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DELLA
Se un Giornale a noi Italiani esuli raminghi, e sbattuti dalla fortuna fra gente straniera, senza conforto fuorchè di speranza, senza pascolo all'anima fuorchè d'ira e dolore, non dovesse riuscire che sfogo sterile, noi taceremmo. Fra noi, finora, s'è speso anche troppo tempo in parole: poco in opere; e se non guardassimo che a' suggerimenti dell'indole propria, il silenzio ci parrebbe degna risposta alle accuse non meditate, e alla prepotenza de' nostri destini; il silenzio che freme e sollecita l'ora della giustificazione solenne; ma guardando alle condizioni presenti, e al voto, che i nostri fratelli ci manifestano, noi sentiamo la necessità di rinnegare ogni tendenza individuale a fronte del vantaggio comune: noi sentiamo urgente il bisogno di alzare una voce libera, franca e severa che parli la parola della verità ai nostri concittadini, e ai popoli che contemplano la nostra sventura.
Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principî, che colle bajonette: dapprima nell'ordine morale, poi nel materiale. Le bajonette non valgono se non quando rivendicano, o tutelano un diritto: e diritti e doveri nella società emergono tutti da una coscienza profonda, radicata nei più: la cieca forza può generare vittime e martiri e trionfatori; ma il trionfo, collochi la sua corona sulla testa d'un re o d'un tribuno, quand'osta al volere dei più, rovina pur sempre in tirannide.
I soli principî, diffusi e propagati per via di sviluppo intellettuale nell'anime, manifestano nei popoli il diritto alla libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge alla forza. Quindi l'urgenza dell'istruzione.
La verità è una sola. I principî che la compongono sono pochi: enunciati per la più parte. Bensì le applicazioni, le deduzioni, le conseguenze de' principî sono molteplici; nè intelletto umano può afferrarle tutte ad un tratto, nè afferrate, comprenderle intelligibili e coordinate, in un quadro limitato e assoluto. I potenti d'ingegno e di core cacciano i semi d'un grado di progresso nel mondo; ma non fruttano che per lavoro di molti uomini ed anni. La umanità non si educa a slanci; ma per via d'applicazioni lunghe e minute, scendendo a particolari e paragonando fatti e cagioni, impara le sue credenze. Un Giornale, opera successiva, progressiva e vasta di proporzioni, opera di molti che convengono a un fine determinato, opera, che non rifiuta alcun fatto, bensì li segue nell'ordine del tempo e li afferra, e ne trae, svolgendoli per ogni lato, l'azione de' principî immutabili delle cose, sembra il genere più efficace e più popolare d'insegnamento, che convenga alla moltiplicità degli eventi, e alla impazienza dei nostri tempi.
In Italia come in ogni paese che aspira a ricrearsi v'è un urto di elementi diversi, di passioni che assumono forme varie, d'affetti tendenti in sostanza a uno stesso fine, ma con modificazioni presso che all'infinito. Molti, anime alteramente sdegnose, abborrono lo straniero, e gridano libertà soltanto perchè lo straniero la vieta. Ad altri la idea della riunione d'Italia sorride unica, nè ad essi increscerebbe il concentrarne le membra sotto l'impero d'una volontà forte, foss'anche di tiranno cittadino, o straniero. Alcuni paurosi delle grandi scosse, e diffidando di potere senza lunghi travagli soffocare ad un tratto tutti quanti gl'interessi privati e le gare di provincia a provincia, si arretrano davanti al grido d'unione assoluta, e accetterebbero una divisione che minorasse non foss'altro il numero delle parti. Pochi intendono, o pajono intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero all'Italia, se i tentativi non s'avviino sulle tre basi inseparabili dell'Indipendenza, della Unità, della Libertà. Pur questi pochi aumentano ogni dì più, e assorbiranno rapidamente tutte l'altre opinioni. L'abborrimento al Tedesco, la smania di scuotere il giogo, e il furore di Patria sono passioni universalmente diffuse, e le transazioni, che la paura, e i falsi calcoli diplomatici vorrebbero persuaderci, sfumeranno davanti alla maestà del voto nazionale. Però la questione sotto questo aspetto vive e s'agita fra l'ardire generoso che tenta il moto, e la tirannide che fa l'ultime prove e le più tremende.
Non così sui mezzi, pei quali può conseguirsi l'intento, e tramutarsi la insurrezione in vittoria stabile ed efficace. Una classe di uomini influenti per autorità e per ingegno civile contende doversi procedere nella rivoluzione colle cautele diplomatiche, anzichè colla energia della fede, e d'una irrevocabile determinazione. Ammettono i principî, rifiutano le conseguenze; deplorano i mali estremi, e proscrivono gli estremi rimedî: vorrebbero condurre i popoli alla libertà coll'arti, non colla ferocia della tirannide. Nati, cresciuti, educati a' tempi, nei quali la coscienza degli uomini liberi era in Italia privilegio di pochi, diffidano della potenza d'un popolo che sorge a rivendicare gloria, diritti, esistenza; diffidano dell'entusiasmo, diffidano d'ogni cosa, fuorchè dei calcoli de' gabinetti che ci hanno mille volte venduti, e dell'armi straniere che ci hanno mille volte traditi. Non sanno che gli elementi d'una rigenerazione fermentano in Italia da mezzo secolo, e ch'oggi il desiderio del meglio è fremito di moltitudini. Non sanno che un popolo schiavo da molti secoli non si rigenera se non colla virtù, o colla morte. Non sanno che ventisei milioni d'uomini, forti di giustizia, e di una volontà ferma, sono invincibili. Diffidano della possibilità di riunirli tutti ad un solo voto; ma essi, tentarono forse l'impresa? Si mostrarono decisi a sotterrarsi per essa? Bandirono la crociata italiana? Insegnarono al popolo che non v'era se non una via di salute; che il moto operato per esso dovea sostenersi da esso; che la guerra era inevitabile, disperata, senza tregua fuorchè nel sepolcro, o nella vittoria? No: ristettero quasi attoniti della grandezza dell'opera, o camminarono tentennando, come se la via gloriosa che essi calcavano fosse via d'illegalità, o di delitto. Illusero il popolo a sperare nell'osservanza di principî ch'essi traevano dagli archivi de' congressi o da' gabinetti: addormentarono l'anime bollenti, che anelavano il sacrificio fecondo, nella fede degli ajuti stranieri: consumarono nella inerzia, o in discussioni di leggi che non sapevano come difendere, un tempo che doveva consecrarsi tutto a fatti magnanimi, e all'armi. Poi, quando delusi nei loro calcoli, traditi dalla diplomazia, col nemico alle porte, colla paura nel core, non videro che una via d'ammenda generosa all'errore, la morte su' loro scanni, rinnegarono anche quella, e fuggirono. Ora negano la fede nella nazione, mentr'essi non tentarono mai suscitarla coll'esempio: deridono l'entusiasmo, ch'essi hanno spento coll'incertezza e colla codardia. Sia pace ad essi però che non traviarono per tristo animo; ma dovevano essi assumere il freno d'una intrapresa, che non s'attentavano neppure di concepire nella sua vasta unità?
Ma nelle rivoluzioni ogni errore è gradino alla verità. Gli ultimi fatti hanno ammaestrato la crescente generazione più che non farebbero volumi di teoriche, e noi lo affermiamo, coi moti Italiani del 1831, s'è consumato il divorzio tra la Giovine Italia e gli uomini del passato.
Forse a convincere gl'Italiani, che Dio e la fortuna stanno coi forti e che la vittoria sta sulla punta della spada, non nelle astuzie de' protocolli, si volea quest'ultimo esempio, dove la fede giurata sui cadaveri di sette mila cittadini fu convertita in patto d'infamia e di delusione. Forse a insegnare che un popolo non deve aspettare libertà da gente straniera, non bastava la vicenda di dieci secoli, nè il grido dei padri caduti maledicendo: e si voleva lo spergiuro d'uomini liberi insorti sei mesi prima contro ad uno spergiuro, poi l'esilio, le persecuzioni, e lo scherno. Ora, l'Italia del XIX secolo sa che la unità dell'impresa è condizione senza la quale non è via di salute: che una rivoluzione è una dichiarazione di guerra a morte fra due principî: che i destini dell'Italia hanno a decidersi sulle pianure Lombarde, e la pace a fermarsi oltre l'Alpi: che non si combatte, nè si vince senza le moltitudini, e che il segreto per concitarle sta nelle mani degli uomini che sanno combattere e vincere alla loro testa: che a cose nuove si richiedono uomini nuovi, non sottomessi all'impero di vecchie abitudini o di antichi sistemi, vergini d'anima e d'interessi, potenti d'ira e d'amore, e immedesimati in una idea: che il segreto della potenza sta nella fede, la virtù vera nel sagrificio, la politica nell'essere e mostrarsi forti.
Questo sa la Giovine Italia, e intende l'altezza della sua missione, e l'adempirà, noi lo giuriamo per le mille vittime, che si succedono instancabili da dieci anni a provare, che colle persecuzioni non si spengono, bensì si ritemprano le opinioni: lo giuriamo per lo spirito che insegna il progresso, pei giovani combattenti di Rimini, pel sangue de' martiri Modenesi. V'è tutta una religione in quel sangue: nessuna forza può soffocare la semenza di libertà, però ch'essa ha germogliato nel sangue dei forti. Oggi ancora la nostra è la religione del martirio: domani sarà la religione della vittoria.
E a noi giovani, e credenti nell'istessa fede, corre debito di soccorrere alla santa causa in tutti i modi possibili. Poichè i tempi ci vietano l'opre del braccio, noi scriveremo. La Giovine Italia ha bisogno d'ordinare a sistema le idee che fremono sconnesse e isolate nelle sue file: ha bisogno di purificare d'ogni abitudine di servaggio, d'ogni affetto men che grande, questo elemento nuovo e potente di vita che la spinge a rigenerarsi: e noi, fidando nell'ajuto Italiano, tenteremo di farlo: tenteremo di farci interpreti di quanti bisogni, di quante sciagure, di quante speranze costituiscono la Italia del secolo XIX.
Noi intendiamo di pubblicare, con forme e patti determinati, una serie di scritti tendenti a cotesto scopo, e a norma de' principî che abbiamo accennati.
Noi non rifiuteremo gli argomenti filosofici, e letterarî: l'unità è prima legge dell'intelletto. La riforma d'un popolo non ha basi stabili se non posa sull'accordo nelle credenze, sul complesso armonico delle facoltà umane; e le lettere, contemplate come un sacerdozio morale, sono espressione della verità dei principî, mezzo potente di incivilimento.
Rivolti principalmente all'Italia, noi non ci allargheremo nella politica forestiera e negli eventi europei, se non quanto giovi a promuovere la educazione e l'esperienza italiana, se non quanto giovi ad accrescere infamia agli oppressori del mondo, o a stringer più fermo il vincolo di simpatia che deve raccogliere in una fratellanza di voti e d'opere gli uomini liberi di tutte le contrade.
Una voce ci grida: la religione della umanità è l'Amore. Dove due cori battono sotto lo stesso impulso, dove due anime s'intendono nella virtù, ivi è patria. E noi non rinnegheremo il più bel voto dell'epoca, il voto dell'associazione universale tra' buoni; ma un sangue gronda dalle piaghe, aperte dalla fede nello straniero, che noi non possiamo dimenticare ad un tratto. L'ultima voce dei traditi si frappone tra noi e le nazioni che ci hanno finora venduti, negletti, o sprezzati. Il perdono è la virtù della vittoria. L'amore vuole equilibrio di potenza e di stima. Però, noi, rifiutando pur sempre l'ajuto e la compassione dello straniero, gioveremo allo sviluppo del sentimento europeo col mostrarci, non foss'altro, quali noi siamo, nè ciechi nè vili, ma sfortunati; e cacciando sulla mutua stima le basi della futura amicizia. L'Italia non è conosciuta. La vanità, la leggerezza, la necessità di crear discolpe ai delitti han fatto a gara per travisare fatti, passioni, costumanze e abitudini. Noi snuderemo le nostre ferite: mostreremo allo straniero di qual sangue grondi quella pace alla quale ci sacrificarono le codardie diplomatiche: diremo gli obblighi che correvano a' popoli verso di noi, e gl'inganni che ci han posto in fondo: trarremo dalle carceri e dalle tenebre del dispotismo i documenti della nostra condizione, delle nostre passioni, e delle nostre virtù: scenderemo nelle fosse riempiute dell'ossa de' nostri martiri, e scompiglieremo quell'ossa, ed evocheremo que' grandi sconosciuti, ponendoli davanti alle nazioni, come testimonî muti dei nostri infortunî, della nostra costanza, e della loro colpevole indifferenza. Un gemito tremendo di dolore, e d'illusioni tradite sorge da quella rovina, che l'Europa contempla fredda, e dimentica che da quella rovina si diffondeva ad essa due volte il raggio dell'incivilimento, e della libertà. E noi lo raccorremo quel gemito, e lo ripeteremo alla Europa, ond'essa v'impari tutta l'ampiezza del suo misfatto, e diremo a' popoli: queste son l'anime che voi avete trafficate sinora: questa è la terra che avete condannata alla solitudine e all'eternità del servaggio! (1831).
Le obbiezioni a noi più frequenti movevano, singolare a dirsi, dalla credenza radicata nei più tra gli uomini delle insurrezioni passate e nei mezzi ingegni della Penisola, che l'Unità fosse utopia ineseguibile e avversa alle tendenze storiche degli Italiani. Tra gli oppositori e me il fatto ha deciso. Ma allora, quando il dissenso era nelle classi dette educate, pressochè universale - quando i Governi di tutta Europa mantenevano la teoria di Metternich che facea dell'Italia una espressione puramente geografica, e gli uomini più noti in Francia ed altrove per tendenze repubblicane ostili ai Trattati e invocanti rivoluzione parteggiavano pel federalismo come solo possibile tra noi - le cagioni di dubbio erano molte davvero. Armand Carrel e gli uomini del National insinuavano i vantaggi delle confederazioni in Italia, nella Spagna, in Germania. Buonarroti e gli uomini che cospiravano intorno a lui erano teoricamente favorevoli alle Unità Nazionali; ma la loro decisione irrevocabile, intollerante, che nessun popolo dovesse mai movere se non dopo la Francia, rendeva illusoria l'idea e minacciava spegnerla in germe. Il vero è che mancava a tutti in quel periodo di concitamento europeo l'intuizione dell'avvenire. Il moto era, più che d'altro, di libertà. Pochi intendevano che libertà vera e durevole non può conquistarsi all'Europa se non da popoli compatti, forti, equilibrati di potenza e non ridotti dal terrore d'una invasione a mendicare con turpi concessioni un'alleanza proteggitrice o sviati da speranze d'ajuti per lo scioglimento d'una od altra questione territoriale a imparentare la libertà propria coll'altrui dispotismo: pochissimi intendevano che l'invocata associazione dei popoli pel progresso ordinato e pacifico dell'Umanità tutta quanta esigeva prima condizione che i popoli fossero. E popoli non sono dove pel congiungimento forzato di razze o famiglie diverse manca l'unità della fede e dell'intento morale che soli costituiscono le nazioni. Il riparto d'Europa, come i Trattati del 1815 l'avevano sancito, frapponeva, colla eccessiva potenza degli uni e la debolezza degli altri, colla necessità d'appoggiarsi a ogni patto su qualunque grande Potenza s'offrisse creata ai piccoli Popoli e col germe delle divisioni interne lasciato vivo in seno a quasi ciascuna Nazione, un ostacolo insormontabile a ogni sviluppo normale e securo di libertà. Rifare la Carta d'Europa e riordinare i popoli a seconda della missione speciale assegnata a ognun d'essi dalle condizioni geografiche, etnografiche, storiche, era dunque il primo passo essenziale per tutti. A me la questione delle Nazionalità pareva chiamata a dare il suo nome al secolo e restituire all'Europa una potenza d'iniziativa pel bene che non esisteva più da quando Napoleone aveva, cadendo, conchiuso un'epoca intera. Ma quei presentimenti non erano se non di pochissimi. Quindi la questione d'Unità che stava in cima de' miei pensieri non era guardata siccome importante, e gli ostacoli apparenti inducevano facilmente i nostri a sagrificarla. In Francia l'istinto, inconsciamente dominatore non delle moltitudini, ma degli ingegni, accarezzava allora, come sempre, teorie e disegni che miravano a ordinare intorno alla Francia Una e forte, libere, ma deboli confederazioni.
Bensì, a me per verificare le probabilità del mio concetto importava, più assai che non il voto dei mezzi ingegni stranieri e nostri, l'istinto delle moltitudini e dei giovani ignoti a contatto con esse in Italia. Mi diedi dunque, tra un articolo e l'altro, a impiantare l'Associazione segreta. Mandai Statuti, Istruzioni, avvertenze d'ogni genere ai giovani amici lasciati in Genova e in Livorno. Là, mercè i Ruffini in Genova, Bini e Guerrazzi in Livorno, s'impiantarono le prime Congreghe. Così chiamavamo con nome desunto dai ricordi di Pontida i nostri nuclei di direzione.
L'ordinamento era, quanto più si poteva, semplice e schietto di simbolismo. Respinta l'interminabile gerarchia del Carbonarismo, l'associazione non avea che due gradi: Iniziatori e Iniziati: erano iniziatori quanti, oltre la devozione ai principî, avevano intelletto abbastanza prudente per scegliere nuovi membri da affratellarsi; iniziati semplici gli uomini ai quali era sottratta la facoltà di affigliare. Un Comitato Centrale all'estero, destinato a tenere sollevata in alto la bandiera dell'Associazione, a stringere quanti più vincoli fosse possibile tra l'Italia e gli elementi democratici stranieri, e a dirigere generalmente l'impresa: - Comitati interni, dirigenti la cospirazione pratica nei particolari, impiantati nei capoluoghi delle provincie importanti: - un Ordinatore in ogni città posto a centro degli Iniziatori: - poi gli affratellati divisi in drappelli ineguali di numero capitanati dagli Iniziatori; - era questa l'ossatura della Giovine Italia. La corrispondenza correva quindi dagli Iniziati agli Iniziatori, da questi, separatamente per ciascuno, all'Ordinatore; dagli Ordinatori alla Congrega della loro circoscrizione, dalle Congreghe al Comitato Centrale. Eliminati come soverchiamente pericolosi i segni di conoscimento tra gli affratellati, una parola convenuta, una carta tagliuzzata, un tocco speciale di mano accreditavano i viaggiatori dal Comitato Centrale ai Comitati provinciali e da questi a quello: mutabili per trimestre. Le contribuzioni mensili, alle quali ogni affratellato s'astringeva a seconda dei mezzi, rimanevano pei due terzi nelle Casse dell'interno: un terzo rifluiva, o più esattamente dovea rifluire nella Cassa Centrale per supplire alle spese d'ordine generale. La stampa doveva alimentarsi da sè colla vendita degli scritti. Un ramoscello di cipresso era, in memoria dei Martiri, il simbolo dell'Associazione. Il motto generale ora e sempre accennava alla costanza necessaria all'impresa. La bandiera della Giovine Italia portava da un lato, scritte sui tre colori italiani, le parole: Libertà, Eguaglianza, Umanità e dall'altro: Unità e Indipendenza: indicatrici le prime della missione internazionale Italiana, le seconde della nazionale. Dio e l'Umanità fu fin dai primi giorni dell'Associazione la formola da essa adottata in tutte le sue relazioni esterne: Dio e il Popolo la formola per tutti i lavori risguardanti la Patria. Da questi due principî, applicazioni a due sfere diverse d'un solo, l'Associazione deduceva tutte le sue credenze religiose, sociali, politiche, individuali. Prima fra tutte le Associazioni politiche di quel tempo, la Giovine Italia mirava a comprendere in un solo concetto tutte le manifestazioni della vita Nazionale e a dirigerle tutte, dall'alto d'un principio religioso: la missione fidata alla creatura, verso un unico fine, l'emancipazione della Patria, e il suo affratellamento coi Popoli liberi.
Le istruzioni che io in quel primo periodo dell'Associazione andava inculcando ai Comitati, agli Ordinatori e a quanti giovani venivano a contatto con me, erano in parte morali, in parte politiche.
Le morali sommavano, mutate le parole, a questo: «Noi siamo non solamente cospiratori, ma credenti: aspiriamo ad essere, non solamente rivoluzionarii ma per quanto è in noi rigeneratori. Il nostro è problema d'educazione nazionale anzi tutto: l'armi e l'insurrezione non sono se non mezzi senza i quali, mercè le nostre condizioni, è impossibile scioglierlo: ma noi non invochiamo le bajonette se non a patto ch'esse portino sulla punta un'idea. Poco ci importerebbe distruggere, se non avessimo speranza di fondare il meglio: poco di scrivere doveri e diritti sopra un brano di carta se non avessimo intento e fiducia di stamparli nell'anime. Questo neglessero i nostri padri; questo dobbiam noi aver sempre davanti la mente. Determinare i diversi Stati d'Italia a insorgere, non basta; si tratta di crear la Nazione. Noi crediamo religiosamente che l'Italia non ha esaurito la propria vita nel mondo, essa è chiamata a introdurre ancora nuovi elementi nello sviluppo progressivo dell'Umanità e a vivere d'una terza vita; noi dobbiamo mirare a iniziarla. Il materialismo non può generare in politica se non la dottrina dell'individuo, buona forse ad assicurare - e appoggiandosi sulla forza - l'esercizio di alcuni diritti personali, ma impotente a fondare la nazionalità e l'associazione, ch'esigono fede in una unità d'origine, di legge, di fine: lo respingiamo. Noi dobbiamo tendere a rannodare la tradizione filosofica italiana dei secoli XVI e XVII, tradizione di sintesi e spiritualismo; a ravvivare le forti credenze, e risuscitare nel core degli italiani la coscienza dei fatti della nazione; a dar loro con quella coscienza coraggio, potenza di sagrificio, costanza, concordia d'opera.»
E le Istruzioni politiche ripetevano:
«Il partito più forte è il partito più logico. Non vi contentate d'un semplice senso di ribellione nei vostri; o d'incerte, indefinite dichiarazioni di liberalismo: chiedete a ciascuno la sua credenza e non accettate se non gli uomini la credenza dei quali è concorde colla vostra. Non fate assegnamento sul numero, ma sull'unità delle forze. Il nostro è un esperimento sul nostro popolo: ci rassegniamo alla possibilità di trovarci delusi nelle nostre speranze, ma non al pericolo di vedere sorgere tra noi la discordia il dì dopo l'azione. La vostra è bandiera nuova: cercatele sostenitori fra' giovani: è in essi entusiasmo, capacità di sagrificio, energia. Dire loro tutta quanta la verità, tutto ciò che vogliamo. Saremo certi d'essi s'accettano. Supremo errore del passato fu quello di fidare le sorti del paese agli individui più che ai principî: combattetelo: predicate fede, non nei nomi ma nelle moltitudini, nel diritto, in Dio. Insegnate a scegliere i capi tra quei che avranno attinto le inspirazioni nella rivoluzione, non nella condizione di cose anteriori. Ponete a nudo gli errori del 1831: non tacete alcuna delle colpe dei capi. Ripetete sempre che la salute d'Italia sta nel suo popolo. E la leva del popolo sta nell'azione, nell'azione continua, rinnovata sempre senza sconfortarsi o atterrirsi delle prime disfatte. Fuggite le transazioni: sono quasi sempre immorali e per giunta inutili. Non v'illudete a poter evitare guerra, guerra inesorabile, feroce, dall'Austria: fate invece, quando vi sentirete forti, di provocarla: l'offensiva è la guerra delle rivoluzioni; assalendo, inspirerete paura al nemico, fiducia e ardore agli amici. Non abbiate speranza nei Governi stranieri: se potrete mai averne un ajuto non sarà se non a patto di convincerli prima che siete forti e capaci di vincer senza essi. Non fidate nella diplomazia; sviatela lottando, e pubblicando ogni cosa. Non insorgete mai se non in nome d'Italia e per l'Italia tutta quanta è. Se vincerete la prima battaglia in nome d'un principio e con forze vostre, sarete iniziatori tra i popoli e li avrete compagni nella seconda. E se cadrete avrete almeno promosso l'educazione del paese: lascerete sulla vostra tomba un programma per la generazione che terrà dietro alla vostra.»
Vivono ancora molti degli uomini ch'ebbero in quel tempo contatto con me; e possono dire se il mio linguaggio non era tale.
L'esperimento riuscì. - Il popolo confutò i mezzi ingegni.
I Comitati si costituirono rapidamente nelle principali città di Toscana. In Genova, i Ruffini, Campanella, Benza ed altri pochi che accettarono l'ufficio di diffondere l'associazione, erano pressochè ignoti, giovani assai e senza mezzi di fortuna od altro che potesse conquistare ad essi influenza. E nondimeno da studente a studente, da giovine a giovine, l'affratellamento si diffuse più assai rapidamente che non era da sperarsi. I primi nostri scritti supplirono all'influenza personale. Quanti potevano leggerli, s'affratellavano. Era la vittoria delle idee sostituita alla potenza dei nomi o al fascino del mistero. Le nostre trovavano un'eco, rispondevano visibilmente a una aspirazione fino allora inconscia e dormente nel core dei giovani. E bastava per rinfrancarci, e segnarci doveri che in verità noi tutti, piccola falange di precursori, per quanto concerne operosità instancabile e sagrificio, compiemmo. Dall'associazione dei San Simoniani in fuori, alla quale la semplice pretesa di religione inspirava appunto in quei tempi più assai potenza di sagrificio e d'amore che non n'ebbero tutte le società democratiche puramente politiche, io non vidi - e lo dico per debito ad uomini che morirono o vivono noncuranti di fama e pressochè ignoti - nucleo di giovani devoti con tanto affetto reciproco, con tanta verginità d'entusiasmo, con tanta prontezza a fatiche d'ogni giorno, d'ogni ora, come quello che s'adoprava allora con me. Eravamo, Lamberti, Usiglio, un Lustrini, G. B. Ruffini ed altri cinque o sei modenesi quasi tutti soli, senza ufficio, senza subalterni, immersi l'intero giorno e gran parte della notte nella bisogna, scrivendo articoli e lettere, interrogando viaggiatori, affratellando marinai, piegando fogli di stampa, legando involti, alternando tra occupazioni intellettuali e funzioni d'operai: La Cecilia, allora dirittamente buono, s'era fatto compositore di stampa: Lamberti, correttore; tal altro letteralmente facchino per economizzarci la spesa del trasporto dei fascicoli a casa. Vivevamo eguali e fratelli davvero, d'un solo pensiero, d'una sola speranza, d'un solo culto all'ideale dell'anima; amati, ammirati per tenacità di proposito e facoltà di lavoro continuo dai repubblicani stranieri: spesso - dacchè spendevamo, per ogni cosa, del nostro - fra le strette della miseria, ma giulivi a un modo e sorridenti d'un sorriso di fede nell'avvenire. Furono, dal 1831 al 1833, due anni di vita giovine, pura e lietamente devota, com'io la desidero alla generazione che sorge. Avevamo guerra accanita abbastanza e pericoli, com'ora dirò, ma da nemici dai quali l'aspettavamo. La misera tristissima guerra d'invidie, d'ingratitudini, di sospetti e calunnie da uomini di patria e spesso di parte nostra, l'abbandono immeritato d'antichi amici, la diserzione dalla bandiera, non per nuovo convincimento, ma per fiacchezza, vanità offesa e peggio, di quasi una intera generazione che giurava in quelli anni con noi, non aveva ancora non dirò sfrondato o disseccato l'anime nostre, amorevoli oggi e credenti siccome allora, ma insegnato a noi pochi
il lavoro senza conforto di speranza individuale, per sola riverenza al freddo, inesorabile, scarno dovere. - E Dio ne salvi quei che verranno.
Il contrabbando delle nostre stampe in Italia era faccenda vitale per l'Associazione e grave per noi. Un giovane Montanari che viaggiava sui vapori di Napoli rappresentandone la Società, e morì poi di colèra nel Mezzogiorno di Francia, altri, impiegati sui vapori francesi, ci giovavano mirabilmente. E finchè l'ira dei Governi non fu convertita in furore, affidavamo ad essi gli involti, contentandoci di scrivere sull'involto destinato per Genova, un indirizzo di casa commerciale non sospetta in Livorno, su quello che spettava a Livorno un indirizzo di Civitavecchia e via così: sottratto in questo modo l'involto alla giurisdizione doganale e poliziesca del primo punto toccato, l'involto serbavasi dall'affratellato sul battello, finchè i nostri, avvertiti, non si recavano a bordo dove si ripartivano le stampe celandole intorno alla persona. Ma quando, svegliata l'attenzione, crebbe la vigilanza e furono assegnate ricompense a chi sequestrasse, e pronunziato minacce tremendo agli introduttori - quando la guerra inferocì per modo che Carlo Alberto, con editti firmati dai ministri Caccia, Pensa, Barbaroux, Lascaréne, intimò a chi non denunzierebbe , due anni di prigione e una ammenda, promettendo al delatore metà della somma e il segreto - cominciò fra noi e i governucci d'Italia un duello che ci costava sudori e spese, ma che proseguimmo con buona ventura. Mandammo i fascicoli dentro barili di pietra pomice, poi nel centro di botti di pece intorno alle quali lavoravamo, in un magazzinuccio affittato, la notte: le botti, dieci o dodici, si spedivano numerate per mezzo d'agenti commerciali ignari a commissionarî egualmente ignari nei luoghi diversi, dove taluno dei nostri avvertito dell'arrivo, si presentava a mercanteggiare la botte che indicava col numero il contenuto. Cito un solo dei molti ripieghi che andavamo ideando.
Avevamo del resto ai contrabbandi l'ajuto di qualche repubblicano francese e segnatamente della marineria dei legni mercantili italiani, buona allora com'oggi, e verso la quale avevamo con attività grande diretto il nostro lavoro. Primi fra i migliori erano gli uomini di Lerici, e ricordo con affetto e ammirazione come ad esempio un tipo mirabile di popolano, Ambrogio Giacopello, che perdè nave e ogni cosa per averci contrabbandato sulle coste liguri duecento fucili, e mi rimase amico devoto. Credo ch'ei viva tuttavia in Marsiglia, e vorrei che potessero cadergli sott'occhio queste mie linee. So ch'egli sarebbe lieto del mio ricordo. Non ho mai trovato ingratitudine e oblio nei popolani d'Italia.
Incapace d'impedire la circolazione dei nostri scritti all'interno, i Governi d'Italia tentarono di soffocare la nostra voce in Marsiglia, e si rivolsero al Governo Francese. E il Governo Francese che, riconosciuto da tutti, non aveva più cagione d'impaurire il dispotismo Europeo, annuì alle richieste. Ma quella persecuzione non impedì menomamente il progresso del nostro lavoro. L'ordinamento si diffuse rapidamente da Genova alle Riviere, a parecchie località del Piemonte e a Milano, dalla Toscana alle Romagne. I Comitati si moltiplicarono. Le comunicazioni segrete si stabilirono regolari e possibilmente sicure fino alle frontiere napoletane. I viaggiatori da una provincia all'altra corsero frequenti a infervorare gli animi e trasmettere le nostre istruzioni. La sete di stampati fu tale che, non bastando i nostri, stamperie clandestine s'impiantarono su due o tre punti d'Italia: ristampavano cose nostre o diramavano brevi pubblicazioni inspirate dalle circostanze locali. La Giovine Italia, accettata con entusiasmo, diventava in meno d'un anno associazione dominatrice su tutte l'altre in Italia.
Era il trionfo dei principî. Il nudo fatto che in così breve tempo pochi giovani, ignoti, sprovveduti di mezzi, esciti dal popolo, avversi pubblicamente nelle dottrine e nelle opere a quanti avevano, per voto di popolo e influenza riconosciuta, capitanato fin allora il moto politico, si trovassero capi d'una associazione potente tanto da concitarsi contro la trepida persecuzione di sette Governi, bastava, parmi, a provare che la bandiera inalzata era la bandiera del vero - (1861).
Il decreto ministeriale che, per compiacere ai governi dispotici d'Italia, m'esiliava di Francia, mi colse nell'agosto del 1832. Importava continuare in Marsiglia, dov'erano ordinate le vie di comunicazione coll'Italia, la pubblicazione dei nostri scritti. Però determinai di non ubbidire e mi celai, lasciando credere ch'io partiva.
Gli esuli di tutte le Nazioni erano allora accantonati con un misero sussidio nei dipartimenti e sottomessi, in virtù di quel sussidio, a leggi speciali che ricordavano i sospetti dell'antica rivoluzione e somigliavano a quelle che poi costituirono la classe degli attendibili nel Mezzogiorno d'Italia. Io non riceveva sussidio governativo e mandai quindi alla Tribune, giornale repubblicano d'allora, la protesta seguente:
«Quando vige un sistema fondato sulle eccezioni, quando diritti di domicilio e di libertà individuale sono manomessi da una legge ingiusta anche più ingiustamente applicata, quando accusa, giudizio e condanna emanano da uno stesso potere, o senza possibilità di difesa, quando lo sguardo cacciato intorno non s'abbatte che in esempî di tirannide e di sommessione, è debito d'ogni uomo ch'abbia senso di dignità di protestare altamente.
«E scopo della protesta non è un tentativo di difesa inutile e impotente, nè un desiderio di movere a simpatia quei che soffrono essi pure gli stessi mali, ma il bisogno d'infamare davanti agli uomini il Potere che abusa della propria forza, di rivelare al paese, nel quale l'ingiustizia è commessa, le turpitudini di chi governa, d'aggiungere un documento a quelli sui quali un popolo presto o tardi condanna quei che lo tradiscono e lo disonorano.
«Per queste ragioni io protesto.
«I Giornali parlarono dell'Ordine che m'è dato dal Ministero Francese e dei motivi sui quali è fondato.
«Io sono accusato di cospirare per l'emancipazione del mio paese, cercando di suscitarvi gli animi con lettere e stampati segretamente introdotti: sono accusato di mantenere corrispondenza con un Comitato repubblicano in Parigi, e d'avere avuto, io Italiano privo di relazioni e di mezzi e risiedente in Marsiglia, contatto pericoloso allo stato coi combattenti del chiostro di S. Mery.
«Non respingerò io di certo la responsabilità della prima accusa. Se cercare di diffondere utili verità, per via di stampa, nella propria patria ha nome di cospirazione, io cospiro. Se l'esortare i propri concittadini a non addormentarsi nella servitù, a durare combattendola, a vegliare e afferrare, appena s'affacci, il momento propizio per conquistarsi nome di patria e Governo Nazionale, è cospirazione, io cospiro. Ogni uomo ha debito di cospirare per l'onore e la salute de' suoi fratelli. E nessun Governo che s'intitoli libero ha diritto di trattare come colpevole l'uomo che compie quel sacro dovere. Soli gli uomini dello stato d'assedio possono rinnegare principî siffatti14.
«Ma della seconda accusa ove stanno le prove?
«I dispacci ministeriali citano alcuni estratti di lettere che s'affermano scritti da me agli amici dell'interno, e, a quanto dicesi, sequestrate.
«Quelle lettere contengono, a detta del ministero, rivelazioni sulle giornate del 5 e del 6 di giugno. Esse dichiarano che i fatti di quei due giorni non hanno danneggiato in modo alcuno la parte repubblicana di Francia; che il tentativo fallì unicamente perchè i patrioti dei Dipartimenti, che dovevano trovarsi in Parigi, mancarono alla promessa; che nondimeno si sta maturando un altro non remoto disegno d'insurrezione; che il trono di Luigi Filippo è minato per ogni dove; e finalmente che il Comitato repubblicano di Parigi sta per mandare cinque o sei emissari in Italia per coordinarvi i lavori degli uomini della libertà.
«Ove sono quelle lettere? in Parigi? le sequestrava il Governo di Francia? furono esse comunicate all'accusato? Somministrano la mia condotta, i miei atti, le mie corrispondenze prove che convalidino l'affermazione dell'essere le lettere scritte da me? No. Le citazioni delle lettere spettano alla polizia Sarda; gli originali stanno, dicono, ne' suoi archivî; il ministro di Francia non le cita che a brani, sull'altrui fede. Soltanto, ei crede che le altrui relazioni meritino fede da lui. Perchè? Come? esiste un solo ragguaglio di polizia francese che mi dimostri cospiratore contro il Governo di Francia? Fui io mai colpevole di ribellione? o sorpreso nelle file della sommossa?
«In condizione siffatta di cose, che mai posso io fare?
«È possibile dimostrare le falsità d'un fatto speciale, definito; non è possibile dimostrar quella d'un fatto generale che può abbracciare gli atti e i pensieri di tutta una vita: non è possibile difendersi da una accusa che non s'appoggia su prova alcuna.
«Io chiesi che mi fossero comunicate le lettere ministeriali; ed ebbi rifiuto. Non mi rimaneva che la facoltà di negare il fatto siccome falso, e lo feci. Negai l'esistenza nelle mie lettere delle linee in corsivo che sole accennerebbero a un intendimento comune tra me e il partito repubblicano di Francia. Quelle linee sono una interpolazione. Altro non esprimono che osservazioni e giudizî intorno a fatti recenti, e non possono formare argomento d'accusa.
«Io dissi queste cose al Ministro in una mia lettera del 1.° agosto. Smentii quelle linee, sfidando la polizia francese e la sarda a provarne l'autenticità. Chiesi inchiesta, processo e giudizio. Il Ministro non condiscese a rispondermi.
«Il prefetto di Marsiglia, che m'aveva promesso d'aspettare la risposta del signor di Montalivet, m'intimò a un tratto un secondo ordine di partenza. E mi fu forza cedere.
«Son questi i fatti.
«Uomini del Potere, che cosa sperate? che la vostra vergognosa sommessione ai voleri della Santa Alleanza c'induca a tradire i nostri doveri verso la Patria? o che le vostre insistenti persecuzioni possano mai sconfortarci e stancarci di quella santa libertà che voi rinegaste saliti appena al potere? Pensate di riuscire con una serie di atti arbitrarî nella missione retrograda che v'assumeste di far germogliare la diffidenza dove il vincolo di fratellanza va più sempre stringendosi? o d'infondere un senso di riazione nei patrioti di tutte contrade contro quella Francia alla quale voi soli contendete fati e missione?
«O credete, uomini abbiettamente codardi, cancellarvi di sulla fronte il marchio meritato d'infamia, allontanando gli uomini che voi spingeste sull'orlo dell'abisso per abbandonarli al pericolo, gli uomini la cui presenza sul suolo francese è un sanguinoso rimprovero, un perenne rimorso per voi? Non lo sperate. Quella macchia è incancellabile; ogni giorno della vostra dominazione la fa più profonda; ogni giorno solleva una voce di proscritto per maledirvi e gridarvi:
«Seguite, seguite! Voi ci rapiste libertà, patria, esistenza: rapiteci or, se potete, anche la parola: rapiteci l'alito che ci reca un profumo della nostra terra: rapite al proscritto la sola gioja ch'ei serbi sul suolo straniero, quella d'affondare lontano sul mare lo sguardo dicendo a sè stesso: là è l'Italia! Seguite, seguite! D'una in altra umiliazione trascinatevi ai piedi dello Czar, del Papa o di Metternich; supplicate perchè vi si concedano ancora alcuni giorni d'esistenza, offrendo in ricambio oggi la libertà d'un patriota, domani la di lui testa. Seguite, seguite! Spingetevi più sempre innanzi sulla via che attraverso il disonore conduce a rovina. È necessario, perchè i popoli raggiungano salute, che voi possiate rivelarvi in tutta la nudità d'un sistema d'inganno e di bassezza nuovo in Europa. È necessario, perchè la santa causa trionfi, che si dimostri innegabilmente per voi l'impossibilità d'una alleanza tra la causa dei re e quella dei popoli.
«Ma quando la misura sarà colma, quando la campana a stormo dei popoli suonerà l'ora della libertà, e la Francia in armi vi chiederà: come usaste il potere ch'io v'affidai? guai a voi! popoli e re vi respingeranno ad un'ora. Voi consegnaste la patria senza difesa alle insidie dei despoti; cacciaste a piene mani il disonore sovr'essa; faceste quasi retrocedere d'un passo l'associazione universale; per voi la libertà delle nazioni fu data in pasto alla Santa Alleanza; per voi s'invelenirono l'anime, s'annebbiarono di diffidenza i generosi pensieri, s'interruppe il nobile moto di fratellanza che le giornate del Luglio avevano iniziato. Poi, quando le vittime della vostra diplomazia, dei vostri perfidi protocolli, vennero, siccome spettri, a chiedervi asilo, voi le respingeste, le abbeveraste d'oltraggi, e cancellaste dai vostri codici i diritti inviolabili della sciagura e il dovere ospitale.
«Quanto a noi, uomini d'azione, minorità sacra alla sventura, sentinelle perdute della rivoluzione, diemmo, il dì che giurammo alla causa degli oppressi, un addio solenne alla vita, alle sue gioje, a' suoi conforti. Non entri in noi ira ingiusta o diffidenza fatale. La fazione ch'oggi governa nulla ha di comune coi popoli che gemono conculcati come noi gemiamo. Serbiamoci uniti, e stringiamo le file. L'ora della giustizia verrà per noi tutti15.»
Dopo la Protesta, rincrudirono, com'era da aspettarsi, le persecuzioni. Irritato della nostra ostinazione e sollecitato senza posa dagli agenti dei nostri Governi, il Ministro Francese tentò tutte le vie per sopprimere la Giovine Italia: intimò lo sfratto a parecchi tra i nostri operai compositori e a taluni fra quei ch'egli supponeva collaboratori: s'adoprò a impaurire il pubblicatore: minacciò di sequestri: moltiplicò le ricerche per avermi in mano. Noi sostenemmo virilmente la lotta: agli operai cacciati sostituimmo operai francesi: un cittadino di Marsiglia, Vittore Vian, si fece gerente: i nostri si dispersero nei piccoli paesi vicini al centro del nostro lavoro: provvedemmo a trafugare le copie degli scritti appena escite dal nostro torchio; e quanto a me, cominciai allora quel modo di vita che mi tenne ventidue anni su trenta prigioniero volontario, fra le quattro pareti d'una stanzuccia. Non mi rinvennero. Gli accorgimenti coi quali mi sottrassi - le doppie spie che servivano, a un tempo, per poco danaro, al prefetto e a me, inviandomi lo stesso giorno copia delle informazioni date sul mio conto alle Autorità - il comico modo col quale, scoperto un giorno il mio asilo, persuasi al Prefetto di lasciarmi partire, invigilato da' suoi agenti, senza scandali e chiassi, poi mandai in mia vece a Ginevra un amico che m'era somigliante della persona, mentr'io passava tra i birri in uniforme di guardia nazionale - non entrano in questo racconto che non mira a pascere la curiosità dei lettori sfaccendati, ma a giovare d'indicazioni storiche e d'esempî il paese. Basti ch'io rimasi per tutto un anno in Marsiglia, scrivendo, correggendo prove, corrispondendo, abboccandomi a mezzo la notte con uomini del Partito che venivano d'Italia e con taluni fra i capi repubblicani di Francia.
Ed ebbe allora cominciamento, da una atroce calunnia, quella turpe guerra sleale d'accuse non provate mai nè fondate, d'insinuazioni impossibili a confutarsi, di sospetti introdotti in una pubblicazione per giovarsene poi in un'altra, di congetture gesuitiche sulle intenzioni, di frasi strappate all'insieme d'uno scritto e mutilate e isolate e tormentate a farne escire un senso contrario alla mente dello scrittore, che la polizia francese dei tempi di Luigi Filippo insegnò alle polizie dei tirannucci italiani e che, continuata con insistenza sistematica da storici, uomini in ufficio, gazzettieri anonimi, scribacchiatori d'opuscoli e aspiranti a impieghi o sussidî, e spie e trafficatori di parte moderata per tutta Italia, ci seguì, come i corvi gli eserciti, per oltre a trent'anni di vita; m'assalì sui fianchi, alle spalle, raro o senza nome di fronte, latra anch'oggi e ringhia e urla contro ogni mio atto vero o inventato di pianta, e riuscì, colla plebe dei creduli e di quanti, irati nel segreto dell'anima alla propria impotenza, abborrono, come i gufi la luce, chi fa o tenta di fare, ad accumulare nella mia patria, e qui dov'io scrivo, le taccie di comunista, e socialista settario, d'uom di sangue e di terrorista, d'ambizioso intollerante esclusivo e di cospiratore codardo contro me che confutai stampando le sette socialistiche a una a una, chiamai il terrorismo francese delitto d'uomini tremanti per sè, sagrificai, non curando il biasimo de' miei più cari, la predicazione delle mie credenze a ogni probabilità che si facesse l'Italia per altra via, diedi lietamente l'opera mia nel silenzio anche a uomini di parte avversa purchè giovassero, strinsi, immemore di me stesso, la mano che avea scritto mortali e false accuse sul conto mio quando m'apparve liberatrice, e affrontai con indifferenza serena ogni sorta di pericoli, mentre gli accusatori non sognarono mai di pericolo nella vita fuorchè di spiacere ai padroni. Guerra di tristi bassamente e crudeli, perchè non paga di perseguitare colla forza chi dissente da essi, tenta d'uccidere l'anima e l'onore dell'avversario: guerra di vili, perchè combatte senza rischio e di sotto allo scudo del potente, sopprime le difese colla violenza e si giova financo del silenzio sdegnoso del calunniato a convalidar la calunnia: guerra fatale ai popoli che non le impongono fine, perchè mette nella loro vita il tarlo d'una immoralità che ne rode la fama al di fuori e la maschia energia dell'azione al di dentro. E per questo ne parlo e mi toccherà riparlarne.
L'accusa alla quale io alludo m'apponeva un assassinio e peggio, dacchè un decreto d'assassinio è colpa peggiore. Il Governo Francese, irritato del non potere trovarmi, pensò che infamandomi reo di delitto volgare, avrebbe allontanato da me la stima e l'affetto che mi procacciavano asilo. Però, raccolse dalle mani d'un agente di polizia un documento storico al quale l'impostore aveva apposto il mio nome, e lo inserì, pur sapendolo opera di falsario, nel Monitore.
Il 20 ottobre 1832 un Emiliani era stato assalito sulla strada e ferito non mortalmente in Rodez, dipartimento delle Aveyron, da parecchi esuli italiani. Il 31 maggio 1833, poco dopo pronunciata sentenza di cinque anni di prigione contro i feritori, l'Emiliani e un Lazzareschi di lui compagno, furono, in un caffè, mortalmente feriti da un giovine Gavioli, esule del 1831. Ambi erano, a quanto poi seppi, spie del duca di Modena e tenuti per tali dai loro compagni di proscrizione. Al tempo dei tristi fatti io non sapea che esistessero; e m'erano egualmente ignoti i loro aggressori.
Già pochi giorni dopo il primo ferimento, il Giornale dell'Aveyron avea preparato il terreno all'accusa, e m'avea suggerito la protesta seguente:
«Signore,
«Il Giornale dell'Aveyron nel suo numero del 27 ottobre, parlando del triste fatto accaduto recentemente in Rodez e nel quale un Emiliani, antico stalliere del Duca di Modena, fu ferito, s'esprime così:
«Le informazioni raccolte dal Prefetto lo conducono a credere che gli assalitori italiani dello sventurato Emiliani non sono che strumenti dei quali si giovano i capi del Partito detto della Giovine Italia per liberarsi di quei fra i loro compatrioti che non vogliono sottomettersi ai loro Statuti.»
«Se il gazzettiere intende parlare degli uomini stretti a una fede politica ch'essi credono sola capace di rigenerare la loro patria e i principî della quale si svolgono nella pubblicazione mensile la Giovine Italia, io sono, come Direttore di quella pubblicazione, uno fra i capi di quel Partito. Credo quindi aver facoltà di rispondere per tutti all'accusa.
«Io do la più solenne mentita al gazzettiere e a quanti si compiacessero di ripeterne le affermazioni.
«Io sfido chicchessia a portare in campo la menoma prova di ciò che così avventatamente s'afferma a danno d'uomini onorevoli per lo meno quanto il gazzettiere dell'Aveyron, a danno d'uomini che la sventura non foss'altro dovrebbe proteggere contro la calunnia.
«Aggiungo che l'idea d'un partito il quale si proporrebbe di spegnere quanti non abbracciano i suoi Statuti è siffattamente assurda che solo forse in Francia il gazzettiere dell'Aveyron può profferirla.
«La Giovine Italia non ha stromenti: non accoglie se non uomini liberi che liberamente abbracciano i suoi principî e non giurano se non di sperdere, appena potranno, gli Austriaci.
«Ed è questa la mia risposta.
«Quanto a ciò che il gazzettiere si compiace d'aggiungere intorno a scene che i costumi francesi rispingono e che non potranno mai nazionalizzarsi in Francia, non monta occuparsene. Ogni Francese che pensa prima di scrivere sa che gli agguati non appartengono specialmente ad alcuna nazione e che si commettono in ogni luogo delitti respinti dai costumi dei popoli. Gli assassini di Ramus e Delpech valgono di certo quei che ferirono l'Emiliani.
«Mazzini.»
Ma nel giugno 1833 comparve, come dissi, nel Monitore una Sentenza pronunziata da un Tribunale Segreto che condannava Emiliani e Lazzareschi a morte, altri a diverse pene, col nome mio e quello di La Cecilia come Preside e Segretario del Tribunale. L'artificio era grossolano. Le date non corrispondevano alla possibile realtà. L'italiano era pieno zeppo di errori grammaticali17 ch'io non era uso veramente a commettere. Protestai nuovamente, nei termini seguenti, nel National.
«Signore.
«Il Monitore del 7 giugno contiene, a proposito d'un assassinio commesso in Rodez, una pretesa esposizione dei fatti che precedettero e accompagnarono quel triste evento; s'afferma in quella che la morte d'Emiliani e di Lazzareschi è dovuta a una sentenza pronunziata contr'essi da un tribunale segreto siedente in Marsiglia e appartenente alla Giovine Italia. Il Monitore cita la sentenza in esteso e v'appone il mio nome colla qualità di Preside del Tribunale.
«Ch'io sia stato cacciato di Francia senza cagione, senza difesa, per solo arbitrio ministeriale e bench'io vivessi indipendente, fuori d'ogni deposito e di mezzi miei, non ha di che sorprendere alcuno come fatto d'un Governo corrotto e corrompitore, che fu successivamente spergiuro sui Pirenei, birro in Ancona, denunziatore in Frankfort, e persecutore, in nome e a pro della Santa Alleanza, dovunque spuntava un raggio d'indipendenza, dovunque s'incontrarono anime generosamente altere in preda a sciagure virilmente durate. È tra noi, patrioti, ed esso guerra mortale.
«Ma che dopo d'aver ferito s'infonda veleno nella piaga, dopo di aver vibrato contro un nemico ogni saetta di persecuzione si vibri anche quella della calunnia, dopo d'avergli tolto libertà, conforto, riposo, si tenti togliergli anche l'onore, è cosa sì bassa che non vorremmo trovarne colpevoli gli uomini stessi dello stato d'assedio.
«Io non ispenderò tempo a notare tutte le contradizioni che abbondano in quella esposizione, lavoro perfido e assurdo, nel quale ogni cosa è falsa dalla data della mia proscrizione ch'ebbe luogo nell'agosto, e non dopo il novembre 1832, fino a quella della pretesa sentenza attribuita a Marsiglia, mentre è citata nell'atto stesso una lettera indirizzata da Marsiglia a non so qual punto: dall'asserzione che pone a risultato dei procedimenti, iniziati in ottobre contro i supposti autori delle prime ferite inflitte a Emiliani cinque anni di reclusione, mentre quei procedimenti furono conchiusi da una assoluzione senza restrizioni fino alla comunicazione della sentenza che il Ministero dichiara fattagli nel gennajo 1833, mentre l'istruzione cominciata in ottobre, e proseguita oltre il gennaio, non ne fa cenno.
«L'accusa parte da troppo basse sfere perch'io m'avvilisca a difendermi. Ma davanti ai tribunali io chiederò conto al Monitore dell'audacia colla quale ei s'attentava di sottoscrivere quel documento col nome d'un onesto, straniero financo a un pensiero di colpa. Chiederò come, senz'altro indizio che una semplice copia della quale non fu provata l'autenticità, s'osi chiamarmi assassino.
«Intanto i molti, che s'assunsero spontanei la mia difesa, hanno diritto di esigere che io smentisca l'accusa.
«Però, la smentisco.
«Smentisco formalmente esposizione, sentenza, ogni cosa.
«Smentisco Monitore, gazzette semi-officiali e Governo.
«E sfido il Governo, gli agenti suoi, e le polizie straniere che architettarono la calunnia, a provare una sola delle cose affermate a mio danno; a mostrare l'originale della sentenza e la firma mia, a scoprire una sola linea proveniente da me che possa far credere alla possibilità d'un tale atto da parte mia.
«Vogliate, Signore, inserire ecc.
Il Monitore tacque. L'originale non fu mostrato. Io non poteva allora, celato in Marsiglia com'io era e non potendo quindi nè presentarmi nè dar mandato legale a chi facesse le parti mie, iniziare il processo di diffamazione. Se non che l'Autorità giuridica sciolse senz'altro il problema. La Corte Suprema dell'Aveyron18 decise che il delitto, conseguenza di rissa, s'era commesso senza premeditazione. Più dopo, credo nel 1840, Gisquet, Prefetto di Polizia nel 1833, scrivendo le sue Memorie e speculando, per far denaro, sugli aneddoti melodrammatici, riprodusse l'accusa: poi, chiamato in giudizio da me, dichiarò stimarmi onesto e incapace di misfatti e il tribunale pronunziò sentenza in quel senso19. Più dopo ancora, nel 1845, un Ministro Inglese, Sir James Graham, che aveva osato far rivivere la calunnia, fu costretto, da informazioni attinte presso i Magistrati dell'Aveyron, a chiedermi scusa in pubblica seduta di Parlamento. E nondimeno, da quella prima calunnia ripetuta per più anni da gazzette e da libelli anonimi a uomini che non avevano letto e non potevano, sotto la tirannide, leggere i documenti officiali che la distruggevano, scese e si radicò lentamente nell'animo di molti l'opinione ch'io mi fossi uomo di vendette tenebrose e di sangue e che la Giovine Italia avesse Statuti tremendi ai violatori del giuramento e a quanti dissentissero dalle sue dottrine.
Io abborro - e quanti mi conoscono dappresso lo sanno - dal sangue e da ogni terrore eretto in sistema, come da rimedî feroci, ingiusti ed inefficaci contro mali che vogliono essere curati dalla diffusione libera delle idee: credo la vendetta, l'espiazione e altri simili concetti, posti finora a base del diritto penale, tristissimi e sterili, sia che l'applicazione mova dalla Società o dall'individuo; e non accetto guerra, lamentandone la necessità, contro la forza materiale violatrice del dovere e del diritto umano, se non aperta e leale, fuorchè in un caso - e avrò campo di dire qual sia. Ma la Giovine Italia che, separandosi dalle formole e dalle abitudini vendicatrici dell'antica Carboneria, aveva abolito fin la minaccia di morte contro il traditore spergiuro, non ebbe mai, dal Centro che la dirigeva, se non uno Statuto, ed è quello che i lettori possono vedere in questo volume. Soltanto, gli furono, appunto nel tempo al quale si riferisce questo volume, aggiunte alcune dilucidazioni morali che inserisco qui appresso. Nè mai ci dipartimmo da quelle norme. A chi ci proponeva di spegnere traditori o spie, rispondevamo: additate i Giuda a tutti e basti per essi l'infamia. Quanto fu affermato o citato sul conto nostro da scrittori infermi d'insania come d'Arlincourt e Cretineau Joly, o da libellatori venduti come Bréval e Lahodde, è falso e apocrifo. Ben possono a insaputa nostra essersi improvvisate modificazioni locali al nostro Statuto da frazioni menome dell'Associazione; ma chi tra gli onesti vorrebbe giudicare il Cattolicesimo sui giuramenti orribili del Sanfedismo? È possibile che uno o altro nucleo dell'Associazione abbia, nelle Romagne segnatamente, decretato il pugnale contro disertori o denunziatori; ma chi tra gli onesti vorrebbe apporre all'istituzione monarchica l'assassinio di Prina?
Le dilucidazioni date20 nel 1833 al nostro Statuto erano le seguenti:
«La Giovine Italia ha per doppio scopo di riunire la gioventù nella quale sta il nervo delle forze italiane sotto l'influenza d'uomini veramente rivoluzionari, onde, allo scoppiare del moto, non ricada sotto i primi che si presentano a impadronirsene, e di riunire in accordo per capi o rappresentanti tutte le diverse società che in Italia s'adoprano, sotto forme diverse, a ottenere Unità, Indipendenza, Libertà vera alla Patria.
«Il primo intento è affidato, proporzionatamente ai loro gradi e alla loro situazione, a tutti i membri della Giovine Italia. Il secondo è serbato alla Centrale, e alle Congreghe Provinciali, sotto la direzione della Centrale.
«Principii politici e morali dell'Associazione:
«Una Legge morale governa il mondo: è la Legge del Progresso.
«L'uomo è creato a grandi destini. Il fine pel quale è creato è lo sviluppo pieno, ordinato e libero di tutte le sue facoltà.
«Il mezzo per cui l'uomo può giungere a questo intento è l'Associazione co' suoi simili.
«I popoli non toccheranno il più alto punto di sviluppo sociale al quale possono mirare, se non quando saranno legati in un vincolo unico sotto una direzione uniforme regolata dagli stessi principî.
«La Giovine Italia riconosce in conseguenza l'Associazione universale dei Popoli come l'ultimo fine dei lavori degli uomini liberi. Essa riconosce e inculca con ogni mezzo la Fratellanza dei Popoli.
«Bensì, perchè i popoli possano procedere uniti sulla via del perfezionamento comune, è necessario ch'essi camminino sulle basi dell'Eguaglianza. Per essere membri della grande Associazione conviene esistere, avere nome, e potenza propria.
«Ogni popolo, in conseguenza, deve, prima d'occuparsi dell'Umanità, costituirsi in Nazione.
«Non esiste veramente Nazione senza Unità.
«Non esiste Unità stabile senza Indipendenza: i despoti, a diminuire la forza dei popoli, tendono sempre a smembrarli.
«Non esiste Indipendenza possibile senza Libertà. Per provvedere alla propria indipendenza è d'uopo che i popoli siano liberi, perchè essi soli possono conoscere i mezzi per serbarsi indipendenti, essi soli hanno a sagrificarsi per esserlo, e senza libertà non esistono interessi che spingano i popoli al sagrifizio.
«La Giovine Italia tende in conseguenza a conquistare all'Italia l'Unità, l'Indipendenza, la Libertà.
«Quando il potere è ereditario e nelle mani d'un solo, non v'è libertà durevole mai.
«Il potere tende sempre ad aumentare e concentrarsi.
«Quando il potere è ereditario, gli acquisti del primo fruttano al secondo. L'eredità del potere toglie a chi ne è rivestito la coscienza della sua origine popolare. Sottentrano per conseguenza nei Capi ereditarî interessi particolari a quelli della Nazione; e inducono una lotta che, presto o tardi, trascina la necessità d'una Rivoluzione. Ora quando una nazione compie una Rivoluzione, essa deve cercare d'imporle fine il più presto possibile, e non ha altro mezzo per questo che troncare radicalmente ogni via per la quale si possa ricadere nella lotta.
«Le Rivoluzioni si fanno col Popolo pel Popolo. Per produrre vivissimo nel Popolo il desiderio della Rivoluzione conviene infondergli la certezza che la Rivoluzione si tenta per esso. Per infondergli questa certezza, è necessario convincerlo de' suoi diritti, e proporgli la Rivoluzione come il mezzo d'ottenerne il libero esercizio. È necessario per conseguenza proporre come scopo alla Rivoluzione un sistema popolare, un sistema che enunzi nel suo programma il miglioramento delle classi più numerose e più povere, un sistema che chiami tutti i cittadini all'esercizio delle loro facoltà e perciò al maneggio delle cose loro, un sistema che s'appoggi sull'eguaglianza, un sistema che impianti il Governo sul principio dell'elezione largamente inteso e applicato, ordinato nel modo meno dispendioso e più semplice.
«Questo sistema è il Repubblicano.
«La Giovine Italia è repubblicana unitaria.
«Essa tende, in religione, a stabilire un buon sistema parrocchiale, sopprimendo l'alta aristocrazia del clero.
«Essa tende, in generale, all'abolizione di tutti i privilegi che non derivino dalla legge eterna della capacità applicata al bene; a diminuire gradatamente la classe degli uomini che si vendono e di quelli che si comprano; in altri termini a ravvicinare le classi, costituire il Popolo, ottenere lo sviluppo maggiore possibile delle facoltà individuali; a ottenere un sistema di legislazione accomodata ai bisogni; a promovere illimitatamente l'educazione nazionale.
«Bensì, finchè il primo perno della Rivoluzione, ossia l'Indipendenza, non sia ottenuto, essa riconosce che tutto deve essere rivolto a quello scopo. Finchè quindi il territorio Italiano non sia sgombro dal nemico, essa non riconosce che armi e guerra con tutti i mezzi. Una dichiarazione di doveri, una di diritti, ma l'effetto sospeso fino all'emancipazione del territorio: un Potere dittatoriale, fortemente accentrato, composto d'un individuo deputato per ciascuna provincia21, riunito a consesso permanente, responsabile allo spirar del mandato, vegliato nell'esercizio del suo potere dall'opinione pubblica e dalla Giovine Italia convertita in Associazione Nazionale: primi provvedimenti intorno alla stampa, intorno ai giudizî criminali, intorno alle annone, intorno all'amministrazione, e null'altro: creato intanto Commissioni che maturino progetti di legislazione politica e civile da presentarsi al Congresso Nazionale raccolto, libero il territorio, in Roma: vietati gli accordi col nemico sul territorio: i cittadini armati chiamati a guardar la città, a mobilizzarsi all'uopo e recarsi in bande a infestare il nemico e servire d'ausiliarie all'esercito Nazionale. Prima armi e vittoria, poi leggi e Costituzione.
«La Giovine Italia predica questi principî. I mezzi coi quali essa si propone d'ottenere l'intento sono l'armi e l'incivilimento morale.
«Pel primo, essa congiura, pel secondo, essa diffonde gli scritti liberi, pubblica giornali, ecc.
«Congiurando e scrivendo, essa sa che la rigenerazione Italiana non può compirsi che per mezzo d'una Rivoluzione Italiana davvero. Essa biasima in conseguenza i movimenti parziali: essi non possono che aggravare la nostra condizione. L'insurrezione d'un Popolo deve compiersi con forze proprie. Dallo straniero non scendè mai libertà vera o durevole. La Giovine Italia s'ajuterà degli eventi stranieri, ma non fonderà su quelli le proprie speranze.
«Tutti i suoi membri sono incaricati di diffondere queste norme generali.
«Ordinamento dell'Associazione:
«Una Congrega Provinciale per ogni Provincia Italiana composta di tre membri:
«Un Ordinatore per ogni città:
«La Congrega Centrale elegge le Congreghe Provinciali, trasmette le istruzioni Generali, crea e mantiene l'accordo fra le Congreghe Provinciali, comunica i segnali di riconoscimento necessarî alle Congreghe, provvede alla stampa e alla sua diffusione, forma un disegno generale d'operazioni, riassume i lavori dell'Associazione, accentra, non tiranneggia.
«Ogni Congrega Provinciale tiene la somma delle cose della Provincia che le è affidata e dirige il lavoro: crea i segnali per gli affratellati della Provincia, trasmette le istruzioni della Centrale, inviando ad essa di mese in mese relazione dei progressi dell'Associazione nella Provincia, dei mezzi materiali raccolti, delle condizioni dell'opinione nelle diverse località: osserva i bisogni e ne trasmette l'espressione alla Centrale.
«L'ordinatore in ogni città, scelto dalla Congrega Provinciale, riassume i lavori della città e ne trasmette il quadro di mese in mese alla Congrega Provinciale. Gli elementi della sua corrispondenza con quella sono a un dipresso gli stessi dei quali si compone la corrispondenza della Congrega Provinciale colla Centrale.
«I Propagatori vengono eletti dall'Ordinatore e dalla Provinciale tra gli uomini che hanno core e mente: iniziano i semplici affratellati e li dirigono secondo le loro istruzioni. Corrispondono ciascuno coll'Ordinatore della loro città, e gli elementi della loro corrispondenza sono a un dipresso gli stessi che formano la corrispondenza dell'Ordinatore colla Provinciale. Trasmettono di mese in mese all'Ordinatore il quadro del loro lavoro, e comunicano ai loro subalterni le istruzioni che da lui ricevono.
«I semplici affratellati scelti dai Propagatori tra gli uomini che hanno core, ma non mente bastevole a scegliere gli individui idonei, dipendono dal loro Propagatore, a lui comunicano informazioni, osservazioni, conoscenze, diffondono i principî della Giovine Italia, e aspettano la chiamata.
«Ogni affratellato ha un nome di guerra.
«L'Associazione deve diffondersi, per ciò segnatamente che riguarda le classi popolari22, nella gioventù, negli uomini che hanno succhiato le aspirazioni del secolo.
«Gli affratellati devono, possibilmente, provvedersi d'un fucile e di cinquanta cartucce. A quei che non possono, provvederanno le Congreghe Provinciali.
«Gli affratellati versano all'atto dell'iniziazione una contribuzione che continuerà mensilmente, quando nol vieti la loro condizione. L'ammontare delle contribuzioni, trasmesso di mano in mano sino alla Congrega Provinciale, sarà consacrato ai bisogni dell'Associazione, nella Provincia, salva una quota serbata alla Centrale per viaggiatori, stampe, compra d'armi, ecc.
«Determinazione di contribuzione e di riparto, esenzioni, forme di iniziazione, e tutte le disposizioni d'ordine secondario, si lasciano alle Congreghe Provinciali. La Centrale abborre da ogni tendenza soverchiamente dominatrice e non impone se non quel tanto ch'è strettamente necessario all'unità del moto e all'accordo comune.
«L'Associazione ha due ordini di segnali: gli uni, che non giovano se non alle Congreghe Provinciali e ai viaggiatori che vanno dall'una all'altra e da esse alla Centrale, e reciprocamente - e sono ideati e trasmessi dalla Centrale: gli altri, che servono per gli affratellati delle Provincie, sono scelti da ciascuna Congrega Provinciale, comunicati alla Centrale, e variati ad ogni tre mesi, più frequentemente se il bisogno lo esiga. S'anche quindi i segni d'una Provincia fossero scoperti dalle polizie, l'altre provincie, avendoli diversi, rimarrebbero fuor d'ogni rischio.
Il nostro lavoro era coronato di successo. L'istinto Nazionale s'era ridesto. La formola Unità Repubblicana s'accettava con entusiasmo dalla gioventù in tutte le provincie d'Italia. Gli uomini della tirannide, il principe di Canosa, Samminiatelli, gli editori della Voce della Verità scrivevano contro noi, ma con sì pazza ferocia ch'ogni loro assalto ci fruttava amici. Metternich presentiva l'importanza del nostro lavoro e scriveva al Menz in Milano: J'ai besoin de deux éxemplaires complets de la Giovine Italia, dont cinq volumes ont paru jusq'ici. J'attends aussi toujours les deux exemplaires de la Guerra per Bande23. La Società degli Apofasiméni coi suoi affiliati delle Romagne, diretta da Carlo Bianco si versava nelle nostre file; Carlo Bianco entrava membro del nostro Comitato. La Società dei Veri Italiani, che non s'era ancora, in quell'epoca, fatta regia, stringeva alleanza con noi. E le reliquie della Carboneria che s'agitavano tuttavia, membra disjecta, in alcune provincie Italiane, accettavano la nostra fede, e la nostra direzione. In Francia, capo supremo di quanti avevano, anteriormente a Luigi Filippo, dato il nome alla Carboneria, e corrispondente venerato delle fratellanze segrete in Germania e altrove, era il Buonarroti; e si poneva con me in contatto regolare e fraterno. E in contatto con me stavano gl'influenti delle nuove Associazioni repubblicane francesi, Goffredo Cavaignac, Armand Marrast e gli arditi uomini della Tribune, Armand Carrel e i tattici del National. Parole d'incoraggiamento ci venivano da Lafayette. Con noi erano i capi dell'emigrazione Polacca. L'elemento Italiano cominciava, mercè nostra, ad essere riconosciuto da quanti uomini di progresso lavoravano uniti o indipendenti in Europa elemento importante dell'avvenire. E in Italia erano uomini avversi, per istinto o paura, a ogni cosa che fosse moto: non moderati. Gioberti, padre e pontefice anni dopo della malaugurata consorteria e insultatore sistematico di me e di tutti noi, accettava in Torino gli ordini del nostro lavoro e ci scriveva inneggiando: Io vi saluto, precursori della nuova Legge politica, primi apostoli del rinovato Evangelo:... io vi prenunzio un buon successo nella vostra impresa, poichè la vostra causa è giusta e pietosa, essendo quella del popolo, la vostra causa è santa, essendo quella di Dio... Ella è eterna e però più duratura della forma antica di quello, il quale diceva: Dio e il prossimo; ma ora dice per vostra bocca e del secolo: Dio e il Popolo... Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo Dio e il Popolo, e studieremo di propagar questo grido... Combatteremo eziandio certi falsi amatori di libertà, che vogliono questa senza il popolo o contro il popolo, malaccorti od ingiusti; certi odiatori delle antiche aristocrazie... che, facendo rivoluzioni, intendono a traslocare il potere in sè stessi divisi dal popolo, anzi che farsi popolo e restituirgli i diritti rapiti: certi che vilipendono e bistrattano il popolo con nomi spregevoli ed abborriti, con angherie, con soprusi, ed aggravano il suo giogo colla stessa mano, con cui tentano schermirsi da quello dei nobili e dei tiranni... Io vi prometto francamente una costante disposizione e un vivo desiderio di morire con voi, se v'è d'uopo, per la comune patria24.
L'ordinamento dell'Associazione era, a mezzo il 1833, potente davvero e segnatamente in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana, negli Stati Pontificî. L'anima dell'Associazione Toscana era in Livorno, dove Guerrazzi, Bini ed Enrico Mayer eran operosissimi e inspiravano Pisa, Siena, Lucca, Firenze. Pietro Bastogi, oggi Ministro, era Cassiere del Comitato. Enrico Mayer viaggiava a Roma, dov'ei fu per sospetti imprigionato, poi, tornato in libertà, a Marsiglia per intendersi meco: egli era uno dei migliori, più sinceri e devoti uomini, che mi sia stato dato conoscere. Il Professore Paolo Corsini, Montanelli, Francesco Franchini, Enrico Montucci, Carlo Matteucci, oggi Senatore del Regno, un Cempini, figlio del Ministro, oggi, a quanto odo, calunniatore nostro nella Nazione, insieme a Carlo Fenzi, cospiratore egli pure con me, un Maffei ora avversissimo, e altri molti ch'or non importa nominare, secondavano nelle varie città toscane l'inspirazione livornese. Nell'Umbria, Guardabassi era capo del Comitato. Nelle Romagne, pressochè tutti gli uomini che oggi, insigniti d'onori, impieghi e pensioni, ci gridano la croce addosso, si agitavano irrequieti nelle nostre file; e vivono ancora i popolani Bolognesi, che ricordano il Farini, vociferatore di stragi nei loro convegni, e uso ad alzare la manica dell'abito sino al gomito e dire: ragazzi, bisognerà tuffare il braccio nel sangue. In Roma, avevamo un Comitato. In Napoli, Carlo Poerio, Bellelli, Leopardi e gli amici loro facevano, quanto ai metodi, parte da sè, ma si dichiaravano ai nostri viaggiatori, che tuttavia vivono, capi d'un ordinamento potente, alleati, presti a fare collo stesso nostro programma, e corrispondevano stenograficamente con me. In Genova, non solamente i giovani della classe commerciale e gli influenti fra i popolani, ma s'accostavano a noi, convinti della nostra potenza, gli uomini del patriziato; i fratelli Mari, il Marchese Rovereto, i due Cambiasi e Lorenzo Pareto, che fu poi Ministro, fra gli altri. In Piemonte il lavoro procedeva più lento: nondimeno le nostre fila toccavano tutti i punti importanti e si stendevano fino alle terre, popolate d'arditi uomini, del Canavese: l'avvocato Azario, Allegra esule ripatriato del 1821, Sciandra commerciante, Romualdo Cantara, Ranco, Moia, Barberis, Vochieri, Parola, Maotino Massimo, Depretis, un ex militare Panietti d'Ivrea, un Re di Voghera, Stara e altri parecchi s'adopravano alacremente. E uomini collocati più in alto, e ch'or non giova additare, non s'affratellavano regolarmente all'Associazione, ma lasciavano sapere che dove l'impresa s'iniziasse potente, l'ajuterebbero. Con copia d'elementi siffatti e coi pericoli che la duplice parte, di congiura e d'apostolato, alla quale si era astretta l'Associazione, trascinava con sè, bisognava giovarsi dell'entusiasmo crescente prima che le persecuzioni venissero ad ammazzarlo, e pensare seriamente all'azione.
Così facemmo.
Base dell'azione dovevano essere le provincie Sarde. Forti di mezzi, d'armi ordinate, d'influenza morale e d'abitudini di disciplina che avrebbero fruttato a qualunque riuscisse a impadronirsene, gli Stati Sardi avevano due punti strategici d'alta importanza, Alessandria e Genova; ed erano appunto quelli pei quali eravamo più potenti d'affiliazioni. Un moto nel Centro, più agevole forse, non offriva appoggio di forze reali e non avrebbe suscitato l'entusiasmo di tutta l'Italia. D'altra parte, io era certo che al primo annunzio del moto, l'Austria avrebbe occupato, coll'assenso di Carlo Alberto, il Piemonte e resa quindi impossibile ogni azione diretta o rapida sulla Lombardia, nella quale io aveva fin d'allora fede grandissima. D'un moto in Napoli e delle norme colle quali procederebbe non potevamo, mercè la semi-indipendenza nella quale si stavano gli elementi coi quali eravamo in contatto, non potevamo starci mallevadori. E inoltre, il convertire ciò che deve essere riserva in centro del moto, non mi sembrava, checchè dicessero i militari, buona strategìa di rivoluzione. Movendo in Napoli, noi non eravamo certi che per invasione degli insorti o per altra via, il moto si sarebbe diffuso rapidamente all'altre parti d'Italia; e io temeva la tendenza pur troppo naturale in tutti i paesi ad aspettare lo sviluppo d'ogni moto che s'operi dietro ad essi, e sognare disegni dottamente complessi d'insurrezione quando il nemico assalitore e respinto può collocarsi tra due forze ostili e vedersi staccato dalla sua base. Di pretesti siffatti all'inerzia, suggeriti ed accettati con arte profonda e sempre fatale alle insurrezioni, erano frequenti nel passato gli esempî. Una insurrezione nel Mezzogiorno non scemava un solo dei pericoli che le insurrezioni del Centro e del Settentrione avrebbero dovuto affrontare; un moto in Piemonte salvava invece dal primo urto dell'armi straniere Mezzogiorno e Centro ad un tempo. Battuti in Piemonte potevamo appoggiarci su quel terreno come su potente riserva. Poi - e questa è ragione ch'io riteneva importante, comechè poco intelligibile a quanti non vedono in una rivoluzione che un problema di strategia regolare - ogni rivoluzione operata in un popolo addormentato da secoli sviluppa vulcanicamente tremende le forze latenti ch'essa possiede se provocata e sollecitata da pericoli che possono riescirle mortali, intorpidisce e si consuma nel sonno e nelle illusioni se abbandonata a sè stessa e secura. Il nostro nemico era l'Austria. Bisognava cacciarle il guanto dai primi giorni, fidare nella Lombardia e assalirla invece di aspettarne gli assalti. L'entusiasmo della guerra allo straniero, abborrito da tutti com'era, avrebbe sopito ogni interno dissidio e fondato l'Unità nell'azione comune.
Per queste e altre ragioni determinai che l'iniziativa dell'insurrezione Nazionale si tenterebbe nelle terre Sarde, perni Genova e Alessandria; noi esuli invaderemmo, appena dato il segnale dall'interno, la Savoja, non solamente per dividere le forze ostili e per aprire un varco sino al centro del moto agli uomini che l'esperienza acquistata al di fuori chiamava a capitanarla civilmente e militarmente, ma per cacciare un anello tra i nostri e i repubblicani di Francia, che allora accennavano a diventare potenti e preparavano, tra gli operai, elementi numerosi di riscossa in Lione.
Tentammo l'esercito. Trovammo gli alti ufficiali renitenti, i bassi vogliosi di mutamento e arrendevoli al concetto dell'Italia Una e Repubblicana. Riuscimmo a impiantare relazioni con quasi tutti i reggimenti: nuclei d'attivi in alcuni e fila più numerose nell'artiglieria in Genova e in Alessandria, dove stava a guardia degli arsenali. Affratellammo caporali, sergenti e capitani; a contatto continuo coi loro soldati son essi più influenti dei capi; e ricordavamo i Cavalleggeri che disubbedienti, nel 1821, alla chiamata del loro colonnello Sammarzano, s'erano poco dopo lasciati trascinare all'insurrezione da un semplice capitano, l'adesione della legione procacciata dal sergente Gismondi e altri fatti consimili. Taluno fra i generali, presti sempre a seguire chi vince - Giflenga tra gli altri - promise cooperazione a patto che ci mostreremmo forti. Acquistammo in sostanza convincimento che l'esercito osteggerebbe o no a seconda del carattere che la prima mossa assumerebbe; e sarebbe in ogni modo tiepido nel resistere.
Proposi il moto e chiesi ajuti pecuniari alle Congreghe. La proposta fu accolta. Gli ajuti furono dati, benchè al solito inferiori al bisogno e al dovere. Strana cosa, ma vera: gli uomini della libertà danno, occorrendo, il sangue, restii a dare il danaro che potrebbe risparmiarlo sovente.
Comunicato il disegno generale del moto ai nostri di Genova, di Alessandria, di Vercelli, di Torino, della Lomellina, io mi preparai a trasferirmi da Marsiglia a Ginevra, da dove io dovea preparar gli elementi per l'insurrezione nella Savoja. Ma prima, volli intendermi coi repubblicani di Francia.
Cavaignac e gli uomini della Tribune non avevano bisogno d'eccitamenti; fremevano azione. Non così gli uomini del National, diffidenti dell'elemento operajo sul quale i primi appoggiavano tutte le loro speranze in Lione. Pregai Carrel di recarsi in Marsiglia e venne. Cavaignac si recava intanto a Lione.
Armand Carrel, ch'io vidi in casa di Demostene Ollivier, membro nel 1848 dell'Assemblea, era uomo signorile nei modi, freddo in apparenza, ma capace d'energia quando lo esigessero le circostanze, chiaramente onesto e tale da provocar fede assoluta nelle sue promesse, più amico della repubblica che non dei repubblicani, e poco disposto a fiducia negli operai dai quali lo tenevano discosto le abitudini della vita e certe tendenze militari rimastegli dal primo periodo della gioventù e accarezzate da lui. Intelletto acuto, non vasto, analitico più ch'altro, educato a scuole di materialismo e veneratore del secolo XVIII, credente nella teorica dei diritti e presto a dare fatiche e vita al suo trionfo più per senso d'onore e generosità d'indole che non per dovere religiosamente supremo, intendeva molte delle aspirazioni del secolo, ma non sentiva profondamente che quelle di libertà. E il suo ideale era la repubblica come s'intende in America, dove l'individuo è sovrano, la missione sociale di chi regge fraintesa e il diritto personale ogni cosa. Più in là non andava o a disagio, e le questioni sociali lo impaurivano. Logico per natura, si sentiva tratto a desumere le ultime conseguenze della dottrina che ha per base l'individuo e tra queste il federalismo; insinuava infatti a ogni tanto il federalismo per l'Italia, per la Spagna, per la Germania, unitario per la Francia, tra perchè l'Unità era fatto compiuto, tra perchè l'istinto dominatore francese potentissimo in lui gli mostrava perpetua la supremazia della sua Nazione nella debolezza delle confederazioni all'intorno. Le sue idee andavano nondimeno migliorando e allargandosi a più vasto orizzonte, quand'egli morì; e ne fanno fede i suoi ultimi articoli. Morì sulla breccia, repubblicano com'era vissuto, puro d'ogni basso affetto, d'ogni immoralità, d'ogni servile tendenza alla ricchezza o al potere, amato da chi lo conobbe dappresso, rispettato da' suoi nemici.
Fermammo accordo tra noi che se l'Italia avesse iniziato il moto repubblicano, ei si sarebbe unito a Cavaignac per affrettare l'insurrezione Lionese e l'avrebbe secondata in Parigi.
Intanto, un incidente, irrilevante per sè, sperdeva tutto il disegno.
La diffusione non foss'altro dei nostri scritti, malgrado lo zelo posto dalla Polizia a impedirla, avvertiva il Governo che un lavoro segreto, potente esisteva nelle Provincie Sarde; e da più mesi era posta in opera ogni arte per discoprirne le fila e il centro, ma senza successo. Cercavano quel centro dove non era, nell'alte sfere sociali e tra gli antichi cospiratori del 1821; non ideavano neppure che una Associazione, visibilmente numerosa e capace d'eludere le instancabili inquisizioni della polizia mettesse capo a pochi giovani di nome ignoto e ricchi non d'altro che d'energia di volere e d'attività senza pari.
Però temendo di porre sull'avviso, col vibrar colpi in fallo, i veri cospiratori, spiavano gli indizî senza procedere. E l'insurrezione avrebbe potuto coglierli all'impensata.
Ma or non so bene se sul finire del marzo o sul cominciar dell'aprile 1833, due artiglieri, uno dei quali apparteneva all'Associazione e aveva fatto proposte all'altro, venuti a subita lite per una donna, dalle parole proruppero ai fatti. Impediti dai carabinieri regî, l'un d'essi, quegli appunto che avea avuto invito dall'altro ad affratellarsi, lasciò sfuggire parole di minaccia come s'egli potesse, volendo, essergli causa di male. Quelle parole furono raccolte e additarono al Governo il momento per tentare di risalire da uomo a uomo al segreto della congiura. Ricordo ch'io fatto partecipe dell'incidente, presentii le conseguenze fatali e scrissi: agite, se potete, o siete perduti. Il consiglio non giunse o non valse.
Il Governo si mise all'opera coll'energia di chi è minacciato da un supremo pericolo. Una rigorosa perquisizione nelle mucciglie e nella caserma degli artiglieri condusse alla scoperta d'alcuni stampati della Giovine Italia. I possessori furono imprigionati, e poco dopo i loro più intimi amici; gli uni e gli altri isolati da ogni contatto. Studiati i volti, i moti, l'inquietudine, il pallore, la mestizia insolita diventarono argomenti di carcere. E ciò che si fece in Genova fu fatto altrove; le prigioni di Torino, d'Alessandria, di Chambery s'aprirono a una moltitudine d'uomini che parevano sospetti, e si frapposero indugi tra l'uno e l'altro imprigionamento, tanto che gli ultimi imprigionati potessero credere a denunzie dei primi. E denunzie furono: vere in parte, in parte menzognere e suggerite da chi diceva: denunziate o perite: i codardi furono tre militari e un borghese, altri si avvilirono senza tradire i compagni, ma si confessarono, implorando, colpevoli e bastava: si catturarono gli amici loro. Dalle primarie si passò alle città secondarie, Nizza, Cuneo, Vercelli, Mondovì. Ebbero così tra le mani senza pur saperlo, parecchi degli uomini che dovevano dare il segnale del moto, e da carte sequestrate, da imprudenti parole o da altri indizî di nome. Intanto il terrore entrava negli animi; molti dei nostri si celarono; parecchi fuggirono. Sul cominciare della persecuzione i capi esitarono, in parte avvedendosi che il Governo poco sapeva e credendo che la tempesta trapasserebbe rapida com'era venuta, in parte, - e parlo d'Jacopo e Giovanni Ruffini segnatamente - perchè d'animo generoso, paventavano che dove il tentativo in quei frangenti fallisse a buon porto, s'apponesse ad essi l'aver dato improvvidamente il segnale a salvar sè stessi: dopo pochi giorni, l'insorgere s'era fatto impossibile. «Le caserme erano chiuse ai borghesi, custodite e vegliate25. E a render vano ogni tentativo d'accordo tra i cittadini e l'esercito, la Gazzetta Ufficiale stampava che le carte sequestrate provavano come i cospiratori professassero l'ateismo; come per distruggere il trono e l'altare intendessero giovarsi d'ogni mezzo il più orrendo dal pugnale all'incendio; come veleno in copia fosse stato trovato nelle stanze di due ufficiali; come in Chambery fossero preparate le mine a fare esplodere la polveriera situata a ridosso delle caserme, e la città di Torino fosse devota alle fiamme e decretata in Genova guerra di vespri contro i soldati piemontesi: arte nefanda di Governi immorali ch'io vidi ripetersi in Genova nel 1857, quando ci preparavamo ad ajutare l'ardita impresa di Carlo Pisacane sulle terre meridionali. Poi, se un fatto isolato di vendetta o d'irrefrenabile ira ha luogo nelle nostre file, gli uomini servi di Governi siffatti si fanno vermigli in volto e accusano noi tutti di teoriche del pugnale, come se il pugnale della calunnia che mira a spegnere l'onore e l'anima fosse da meno di quello che ferisce il corpo. E lo sciagurato che, falsando il nostro principio, vibra il coltello contro il nemico, è non foss'altro solo e senza mezzi per proteggersi da lui o punirlo altrimenti: i Governi che avventano sistematicamente l'arme certa della calunnia contro i perseguitati e pongono, come gli Irochesi, l'insultatore accanto al carnefice, hanno a difendersi, potenza di ricchezza, di prigioni e d'eserciti.
«Allontanato a quel modo e col terrore ogni pericolo d'insurrezione il Governo poteva allentare la propria ferocia e tornare, per punire, alle norme d'una leale giustizia. Ma infierì più che mai, fatto doppiamente crudele dal pericolo corso e dalla coscienza d'averlo temuto. La pagina di storia che si scrisse dalla Monarchia Sabauda in quell'anno fu tale che vorrebbe la penna d'un Tacito e intinta nel sangue; ed è di quelle che gli uomini dovrebbero rileggere ogni qualvolta sentono a infiacchirsi nell'animo loro l'abborrimento della tirannide, e le madri ripetere ai figli perchè v'imparino quali possano essere le sorti d'una terra non libera. Mentre al difuori delle prigioni era detto ai parenti e agli amici degli imprigionati che posassero tranquilli, e li rivedrebbero dopo indugio non lungo, dentro cominciavano scene terribili per indurre i sospetti a dichiararsi colpevoli.
«Ogni cosa, che l'odio ajutato dalla più profonda scienza del male può suggerire, era posta in opera per ottenerne confessioni: cogli uni la corruttela, cogli altri la menzogna sfrontata o il machiavellismo degli interrogatorî: con tutti, prima o dopo il terrore. A quei che si indovinavano meno fermi era detto: noi vi sappiamo colpevoli: morrete di fucilazione tra ventiquattro ore, ma svelando i complici vostri, potete salvarvi. Con quelli dei quali era nota la robusta tempra o la virtù, s'usava linguaggio diverso: erraste; ma per illusione di bene, lo sappiamo e vi compiangiamo; voi pensavate adoperarvi in un'opera di devozione e fidaste in traditori indegni del vostro sagrificio; il vostro silenzio non salva amici fidati e costanti, ma perde voi stessi e le vostre famiglie per codardi che vi denunciano; eccovi le loro testimonianze a vostro danno. Or volete, confermandole, versare anche una volta la gioja sul capo dei vostri cari ricongiungendovi ad essi o, persistendo a tacere, perire miseramente? E testimonianze con firme falsificate si ponevano un istante, in quell'ora di turbamento supremo, sotto gli occhi loro26. Per altri dai quali non volevano se non una confessione della loro partecipazione individuale all'impresa, ricorrevano allo spionaggio delle prigioni. S'introducevano vicino ad essi falsi cospiratori i quali agguatavano ogni momento d'abbandono o di disperazione per estorcere le informazioni volute27. Per ogni individuo si creavano nuove torture; tutte egualmente ignobili, codarde, feroci. Sotto la prigione dell'uno, una voce di pubblico gridatore annunziava fucilazione e imminenza d'altre. Di fronte alla prigione d'un altro, nello stesso corridojo, si poneva un amico dell'imprigionato: a quest'ultimo si parlava dei pericoli che minacciavano l'altro, il quale mutato subitamente e con ostentazione di straordinario calpestìo di soldati, di stanza, lasciava il prigioniero in balìa delle più tristi congetture possibili; e allora una scarica di moschetteria, indizio certo della sorte dell'amico, veniva a ferirgli l'orecchio28.
«Altrove i prigionieri erano assordati da un frastuono continuo: si impedivano loro i sonni: poi dopo quattro o cinque notti agitate, erano assaliti dagli interrogatorî architettati a tale una tortura morale che non può calcolarsi se non da chi l'ha patita. Allora quando vedevano l'energia morale del prigioniero esaurita, gli affacciavano un'offerta di perdono o profanavano la santità degli affetti domestici trascinando nella prigione un vecchio padre, o una madre a supplicarlo ch'ei rivelasse29. Parecchi piegarono. Altri si mantennero fermi e perirono.
Uno solo l'autore dello scritto sul Giuramento Militare citato più sopra, dotato d'anima pura e potente, che le seduzioni e le minaccie di tutti i re della terra non avrebbero mai potuto appannare o atterrire, sottrasse lo spirito ai corruttori e il corpo al carnefice. La notte, con un chiodo strappato all'uscio della prigione, ei s'aprì una vena del collo e si rifugiò, protestando contro la tirannide, nel seno di Dio. Ed ei lo poteva, perch'era incontaminato. Era il più dolce giovane, il più delicato e costante negli affetti ch'io m'abbia veduto. Amava la patria, della quale intendeva l'ampia missione, la madre, modello d'ogni virtù i fratelli e me30. Aveva vasto e pronto intelletto, ed era capace delle più grandi idee, però che le più grandi idee vengono dal core. Quei che conobbero intimamente Jacopo Ruffini venerano anch'oggi la sua memoria come quella d'un santo.»
Narra Brofferio nella sua Storia del Piemonte come Carlo Alberto, fatto per paura feroce, anelasse sangue, e a tal punto che dolendosi con Villamarina dell'umile condizione delle prime vittime, gli dicesse: non è bastevole esempio il sangue dei soldati: pensate a qualche ufficiale. Non ho modo d'appurare il fatto: ma di certo Villamarina, tenuto fino allora per uomo di spiriti liberali, e Giudici e Governatori, si condussero in guisa da far credere che sapessero di potere, incrudelendo, mercarsi favore dal Sire. Morto ogni senso di giustizia e sprezzate le stesse apparenze, si decretò fossero commessi i giudizî a tribunali di guerra tanto per incolpati civili quanto pei militari. Protestarono i primi, ma indarno. Protestarono pure con nobile ardire, il 17 luglio, cinque avvocati genovesi estranei ai procedimenti, ed ebbero risposta negativa il 25. Fu chiesto che ai civili si concedesse almeno il diritto di scegliersi difensori, e s'ebbe rifiuto. I denunziatori, ai quali era promessa la vita, mal s'accordavano tra di loro: due furono messi, il dodici maggio, nella stessa prigione; tre il 23, quattro il 30, e si concertarono. S'intese allora il sergente Turff a dichiarare, in appoggio alla testimonianza d'un Piacenza, soldato, d'avere somministrato egli stesso all'Associazione minuti ragguagli intorno all'Artiglieria; e nondimeno, in sette esami anteriori, ei non avea fatto cenno di questa gravissima circostanza. Rimanevano, a ogni modo, incancellabili, le contradizioni dei primi esami, contradizioni spinte al punto di dirsi taluni affigliati alla Giovine Italia dal 1830, quando l'Associazione non esisteva. Su rivelazione d'uomini siffatti si pronunziarono le sentenze: sentenze di morte anche contro prigionieri provati innocenti d'ogni attiva complicità, ma rei d'avere saputo e non denunciato31. Le difese furono una ironìa. I documenti si davano ai difensori mutilati, imperfetti, e per tempo sì breve da non lasciar campo a maturo esame. E i difensori appartenenti tutti all'esercito, furono non molto dopo, generalmente, puniti: forse avevano tradito nella voce o nella espressione del volto il commovimento dell'animo. Tra una sentenza e l'altra escivano decreti che il Governo non si sarebbe attentato di pubblicare in tempi normali, che minacciavano di galera e talora di morte qualunque darebbe circolazione in Piemonte a scritti avversi ai principî della monarchia: decreti infami in ogni tempo, che attribuivano ricompensa di cento scudi a chi si farebbe denunziatore.
Quei che perirono furono Giuseppe Tamburelli, caporale nella brigata Pinerolo, il 22 maggio 1833, in Chambery: Antonio Gavotti di Genova, maestro di scherma, il 15 giugno, in Genova: Giuseppe Biglia di Mondovì, sergente nei granatieri guardie, lo stesso giorno in Genova: Domenico Ferrari di Taggia, sergente32 nella brigata Cuneo il 14 giugno, in Alessandria; Giuseppe Menardi, Giuseppe Rigasso Amando Costa, Giovanni Marini, sergenti nella brigata Cuneo, lo stesso giorno, in Alessandria; Effisio Tola, di Sassari, luogotenente nella brigata Pinerolo, l'11 giugno, in Chambery; Alessandro de Gubernatis, di Gorbio, sergente nella brigata Pinerolo, il 14 giugno, in Chambery: Andrea Vochieri, d'Alessandria, legale, il 22 giugno, in Alessandria.
Condannati a morte, ma fuggiti in tempo, furono l'avvocato Scovazzi; Ardoino, luogotenente nella brigata Pinerolo; Vacarezza, sottotenente nella stessa brigata; i sergenti Vernetta, Enrici, Giordano, Crina; il chirurgo Scotti; Gentilini, proprietario; il marchese Carlo Cattaneo; Giovanni Ruffini; l'avvocato Berghini; l'ufficiale divisionario Barberis; il marchese Rovereto ed altri. Io pure allora fui condannato nel capo. Thappaz, luogotenente nel regio corpo degli ingegneri, fu condannato a venti anni di prigionia; il generale fuori di servizio Giuseppe Guillet a dieci; il medico Orsini a venti; Noli, mercante, e Moja, a prigione perpetua; Lupo, gioielliere, a venti anni; altri molti a cinque, a tre, a due; parecchi ufficiali imprigionati ad arbitrio; Spinola, Durazzo, Cambiaso e altri del patriziato furono, come puniti abbastanza dal carcere sofferto, restituiti alla libertà.
Tutto questo fu fatto affrettatamente, senza riguardo a legalità, senza alcuna di quelle apparenze solenni che danno indizio, non foss'altro, d'un atto di giustizia da compiersi. Era un furore, un terrorismo rivoluzionario senza grandezza di fine, senza scusa di prepotente necessità. Parea temessero di vedersi strappate le vittime. Carlo Alberto avea chiesto sangue, e davano sangue. Lo spargevano allo spuntare del giorno, fra le tenebre e l'alba. Le tinte del delitto incoloravano quelle opere di vendetta. Le mani della giustizia somigliavano quelle dell'assassino.
Qua e là accadevano scene da rabbrividirne. I carnefici, certi del regio sorriso, superavano la crudeltà del loro padrone33. Il generale Morra in Chambery, Gaverga Governatore, in Cuneo, il Generale Governatore d'Alessandria Galateri, furono per ferocia, cospicui. Al più feroce Carlo Alberto diede l'ordine della Santa Annunziata che gli conferiva il diritto di salutare il re del nome di cugino. E lo meritava.
Ringrazio Iddio d'avermi inspirata una fede che non s'è mai contaminata in Italia di simili orrori. I repubblicani di Napoli, di Venezia e di Roma escirono dal Governo puri di sangue cittadino e di bassa vendetta.
Non dirò com'io mi fossi, a quell'accalcarsi di nuove funeste, nell'animo mio: scrivo appunti di fatti, non la storia delle mie sensazioni. Parve bensì a me e agli amici miei che durasse in ogni modo per noi la necessità di tentare un fatto. Era visibile, nelle incertezze dei cospiratori dell'interno, quello squilibrio tra il pensiero e l'azione che anch'oggi, in grado minore, inceppa l'andamento del nostro risorgere. I principî di rivoluzione che predicavamo erano accolti; la necessità d'operare a seconda non era abbastanza sentita. Bisognava moralizzare il Partito: provargli col fatto che quando uomini d'una fede, e che si stanno mallevadori della salute o della rovina altrui, hanno promesso di fare, devono fare e non lasciarsi sviare da nuovi ostacoli o da cagioni individuali, comunque nobili e generose. Noi pure, capi al di fuori, avevamo promesso, e toccava a noi, insegnatori, di mantener le promesse. Avevamo d'altra parte, se ci veniva fatto d'operare sollecitamente, probabilità di successo. I più tra i nostri elementi non erano stati scoperti: sgominati, incerti e senza unità di capi o disegno, duravano pure potenti di numero, e una ardita iniziativa da parte nostra li avrebbe senz'altro raggranellati all'azione. Il fremito suscitato dalle crudeltà delle quali accennai era universale, e trapiantando rapidamente l'iniziativa dall'interno in noi, eravamo quasi certi di dar moto a una riscossa in Italia. Le nostre speranze erano talmente fondate che - per accennar qui di volo un tentativo intorno al quale non occorre spendere lunghe parole - il solo annunzio della nostra decisione bastò a raccogliere gli elementi dispersi di Genova e risuscitare il disegno. Sul finire dell'anno, un moto era nuovamente preparato in quella città, e non fallì se non per l'inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parte di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga34.
Deliberammo adunque di fare. Lasciai Marsiglia e mi recai in Ginevra.
Studiai il terreno dal quale dovevamo operare. Come ogni Governo, il Ginevrino doveva opporsi a ogni tentativo d'irruzione armata in un paese finitimo; ma venuto a contatto coi cittadini influenti, tra i quali era Fazy, allora amicissimo mio, poscia, fatto capo di Governo, nemico, m'avvidi che l'opposizione sarebbe stata fiacca e che avremmo avuto il favore del popolo. Strinsi lega con quanti avrebbero potuto all'uopo giovarci; ajutai l'impianto d'un giornale, l'Europe Centrale, destinato a diffondere l'idea dell'emancipazione della Savoja; trovai gli uomini capaci di mantenere sicure le corrispondenze segrete con quella Provincia: feci insomma quant'era in me per accertare che avremmo potuto, anche a dispetto del Governo, operare.
La Savoja era oppressa, malcontenta, disposta a insorgere. Ebbi abboccamenti con cittadini di Chambery, d'Annecy, di Thonon, di Bonneville, d'Evian, d'altri punti. Si concertarono le basi del moto. A chi mi chiedeva quali erano le sorti serbate, in caso di riuscita, al paese, io rispondeva: che sarebbe lasciato al voto della popolazione di serbarsi all'Italia o dichiararsi Francese o congiungersi alla Confederazione Svizzera; e che, quanto a me, avrei desiderato si scegliesse il terzo partito. Ed era in fatti ed è tuttavia mia opinione che nel riparto futuro d'Europa, la Federazione Svizzera, mutata in Federazione Alpina, e fatta barriera tra Francia, Italia e Germania, dovrebbe stendersi da un lato alla Savoja, dall'altro al Tirolo Tedesco, e più oltre. La Lega delle popolazioni Alpine è indicata dalle condizioni geografiche, dalle tendenze più o meno uniformi degli abitatori dei monti, e dalla missione speciale a pro della pace Europea che quella zona intermedia, fatta più forte ch'oggi non è, sarebbe chiamata a compire. E credo che, quando la Svizzera, smembrata fra la Germania, la Francia e noi, non sia cancellata dalla Carta d'Europa, sarà quello il futuro. Soltanto la politica funesta di Cavour ha seminato difficoltà tremende dove non erano, come ha cacciato, colla cessione di Nizza, il germe d'una guerra nell'avvenire tra due nazioni, chiamate ad amarsi e procedere unite.
Gli elementi non mancavano all'azione ideata. E avremmo potuto raccoglierli tutti fra li esuli italiani; se non che il chiamarli dai diversi luoghi di deposito in Francia avrebbe, oltre al suscitar l'attenzione, importato gravissima spesa. Altri elementi erano stati accumulati dalle circostanze in Isvizzera: esuli tedeschi in conseguenza del tentativo fatto in Hambach; esuli polacchi cacciati per insubordinazione ai regolamenti o per altro dalla Francia. Ed erano, agglomerati, i primi nei cantoni di Berna e Zurigo, i secondi in quei di Neuchâtel, Friburgo, Vaud e Ginevra. Noi potevamo dunque ordinarli e giovarne l'impresa senza rivelare, con subite traslocazioni, il disegno ai Governi. A me sorrideva l'idea d'inanellare colla causa di Italia quella d'altre nazioni oppresse, e d'impiantare sulle nostre Alpi una bandiera di fratellanza Europea. La Giovine Europa era nella mia mente uno sviluppo logico del pensiero che informava la Giovine Italia. E il ridestarsi d'Italia doveva essere a un tempo un atto di iniziativa, una consecrazione dell'alto ufficio che le spettò nel passato, e le spetterà, confido, nell'avvenire. La Federazione dei Popoli doveva trovare il suo germe nella nostra Legione.
Il pensiero comunicato da me ai migliori tra gli esuli delle due nazioni, fu accolto con entusiasmo. Si fondarono comitati: si lavorò all'ordinamento pratico militare dei diversi nuclei che dovevano essere chiamati all'azione. M'ajutavano in questo lavoro alcuni militari, tra i quali era primo Carlo Bianco che s'era con Gentilini, Scovazzi e altri collocato in Nyon. Intorno a me, nell'albergo della Navigazione, ai Pâquis, s'erano raccolti Giovanni e Agostino Ruffini di Genova, Giambattista Ruffini di Modena, oggi Maggiore, Celeste Menotti, Nicola Fabrizi, Angelo Usilio, Giuseppe Lamberti, Gustavo Modena, Paolo Pallia e altri parecchi. L'albergo era tutto nostro e fatto inaccessibile alla vigilanza delle polizie. Giacomo Ciani lavorava operoso a conquistare al disegno i facoltosi lombardi, sparsi qua e là per la Svizzera: operoso egli pure, un Gaspare Belcredi di Bergamo, valente medico, noncurante di fama o d'ogni altra cosa fuorchè del fine e ch'io cito perchè fra i pochissimi che non mutarono mai, e mi sono ancora, mentr'io scrivo, amicissimi. Raccogliemmo nuovi mezzi in danaro, segnatamente da Gaspare Rosales, gentiluomo lombardo, raro per unità di pensiero e d'azione, d'indole generosa, leale, cavalleresca. Provvedemmo da Saint-Etienne e dal Belgio armi in buon numero: preparammo cartucce e quanto occorreva. Lavoravamo tutti concordi e lietamente instancabili.
Tutto andava a seconda. Se non che, come dissi, importava agire rapidamente; e da una esigenza dei comitati dell'interno e degli uomini che ajutavano con danaro l'impresa, sorse un ostacolo che dovea condannarla a indugi indefiniti e a rovina. Chiedevano un nome. Volevano messo a capo dell'invasione un uomo militare, di grado superiore, e che alla capacità aggiungesse il fascino della rinomanza. E indicavano il Generale Ramorino.
Mandato, dal Comitato degli amici della Polonia in Parigi, a Varsavia, durando l'insurrezione nazionale Polacca, Ramorino, legato colla frazione capitanata dal Principe Czartoriski e dall'aristocrazia del paese, s'era condotto, negli ultimi tempi della guerra, in modo giudicato severamente dai migliori patrioti. Ma, tornato in Francia, era stato salutato d'ovazioni da quanti nello straniero soldato volontario in Polonia vedevano rappresentato il principio della fratellanza dei popoli, e da quanti, dando plauso a ogni uomo che avesse combattuto in Polonia, intendevano onorare non tanto lui quanto le lotte d'una nazione oppressa dal numero ma destinata a rivivere. Il nome di Ramorino era inoltre popolare in Savoja dov'egli, credo, era nato, in Genova dove viveva la di lui madre, e generalmente in Italia dove l'orgoglio dei caduti in fondo era accarezzato dagli omaggi profusi a un Italiano. E nessuno badava più oltre. Ebbi intimazione solenne di dovermi porre in contatto con lui e offrirgli il comando della fazione.
Protestai quanto seppi. - Affratellato coi migliori tra gli esuli della Polonia io aveva, dalle loro conversazioni come dall'attento esame delle operazioni militari di Ramorino, ritratto giudicio diverso da quello dei Comitati. Ricordai loro che avevamo tutti predicato il principio: a cose nuove uomini nuovi; che nelle grandi rivoluzioni le imprese avevano creato i nomi, non i nomi, le imprese; che in ogni modo, nel duplice stadio dell'iniziativa e della guerra che terrebbe dietro, sarebbe stato più cauto lasciare il primo agli ordinatorî del moto, e affidare al Generale il secondo, quando i primi successi avrebbero già fatto securo il programma e vincolerebbero il Capo qualunque ei si fosse. Non valse, il prestigio d'un nome era pur troppo allora - ed è tuttavia - più assai potente che non il principio. Mi fu dichiarato che senza Ramorino non s'agirebbe. E m'avvidi che s'interpretava il dissenso mio come istinto di chi ambiva essere capo civile e militare ad un tempo. Vive tuttavia chi mi vide prorompere in lungo ed amaro pianto convulso al primo allacciarsi di quella accusa: io la meritava sì poco che non aveva mai sospettato potesse sorgere. E m'era tremenda rivelazione dell'avvenire di sospetti, di diffidenze e calunnie serbato agli uomini che con un'anima pura e piena di fiducia in altrui si consacrano a una grande impresa. Quella rivelazione s'adempì tristissima sulla mia vita.
Piegai, credo a torto, la testa e invitai Ramorino. Udito il disegno accettò. Statuimmo che l'invasione s'opererebbe da due colonne; che la prima moverebbe da Ginevra, e io ne assumeva l'ordinamento; la seconda da Lione dove Ramorino affermava d'aver influenza grandissima; e imprendeva egli a formarla. Ramorino mi chiese, per le spese necessarie all'ordinamento della colonna, 40,000 franchi; e li diedi. L'ottobre (1833) non doveva trascorrere senza vederci in azione. Ei partì sollecitamente. Io gli raccomandai come segretario un giovine modenese, fidatissimo nostro, che doveva invigilarlo e informarmi.
«Non molto prima della spedizione, sul finire del 183335, mi si presentò all'Albergo della Navigazione in Ginevra, una sera, un giovine ignoto. Era portatore d'un biglietto di L. A. Melegari, che mi raccomandava con parole più che calde l'amico suo, il quale era fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi meco. Il giovine era Antonio Gallenga. Veniva di Corsica. Era un affratellato della Giovine Italia.
«Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso di vendicare il sangue de' suoi fratelli e d'insegnare ai tiranni una volta per sempre che la colpa era seguita dall'espiazione: ch'ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo Alberto il traditore del 1821 e il carnefice de' suoi fratelli; ch'egli aveva nutrito l'idea nella solitudine della Corsica, finchè s'era fatta gigante e più forte di lui. E più altro.
«Obbiettai, come ho fatto sempre in simili casi: discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo. Dissi ch'io stimava Carlo Alberto degno di morte, ma che la di lui morte non salverebbe l'Italia, che per assumersi un ministero di espiazione, bisognava sentirsi puro di ogni senso di povera vendetta e d'ogni altro che non fosse missione; che bisognava sentirsi capace di stringere, compito il fato, le mani al petto, e darsi vittima; che in ogni modo ei morrebbe nel tentativo, morrebbe infamato dagli uomini come assassino, e via così per un pezzo.
«Rispose a tutto; e gli occhi gli scintillavano mentr'ei parlava: non importargli la vita: non s'arretrerebbe d'un passo, compito l'atto: griderebbe viva l'Italia e aspetterebbe il suo fato: i tiranni osar troppo, perchè sicuri dell'altrui codardia, e bisognava rompere quel fascino: sentirsi destinato a quello. S'era tenuto in camera un ritratto di Carlo Alberto e il contemplarlo gli aveva fatto più sempre dominatrice l'idea. Finì per convincermi ch'egli era uno di quegli esseri le cui determinazioni stanno tra la coscienza e Dio e che la Provvidenza caccia da Armodio in poi di tempo in tempo sulla terra per insegnare ai despoti che sta in mano d'un uomo solo il termine della loro potenza. E gli chiesi che cosa volesse da me.
«Un passaporto e un po' di danaro.
«Gli diedi mille franchi e gli dissi che avrebbe un passaporto in Ticino.
«Fin là, ei non sapeva neanche che la madre di Jacopo Ruffini fosse in Ginevra e appunto nell'albergo ov'io era.
«Gallenga rimase la notte e parte del giorno dopo. Pranzò colla Ruffini e con me: non si disse verbo tra loro. Lasciai la Ruffini ignara delle intenzioni. Essa era generalmente ammutolita dal dolore e non mosse quasi parola.
«Nelle ore ch'ei passò meco, sospettai ch'ei fosse spronato più da una sfrenata ambizione di fama che non dal senso d'una missione espiatoria da compiersi. Mi ricordò sovente che da Lorenzino de' Medici in poi non s'era compiuto un simile fatto, e mi raccomandò ch'io scrivessi, dopo la sua morte alcune linee sui suoi motivi. Partì valicando il Gottardo, mi scrisse poche parole, piene d'entusiasmo: s'era prostrato sull'Alpi e avea nuovamente giurato all'Italia di compiere il fatto. Ebbe in Ticino un passaporto col nome di Mariotti.
«Giunto in Torino, s'abboccò con un membro del Comitato dell'Associazione del quale egli aveva avuto il nome da me. Fu accolta l'offerta. Furono presi concerti. Il fatto doveva compirsi in un lungo adito in Corte, pel quale il re passava ogni domenica recandosi alla cappella regia. S'ammettevano taluni a vedere il re con un biglietto privilegiato. Il comitato potè provvedersi d'uno. Gallenga andò con quello, senz'armi, a studiare il luogo. Vide il re e più fermo che mai: lo diceva almeno. Fu statuito che la domenica successiva sarebbe il giorno del fatto. Allora, impauriti del procacciarsi, in quei momenti di terrore organizzato, un'arme in Torino, mandarono un membro del Comitato, Sciandra, commerciante, oggi morto, per la via di Chambery a Ginevra, a chiedermi l'arme e avvertirmi del giorno.
«Un pugnaletto con manico di lapislazzuli che m'era dono carissimo, stava sul mio tavolino: accennai a quello, Sciandra lo prese e partì.
«Ma intanto, non considerando quel fatto come parte del lavoro d'insurrezione ch'io dirigeva, e non facendone calcolo, io mandava per cose nostre in Torino un Angelini nostro sotto altro nome. L'Angelini, ignaro del Gallenga e d'ogni cosa, prese alloggio appunto nella via dove stava in una cameretta quest'ultimo. Poi, commettendo imprudenze di condotta, fu preso a sospetto; tornando a casa, la vide invasa dai carabinieri: tirò di lungo e si pose in salvo.
«Ma il Comitato, udito che a due porte da quella del regicida erano scesi i carabinieri, e non sapendo cosa alcuna dell'Angelini, argomentò che il Governo avesse avuto avviso del progetto e fosse in cerca del Gallenga. Perciò lo fece uscir di città, lo avviò a una casa di campagna fuor di Torino, dicendogli che non si poteva tentare quella domenica, ma che se le cose si vedessero in quiete, lo richiamerebbero per un'altra delle successive.
«Una o due domeniche dopo, mandarono per lui: non lo trovarono più. Era partito ed io lo rividi in Isvizzera.
«Rimanemmo legati: ma si sviluppò in lui un'indole più che orgogliosa, vana, una tendenza d'egoismo, uno scetticismo insanabile, uno sprezzo d'ogni fede politica, fuorchè l'unica dell'Indipendenza Italiana. Lavorò meco, nondimeno: fu membro del nostro Comitato Centrale e firmò, come Segretario, un appello stampato agli Svizzeri contro la tratta de' soldati sgherri che facevano. Poi s'astenne e si diede a scrivere articoli di Riviste e libri. Disse e misdisse degli Italiani, degli amici, e di me. Prima del 1848 si riaccostò e fece parte d'un nucleo che s'ordinò sotto nome nostro. Venne il 1848. Io partiva; mi chiese di partire con me. In Milano si separò, dicendomi ch'egli era uomo di fatti, e voleva recarsi al campo. Invece d'andare al campo andò in Parma, dove congregato il popolo in piazza, cominciò a predicare quella malaugurata fusione che fu la rovina del moto. Diventò segretario d'una Società Federativa presieduta da Gioberti, del quale egli aveva scritto plagas nei suoi articoli inglesi sulle cose d'Italia; sottoscrisse circolari destinate a magnificare la monarchia piemontese; e fu scelto dal Governo a non so quale piccola ambasciata in Germania.
«Lo incontrai nuovamente dopo la caduta di Roma, in Ginevra. Mi parlò; e indifferente a biasimo o lode, gli parlai. Egli accusava i lombardi di non avere secondato il re; io gli narrai quelle storie di dolore ch'io avea veduto svolgersi, egli no: gli provai la falsità dell'accusa. Parve convinto e insistè perch'io scrivessi su quell'argomento. Dopo un certo tempo, tornato in Londra, trovai ch'egli, giuntovi appena, avea pubblicato un libello contro i milanesi dov'egli li chiamava persino codardi. Nauseato e dolendomi di vedere così calunniato da un Italiano, tra stranieri, un popolo di prodi traditi, deliberai di non più vederlo e non lo vidi mai più.»
Quando questa mia rivelazione fu letta in Torino, si levò tale una tempesta contro il Gallenga ch'ei s'avvilì. Scrisse lettere sommesse e pentimenti del trascorso giovanile: diede la sua dimissione di Deputato: rimandò non so qual croce che gli avevano appiccata al petto, sì come indegno di farne mostra, e dichiarò solennemente nel Risorgimento del novembre 1856 ch'ei rinunziava d'allora in poi ad ogni atto e scritto politico. Poi, mendicò di bel nuovo ad un collegio di ignari la Deputazione e si fece corrispondente pagato, per le cose d'Italia del Times, nelle cui colonne egli versa due volte la settimana oltraggio e calunnie sui volontari Garibaldini, sull'esercito meridionale, sugli artigiani associati, sul Partito d'Azione e su me. È decretato che ogni uomo il quale s'accosta alla setta dei moderati debba smarrire a un tratto senso morale e dignità di coscienza?
Sui primi d'ottobre, ogni cosa era pronta da parte mia: non così da parte del generale Ramorino, al quale io scriveva e riscriveva senza ottenere risposta: mi giungevano bensì dal giovane segretario ragguagli tristissimi che m'additavano Ramorino perduto nella passione del gioco, indebitato e vôlto a tutt'altro che ad ordinar la colonna. Passò l'ottobre. Gli mandai viaggiatori, tra i quali ricordo Celeste Menotti che dovè raggiungerlo in Parigi, dov'ei s'era, senza scopo apparente, ridotto. Spronato, rimproverato, ei chiese tempo, allegando ostacoli impreveduti al lavoro. Gli concedemmo, riluttanti, il novembre. E il novembre anch'esso passò. Sul cominciare di dicembre, ei finalmente mi dichiarò che gli riusciva impossibile d'ordinare anche cento sui mille uomini promessi; che la polizia parigina informata, l'aveva interrogato sul disegno; ch'ei s'era valentemente schermito, ma che invigilato, adocchiato in ogni suo passo, ei non poteva ormai più adempiere alle sue promesse - e mi rimandava 10,000 sui 40,000 franchi affidatigli. Più tardi seppi ch'egli, cedendo a minacce e promesse di pagamento dei debiti, s'era messo in accordo col Governo francese, vincolandosi, non a tradire sul campo, ma a impedire che v'entrassimo mai.
Intanto, l'opportunità della mossa andava sfumando. Il partito all'interno, decimato, impaurito, sviato, cadeva nell'anarchia e nella impotenza. Al di fuori, il segreto dell'impresa, fidato a centinaja di uomini italiani, polacchi, francesi, svizzeri, si svelava a tutte le polizie. I loro agenti convenuti da ogni lato di Ginevra, spiavano ogni nostro passo, accumulavano ostacoli, insistevano colle autorità Ginevrine perchè disperdessero gli esuli agglomerati nel Cantone. Li disseminammo come meglio si poteva, a sviar l'attenzione e i sospetti; ma rimossi dalla vigilanza del Centro, lasciati alle loro inspirazioni individuali, scorati, e diffidenti pei lunghi indugi e per le promesse ripetute e sempre fallite perdevano ogni senso di disciplina, partivano, tornavano, s'allontanavano senza dir dove, in cerca d'occupazione: altri molti, privi di mezzi, ricorrevano alla Cassa Centrale ed esaurivano i mezzi serbati all'azione. Deputazioni incessanti venivano dai più impazienti fra i proscritti stranieri a lagnarsi, a chiedere quando si farebbe, ed assegnare termini perentorî all'azione, minacciando taluni di sciogliersi, altri d'operare rovinosamente da sè. L'ambasciata Francese offriva ai polacchi cacciati poco innanzi da Besançon oblio, passaporti, danaro, ogni cosa purchè vi tornassero; e i comitati Svizzeri, informati di quelle offerte, ricusavano più oltre soccorrerli. Bisognava, a trattenerli, dar loro paga regolare. L'indugio era una vera rovina.
E nondimeno, io non poteva svelare il vero. La voce fatta correre all'interno che Ramorino capitanava l'impresa era diventata una condizione sine qua non. Il nostro dichiarare che s'agirebbe, ma senza di lui, avrebbe disanimato tutti i cospiratori della Savoja, e l'interpretazione più ovvia sarebbe stata ch'ei s'asteneva, giudicando l'impresa impossibile. Nè io, sospetto di volere allontanato un rivale, avrei ottenuto fede, se non con prove documentate, ch'io non aveva, della sua mala condotta.
E come se quel viluppo di difficoltà pressochè insormontabili non bastasse, s'aggiungeva l'opposizione segretamente dissolvitrice di Buonarroti. Buonarroti in lega con me fino allora s'era fatto subitamente avverso a ogni nostro tentativo d'azione: angusto di vedute e intollerante nel suo giudicare degli uomini, ei vedeva nel mio collegarmi con Giacomo Ciani, con Emilio Belgiojoso, ch'era venuto a offrirsi ajutante di Ramorino, e con altri patrizî o ricchi lombardi ch'ei chiamava sdegnosamente i banchieri, una deviazione dai principî della pura democrazia; ma sopratutto, egli, cospiratore per tutta la vita a Parigi, ignaro assolutamente d'ogni elemento Italiano e neppur sognando che l'iniziativa potesse e dovesse un giorno trapiantarsi di Francia in Italia o in altra Nazione, non ammetteva che potesse cominciarsi un moto fuorchè - non dirò in Francia, perch'egli avversava pure i disegni del Lionese - ma in Parigi. E fulminò scomunica contro di noi: scomunica abbastanza potente, perchè tutti gli elementi Svizzeri che m'erano indispensabili erano affratellati nella Carboneria, ed egli costituiva, con Testa, Voyer di Argenson ed altri l'Alta Vendita della Setta. Io mi trovava a un tratto minato nelle parti vitali del mio lavoro, e sentiva tutte le ruote del congegno arrestarsi, senza poterne indovinare il perchè.
Com'io resistessi a ostacoli siffatti e rinascenti ogni giorno, non so. Era una lotta d'Antèo, cadente a ogni tanto e risorgente con nuova forza dalla terra toccata. Mi toccò riconquistare a uno a uno gli agenti Svizzeri e staccarli da Buonarroti. Raccolsi nuovo danaro. Trattenni i Polacchi. Mandai uomini nostri a formare rapidamente, perchè non fallisse una parte del disegno ch'era promessa e che era diversione importante, un nucleo di colonna in Lione, fidandone la direzione a Rosales, a Nicolò Arduino e all'Allemandi: in quel nucleo era il giovine Manfredo Fanti, più tardi Generale, Ministro, e nemico nostro.
Perchè non rinunciai all'impresa? Oltre le cagioni del persistere accennato più sopra, il dire a un tratto a tutti gli elementi dell'interno a tutti gli uomini nostri e stranieri che al difuori vivevano in quella fede, ai repubblicani francesi, a tutti coloro che avevano dato denaro pei quattro quinti già speso: non era che un sogno, era un decretare morte per sempre al Partito nella cui vita io vedeva gran parte della salute dell'Italia. Era meglio tentare e cadere in campo, lasciando non foss'altro un insegnamento morale a chi volesse raccoglierlo. Poi se taluno fra' miei lettori è stato mai a capo d'una impresa collettiva, egli almeno deve sapere come l'impresa giunta a un certo grado di sviluppo diventi padrona dell'uomo e non gli conceda più di ritrarsi.
Passava intanto in quei lavori, non solamente tutto il novembre, ma il dicembre; con tale rovina della fiducia di tutti, e con tale esaurimento di mezzi da comandarmi imperiosamente l'azione. La risolsi pel finir di gennajo (1834) e sollecitai perchè verso quel tempo s'operasse in Lione. L'eco dell'insurrezione Francese avrebbe largamente supplito a tutti quei gradi di potenza che s'erano irreparabilmente perduti in Italia.
Scrissi a Ramorino, dicendogli ch'io avrei iniziato a ogni modo; venisse ad assumere il comando della fazione, e se non prima, ricevuta appena la nuova del nostro ingresso. Il moto era fissato pel 20 gennajo.
E aspettando risposta, ordinai quant'era necessario alla mossa. Si determinarono i giorni, l'ora della partenza di nuclei collocati sui diversi punti, l'ordine delle giornate, le vie da tenersi, i viveri, i corrieri di punto in punto. Si fece deposito delle armi, per quei che venivano da lontano, in Nyon, sulla sponda del lago. S'apprestarono barche e zattere, tanto che invece di spingersi tutti in Ginevra dove eravamo già troppi, e dove il Governo avrebbe necessariamente tentato d'opporsi, tragittassero il lago e venissero a ricongiungersi con noi in Carouge, punto di convegno per tutti. In Carouge si trasportarono l'armi per quei che dovevano muovere da Ginevra e dintorni. Si compì l'ordinamento militare; si scelsero i capi; si prepararono i proclami.
Poco importa ora l'esporre minutamente il concetto di guerra che mi parve da scegliersi. Basti il dire che il punto centrale dell'operazione era Saint-Julien, sulla via d'Annecy. Non potendo nè volendo determinare l'ora dell'insurrezione delle provincie Savojarde, ordinai si raccogliessero in Saint-Julien, delegati di ciascuna, tanto che fatti certi del nostro arrivo, corressero a dare alle loro circoscrizioni il segnale del moto. La nostra forza era tale da rendere ogni valida resistenza in Saint Julien impossibile.
Io sperava che Ramorino s'attenesse al secondo partito insinuatogli e non venisse che dopo iniziata la mossa; ma fui deluso. Mi scrisse che sarebbe venuto a tempo. E questa sua promessa fu intanto cagione di nuovi indugi fatali allora più che mai. S'arrestò sulla via, mi mandò avvisi che mi trattennero di giorno, in giorno, e ci trascinarono fino al 31 gennajo, quand'ei giunse la sera, con due generali, polacco l'uno, spagnuolo l'altro, un ajutante, un medico.
Lo vidi. Stava sul suo volto il sospetto di chi sente d'essere sospettato e meritamente. Ei non levava, parlandomi gli occhi da terra. Io ignorava ancora gli accordi stretti col governo francese, ma presentii un tradimento possibile. Determinai stargli a fianco, e giunti che fossimo a Saint-Julien, negargli, occorrendo, il potere. L'insurrezione iniziata avrebbe probabilmente sentito la propria forza e concesso minor importanza al prestigio di un nome.
Non proferii parola sul passato. Gli diedi il quadro delle nostre forze. Gli comunicai il disegno di guerra. Gli proposi l'approvazione degli ufficiali. Accettò ogni cosa. Soltanto, allegando la responsabilità che pesava su lui, volle assumere sin d'allora il comando ch'io avrei voluto non cominciasse che a Saint-Julien: fu appoggiato da quanti fra i nostri vedevano nella supremazia militare la salute dell'impresa, e se ne giovò per istituire alcuni capi, quello fra gli altri che dovea guidare i polacchi destinati ad attraversare il lago da Nyon. Lo condussi, per vincolarlo più sempre, a un convegno segreto col generale Dufour. Là furono studiate nuovamente le basi del disegno.
Il 1.° febbrajo ci ponemmo in moto. In Ginevra il governo tentò d'impedire, anche più energicamente ch'io non avrei pensato, il concentramento. I battelli furono sequestrati. L'albergo ov'io era fu circondato dai gendarmi. S'arrestavano i nostri quando il menomo indizio, un'arme, un berretto, una coccarda li rivelava. Ma la popolazione preparata di lunga mano si levò tutta a proteggerci. Ufficiali e soldati guardavano con favore la nostra mossa e cedevano facilmente alle istanze semi-minacciose dei cittadini. Tutti i nostri si raccolsero al convegno e s'armarono. Rimasi l'ultimo in Ginevra per dirigere la mobilizzazione, poi, la sera, in un battello ch'era stato giudicato inservibile, traversai coi Ruffini e uno o due altri il lago e mi recai al campo dei nostri. Era tutto entusiasmo, lietezza, fiducia.
Ma ci aspettava d'altra parte una serie terribile di delusioni.
I giovani tedeschi che avevano avuto le mosse da Zurigo e Berna, spinti da un entusiasmo che esagerava la facilità dell'impresa e dimenticava l'inevitabile opposizione del governo Svizzero, s'avviarono collettivamente, a nuclei, quasi in ordine di battaglia, con coccarde repubblicane germaniche, foglie di quercia al berretto, e rivelando agli occhi di tutti il fine per cui movevano. La distanza dal punto di convegno era grande e concedeva tempo e mezzi di repressione alle autorità. Gli uni furono lungo la via circondati; altri dispersi; molti vinsero gli ostacoli e giunsero, ma per vie diverse dalle segnate e tardi: pochissimi tra quelli elementi ci raggiunsero in tempo. E fu perdita grave.
La colonna dei polacchi che dovevano attraversare il lago da Nyon, affidata da Ramorino a un Grabski, commise l'inescusabile errore di separare gli uomini dall'armi: barche svizzere con soldati del contingente passarono in mezzo, s'impossessarono della zattera sulla quale erano l'armi, e condussero gli inermi prigioni.
Questi e altri incidenti simili ci privarono a un tratto dei tre quarti almeno delle nostre forze, e quel ch'è peggio, diedero a Ramorino il pretesto che gli mancava.
Per qualunque avesse avuto scintilla di genio insurrezionale e sopratutto intenzione di riuscire, la posizione era chiara. Noi potevamo anche colle poche nostre forze, correre difilati su Saint-Julien e occuparlo. Non v'erano truppe. Certi di non poterlo difendere, i capi piemontesi, all'annunzio della nostra mossa, avevano abbandonato quel punto, e s'erano collocati a metà strada per coprire Annecy. Giunti a Saint-Julien e partiti a diffondere il segnale d'insurrezione i delegati che s'erano raccolti, poco importava la cifra delle nostre forze. E inoltre l'entusiasmo delle popolazioni svizzere, infervorato dal nostro primo successo, avrebbe costretto il governo a mettere in libertà le nostre colonne che ci avrebbero poco dopo raggiunti.
La nuova dell'allontanamento delle truppe da Saint-Julien era stata comunicata a Ramorino. Credendo nell'esecuzione della promessa e non volendo dar pretesti al sospetto di dualismo e d'ambizione nascente, presi una carabina e mi confusi nelle file dei militi.
Il documento collettivo ch'or qui si ripubblica lascia intendere abbastanza come Ramorino si facesse un'arme dell'imprigionamento dei polacchi del lago e della speranza di riaverli per mutare subitamente il disegno, sviarsi dal punto obbiettivo, costeggiare per quasi ventiquattro ore il lago, stancare, sconfortare, rendere incapaci di disciplina i nostri elementi. Ond'io m'asterrò dal ripetere, e dirò solamente in poche linee ciò che mi concerne personalmente.
Io aveva presunto troppo delle mie forze fisiche. L'immenso lavoro ch'io m'era da mesi addossato le avea prostrate. Per tutta l'ultima settimana io non aveva toccato il letto; avea dormito appoggiandomi al dosso della mia sedia a mezz'ore, a quarti d'ora interrotti. Poi, la ansietà, le diffidenze, i presentimenti di tradimento, le delusioni imprevedute, la necessità d'animare altrui col sorriso d'una fiducia che non era in me, il senso d'una più che grave responsabilità, avevano esaurito facoltà e vigorìa. Quando mi misi tra le file, una febbre ardente mi divorava. Più volte accennai cadere e fui sorretto da chi m'era a fianco. La notte era freddissima e io aveva lasciato spensieratamente non so dove il mantello. Camminava trasognato, battendo i denti. Quando sentii qualcuno - era il povero Scipione Pistrucci - a mettermi sulle spalle un mantello, non ebbi forza per volgermi a ringraziarlo. Di tempo in tempo, poi che m'avvidi che non s'andava su San Giuliano, io richiamava con uno sforzo supremo le facoltà minacciate per correr in cerca di Ramorino e pregarlo, scongiurarlo perchè ripigliasse il cammino sul quale eravamo intesi. Ed ei m'andava, con un guardo mefistofelico, rassicurando, promettendo, affermando che i polacchi del lago s'aspettavano di minuto in minuto.
Ricordo che a mezzo dell'ultimo abboccamento, mentr'ei più deliberatamente mi resisteva, un fuoco di moschetteria partito dal piccolo nostro antiguardo mi fece correre al fascio delle carabine, con un senso di profonda riconoscenza a Dio che ci mandava finalmente, qualunque si fosse, la decisione. Poi, non vidi più cosa alcuna. Gli occhi mi s'appannarono; caddi, e in preda al delirio.
Fra un accesso e l'altro, in quel barlume di coscienza che si racquista a balzi per ricadere subito dopo nelle tenebre, io sentiva la voce di Giuseppe Lamberti a gridarmi: che cosa hai preso? Egli e pochi altri amici sapevano ch'io temendo d'esser fatto prigione e tormentato per rivelazioni, aveva preso con me un veleno potente. E affaticato pur sempre dal pensiero delle diffidenze che s'erano, o mi pareva, suscitate in taluni, io interpretava quelle parole come s'ei mi chiedesse quale somma io avessi preso dai nemici per tradire i fratelli. E ricadeva, smaniando, nelle convulsioni. Tutti quei che fecero parte della spedizione e sopravvivono, sanno il vero delle cose ch'io dico. Quella notte fu la più tremenda della mia vita. Dio perdoni agli uomini che, spronati da cieca ira di parte, seppero trovarvi argomento di tristi epigrammi.
Appena Ramorino seppe di me, sentì sparito l'ostacolo: salì a cavallo, lesse un ordine del giorno che scioglieva la colonna dichiarando l'impresa impossibile, e l'abbandonò. Supplicarono Carlo Bianco perchè li guidasse: egli s'arretrò davanti alla nuova responsabilità e al disfacimento visibile tra gli elementi. La colonna si sciolse.
Quando mi destai, mi vidi in una caserma, ricinto di soldati stranieri. Vicino a me stava l'amico mio Angelo Usiglio. Gli chiesi ove fossimo. Mi disse con volto di profondo dolore: In Isvizzera. E la colonna? in Isvizzera (1861).
Il primo periodo della Giovine Italia era conchiuso e conchiuso con una disfatta. Doveva io ritirarmi dall'arena e rinunziando a ogni vita politica, aspettando paziente che il tempo o altri più capace o più avventuroso di me maturasse i fati italiani, seguire nel silenzio una via di sviluppo individuale e riconcentrarmi negli studî che più sorridevano all'anima mia?
Molti mi diedero quel consiglio: gli uni convinti che l'Italia, guasta fino al midollo dal lungo servaggio e dall'educazione gesuitica, non avrebbe mai potuto far suo il nostro ideale e conquistarne colle proprie forze il trionfo; gli altri già stanchi sul cominciar della lotta, bramosi di vivere della vita dell'individuo e impauriti dalla tempesta di persecuzioni che s'addensava visibilmente sulle nostre teste. E i fatti che seguirono l'infausta spedizione convalidavano i loro argomenti. Un immenso clamore di biasimo s'era levato, da quanti in tutti i tempi non adorano che la vittoria, contro di noi. L'onda, rotta agli scogli, retrocedeva. Dall'Italia non venivano che voci di sconforto, nuove di fughe, diserzioni, imprigionamenti e dissolvimento. Intorno a noi, nella Svizzera, il favore col quale erano stati accolti i nostri disegni si convertiva rapidamente in irritazione. Ginevra era tormentata di note diplomatiche, richieste imperiose di liberarsi di noi e minaccie; e i più cominciavano a imprecare a noi caduti come a stranieri che mettevano a pericolo la pace del paese e rompevano la buona armonia della Svizzera coi governi europei. L'autorità federale mandava commissarî, iniziava inquisizioni e processi. Il nostro materiale di guerra era sequestrato: i nostri mezzi finanziarî erano quasi esauriti di fronte alla tristissima condizione degli esuli, sprovveduti i più d'ogni cosa. E anche tra i nostri la miseria e l'amarezza della delusione seminavano recriminazioni e dissidî. Tutto era bujo all'intorno. Ben promettevano dalla Francia battaglia imminente e vittoria in nome della repubblica; ma io credeva spenta per allora l'iniziativa francese, e quelle uniche promesse di meglio mi trovavano incredulo. E più potente d'ogni consiglio e d'ogni minaccia mi suonava all'orecchio il grido di dolore e di suprema inquietudine della povera mia madre. Avrei ceduto a quello se avessi potuto.
Ma era tal cosa in me che le circostanze esterne non valevano a domare. La mia natura era profondamente subbiettiva e signora de' proprî moti. L'io era fin d'allora per me una attività chiamata a modificare il mezzo in cui vive, non a soggiacergli passivo. La vita raggiava dal centro alla circonferenza, non dalla circonferenza al centro.
La nostra non era impresa di semplice riazione, moto d'infermo che muta lato ad alleviare il dolore. Noi non tendevamo alla libertà come a fine, ma come a mezzo per potere raggiungere un fine più positivo e più alto. Avevamo scritto Unità repubblicana sulla nostra bandiera. Volevamo fondare una Nazione, creare un Popolo. Cos'era, per uomini che s'erano proposto intento sì vasto una disfatta? Non era appunto parte dell'opera educatrice quella d' insegnare ai nostri l'imperturbabilità negli avversi eventi? Potevamo insegnarla senza darne l'esempio noi? E non avrebbe la nostra abdicazione somministrato un argomento a quanti ritenevano impossibile l'Unità?36 Il guasto radicale in Italia, ciò che la condannava all'impotenza, era visibilmente non una mancanza di desiderio, ma una diffidenza delle proprie forze, una tendenza ai facili sconforti, un difetto di quella costanza, senza la quale nessuna virtù può fruttare, uno squilibrio fatale tra il pensiero e l'azione. L'insegnamento morale che dovea porre rimedio a quel guasto non era possibile in Italia, sotto il flagello persecutore delle polizie, per via di scritti o discorsi, su larga scala, in proporzioni eguali al bisogno. Era necessario un apostolato vivente: un nucleo d'uomini italiani forti di costanza, inaccessibili allo sconforto, i quali si mostrassero, in nome d'una Idea, capaci di affrontare col sorriso della fede persecuzioni e sconfitte, cadenti un giorno, risorgenti il dì dopo, e presti sempre a combattere e credenti sempre, senza calcolo di tempo o di circostanze, nella vittoria finale. La nostra era, non setta, ma religione di patria. E le sette possono morire sotto la violenza: le religioni non mai.
Scossi da me ogni dubbiezza, e deliberai proseguir sulla via.
In Italia, il lavoro doveva inevitabilmente rallentarsi. Bisognava dar tempo agli animi di riaversi, ai padroni di credersi vincitori e riaddormentarsi. Ma potevamo rifarci all'estero delle perdite dell'interno e lavorare a risorgere un giorno e gittare una seconda chiamata all'Italia, forti d'elementi stranieri alleati e dell'opinione europea. Potevamo, nel disfacimento, ch'io vedeva lentamente compirsi, d'ogni principio rigeneratore, d'ogni iniziativa di moto europeo, preparare il terreno alla sola idea che mi pareva chiamata a rifare la vita dei popoli, quella della Nazionalità, e una influenza iniziatrice, in quel moto futuro all'Italia. Nazionalità e possibilità d'iniziativa italiana: fu questo il programma, questa la doppia idea dominatrice d'ogni mio lavoro dal 1834 al 1837.
La nostra stampa aveva attirato su noi l'attenzione degli stranieri. L'ardito tentativo sulla Savoja aveva raccolto intorno al nostro comitato una moltitudine d'esuli di tutte contrade. Erano, i più, Tedeschi e Polacchi; ma parecchi venivano di Spagna, di Francia e d'altrove - e citerò ad esempio Harro Haring, scrittore di merito e vero pellegrino della Libertà, dacch'egli avea combattuto e lavorato per essa in Polonia, in Grecia, in Germania. Era nato sulle sponde del Mar Glaciale e portava con sè l'aspirazione ignota allora a tutti fuorchè a lui e a me, ma pur destinata a tradursi in fatto un dì o l'altro, all'Unità della Scandinavia. Fra tutti quegli uomini, e prima che la persecuzione ci balestrasse a diverse foci, intesi a cacciare i germi della doppia idea e d'una alleanza universalmente invocata, non tentata ordinatamente da alcuno.
La Carboneria diretta in Francia da Buonarroti, Teste e, credo, Voyer d'Argenson, tentava naturalmente di stendere i suoi lavori in tutte le contrade: e accoglieva nelle sue file uomini d'ogni terra. Ma era Associazione cosmopolita nel senso filosofico della parola: non vedeva sulla terra che il genere umano e l'individuo; e individui, non altro, erano per essa i suoi membri. La Patria non aveva altare o bandiera nelle Vendite: il Polacco, il Tedesco, il Russo non erano, dopo iniziati, se non Carbonari. Figli idolatri della Rivoluzione Francese, quelli uomini non oltrepassavano le sue dottrine. Cercavano per l'uomo, per ogni uomo la conquista di ciò ch'essi chiamavano suoi diritti: diritti di libertà e d'eguaglianza, non altro. Ogni idea collettiva, e quindi l'idea-Nazione, era per essi inutile o - quando la giudicavano dal passato - pericolosa. Teoricamente, ignoravano che non esistono diritti per l'individuo se non in conseguenza di doveri compiti: dimenticavano che la legge di vita dell'individuo non può desumersi se non dalla specie; e rinegavano il sentimento della vita collettiva e il concetto dell'opera trasformatrice che ogni individuo deve tentare di compiere sulla terra a pro dell'umanità. Praticamente, essi s'assumevano d'agire con una leva alla quale sottraevano il punto d'appoggio, e si condannavano all'impotenza.
«Se per cosmopolitismo37 intendiamo fratellanza di tutti, amore per tutti, abbassamento delle ostili barriere che creano ai popoli, separandoli, interessi contrarî, siamo noi tutti cosmopoliti. Ma l'affermare quelle verità non basta: la vera questione sta per noi nel come ottenerne praticamente il trionfo contro la lega dei Governi fondati sul privilegio. Or quel come implica un ordinamento. E ogni ordinamento richiede un punto determinato d'onde si mova, un fine determinato al quale si miri. Perchè una leva operi, bisogna darle un punto d'appoggio e un punto sul quale s'eserciti la sua potenza. Per noi, quel primo punto è la Patria, il secondo è l'Umanità collettiva. Per gli uomini che s'intitolano cosmopoliti, il fine può essere l'Umanità: ma il punto d'appoggio è l'uomo-individuo.
«La differenza è vitale; è la stessa a un dipresso che separa, in altri problemi, i fautori dell'Associazione da quei che non riconoscono come strumento d'azione se non la libertà sola e senza limitazione.
«Solo, in mezzo dell'immenso cerchio che si stende dinanzi a lui e i cui confini gli sfuggono, senz'arme fuorchè la coscienza de' suoi diritti fraintesi e le sue facoltà individuali, potenti forse, pur nondimeno incapaci di spander la loro vita in tutta quanta la sfera d'applicazione ch'è il fine, il cosmopolita non ha se non due vie tra le quali gli è forza scegliere: l'inerzia o il dispotismo.
«Poniamolo dotato d'ingegno logico. Non potendo da per sè solo emancipare il mondo, ei s'avvezza facilmente a credere che il lavoro emancipatore non è suo debito: non potendo, col solo esercizio dei suoi diritti individuali, raggiungere il fine, ei prende rifugio nella dottrina che fa dei diritti mezzo e fine ad un tempo. Dov'ei non trova modo di liberamente esercitarli, ei non combatte, non muore per essi; si rassegna e s'allontana. Ei fa suo l'assioma dell'egoista: ubi bene, ibi patria; impara ad aspettare il bene dal corso naturale delle cose, dalle circostanze, e convertito a poco a poco in paziente ottimista limita la propria azione alla pratica della carità. Ora, qualunque, nei tempi nostri, non esercita che la carità, merita taccia d'inerte e tradisce il dovere. La carità è virtù d'un'epoca oggimai consunta e inferiore moralmente alla nostra.
«Poniamolo illogico e facile a contradire a sè stesso. Volendo a ogni patto tradurre in fatti l'idea, e sentendo il bisogno d'un punto d'appoggio, ei lo cerca ove può, o tenta supplire con una forza artificiale, usurpata, alla forza reale e legittima che gli manca. Quindi le teoriche d'ineguaglianza, le gerarchie arbitrariamente ordinate dall'alto al basso, nelle quali noi vediamo rovinar fatalmente i più tra i riformatori sistematici de' nostri giorni. Quindi - e in ambo i casi - il materialismo, inevitabile presto o tardi in ogni dottrina che noi, s'appoggia se non sul concetto dell'individuo.
«Io non dico che tutti i cosmopoliti accettino conseguenze siffatte: dico che dovrebbero, logicamente, accettarle. Seguono, se afferrano una terza via, gli impulsi del core, non l'intelletto: son nostri, incapricciati, per lunga abitudine o noncuranza del retto significato delle parole, a serbarsi quel nome.
«La prima specie di cosmopoliti occorre pur troppo frequente per ogni dove, e fu spesso rappresentata in teatro: la seconda esiste fra gli scrittori, segnatamente Francesi. Tutti quei pretesi cosmopoliti che negano la missione delle razze e guardano disdegnosi al concetto o all'amore della Nazionalità, collocano - appena si tratti di fare, e quindi della necessità d'un ordinamento - il centro del moto nella propria Patria, nella propria città. Non distruggono le Nazionalità; le confiscano a prò d'una sola. Un popolo eletto, un popolo-Napoleone è l'ultima parola dei loro sistemi; e tutte le loro negazioni covano un nazionalismo invadente, se non coll'armi - ciò che è difficile in oggi - con una iniziativa, morale e intellettuale, permanente, esclusiva, che racchiuderebbe, pei popoli abbastanza deboli per accettarla, gli stessi pericoli38.
«Gli avversi all'idea nazionale servono, inconscî, a un pregiudizio ch'io intendo senza dividerlo. Essi derivano la definizione della parola nazionalità dalla storia del passato. Quindi le obbiezioni e i sospetti.
«Or noi, credenti nella vita collettiva dell'Umanità, respingiamo il passato. Parlando di nazionalità, parliamo di quella che soli i popoli liberi, fratelli, associati, definiranno. La Nazionalità dei Popoli non ha finora esistenza: spetta al futuro. Nel passato, noi non troviamo nazionalità fuorchè definita dai re e da trattati tra famiglie privilegiate. Quei re non guardavano che ai loro interessi personali; quei trattati furono stesi da individui senza missione, nel segreto delle Cancellerie, senza il menomo intervento popolare, senza la menoma inspirazione d'Umanità. Che poteva escirne di santo?
«Patria dei re era la loro famiglia, la loro razza, la dinastia. Il loro fine era il proprio ingrandimento a spese d'altrui, l'usurpazione sugli altrui diritti. Tutta la loro dottrina si compendiava in una proposizione: indebolimento di tutti per securità o giovamento dei proprî interessi. I loro Trattati non erano se non transazioni concesse alla necessità: le loro paci erano semplici tregue: il loro equilibrio era un tentativo diretto unicamente dall'antiveggenza di combattimenti possibili, da una diffidenza ostile e perenne. Quella diffidenza trapela attraverso tutte le mene diplomatiche di quel tempo, determina le alleanze, regna sovrana in quel Trattato di Vestfalia, ch'è parte anche oggi del diritto pubblico Europeo e il cui pensiero fondamentale è la legittimità delle razze regali dichiarata e tutelata. Come mai l'Europa dei re avrebbe potuto concepire e verificare un pensiero d'associazione e un ordinamento pacifico delle Nazioni? Essa non riconosceva principio superiore agli interessi secondarî e parziali nè credenza comune che potesse essere base e pegno di stabilità a' suoi atti. La dottrina delle razze regali legittime consacrava solo arbitro del futuro il diritto degli individui. E ne usciva un misero nazionalismo, che non è se non parodìa di ciò che il santo nome di Nazionalità suona oggi per noi.
«E allora, conseguenza dello spirito del Cristianesimo che non voleva sulla terra nemici, conseguenza pure della legge del Progresso che preparava le vie all'associazione, cominciò una grande inevitabile opposizione all'idea travisata della Nazione. La filosofia e l'economia politica introdussero il cosmopolitismo tra noi. Il cosmopolitismo predicò l'eguaglianza dei diritti per ogni uomo, qualunque ne fosse la patria: predicò la libertà del commercio: ebbe interpreti politici in Anacarsi Clootz e altri oratori nella Convenzione: creò una Letteratura col romanticismo; e fece in ogni cosa ciò che fanno generalmente le opposizioni: esagerò le conseguenze d'un principio giusto in sè, e non vedendosi intorno che nazionalità regie e patrie senza popoli, negò Patria e Nazione: non ammise che la terra e l'uomo.
«D'allora in poi, il popolo entrò sull'arena.
«Oggi, di fronte a quel nuovo elemento di vita, tutto è mutato. Il romanticismo, il mercantilismo, il cosmopolitismo, sono passati, come ogni cosa che ha compito la propria missione. La nazionalità dei re non ha più sostegno che nella cieca forza e rovinerà inevitabilmente un dì o l'altro. Il nazionalismo dei popoli va rapidamente spegnendosi condannato dall'esperienza e dalle severe lezioni che i tentativi di rigenerazione, impresi isolatamente e governati dall'egoismo locale, fruttarono. Il primo popolo che si leverà, in nome della nuova vita, non ammetterà conquista fuorchè dell'esempio e dell'apostolato del vero. Il periodo del cosmopolitismo è ovunque compito: comincia il periodo dell'Umanità.
«Or l'Umanità è l'associazione delle Patrie: l'Umanità è l'alleanza delle Nazioni per compire, in pace e amore, la loro missione sulla terra: l'ordinamento dei Popoli, liberi ed uguali, per movere senza inciampi, porgendosi ajuto reciproco e giovandosi ciascuno del lavoro degli altri, allo sviluppo progressivo di quella linea del pensiero di Dio ch'egli scrisse sulla loro culla, nel loro passato, nei loro idiomi nazionali e sul loro volto. E in questo progresso, in questo pellegrinaggio che Dio governa, non avrà luogo nimicizia o conquista, perchè non esisterà uomo-re o popolo-re, ma solamente una associazione di popoli fratelli con fini e interessi omogenei. La legge del Dovere accettata e confessata sottentrerà a quella tendenza usurpatrice dell'altrui diritto che signoreggiò finora le relazioni fra popolo e popolo e non è se non l'antiveggenza della paura. Il principio dominatore del diritto pubblico non sarà più indebolimento d'altrui, ma miglioramento di tutti per opera di tutti, progresso di ciascuno a pro' d'altri. È questo il futuro probabile e a questo devono ormai tendere tutti i nostri lavori.
«Ma pretendere di cancellare il sentimento della Patria nel core dei popoli - di sopprimere in un subito le nazionalità - di confondere le missioni speciali assegnate da Dio alle diverse tribù dell'umana famiglia - di curvare sotto il livello di non so quale cosmopolitismo le varie associazioni schierate a gerarchia nel disegno provvidenziale, e romper la scala per la quale l'Umanità va salendo all'Ideale - è un pretendere l'impossibile. I lavori diretti a quel fine sarebbero lavori perduti; non riuscirebbero a falsare il carattere dell'Epoca che ha per missione d'armonizzare la Patria coll'Umanità, ma ritarderebbero la vittoria. Il patto dell'Umanità non può essere segnato da individui, ma da popoli liberi, eguali, con nome, coscienza di vita propria e bandiera. Parlate loro di Patria, se volete ch'essi diventino tali, e stampate a caratteri splendidi sulla loro fronte il segno della loro esistenza, il battesimo della Nazione. I popoli non entrano sull'arena dell'iniziativa se non con una parte definita, assegnata a ciascun d'essi. Voi non potete compire il lavoro e rompere lo stromento: non potete usare con efficacia la leva sottraendole il punto d'appoggio. Le nazioni non muojono prima d'aver compita la loro missione. Voi non le uccidete negandola, ma ne ritardate l'ordinamento e l'attività.»
Erano queste le idee che dovevano, a quanto parevami, dirigere il nostro lavoro. E il mio modo d'intender la Storia le convalidava. Io vedeva la serie delle Epoche, attraverso le quali si compie lentamente il progresso dell'Umanità, quasi equazione a più incognite, e ogni Epoca svincolarne, come dicono gli algebristi, una, per aggiungerla alle quantità cognite collocate nell'altro membro dell'equazione. L'incognita dell'Epoca Cristiana conchiusa dalla Rivoluzione Francese era per me l'individuo; l'incognita dell'Epoca nuova era l'Umanità collettiva; e quindi l'associazione. La leva era l'Europa. L'ordinamento politico Europeo doveva necessariamente precedere ogni altro lavoro. E quell'ordinamento non poteva farsi che per popoli: per popoli che liberamente affratellati in una fede, credenti tutti in un fine comune, avessero ciascuno una parte definita, una missione speciale nell'impresa. Perchè l'Europa potesse inoltrare davvero, raggiungere una nuova sintesi e consecrare a svolgerla tutte le forze ch'oggi si consumano in lotte interne, bisognava rifarne la Carta. La questione delle Nazionalità era ed è per me, e dovrebb'essere per tutti noi, ben altra cosa che non un tributo pagato al diritto o all'orgoglio locale: dovrebbe essere la divisione del lavoro Europeo.
In ogni modo, la questione delle Nazionalità era per me la questione che avrebbe dato il suo nome al Secolo. L'Italia, com'io l'intravvedeva e amava, poteva esserne iniziatrice, e lo sarà, se liberandosi dalla turba codarda e immorale ch'oggi la domina, intenderà un giorno il proprio dovere e la propria potenza.
Pensai che il lavoro doveva stendersi tra i popoli che non erano ancora e tendevano ad esser Nazioni. La Francia era Nazione: avea conquistata prima d'ogni altro popolo la propria Unità: e i problemi che s'agitavano in essa erano d'altra natura.
Sono in Europa tre famiglie di popoli, l'Elléno-Latina, la Germanica, la Slava. L'Italia, la Germania, la Polonia le rappresentavano. La Grecia, santa di ricordi e speranze, e chiamata a grandi fati nell'Oriente Europeo, è or troppo piccola per essere iniziatrice. La Russia dormiva allora un sonno di morte: mancava d'un centro visibile in cui la vita potesse assumere potenza praticamente direttiva, nè a me pareva ch'essa potesse sorgere così presto a coscienza di sè39. Il nostro patto d'alleanza doveva dunque stringersi dapprima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia, la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati ciascuno intorno al popolo più affine ad essi fra i tre.
Da questi pensieri nacque l'Associazione che chiamammo Giovine Europa.
Ma intanto, la persecuzione infieriva. Moltissimi fra i nostri erano condotti, a guisa di malfattori, alla frontiera, e spinti in Inghilterra o in America: altri si disperdevano collocandosi ad uno ad uno, sotto nomi mentiti, qua e là ne' paesetti dei Cantoni di Vaud, Zurigo, Berna, Basilea, Campagna. Cercati più ch'altri, riescimmo, noi Italiani a sottrarci. Lasciai, insieme ai due Ruffini e a Melegari, Ginevra. Rimanemmo celati per un po' di tempo in Losanna; poi prendemmo, tollerati, soggiorno in Berna.
«Non erano» - io diceva in alcune pagine pubblicate in Losanna col titolo Sono partiti! parlando della persecuzione ai proscritti - «non erano che duecento; e nondimeno, al solo vederli, la vecchia Europa aveva, côlta d'odio e terrore, indossato l'antica armatura di note e protocolli per dar loro battaglia mortale e avea posto in moto contr'essi tutta quanta la turba de' suoi diplomatici, birri, sgherri d'aristocrazia, prefetti, uomini d'armi e spie sotto ogni guisa di travestimento. Da un punto all'altro d'Europa, tutta quella ciurma bifronte, diseredata di cose, che Dio tollera quaggiù come prova ai buoni, s'era raccolta alle porte delle ambasciate a riceverne gli ordini, poi s'era diffusa per ogni angolo della Svizzera, denunziando, calunniando, frugando. Era cominciata la caccia ai proscritti.
«Per quattro mesi, le note piovvero, come grandine, come locuste, come mosche sopra un cadavere, sulla povera Svizzera. Vennero da Napoli, dalla Russia, dai quattro punti cardinali; e intimavano tutte, con linguaggio più o meno acerbo d'ira e minaccia: scacciate i proscritti.
«Pur fingevano talora di disprezzarli. Erano, scrivevano i loro giornali, giovanetti inesperti, esciti di fresco dalla scuola, cospiratori in aborto. S'erano inebbriati di sogni e cercavano l'impossibile. Era giusto s'educassero, espiando le stolte illusioni; ma in verità non erano da temersi.
«Sì; erano, i più, giovanetti, benchè solcata prematuramente la candida aperta fronte dall'orme di mesti e solenni pensieri; benchè deserti d'ogni carezza di madre, d'ogni gioja d'affetti domestici: fanciulli d'un nuovo mondo, figli d'una nuova fede; e l'Angelo dell'esilio mormorava ad essi, sui primi passi del loro pellegrinaggio, non so quale dolce e santa parola d'amore, di fratellanza universale, di religione dell'anima, che li aveva inalzati al di sopra degli uomini del loro secolo, perchè li aveva trovati puri d'egoismo come la gioventù, presti al sacrificio come l'entusiasmo. Al tocco dell'ala dell'Angelo, il loro occhio aveva intravveduto cose ignote alla tarda età; un nuovo verbo fremente sotto le rovine della vecchia feudale Europa; un nuovo mondo ansioso di vederlo emergere dalle rovine alla luce della vittoria; e nazioni ringiovanite; e razze, per lungo tempo divise, moventi, come sorelle, alla danza, nella gioja della fiducia; e le bianche ali degli angeli della libertà, dell'eguaglianza, dell'Umanità ad agitarsi sulle loro teste. E innamorati dello spettacolo, avevano richiesto il loro Angelo che mai dovessero fare; e l'Angelo avea risposto: seguitemi; io vi guiderò attraverso i popoli addormentati e voi predicherete coll'esempio la mia parola e conforterete a levarsi quanti giacciono e gemono. Nessuno conforterà voi; e sarete respinti dall'indifferenza e perseguitati dalla calunnia: ma io vi serberò una ricompensa al di là del sepolcro. Ed essi s'erano posti in viaggio tra i popoli e predicavano per ogni dove la santa parola; e ovunque un fremito di popolo oppresso e prode giungeva al loro orecchio, accorrevano, ovunque udivano un lamento di popolo oppresso e avvilito, s'affrettavano e dicevano a quel popolo: levati, e impara la forza ch'è in te. E spesso, com'era stato loro predetto, incontravano sulla via la calunnia e l'ingratitudine: ma un'orma del loro pellegrinaggio rimaneva pur sempre e i popoli stessi che li avevano respinti sentivano con maraviglia non so quale mutamento in sè stessi che li migliorava.
«E queste cose erano state intravvedute anche dai re, perchè anche lo Spirito del Male intravvede il futuro; soltanto è condannato a combatterlo. Tutti gli oppressori odiavano i proscritti perchè li temevano. L'Italia si cingeva di patiboli per respingerli dalla frontiera; la Germania guardava con terrore a vedere se taluno di quei giovani erranti non si celasse nel folto della Foresta Nera; la Francia, la Francia, dei dottrinari e degli elettori privilegiati, consentiva loro la via attraverso le proprie terre, ma faceva di quella via un ponte dei sospiri pel quale andavano a morire di stenti e miseria in altre terre lontane e diffalcava dai soccorsi di via ch'essa loro accordava il soldo dei gendarmi che li trascinavano alla coda dei loro cavalli, e il valore della catena ch'essa poneva talora al collo di quei nobili perseguitati.
«E ora, essi sono partiti. Gli ultimi, giovani Tedeschi, colpevoli d'aver pubblicato alcune pagine energiche indirizzate ai loro compatrioti, furono, or son pochi giorni, consegnati dai gendarmi di Berna ai gendarmi Francesi a Béfort, per essere avviati a Calais. Sono partiti, salutando d'un lungo sguardo di dolore e rimprovero questa terra Elvetica che aveva dato ai proscritti d'Europa solenne promessa d'asilo e per paura la rompe, questi monti che Dio inalzava perchè fossero la casa della Libertà e che il materialismo dei diplomatici converte in uno sgabello della tirannide straniera, questi uomini che li avevano circondati d'affetto e di plausi nei giorni della speranza e ch'oggi ritirano la loro mano dalla mano dei vinti. Essi avevano inteso a combattere per la Libertà non solamente del loro paese, ma di tutti, per la Libertà come Dio la stampava nel core dei buoni, pei diritti di tutti, per la luce su tutti; e uomini che s'intitolano repubblicani li rinegano nella sventura e non una voce ha osato qui, tra l'Alpi, levarsi e rispondere agli scribacchiatori di Note: no; noi non violeremo la religione della sventura; non cacceremo questi esuli; e se mai vorrete strapparli da noi colla forza, Dio, le nostre Alpi e le nostre armi ci difenderanno da voi.
«E l'ardita parola avrebbe fatto retrocedere i persecutori. L'Europa diplomatica, turbata, sommossa per quattro mesi dai duecento giovani proscritti, non avrebbe osato affrontare il grido di resistenza d'un popolo che ricorda Sempach e Morgarten.
«Perchè - non lo dimenticate, uomini deboli ch'esciste dalla rivoluzione e la rinegate - non s'arretrarono essi, quei re stranieri ch'oggi minacciano perchè vi vedono tremanti, davanti alla guerra nel 1831? Non videro, impotenti ed immobili, l'elemento democratico, il principio popolare, a invadere ad una ad una le costituzioni dei vostri Cantoni? Allora, eravate fermi e guardavate con fiducia al popolo: allora i vostri contingenti federali s'incamminavano lietamente alla frontiera minacciata dall'Austria; e voci energiche gridavano ad essi: voi difenderete contro qualunque l'assalga la terra dei vostri padri. E s'arretrarono quei re terribili. Siate oggi quali foste allora: come allora s'arretreranno. Fra il primo colpo di cannone dei re e l'ultimo d'un popolo che combatte una guerra d'indipendenza, sanno essi quanti troni possano rovinare, quanti popoli insorgere? Voi tenete in mano le due estremità della leva rivoluzionaria, la Germania e l'Italia.
«Voi non avete saputo osare. Vi siete fatti stromento ignobile delle persecuzioni monarchiche. Avete violato i diritti della sventura. Avete scacciato quei che abbracciavano, invocando, i vostri focolari. Avete rinegato il vincolo più sacro che unisca l'uomo a Dio, la pietà.
«Quando i depositari del Dovere d'una Nazione si mostrano incapaci di serbare intatto quel sacro deposito, spetta, o giovani Svizzeri, alla Nazione levarsi, dapprima per avvertire i mandatari infedeli di mutar via, poi per rovesciarli nel fango e fare da sè.40
«Sono partiti! Dio li scorga e versi la pace sull'anima loro nel lungo pellegrinaggio al quale li condanna inospitale l'Europa. Non disperate, giovani proscritti, dell'avvenire che portate nel core; inalzate il vostro pellegrinaggio all'altezza d'una missione religiosa; soffrite tranquilli. La nuova fede della quale voi siete apostoli ha bisogno, per trionfare, di martiri; e i patimenti nobilmente sopportati sono la più bella gemma della corona che l'angelo dei fati Europei posa sulla testa de' suoi combattenti. I giorni intravveduti da voi sorgeranno. È tal cosa in cielo che nè decreti di Consigli, nè Diete, nè ukasi di Czar valgono a cancellare, come le nuvole addensate dalla tempesta non possono cancellare il sole dalla vôlta azzurra: la Legge morale universale; il progresso di tutti per opera di tutti. Ed è tal cosa in terra che nessuna tirannide può soffocare lungamente: il popolo, la potenza e l'avvenire del popolo. I fati si compiranno. E un giorno, quando appunto s'illuderanno più fortemente a crederlo acciecato, incatenato, sepolto per sempre, il popolo alzerà gli occhi al cielo, e, Sansone dell'Umanità, con un solo sforzo di quella mano che stritola i troni, romperà ceppi, bende e barriere, e apparirà libero e padrone di sè.
«....Apparirà, apparirà! E la santa legge dell'Umanità, la santa parola di Gesù, amatevi gli uni cogli altri, la libertà, l'eguaglianza, la fratellanza, l'associazione, avranno il compimento che Dio decretava. I popoli confonderanno in un abbraccio fraterno dolori passati e speranze dell'avvenire.
«E allora, se alcuni di quei proscritti, di quei pellegrini sublimi, messi al bando dell'Umanità per averla troppo ardentemente amata, rimarranno tuttavia in vita, saranno benedetti. E se tutti, a eccezione d'un solo, saranno caduti nella battaglia, quell'uno s'incurverà sulla pietra che coprirà le bianche ossa de' suoi fratelli e mormorerà ad essi attraverso l'alta e folta erba cresciuta su quella: fratelli, gioite, però che l'Angelo ha detto il Vero e noi abbiamo vinto il vecchio mondo.
«E quegli sarà l'ultimo proscritto, perchè i soli popoli regneranno.»
In Berna, tra le incertezze del futuro, le noje del presente e i frequenti richiami della polizia che a ogni nuova Nota diplomatica ci tormentava, stesi e stringemmo congregati - se la memoria non mi tradisce - in diciasette fra Tedeschi, Polacchi e Italiani, il Patto di Fratellanza che doveva avviare il lavoro dei tre popoli a un unico fine. E fu questo:
«Noi sottoscritti, uomini di progresso e di libertà:
«Credendo:
«Nell'eguaglianza e nella fratellanza degli uomini,
«Nell'eguaglianza e nella fratellanza dei Popoli;
«Credendo:
«Che l'Umanità è chiamata a inoltrare, per un continuo progresso e sotto l'impero della Legge morale universale, verso il libero e armonico sviluppo delle sue facoltà e verso il compimento della sua missione nell'Universo;
«Ch'essa nol può se non coll'attiva cooperazione di tutti i suoi membri liberamente associati;
«Che l'associazione non può costituirsi veramente e liberamente se non tra eguali, dacchè ogni ineguaglianza racchiude una violazione d'indipendenza e ogni violazione d'indipendenza annienta la libertà del consenso;
«Che la Libertà, l'Eguaglianza, l'Umanità sono egualmente sacre - ch'esse costituiscono tre elementi inviolabili in ogni soluzione positiva del problema sociale - e che qualunque volta uno di questi elementi è sagrificato agli altri due, l'ordinamento dei lavori umani per raggiungere quella soluzione è radicalmente difettivo;
«Convinti:
«Che se il fine ultimo al quale tende l'Umanità è essenzialmente uno, e i principî generali che devono dirigere le famiglie umane nel loro moto verso quel fine sociale sono gli stessi, molte vie sono nondimeno schiuse al progresso;
«Convinti:
«Che ogni uomo e ogni popolo ha la sua missione speciale, il cui compimento determina l'individualità di quell'uomo o di quel popolo e ajuta a un tempo il compimento della missione generale dell'Umanità;
«Convinti finalmente:
«Che l'associazione degli uomini e dei popoli deve congiungere la certezza del libero esercizio della missione individuale alla certezza della direzione verso lo sviluppo della missione generale;
«Forti dei nostri diritti d'uomini e di cittadini, forti della nostra coscienza e del mandato che Dio e l'Umanità affidano a tutti coloro i quali vogliono consecrare braccio, intelletto, esistenza alla santa causa del progresso dei popoli;
«Dopo d'esserci costituiti in associazioni Nazionali libere e indipendenti, nuclei primitivi della Giovine Polonia, della Giovine Germania e della Giovine Italia;
«Uniti in accordo comune pel bene di tutti, il 15 aprile dell'anno 1834 abbiamo, mallevadori, per quanto riguarda l'opera nostra, dell'avvenire, determinato ciò che segue:
«I. La Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia, associazioni repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e dirette da una stessa fede di libertà, d'eguaglianza e di progresso, si collegano fraternamente, ora e sempre, per tutto ciò che riguarda il fine generale.
«II. Una dichiarazione dei principî che costituiscono la legge morale universale applicata alle società umane, sarà stesa e firmata dai tre Comitati Nazionali. Essa definirà la credenza, il fine e la direzione generale delle tre Associazioni.
«Nessuna potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione colpevole dell'Atto di Fratellanza e senza soggiacere a tutte le conseguenze di quella violazione.
«III. Per tutto ciò che non è compreso nella dichiarazione dei principî ed esce dalla sfera degli interessi generali, ciascuna delle tre Associazioni è libera e indipendente.
«IV. L'alleanza difensiva e offensiva, espressione della solidarietà dei popoli, è stabilita fra le tre Associazioni. Tutte lavorano concordemente alla loro emancipazione. Ciascuna d'esse avrà diritto al soccorso dell'altre per ogni solenne e importante manifestazione, che avrà luogo in seno ad esse.
«V. La riunione dei Comitati Nazionali o dei loro delegati costituirà il comitato della Giovine Europa.
«VI. È fratellanza tra gli individui che compongono le tre Associazioni. Ciascun d'essi compirà verso gli altri i doveri che ne derivano.
«VII. Un simbolo comune a tutti i membri delle tre Associazioni sarà determinato dal Comitato della Giovine Europa. Un motto comune indicherà le pubblicazioni delle Associazioni.
«VIII. Ogni popolo che vorrà esser partecipe dei diritti e doveri stabiliti da questa alleanza, aderirà formalmente all'Atto di Fratellanza, per mezzo dei proprî rappresentanti.
«La sera del 15 corrente, alle 10 pomeridiane, il Capo della Società, adunati i membri che la compongono, ordinò al Segretario di pubblicare una lettera, nella quale era riportata una sentenza emanata dal tribunale di Marsiglia contro i prevenuti rei Emiliani, Scuriati, Lazzareschi, Andreani; esaminati gli atti processuali speditici dal presidente in Rodez, ne è risultato ch'essi sono rei: 1.° come propagatori di scritti infami contro la sacra nostra Società; 2.° come partitanti dell'infame governo papale di cui hanno corrispondenza che tutto tende a rovesciare i nostri disegni contro la santa causa della libertà. Il fisco, dopo le più esatte riflessioni e da quanto è risultato in processo, facendo uso dell'art. 22, condanna a pieni voti Emiliani e Scuriati alla pena di morte; in quanto a Lazzareschi e Andreani, perchè non consta abbastanza di quanto vengono addebitati, la loro condanna è la percussione di alcuni colpi di verga, e si lascia l'incarico ai loro tribunali appena tornati in patria di condannarli in galera ad vitam (come famosi ladri e trafatori). Si ordina inoltre al presidente di Rodez estrarre quattro individui esecutori della detta sentenza da eseguirsi imprescrittibilmente entro il periodo di giorni 20 e chiunque dell'estratto si recusasse dovrà essere trucidato ipso facto.
«Dato in Marsiglia, dal supremo Tribunale, questa sera, alle ore 12 pomeridiane, 15 dicembre 1832[Nell'originale "1332". Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
«Cecilia, l'Incaricato.»
Più dopo, in un fascicolo della Giovine Italia del 1833, inserendo un articolo di Buonarroti - firmato Camillo - del Governo d'un Popolo in rivolta per conseguire la Libertà, io protestavo contro un § che invocava la Dittatura d'un solo, colla nota seguente: «Noi consentiamo in tutte le idee dell'articolo fuorchè in quest'una che ammette fra i modi della potestà rivoluzionaria la Dittatura d'un solo:
«Perchè, sebbene la potestà che deve governar la rivolta debba essenzialmente differire da quella che deve sottentrare dopo la vittoria, essa deve pure soddisfare a due condizioni: quella di rinegare assolutamente il carattere della potestà contro la quale il popolo insorge, e quella di racchiudere in sè il germe della potestà futura; e ambe le condizioni si risolvono nell'escludere la dominazione dell'uno e indicare la dominazione dei più:
«Perchè, sebbene la potestà rivoluzionaria debba comporsi di potenti d'anima, d'intelletto e di core, e non giovi il ricorrere ai parlamenti, alle numerose assemblee, quando gli atti e i decreti devono succedersi colla rapidità dei colpi nella battaglia, crediamo nondimeno doversi contenere in quella Potestà un rappresentante a ogni grande frazione d'Italia che insorga:
«Perchè, in un popolo guasto dalle abitudini della servitù, la Dittatura d'un solo riesce sommamente pericolosa:
«Perchè fino al giorno in cui il governo della Nazione escirà dalla libera e universale elezione, la diffidenza è condizione inevitabile a un popolo che tende ad emanciparsi; e il concentramento di tutte le forze della rivolta nelle mani d'un solo rende illusorie tutte le guarentigie che vorrebbero stabilirsi:
«Perchè in Italia, come in ogni altro paese servo, mancano tutti gli elementi necessari a riconoscere l'uomo che per virtù, energia, costanza, intelletto di cose e d'uomini, valga ad assumere sulla propria testa i destini di ventisei milioni; e a riconoscerlo è necessario un lungo corso di tempo e vicende, per le quali egli sia uscito incontaminato da alcune delle situazioni che corrompono più facilmente gli uomini; - e pendente quel tempo di prova, la rivoluzione ha pur bisogno d'essere amministrata.
«L'opinione della Dittatura, ove prevalesse in Italia, darà potere illimitato, facilità d'usurpazione e forse corona al primo soldato che la fortuna destinerà a vincere una battaglia.»
«Gli interrogatorii erano condotti in modo da soggiogare le mie facoltà, A ogni tanto, mentr'io imprendeva a dare spiegazione di fatti allegati, l'auditore Avenati m'interrompeva col dire che badassi a ciò ch'io parlava, ch'io era visibilmente confuso e che le mie spiegazioni aggiungevano al pericolo della mia situazione. E poco dopo ei mutava tono e dichiarava ch'io era chiaramente colpevole e che si terrebbe nota di quanto io diceva a mio danno senza dare la menoma attenzione a ogni cosa che tentasse difesa.
«Mi convinsi che volevano la mia morte.
«Poi vennero una dopo l'altra le deposizioni di parecchi fra' miei compagni, Segrè, Viera, Pianavia, Girardenghi, tutte a carico mio. Io mi sentiva veramente minacciato d'insania.
«Chiesi nondimeno d'un difensore. Sacco, il segretario del Tribunale, mi suggeriva il capitano Turrina; io preferiva un Vicino: non mi fu dato nè l'uno nè l'altro.
«Pensai a preparare io stesso la mia difesa; ma quantunque i procedimenti preliminari fossero da due giorni conchiusi, io non aveva inchiostro nè carta. I miei parenti, ch'erano venuti nella città, ebbero ordine di partirne immediatamente.
«Finalmente, Levi, il mio cerbero, mi propose a difensore il luogo tenente Rapallo. Disperato d'ogni altro ajuto, accettai.
«E venne; ma non per parlarmi della mia difesa. Egli, il solo protettore sul quale io poteva appoggiarmi, mi dichiarò che la mia posizione era oltremodo grave. Mi disse che il Governo sapeva esser io stato uno dei più attivi membri dell'Associazione, ch'io non poteva sfuggire al castigo, e che non m'avanzava se non una via di salute. Mi disse che il mio segreto era omai divulgato da tutti; che Stara confesserebbe a momenti ogni cosa, e saperlo egli dal suo difensore; che Azario aveva anch'egli offerto rivelazioni, e non s'aspettava, per accoglierle, che l'assenso da Torino. E aggiungeva ch'io poteva proporre condizioni le più favorevoli e sarebbero accettate.
«Due volte respinsi la triste proposta. Al terzo convegno, piegai.»
Estratto dalla Dichiarazione di Giovanni Re.
La perdita de' suoi fratelli maggiori, le frequenti e pericolose infermità della madre ch'egli, riamato, amava perdutamente, e più altre cagioni, non gli avean fatto conoscere la vita fuorchè pel dolore. Squisitamente, e quasi direi febbrilmente sensibile, ei ne aveva raccolto una mestizia abituale che s'inacerbiva di tempo in tempo a disperazione d'ogni cosa. E nondimeno, non era in lui vestigio alcuno di quella tendenza a misantropia, che visita sovente le forti nature condannate a vivere in terra schiava. Aveva poca gioja degli uomini, ma li amava: poca stima dei contemporanei, ma riverenza per l'uomo, per l'uomo come dovrebbe essere e come un giorno sarà. Forti tendenze religiose combattevano in lui lo sconforto che gli veniva da quasi tutti, e da tutto. La santa idea del Progresso, che alla fatalità degli antichi e al caso dei tempi di mezzo sostituisce la Provvidenza, gli era stata rivelata dalle intuizioni del core fortificate di studî storici. Adorava l'ideale come fine alla vita, Dio come sorgente dell'Ideale, il Genio come suo interprete quasi sempre frainteso. Era mesto, perchè sentiva la solitudine di chi sta innanzi, e non vedrà vivo la terra promessa: ma era abitualmente tranquillo, perch'ei sapeva che il fine della nostra esistenza terrestre non è la felicità, bensì il compimento d'un dovere, l'esercizio d'una missione, anche dove non vive possibilità di trionfo immediato. Il suo sorriso era sorriso di vittima, pur sorriso. Il suo amore per l'Umanità era, come l'amore ideale di Schiller, un amore senza speranza individuale, ma era amore. Ciò ch'ei pativa non esercitava influenza sulle sue azioni................ ............................. «Jacopo comprese, dai primi cominciamenti della persecuzione, ch'egli era perduto, e aspettò con serena fermezza i proprî fatti. Avvertito dell'ordine dato per imprigionarlo, non volle sottrarsi. A chi insisteva con lui rispose che chi aveva spinto altrui nel pericolo, dovea soggiacergli primo. Preso, e tormentato d'interrogatorî, rispose con un muto sorriso. Bensì minacce terribili e l'artificio citato delle rivelazioni falsificate e il linguaggio insidioso d'un Rati Opizzoni, auditore, lo ridussero a tale da fargli temere ch'ei forse cederebbe un dì o l'altro. E allora risolse d'uccidersi. Io credo il suicidio atto colpevole come la condanna a pena di morte. La vita è cosa di Dio: non è concesso abbandonare il proprio posto quaggiù, come non è concesso rapire ad alcuno la via di ripigliarlo, quando per colpa s'è abbandonato. Ma nel caso di Jacopo, parmi che il suicidio s'inalzi all'altezza del sagrificio. É l'atto d'un uomo che dice a sè stesso: quando il tuo occhio sta per peccare strappalo; quando per tristizia degli uomini tu ti senti minacciato di cedere ai suggerimenti del male, getta via la tua vita; e piuttosto che peccare contr'altri, poni sull'anima tua un peccato contro te stesso. Dio è buono e clemente. Egli t'accoglierà sotto la grande ala del suo perdono.» Da alcune pagine inglesi mie nel People's Journal, maggio, 1846.