lasciando al futuro di porre in accordo le mire inconciliabili dei due pretendenti.
I fatti intanto avevano dimostrato quali siano le inevitabili conseguenze del difetto di principî negli uomini che si pongono a capo delle rivoluzioni, e come la forza spetti veramente non alla cifra, ma alla coesione degli elementi che si adoprano a raggiungere il fine. Le insurrezioni avevano avuto luogo senza ostacoli gravi; ma rapidamente seguite dalla interna discordia. Compita la loro promessa di rovesciare, gli affigliati dei Carbonari erano tornati ciascuno alle proprie tendenze, e s'erano divisi su ciò che importasse fondare. Gli uni avevano creduto di cospirare per una unica monarchia, altri pel federalismo; molti parteggiavano per la Costituzione francese, molti per la Spagnola: taluni per la repubblica o per non so quante repubbliche; e tutti lagnandosi d'essere stati ingannati. I Governi provvisorî s'erano trovati indeboliti in sul nascere dall'opposizione aperta degli uni e dalla inerzia calcolata degli altri. Quindi le diffidenze, l'incertezza di quei Governi e i pretesti al non fare, cercati in una opposizione che non potea vincersi se non facendo, e il popolo e i giovani volontarî lasciati senza sprone, senza ordinamento, senza intento determinato. Quindi l'assenza di libertà vera nella scelta dei mezzi, perchè la monarchia scelta a capitanare le insurrezioni traeva seco vincoli e tradizioni d'ogni genere ostili all'ardito sviluppo del principio insurrezionale. La logica vuole in ogni tempo il suo dritto. I capi del moto avevano dichiarato implicitamente incapace il popolo d'emanciparsi e governarsi da sè: bisognava dunque astenersi dall'armarlo, dal suscitarlo di soverchio a frammettersi nelle cose: bisognava sostituirgli una forza, cercarla al di fuori ai gabinetti stranieri, e ottenere promesse menzognere a patto di concessioni reali: bisognava lasciare ai principi la libera scelta dei loro ministri e dei condottieri degli eserciti, anche a rischio - avverato più dopo - di vederli scelti traditori o incapaci e di vedere i principi stessi sfuggire in un subito al campo nemico o andare a gittar l'anatema sull'insurrezione da Laybach.
La rivoluzione napoletana era caduta in Napoli dopo avere esaurito ad una ad una le conseguenze fatali di un primo errore; dopo aver negato sui primi giorni la tendenza nazionale col rifiuto di Pontecorvo e di Benevento, città appartenenti allora agli Stati Romani ma circondate dalle terre napoletane e che avevano, insorgendo esse pure, chiesto di confondersi coi popoli emancipati; dopo aver decretato che la guerra sarebbe puramente difensiva e che l'esercito austriaco spinto nel core non dovea considerarsi nemico se non quando traverserebbe la frontiera napoletana; dopo avere insomma spenta ogni fiamma d'insurrezione nell'Italia Centrale. E l'insurrezione piemontese, sorta quando già quelli errori erano stati commessi nel Sud e insegnavano il come evitarli; mentre la fremente Lombardia, sguernita di forze Austriache eguali all'incarico di reprimere, potea, con soli 25,000 uomini sommoversi da un capo all'altro, e quei 25,000 uomini potevano avviarsi una settimana dopo l'insurrezione, era caduta non tentando questo nè altro, inceppata dagli stessi vincoli, condannata dalla stessa influenza che avevano impedito il moto due mesi prima, quando il Sud era libero e poteva ordinarsi la difesa comune8.
Nè mai - anche limitandosi a scorrere la Storia onesta ma imperfetta del moto scritta da Santarosa - erano state più visibili le tristissime conseguenze d'un tristo programma. Un proclama di Carlo Alberto, capo del Governo Rivoluzionario, aveva largito amnistia alle truppe che lo avevano fondato. La Giunta s'era avvilita in negoziati coll'ambasciatore russo, conte Mocenigo, che offriva sfrontatamente perdono ai cospiratori e qualche speranza d'una Carta Costituzionale. Erano uomini d'innegabile patriotismo e di core, e giurati tutti alla Carboneria; e nondimeno tremanti fra le esigenze della rivoluzione e le forme accettate della legalità monarchica, costretti a derivare ispirazioni da un uomo che in fondo del core sprezzavano e temevano li tradirebbe un dì o l'altro, consapevoli del diritto e non osando affermarlo, avevano preteso di mutare le istituzioni del paese senza mutare gl'impiegati della vecchia amministrazione o i capi dell'esercito stretti al giuramento di mantener la tirannide; avevano lasciato il Governo di Novara al conte di Latour e quello della Savoja al conte d'Andezene, ambi nemici aperti della causa rivoluzionaria; avevano preveduto e predetto la guerra e, per timore che il programma monarchico potesse essere presto o tardi violato, negate l'armi al popolo che le chiedeva, differito indefinitamente l'adunarsi delle assemblee elettorali, e negletto ogni atto capace d'affratellare alla rivoluzione le moltitudini, sino alla revoca del decreto col quale Genova insorta aveva ridotto il prezzo del sale a metà. Erano caduti, fuggiti, non davanti alla forza che poteva con onore combattersi, ma davanti a un sofisma innestato nel programma rivoluzionario.
Tale m'appariva la carboneria: vasto e potente corpo, ma senza capo: associazione alla quale non erano mancate generose intenzioni, ma idee, e priva non del sentimento nazionale, ma di scienza e logica per ridurlo in atto. Il cosmopolitismo che una osservazione superficiale d'alcune contrade straniere le avea suggerito, ne aveva ampliato la sfera, ma sottraendole il punto d'appoggio. L'eroica educatrice costanza degli affratellati e il martirio intrepidamente affrontato avevano grandemente promosso quel senso d'eguaglianza ch'è ingenito in noi, preparato le vie all'unione, iniziato a forti imprese con un solo battesimo uomini di tutte provincie e di tutte classi sociali, sacerdoti, scrittori, patrizî, soldati e figli del popolo9. Ma la mancanza d'un programma determinato le aveva tolto sempre la vittoria di pugno.
Queste riflessioni m'erano suggerite dall'esame dei tentativi e delle disfatte della Carboneria. E i fatti appena allora conchiusi dell'Italia Centrale mi confermavano in esse, additandomi a un tempo altri pericoli da combattersi: primi fra i quali erano quello di collocare le speranze della vittoria nell'appoggio di governi stranieri e quello di fidare lo sviluppo, il maneggio delle insurrezioni a uomini che non avevano saputo iniziarle.
Nei fatti del 1831, il progresso delle tendenze s'era rilevato innegabile. L'insurrezione non aveva invocato come necessità indeclinabile l'iniziativa dell'alte classi o della milizia: era sorta dalla gente senza nome, dalle viscere del paese. Dopo le tre giornate di Parigi, il popolo in Bologna s'affollava all'Ufficio Postale. I giovani salivano nei caffè sulle sedie e leggevano ad alta voce i giornali agli astanti. Si preparavano armi, s'ordinavano compagnie di volontarî, si sceglievano i capitani. I comandanti la truppa dichiaravano al prolegato che non assalirebbero i cittadini. Lo stesso aveva luogo nell'altre città. L'eco del cannone sparato, nella notte del 2 febbrajo in Modena, contro la casa di Ciro Menotti aveva dato il segnale. Bologna s'era levata il 4. - Il 5, il popolo di Modena, riavuto dallo stupore, aveva cacciato in fuga duchi e duchisti; Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna s'erano emancipate. Il 7, Ferrara aveva seguito l'esempio: gli austriaci s'erano ritratti. Pesaro, Fossombrone, Fano ed Urbino s'erano, l'8, liberate dei loro Governatori. Il moto aveva trionfato il 13 in Parma: poi in Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni ed in altre città. Ancona, dove il colonnello Sutterman s'era mostrato in sulle prime disposto a resistere, aveva ceduto davanti ad alcune compagnie di soldati e di guardie nazionali comandate da Sercognani. E tutto questo s'era operato per impulso di popolo, per entusiasmo collettivo che si stendeva alla donna e ai canuti; mentre le prime lavoravano coccarde e bandiere, parecchi tra i veterani del Grande Esercito mostravano ai giovani lievemente diffidenti le cicatrici delle antiche ferite, dicendo loro: noi le riportammo difendendo il nostro paese. Così il 25 febbrajo due milioni e mezzo quasi d'Italiani avevano abbracciata la Causa Nazionale, presti a difesa od offesa per l'emancipazione degli altri loro fratelli.
Ed era infatti la Causa Nazionale che gli istinti avevano in quei moti universalmente additato alle moltitudini. Italiana era la coccarda adottata per ogni dove in onta alle preghiere d'Orioli ed altri appartenenti più tardi al Governo. Dai primi giorni la gioventù Bolognese aveva tentato d'invadere la Toscana; quella di Modena e Reggio d'inoltrare su Massa. Più dopo, le Guardie Nazionali chiedevano d'esser condotte per la via del Furlo sul Regno.
Di quel moto tutto Italiano nell'origine e nell'intento, i Capi intanto avevano fatto un moto puramente provinciale. Sua legge naturale era stendersi, allargare la propria base, quanto era possibile; essi l'avevano limitata nei più angusti confini; avevano proscritto ogni tentativo di propaganda: avevano accumulato ostacoli alla rivoluzione invece di lavorare a spianarli. La nazionalità era l'anima dell'impresa; ed essi avevano cercato sostegni alla rivoluzione fuori d'Italia. La guerra coll'Austria era inevitabile; bisognava dunque preparare la vittoria; ed essi avevano dichiarato che il trionfo della rivoluzione consisteva nel conservarsi pacifici; che la pace non era solamente possibile, ma probabile e quasi certa; e che in conseguenza era necessario astenersi da ogni dimostrazione tendente a turbarla. La rivoluzione s'incamminava necessariamente, per natura d'elementi e per condizioni speciali delle terre insorte, a repubblica: i Governi non potevano esserle favorevoli: urgeva cercarle alleati in elementi omogenei, nei popoli; ora, solo pegno d'alleanza tra i popoli sono le dichiarazioni di principî, ed essi non ne avevano fatta alcuna; avevano calcolato sull'ajuto dei re, e prostrato un moto di popolo appiedi della Diplomazia. Bisognava suscitare l'azione coll'azione, l'energia coll'energia, la fede colla fede; ed essi, deboli, tentennanti, avevano in ogni loro atto rivelato il terrore dell'anima. Quindi la diffidenza cresciuta in seno ai paesi insorti, lo sconforto nell'altre provincie d'Italia, le delusioni diplomatiche e la ineluttabile rovina del moto. Appoggiato unicamente sul principio del non intervento, era caduto con esso.
Il principio del non-intervento era stato, a dir vero, proclamato esplicitamente, solennemente, dal Governo di Francia. Già prima del moto una memoria stesa da parecchi Italiani influenti aveva chiesto all'ambasciatore francese in Napoli, Latour Maubourg, quale sarebbe stata la condotta della Francia se una rivoluzione in Italia provocasse l'intervento armato dell'Austria; e l'ambasciatore aveva scritto in calce di proprio pugno che «La Francia avrebbe difeso la rivoluzione purchè il nuovo Governo non assumesse forme anarchiche e riconoscesse i principî d'ordine generalmente adottati in Europa.»
Latour Maubourg negò nel seguito quella nota; ma, consegnata nei primi giorni del moto al Governo Provvisorio, fu veduta e attestata da un de' suoi membri, Francesco Orioli, nel suo libro stampato nel 1834-35 in Parigi sulla Révolution d'Italie. Poi Lafitte, presidente della Camera dei Deputati, aveva il 1° dicembre 1830, proferito le seguenti parole: «La Francia non permetterà violazione alcuna del principio del non-intervento.... La Santa Alleanza aveva per base di soffocare collettivamente la libertà dei popoli dovunque ne fosse sollevato lo stendardo; il nuovo principio proclamato dalla Francia è quello di concedere incontrastato sviluppo alla libertà ovunque essa sorga spontanea.» Il 15 gennajo, Guizot aveva detto: «Il principio del non-intervento è identico col principio della libertà dei popoli.» Il 22 dello stesso mese, il Ministro degli Esteri aveva dichiarato: «La Santa Alleanza era fondata sul principio d'intervento sovvertitore dell'indipendenza di tutti gli Stati secondarj: il principio opposto che noi abbiamo consecrato e che faremo rispettare, assicura a tutti libertà e indipendenza.» Il 28, le stesse cose erano state ripetute dal Duca di Dalmazia: il 29 da Sebastiani.
Ma se i Capi del moto avevano diritto di credere che non sarebbero stati traditi, avevano pure debito di considerare che nel 1831 una guerra tra l'Austria e la Francia doveva risolversi in guerra generale Europea tra i due principî dell'immobilità e del progresso per mezzo della sovranità nazionale. E in guerra siffatta, se la Francia non aveva che trionfi da mietere, Luigi Filippo correva rischio di perdere ogni cosa, affogato nel moto. L'impulso rivoluzionario dato alla Francia avrebbe travolto la monarchia nel vortice d'una guerra alla quale la natura degli elementi chiamati in azione avrebbe impartito rapidamente il carattere d'una crociata repubblicana; e la monarchia d'allora era debole e senza radici di simpatia popolare in paese. La pace era dunque pegno d'esistenza alla dinastia. Non v'era dunque che un mezzo per costringerlo ad attener le promesse: preparare la resistenza tanto da prolungare una lotta quanto bastasse a sommovere in Francia l'opinione; e adoprarsi a estendere il moto per ogni dove e segnatamente in Piemonte dove l'intervento dell'Austria è inconciliabile, come quello della Prussia nel Belgio, colla tradizione politica della Francia. Pretender di vincere la ripugnanza di Luigi Filippo mostrandosi deboli, era follia; e follia illudersi a credere che il principio del non-intervento avrebbe impedito l'innoltrarsi all'Austria. Anche a rischio di guerra, l'Austria non poteva tollerare che di fronte a' suoi possedimenti Lombardo-Veneti si stabilisse un Governo di libertà. Il Governo dell'insurrezione non preparando la guerra, dava tempo all'Austria per distruggere rapidamente la cagione di lite colla Francia e lo toglieva all'agitazione francese. L'importanza del tempo era stata intesa così bene da Luigi Filippo che sperando repressa l'insurrezione prima che gli si chiedesse conto delle promesse, ei nascose per cinque giorni al Presidente del Consiglio, Lafitte, inetto ma onesto, il dispaccio col quale l'ambasciatore francese in Vienna annunziava l'invasione dell'Austria nell'Italia Centrale.
E nondimeno, i Governi Provvisorî delle provincie insorte avevano adottato l'ipotesi che l'Austria non invaderebbe, ch'essa concederebbe alla rivoluzione d'impiantarsi stabilmente nel core d'Italia; e che tutta la politica della rivoluzione dovea consistere nel non somministrare motivo legittimo all'invasione. Non un atto quindi aveva proclamato la sovranità nazionale, non uno aveva chiamato il popolo all'armi: non uno aveva ordinato il principio d'elezione: non uno aveva confortato ad agire l'altre provincie italiane. La paura trapelava in ogni loro decreto. La rivoluzione v'appariva accettata anzichè proclamata. I Governi Provvisorî di Parma e di Modena avevano dichiarato che avendo i principi abbandonato i loro Stati senza lasciare governo ordinato, il popolo s'era veduto nella necessità di fondarne uno nuovo. Quel di Bologna affermava d'essersi costituito perchè la dichiarazione di Monsignor Clarelli, prolegato, annunziando la di lui intenzione di abbandonare interamente l'amministrazione politica della provincia, era urgente d'evitar l'anarchia. E anche quando la rivoluzione trionfante, secura all'interno, avea suggerito stile più ardito, quel Governo che concentrò in sè a poco a poco la direzione generale del moto, non aveva osato richiamarsi al diritto che vive eterno in ogni popolo, ma s'era affaccendato a desumere la libertà di Bologna dalla tradizione locale, dalla convenzione stretta nel 1447 tra Bologna e il Papa Nicolò V; e un lungo, pedantesco e poco degno scritto del Presidente Vicini, in data del 25 febbrajo10 commentava da legulejo la tradizione. In Parma, a un Fedeli che, scelto a capo della Guardia Nazionale, ricusava, a meno d'un permesso della Duchessa, il Governo aveva concesso lo richiedesse e n'era stato rimeritato da lui poco dopo con una congiura retrograda: poi, nello stremo delle finanze, ordinava si continuassero gli stipendî agli impiegati della Corte scacciata.
Mentre il sorgere dell'Italia Centrale aveva messo in fermento gli spiriti in Napoli, nel Piemonte e per ogni dove tutti aspettavano con ansia che dal centro iniziatore dell'impresa giungesse l'ispirazione del da farsi, il decreto dell'11 febbrajo aveva freddamente annunziato che «Bologna non avrebbe interrotte le antiche relazioni d'amicizia coll'altre contrade, nè concederebbe la menoma violazione dei loro territorî, sperando che in ricambio nessun intervento avrebbe luogo a suo danno: il solo obbligo della difesa potrebbe trascinarla all'azione.» Il Centro aveva con quell'atto rinunziato ad ogni iniziativa, e separato la propria causa da quella d'Italia. E gli uomini di pura ribellione, troppo numerosi tra noi, avevano, sdegnati, abbandonato ogni pensiero d'azione altrove: la gente diplomatizzante anche sull'orlo della sepoltura e cospiratrice all'antica aveva in quel codardo abbandono intraveduto un grande mistero di politica calcolatrice e aveva susurrato per ogni dove: «rimanetevi inerti; perchè, se quei Governi non fossero certi dell'ajuto francese, non agirebbero come fanno.»
Questa illimitata fiducia, in quanto ha sembianza di calcolo o tattica, e la diffidenza perenne dell'entusiasmo, dell'azione e della simultaneità dell'opere, tre cose che racchiudono in sè tutta quanta la scienza della rivoluzione, furono e sono tuttavia piaga mortale alla Italia. Noi seguiamo, aspettiamo, studiamo gli eventi, non ci adopriamo a crearli e padroneggiarli. Onoriamo del nome di prudenza ciò che in sostanza non è se non mediocrità insopportabile di concetto. Lo sconforto che i deputati lombardi avevano, nel 1821, trovato a Torino, li aveva indotti a rinunciare all'azione: operando, avrebbero distrutto quello sconforto.
Il Governo di Bologna, fidando unicamente nelle promesse dell'estero, aveva rinunziato, non all'offesa soltanto, ma alla difesa. La proposta d'ordinare una milizia era stata rigettata. Le fortificazioni d'Ancona non erano state riattate. Il progetto di Zucchi che, giunto a Bologna, aveva ordinato la formazione di sei reggimenti di fanteria e di due di cavalleria era stato attraversato. L'idea, proposta più volte da Sercognani, d'una decisiva impresa su Roma, dove il 12 febbrajo s'erano mostrati sintomi d'insurrezione, era sempre stata respinta. Nè il ministro Armandi11 nè altri aveva saputo intendere l'importanza d'una bandiera di Patria sventolante dal Campidoglio. Il mormorare de' giovani era stato acquetato da promesse continue, non attese mai: il linguaggio severo della stampa, represso da un editto del 12 febbrajo «minacciante condanna finanziaria o di prigione ai venditori di scritti capaci di nuocere alle relazioni di pace e amicizia esistenti coi Governi stranieri.»
E, conseguenza inevitabile del codardo operare, il meschino Governo era stato abbandonato, tradito da tutti. Al conte Bianchetti, mandato a Firenze a interrogare gli ambasciatori di Francia e d'Austria, il Governo Francese non aveva pur degnato rispondere, e corrispondeva amichevolmente col Papa. Il conte di Saint'Aulaire, inviato di Francia a Roma nel marzo, aveva evitato la via di Bologna sfuggendo ad ogni contatto col Governo Provvisorio. L'Austria aveva, aggiungendo l'ironia all'oltraggio, dichiarato che avrebbe invaso Modena e Parma, ma soltanto in virtù di non so qual patto di riversione, e Bologna, purchè si mantenesse saggia, sarebbe stata rispettata. La invasione di Parma, Modena e Reggio aveva avuto luogo: e il 6 marzo il Governo Provvisorio aveva detto: «le cose dei Modenesi non sono le nostre; il non intervento è legge per noi come pei nostri vicini; e nessuno di noi dove immischiarsi nella contesa degli Stati finitimi;» aveva decretato che «quanti stranieri si fossero presentati alle frontiere, si disarmassero e s'internassero;» e i 700 stranieri modenesi, guidati dal Zucchi, avevano dovuto traversare Bologna in sembianza di prigionieri. L'occupazione di Ferrara aveva tenuto dietro a quella di Modena e Parma: Ferrara era parte delle Provincie Unite e aveva sette deputati in Bologna, e nondimeno il governo aveva annunciato, l'8 marzo, il fatto senza commento; il Precursore, organo governativo, aveva il 12 sostenuto la tesi che il principio del non-intervento non era violato, dacchè i trattati di Vienna concedevano all'Austria diritto di guarnigione in Ferrara: due inviati del Governo, Conti e Brunetti, avevano riportato da Ferrara assicurazione verbale di Bentheim che gli Austriaci non si sarebbero inoltrati. Una reggenza pontificia s'era istituita intanto in Ferrara; e il Governo Bolognese aveva sostenuto che tra le operazioni papali e le austriache non era vincolo necessario. Gli Austriaci s'erano presentati alle porte di Bologna il 20; il Governo aveva intimato stessero tutti quieti, la Guardia Nazionale mantenesse l'ordine, solo suo intento; e s'era ritirato in Ancona, dove il 25 marzo, due soli giorni dopo eletto un triumvirato e abdicato quindi ogni potere, aveva capitolato col cardinale Benvenuti, chiedendo amnistia: firmati tutti, fuorchè Carlo Pepoli ch'era assente12. I patti della Capitolazione erano stati, come di ragione, violati, annullati il 5 aprile dal Papa. Gli editti del 14 e del 30 condannavano capi, complici, sostenitori. E dacchè i Governi insultano sempre ai caduti, il 23 giugno Luigi Filippo annunziava nel suo discorso alle Camere ch'egli aveva ottenuto dal Papa piena amnistia per gli insorti. E il 9 luglio una circolare fatta pubblica dalla Francia, dalla Prussia, dal Piemonte e dall'Inghilterra, chiamava altamente colpevoli gli insorti e il loro Governo. Intanto i padroni legittimi degli Italiani violavano la libertà dei mari, catturando la nave che portava in esilio Zucchi e da circa settanta insorti e conducevali nelle prigioni di Venezia; e pubblicavano decreti come il seguente: «qualunque volta, in virtù di denunzie o testimonianze segrete (gli autori delle quali non verranno mai compromessi da confronti o altrimenti) noi otterremo certezza morale di un delitto commesso, noi, invece d'esporre l'individuo rivelatore, ci contenteremo di condannare, per misura di polizia, il colpevole a un castigo straordinario, più mite dell'ordinario, ma al quale sarà sempre aggiunta la pena dell'esilio.» Editto del duca di Modena dell'8 aprile 1832.»
Così gl'infausti moti del 1820, del 1821, del 1831, m'insegnavano gli errori che bisognava a ogni patto evitare. I più, confondendo individui e cose, traevano, dal mal esito, cagione di profondo sconforto. Per me, non ne esciva se non il convincimento che il successo era un problema di direzione e non altro. Il biasimo meritato dagli uomini che avevano diretto ricadeva, dicevano, sul paese: il solo fatto dell'essere essi e non altri saliti al potere, rappresentava per tutti quasi un vizio inerente alle condizioni d'Italia: la media, per così dire, della potenza rivoluzionaria italiana. Io non vedeva in quella scelta se non un errore di logica capace di rimedio. Ed era quello, prevalente anche oggi pur troppo, di fidare la scelta dei capi delle insurrezioni a quei che non le hanno operate. In virtù d'un senso di legalità buono in sè, ma spinto oltre i termini del dovere; per un timore, onorevole nell'origine ma esagerato e improvvido, di soggiacere all'accusa di anarchia o d'ambizione; per un'abitudine tradizionale di fiducia, giusta solamente in condizioni normali, negli uomini provetti d'anni e di nome più o meno illustre nelle loro località; finalmente per una assoluta inesperienza della natura e dello sviluppo dei grandi fatti rivoluzionarî, il popolo e la gioventù avevano ceduto sempre il diritto di dirigere ai primi che, con un'apparenza di legalità, si erano presentati ad esercitarlo. La cospirazione e la rivoluzione erano state sempre rappresentate da due ordini diversi d'uomini: gli uni messi da banda dopo d'avere rovesciato gli ostacoli, gli altri sottentrati il dì dopo a dirigere lo sviluppo d'una idea che non era la loro, d'un disegno che non avevano maturato, d'un'impresa della quale non avevano studiato mai le difficoltà o gli elementi e colla quale non si erano, nè per sacrificio nè per entusiasmo, immedesimati. Quindi l'andamento del moto trasformato in un subito. Così, nel 1821, in Piemonte, lo sviluppo del concetto rivoluzionario era stato affidato ad uomini i quali, come Dal Pozzo13, Villamarina, Gubernatis, erano rimasti stranieri alla cospirazione. Così in Bologna s'erano accettati a membri del governo provvisorio uomini approvati dal governo stesso che si rovesciava: il loro titolo era un editto di monsignore Paracciani Clarelli. Così generalmente, i consigli d'amministrazione comunale, assunto il nome di consessi civici, s'erano dichiarati rappresentanti legali del popolo e avevano eletto, senza dritto alcuno, le autorità provvisorie. Ora predominavano in questi Consigli gli uomini di età canuta, nudriti di vecchie idee, sospettosi della gioventù e atterriti ancora degli eccessi della Rivoluzione Francese; il loro liberalismo era quello ch'oggi chiamano moderato, fiacco, pauroso, capace d'una timida, legale opposizione su particolari, non risalente mai a principî. E sceglievano naturalmente uomini di tendenze affini, discendenti di vecchie famiglie, professori, avvocati di molti clienti, diseredati dell'intelletto, dell'entusiasmo, dell'energia che compiono le rivoluzioni. I giovani, fidenti, inesperti, cedevano: dimenticavano l'immensa diversità che corre tra i bisogni d'un popolo servo e d'un popolo libero e che difficilmente gli uomini, i quali rappresentarono gli interessi individuali o municipali del primo sono atti a rappresentare gli interessi politici o nazionali dell'ultimo.
Per riflessioni siffatte, deliberai finalmente di seguire l'istinto mio e fondai la Giovine Italia, dandole per base il seguente Statuto