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VOLUME PRIMO PENSIERO ED AZIONE. SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI ISTRUZIONE GENERALE PER GLI INIZIATORI. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
PER GLI INIZIATORI.
1. La Giovine Europa è l'associazione di tutti coloro i quali, credendo in un avvenire di libertà, d'eguaglianza, di fratellanza per gli uomini quanti sono vogliono consecrare i loro pensieri e le opere loro a fondare quell'avvenire.
2. Un solo Dio;
Un solo padrone, la di lui Legge;
Un solo interprete di quella Legge: l'Umanità.
3. Costituire l'Umanità in guisa ch'essa possa avvicinarsi il più rapidamente possibile, per un continuo progresso, alla scoperta e alla applicazione della Legge che deve governarla; tale è la missione della Giovine Europa.
4. Il bene consiste nel vivere conformemente alla propria Legge: la conoscenza e l'applicazione della Legge dell'Umanità può dunque sola produrre il bene. Il bene di tutti sarà conseguenza del compimento della missione della Giovine Europa.
5. Ogni missione costituisce un vincolo di Dovere.
Ogni uomo deve consecrare tutte le sue forze al suo compimento. Ei troverà nel profondo convincimento di quel dovere la norma dei proprî atti.
6. L'Umanità non può raggiungere la conoscenza della sua Legge di vita, se non collo sviluppo libero e armonico di tutte le sue facoltà.
L'Umanità non può tradurla nella sfera dei fatti, se non collo sviluppo libero e armonico di tutte le sue forze.
Unico mezzo per l'una cosa e per l'altra è l'Associazione.
7. Non è vera Associazione se non quella che ha luogo tra liberi ed eguali.
8. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti gli uomini sono liberi, eguali, fratelli.
9. La Libertà è il diritto che ogni uomo ha d'esercitare senza ostacoli e restrizioni lo proprie facoltà nello sviluppo della propria missione speciale e nella scelta dei mezzi che possono meglio agevolare il compimento.
10. Il libero esercizio delle facoltà individuali non può in alcun caso violare i diritti altrui.
La missione speciale d'ogni uomo devo mantenersi in armonia colla missione generale dell'Umanità.
La libertà umana non ha altri limiti.
11. L'Eguaglianza esige che diritti e doveri siano riconosciuti uniformi per tutti - che nessuno possa sottrarsi all'azione della Legge che li definisce - che ogni uomo partecipi, in ragione del suo lavoro al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze sociali poste in attività.
12. La Fratellanza è l'amore reciproco, la tendenza che conduce l'uomo a fare per altri ciò ch'ei vorrebbe si facesse da altri per lui.
13. Ogni privilegio è violazione dell'Eguaglianza.
Ogni arbitrio è violazione della Libertà.
Ogni atto d'egoismo è violazione della Fratellanza.
14. Ovunque il privilegio, l'arbitrio, l'egoismo s'introducono nella costituzione sociale, è dovere d'ogni uomo, che intende la propria missione, di combattere contr'essi con tutti i mezzi che stanno in sua mano.
15. Ciò ch'è vero d'ogni individuo in riguardo agli altri individui che fanno parte della Società alla quale egli appartiene, è vero egualmente d'ogni popolo per riguardo all'Umanità.
16. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti i popoli sono liberi, eguali, fratelli.
17. Ogni Popolo ha una missione speciale che coopera al compimento della missione generale dell'Umanità. Quella missione costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra.
18. Ogni signoria ingiusta, ogni violenza, ogni atto d'egoismo esercitato a danno d'un Popolo è violazione della libertà, dell'eguaglianza, della fratellanza dei Popoli. Tutti i Popoli devono prestarsi ajuto perchè sparisca.
19. L'Umanità non sarà veramente costituita se non quando tutti i Popoli che la compongono, avendo conquistato il libero esercizio della loro sovranità, saranno associati in una federazione repubblicana per dirigersi, sotto l'impero d'una dichiarazione di principî e d'un patto comune, allo stesso fine: scoperta e applicazione della Legge morale universale.»
Firmarono quei due atti, per gli Italiani, L. A. Melegari, Giacomo Ciani, Gaspare Rosalez, Ruffini e Ghiglione con me: altri pei Polacchi e pei Tedeschi. Poi, parecchi tra noi s'allontanarono per varie direzioni. Rosales partì pei Grigioni, Ciani per Lugano, Melegari per Losanna, Campanella per Francia41, attivi tutti nel diffondere l'Associazione. Tedeschi e Polacchi rimasero, i più almeno, in Isvizzera, ma separati e in Cantoni diversi. Gustavo Modena durò nel Bernese dove qualche tempo dopo contrasse amore con Giulia Calame, oggi di lui vedova, donna mirabile, come per bellezza, per sentir profondo, per devozione e costanza d'affetti e per amore alla sua seconda patria, che corse più tardi ogni pericolo di guerra accanto al marito nel veneto e ch'io imparai a conoscere nel 1849 durante l'assedio di Roma. I due Ruffini, Ghiglione e io ci ricovrammo nel Cantone di Soletta, in Grenchen, nello Stabilimento di Bagni tenuto dai Girard, ottima famiglia d'amici, nella quale uomini e donne gareggiavano verso noi di cure protettrici e gentili. Così dispersi, riuscivamo ad allontanare la tempesta e scemare terrori e noje al Governo Centrale.
L'ideale della Giovine Europa era l'ordinamento federativo della Democrazia Europea sotto un'unica direzione, tanto che l'insurrezione d'una Nazione trovasse l'altre preste a secondarla con fatti, o non foss'altro con una potente azione morale che impedisse l'intervento ai Governi. Però statuimmo che in tutte si cercasse di costituire un Comitato Nazionale al quale si concentrerebbero a poco a poco tutti gli elementi di progresso repubblicano, e che tutti questi Comitati s'inanellassero per via di corrispondenza a noi come a Comitato Centrale Provvisorio dell'Associazione; diramammo norme segrete per le affiliazioni: determinammo le formole di giuramento per gli iniziati: scegliemmo - ed era una fogliuzza d'ellera - un simbolo comune a tutti; prendemmo insomma tutti quei provvedimenti che sono necessarî all'andamento d'una associazione segreta. Bensì, io non poteva illudermi sul suo diffondersi regolarmente o sul suo raggiungere mai un grado di forza compatta e capace d'azione. La sfera dell'Associazione era troppo vasta per poter ottenere risultati pratici; e il bisogno d'una vera Fratellanza Europea richiedeva tempo e lezioni severe per maturarsi fra i popoli. Io non tendeva che a costituire un apostolato d'idee diverse da quelle che allora correvano, lasciando che fruttasse dove e come potrebbe.
Buchez dichiarava allora nell'Européen che quell'Atto racchiudeva una dottrina affatto nuova; e soltanto aggiungeva, per obbligo di settario manopolizzatore, parergli evidente che gli uomini dai quali scendeva ne avessero desunto le inspirazioni da lavori e comunicazioni orali della sua scuola42. La scuola di Buchez - più inoltrata, per quanto riguarda la parte morale e la sostituzione dell'idea Dovere a quella del nudo diritto di quelle che avevano voga tra gli uomini di parte repubblicana - tentava, credo più per tattica che non per convincimento profondo, un'opera allora e sempre impossibile, la conciliazione del dogma cristiano colla nuova fede nella Legge del Progresso; e professava riverenza al Papato come a istituzione che le predicazioni della Democrazia religiosa avrebbero ravvivata e ricostituita iniziatrice d'ogni futuro sviluppo. La scuola ch'io cercava promovere e ch'era in germe nella Giovine Europa respingeva fin dalle primo linee: un solo Dio; un solo padrone, la Legge di Dio; un solo interprete della Legge, l'Umanità, ogni dottrina di Rivelazione esterna, immediata, finale, per sostituirle la lenta, continua, indefinita rivelazione del disegno Provvidenziale attraverso la Vita collettiva dell'Umanità; e sopprimeva deliberatamente tra gli uomini e Dio ogni sorgente intermedia di Vero che non fosse il Genio affratellato colla Virtù, ogni potere, esistente in virtù d'un preteso diritto divino, Monarca o Papa. Nuove a ogni modo, non nella sfera del pensiero, ma nelle Associazioni politiche che s'agitavano allora in Europa, erano di certo le idee della Nazionalità considerata come segno d'una missione da compiersi a pro' dell'Umanità - della Legge morale suprema sovra ogni Potere e quindi dell'unità destinata a cancellare un giorno il dualismo fra le due potestà, spirituale e temporale - della Libertà politica definita in modo da escludere da un lato l'assurda teorica della sovranità dell'individuo, dall'altro i pericoli dell'anarchia - e altre accennate nei due documenti. E forse, ripetute e diffuse dai moltissimi affratellati, giovarono in parte a promovere nelle file della Democrazia quella trasformazione di tendenze e dottrine visibile in oggi, e senza la quale sono possibili sommosse più o meno importanti, non rivoluzioni durevoli. Parlo delle tendenze che mirano a farci escire dalla ribellione d'un materialismo che nega e non edifica per assumere carattere di missione religiosa, positiva, organica e capace di sostituire una Autorità vera e liberamente consentita alle menzogne d'autorità che signoreggiano anch'oggi in Europa.
Fondammo il Patto della Giovane Europa sei giorni dopo l'insurrezione Lionese, tre dopo la sconfitta, e mentre ogni speranza di moto Francese sfumava. Era la nostra risposta alla vittoria conseguita dalla monarchia repubblicana sul popolo che s'era illuso a credere in essa. Era, com'io l'intendeva, una dichiarazione della Democrazia ch'essa viveva di vita propria, collettiva, europea e non dell'iniziativa d'un solo popolo, Francese o altro. Anche sotto quell'aspetto, credo che la nuova istituzione giovasse. L'idea, che le Nazionalità contrastate potrebbero impossessarsi un giorno dell'iniziativa perduta e ricominciare sotto la loro bandiera il moto d'Europa, cominciò d'allora a diffondersi.
Si trattava allora, non d'azione immediata, ma d'apostolato d'idee. Cercai quindi contatto cogli uomini che, nel Partito, rappresentavano sopratutto il Pensiero. Non serbai copia delle mie lettere nè le risposte; le mie mi parvero sempre inutili fuorchè all'intento immediato; e la vita errante, i pericoli ch'io corsi traversando spesso paesi appartenenti a governi nemici e l'aver talora smarrito, per singolare circostanze, carte date in custodia ad amici, mi suggerirono, a torto, di dare, ogniqualvolta io m'avventurava, alle fiamme le lettere altrui. Non m'avanza quindi vestigio di quella lunga attivissima corrispondenza con uomini di terre diverse, da una lettera infuori diretta a Lamennais e della quale un amico di quest'ultimo serbò copia. E la inserisco come indizio delle idee che mi dirigevano in quella molteplice corrispondenza.
«Signore.
«Ebbi la vostra del 14 settembre, io la serberò come ricordo prezioso, come uno di quei ricordi che confortano e ritemprano nelle ore senza nome che s'aggravano talora sull'anima con tutto il peso d'un passato e d'un presente incresciosi e le susurrano il dubbio sull'avvenire. Vi mando un esemplare della Giovine Italia. Là stanno in germe tutte le nostre idee, tutte le nostre credenze: senza lo sviluppo e le applicazioni che esigerebbero; ma pensammo che intendendo a mutare la base dalla quale move in Italia lo spirito rivoluzionario, importava d'insistere sui principî generali più che d'affaccendarci, a pericolo di smarrirci, intorno a una moltitudine di questioni secondarie. Tra noi, come altrove, arte, scienza, filosofia, Diritto, storia del Diritto, metodo storico, tutte cose insomma aspettano un rinnovamento, ma l'analisi ci ha troppo sviati perchè si possa da noi sperare di farla stromento all'impresa. Sola la sintesi crea i grandi moti rigeneratori che mutano i popoli e ne fanno Nazioni. È dunque anzi tutto necessario di suscitare le anime coll'azione d'un principio unitario; dato l'impulso, la logica, la forza delle cose e i popoli faranno il resto.
«Che vi dirò io, Signore, del timore espresso nella vostra lettera, che, movendo guerra al Papato, si nuoccia per noi alla fede e alla morale pratica? una lettera mal potrebbe trattare coi necessarî sviluppi una questione di tanta importanza. Occorrerebbero lunghe e intime conversazioni a spiegare i pensieri attraverso i quali s'è generato in noi il convincimento le cui conseguenze vi sembrano pericolose. Nondimeno, credetemi; non è irritazione di ribelle la mia. Tutte le tendenze individuali dell'animo mi spronano a contemplare rispettando ogni grande concetto unitario e organico; e non v'è illusione giovanile, non sogno d'avvenire ch'io non abbia una volta almeno versato su quella gigantesca rovina che racchiude la storia d'un mondo. Io, non foss'altro per amore della mia terra, avrei voluto che un raggio del sole sorgente della giovine Europa si posasse su quella rovina a redimerla e a ravvivare in essa lo spirito di vita che animava Gregorio VII, senza il pensiero dispotico proprio del suo, non del nostro tempo. Avrei desiderato che almeno le due grandi istituzioni del medio evo, l'impero ed il Papato, oggi cadenti a frantumi, senza gloria, senza onore, senza eredità, fossero state capaci di morire rappresentate da uomini inspirati, come chi sa d'aver compito sulla terra una missione sublime e trasmette a un tempo alle generazioni la formola dell'epoca dominata dal proprio concetto e la prima parola della nuova. Ma ciò non è. Quelle rovine non hanno più se non una sorgente di poesia, quella dell'espiazione. La condanna del Papato non vien da noi, ma da Dio: da Dio che chiama il popolo a sorgere e a fondare la nuova unità nelle due sfere del dominio spirituale e del temporale. Noi non facciamo che tradurre il pensiero dell'epoca. E l'epoca respinge ogni potenza intermedia tra sè e la sorgente della propria vita: essa si sente capace di collocarsi al cospetto di Dio e chiedergli, come Mosè sul Sinai, la legge dei proprî fati. L'epoca vi abbandona il papa per ricorrere al Concilio generale della chiesa, vale a dire di tutti i credenti: Concilio che sarà nello stesso tempo ciò ch'oggi chiamano costituente, perchè riunirà ciò che fu sempre finora diviso e fonderà quell'unità senza la quale non esiste fede nè morale pratica. Il papato deve perire, perchè ha falsato la propria missione e rinnegato padre e figli ad un tempo: e padre e figli gli maledicono. Il papato ha ucciso la fede sotto un materialismo più assai funesto e abbietto di quello del XVIII secolo, dacchè quest'ultimo aveva almeno il coraggio della negazione, mentre il materialismo papale procede ravvolto nel mantello gesuitico. Il papato ha soffocato l'amore in un mare di sangue. Il papato ha preteso schiacciare la libertà del mondo, e sarà schiacciato da essa. E quando, al primo grido d'un popolo, alla prima insurrezione veramente europea per concetto e per fine, tre secoli solleveranno le loro accuse contro un papato spirante, senza fede, senza forza, senza missione, e gli intimeranno di ritirarsi e sparire, dov'è la potenza umana che potrà salvarlo? Le grandi istituzioni non ricominciano la loro vita, perchè non sono interpreti all'umanità che d'una sola parola.
«Il papato e l'impero d'Austria sono destinati a perire: l'uno per avere impedito per tre secoli almeno la missione generale che Dio affidava all'umanità; l'altro per avere impedito per tre secoli egualmente l'adempimento della missione speciale che Dio affidava alle razze. L'umanità s'inalzerà sulle rovine dell'uno; la patria su quelle dell'altro. Pensateci, Signore. Non vi sorprenda l'ardita parola: essa deve indicarvi la potenza ch'io vedo in voi e la fiducia che m'inspirate. Dove andrebbe l'Europa se gli uomini di potenza e di fede, si ostinassero a gridarle nei momenti che precedono la crisi suprema: tu dovrai desumere dal papato le norme della morale pratica? Qual vincolo potrà congiungere in celeste armonia le due sorelle immortali che han nome patria e umanità, se alla vigilia della nuova creazione i credenti avranno insegnato ai popoli che soltanto nel Dio del medio evo vive il segreto dell'unità?
«E un altro pensiero contenuto nella vostra lettera mi diede dolore. Voi vi dichiarate convinto che nella sua condizione presente l'Italia è incapace d'emanciparsi politicamente colle proprie forze. E questa idea è quella appunto che, predicata e diffusa, ha tolto ogni forza ai nostri tentativi d'emancipazione. Voi condannate all'impotenza ventisei milioni d'uomini che hanno per basi di difesa le Alpi, l'Apennino ed il mare, ed hanno, per rialzarsi, tremila anni di grandi ricordi. Voi rapite all'Italia ogni missione sulla terra, dacchè senza spontaneità non esiste missione, senza coscienza di libertà non esiste libertà, senza conquista d'emancipazione con forze proprie non esiste coscienza di libertà.
«Non manca forza all'Italia, Signore: essa ne ha tanta da superare ostacoli due volte più gravi di quelli che abbiamo oggi a fronte. Manca all'Italia la fede; non la fede nella libertà, nell'eguaglianza e nell'amore - quella fede è manifestata nelle sue continue proteste - ma la fede nella possibile realizzazione di quelle idee, la fede in Dio protettore del diritto violato, la fede nella propria forza latente, nella propria spada. L'Italia non ha fede nelle proprie moltitudini che non furono chiamate mai sull'arena: non ha fede in quella unità di missione, di voti, di patimenti, che può fare d'una prima vittoria una leva potente a suscitare l'intera Penisola: non ha fede nel vigore ignoto finora dei principî, che non rifulsero mai sugli occhi del popolo, che non furono invocati mai e che dirigeranno, lo spero, la nostra prima impresa di libertà. Ma questa fede, unica cosa che manchi ad essa, albeggia, mentre noi ci scriviamo: sorge dalle lezioni del 1830 e del 1831 ch'essa, l'Italia, sta meditando: comincia a rivelarsi nei fatti, tra le file della gioventù illuminata, da dove scenderà a poco a poco sulle moltitudini; e progredirà, non dovete dubitarne, perch'essa veste i caratteri d'una credenza religiosa. Guardate, Signore, alle tendenze di spiritualismo che si ravvivano, ai rischi tremendi che s'affrontano per leggere ciò che scriviamo, all'entusiasmo destato dalle vostre calde, sublimi pagine, ai nostri tentativi ripetuti in onta al mal esito, ai nostri apostoli, ai nostri martiri. Ora questa fede sorgente, questa fede nell'azione che trae le sue forze dall'alto e tenta di scendere sulle moltitudini, mancò finora alla lotta, non pesò mai sulla bilancia dei fati rivoluzionarî d'Italia. Però che in Italia si more da secoli per un istinto d'indipendenza, di ribellione, d'avvenire mal definito; ma da due anni si more in Savoja, in Genova, in Torino, in Alessandria, in Napoli, per la Giovine Italia, per giuramenti prestati al popolo, per un convincimento che l'Italia può rigenerarsi con forze proprie. E quando questa fede, questo nuovo principio, splenderà sopra una bandiera nazionale a un tempo ed umanitaria, chi può dire ch'essa soccomberà?
«Non giudicate, Signore, del nostro avvenire dal nostro passato. È tra essi un abisso. Tutti i nostri tentativi rivoluzionari perirono; ma tutti furono opera d'una casta militare o aristocratica e intesi a pro' d'una casta: tutti s'arretrarono davanti alla parola generatrice delle grandi rivoluzioni: Dio e il Popolo: tutti sagrificarono a non so quali meschine speranze il dogma sublime dell'Eguaglianza: tutti furono, in sul nascere, soffocati dal tradimento. E quel tradimento, che allontanava il popolo e ricacciava la gioventù nello scetticismo, era inevitabile: l'avevano posto al sommo dell'edifizio, in un disegno diplomatico, in una promessa di principe, in una protezione straniera sostituita alle battaglie per una santa causa. Gli uomini erano tuttavia sotto il dominio d'una fredda scuola d'individualismo che agghiacciava in una analisi materialista tutti i nobili pensieri, tutti i grandi concetti di sintesi, d'entusiasmo, di sagrificio. E dato un falso principio, bisognava subirne tutte le conseguenze fatali. E in virtù di quel falso principio, tutti, amici e nemici, gridavano all'Italia: i tuoi figli non bastano a darti salute; nessuno osava dirle: levati potente d'energia e di devozione, però che tu non devi sperare che ne' tuoi figli e in Dio.
«La rigenerazione d'Italia non può compirsi per fatto altrui. La rigenerazione esige una fede: la fede vuole opere: e le opere devono essere sue, non imitazione dell'opere altrui. E d'altra parte, come può mettersi amore in una libertà non conquistata con sagrifici? Come può esistere libertà forte e durevole dove non è dignità d'individui e di popolo? E come può esistere dignità d'uomini o popoli dove la libertà porta sulla fronte il segno del benefizio altrui? L'azione crea l'azione. Un solo fatto d'iniziativa è più fecondo di progresso morale a un popolo decaduto, che non dieci insurrezioni determinate da una azione esterna o da mene di diplomazia.
«Cerco diffondere, per tutte le vie possibili, la mia credenza. Incontro ostacoli gravi, ma non mi sconforto. Da parecchi anni ho rinunziato a quanto versa un'ombra, non foss'altro, di felicità sulla vita terrestre. Lontano da mia madre, dalle mie sorelle, da quanto m'è caro, perduto nelle prigioni il migliore amico de' miei primi anni giovanili, e per altre cagioni note a me solo, ho disperato della vita dell'individuo, e detto a me stesso: tu morrai perseguitato e frainteso a mezzo la via. Ma non avrei di certo trovato in me forza per vincere la tempesta e rassegnarmi, se questa grande idea della rigenerazione italiana compita con forze proprie non m'avesse dato il battesimo d'una fede. Distruggetela; e per che o per chi lotterei? A che affaticarci, se l'Italia non può sorgere che dopo una grande insurrezione francese?
«Io ho provato, Signore, un profondo dolore, quando, dopo d'avere pianto e sorriso sugli ultimi versi del vostro capo XVIII - e detto a me stesso: ecco l'uomo che c'intenderà - e scritto a voi l'animo mio coll'entusiasmo e colla franchezza d'una fiducia senza confini - ho udito dal vostro labbro, invece della confortatrice parola ch'io sperava mandereste ai miei fratelli di patria, il freddo consiglio che m'è toccato d'intender più volte dai diplomatici e dai falsi profeti: rimanetevi inerti e aspettate; forse, la libertà vi verrà dal nord, forse, dall'ovest della Germania o dalla Penisola Iberica. Ma io lessi nelle vostre pagine inspirate, che la libertà splenderebbe su noi, quando ciascuno di noi avrà detto a sè stesso: voglio esser libero; quando per diventarlo ciascuno di noi sarà pronto a sacrificare e soffrire ogni cosa. Dirò io che noi non siamo finora pronti a sacrificare e patire quanto dovremmo? Lo so; ma perchè oggi ancora l'anima nostra è ravviluppata di dubbio, non avremo certezza mai? Perchè la fede or ci manca, dobbiamo disperare dell'avvenire? Io non vi chiedeva di darci il segnale della battaglia: vi chiedeva per l'Italia ciò che avete dato alla Polonia, un commento al consiglio che ho citato dal vostro libro. Rimproverateci, come profeta, i nostri vizî, la nostra fiacchezza, le nostre divisioni, la nostra mancanza d'ardire; ma diteci a un tempo: il giorno in cui vi sarete fatti migliori e fratelli tutti, sarà il giorno della vostra emancipazione. Quando vorrete davvero, voi non dovrete più temere i vostri nemici nè esigere, per vincere, cosa alcuna dai vostri amici.
«Addio, Signore. Credete alla mia immensa stima. Senz'essa io non avrei osato parlarvi, aperto il mio cuore.
Negli ultimi mesi del 1834 impiantai l'Associazione della Giovine Svizzera: e s'ordinarono Comitati nel Bernese, nei Cantoni di Ginevra e di Vaud, nel Vallese, nel Cantone di Neufchâtel e altrove.
La Svizzera era ed è paese importante non solamente per sè ma e segnatamente per l'Italia. Dal 1.° gennajo 1338 quel piccolo popolo non ha padrone nè re. Per esso, da oltre a cinque secoli, unica in Europa, ricinta di monarchie gelose e conquistatrici, una bandiera repubblicana splende, quasi incitamento e presagio a noi tutti, sull'alto della regione Alpina. Carlo V, Luigi XIV, Napoleone passarono: quella bandiera rimase immobile e sacra. È in quel fatto una promessa di vita, un pegno di Nazionalità non destinata, com'altri pensa, a sparire. I trentatrè pastori del Grütli che, eguali tutti e rappresentanti popolazioni sorelle, inalzarono, oltre a cinque secoli addietro, contro la dominazione di casa d'Austria, quella bandiera, furono di certo interpreti, allora inconsci, d'un programma che Dio, segnando col dito la gigantesca curva dell'Alpi, affidava alla forte razza disseminata, quasi a difenderle, alle loro falde. Lungo quell'Alpi si stende una fratellanza di tradizioni popolari, di leggende, d'abitudini indipendenti e di costumanze che accenna a una missione speciale. Nel riparto territoriale futuro d'Europa, la Confederazione Elvetica dovrebbe trasformarsi in Federazione dell'Alpi, e affratellandosi da un lato la Savoja, dall'altro il Tirolo Tedesco e possibilmente altre terre, stendere una zona di difesa tra Francia, Germania e l'Alpi Elvetiche e nostre. È l'idea ch'io cercai di diffondere e che, dovrebbe, parmi, dirigere quanti guardano con ingegno severo all'avvenire delle Nazioni. Oggi, gli uomini della monarchia l'hanno fatta, cedendo la Savoja alla Francia, retrocedere d'un passo. Nondimeno chi sa gli eventi tenuti in serbo dalla crisi trasformatrice che i tempi inevitabilmente e rapidamente maturano?
Ma quando si fondava la Giovine Svizzera, la Nazione conservatrice in Europa della forma repubblicana, era infiacchita, anneghittita dal difetto di coesione interna, e quindi da un senso di debolezza servile che la condannava, verso l'Europa dei re, a una politica ignominiosa e suicida di concessioni, della quale dovevamo non molto dopo sperimentare gli effetti. Lasciando da banda le cause morali che intiepidendo negli animi ogni fede collettiva e il concetto del Dovere che ha base in essa, li sospinge oggi su tutta quanta l'Europa a ravvilupparsi più o meno in un manto d'indifferenza atea fra il bene e il male, quel senso di debolezza era conseguenza diretta del vizio fondamentale mantenuto ostinatamente nella Costituzione Svizzera; la mancanza di Rappresentanza della Nazione.
Il concetto d'una Repubblica Federativa racchiude l'idea d'una doppia serie di doveri e diritti: la prima spettante a ciascuno degli Stati che formano la Federazione; la seconda, all'insieme: la prima destinata a circoscrivere e definire la sfera d'attività degli individui, come cittadini dei diversi Stati, l'interesse locale; la seconda destinata a definire quella degli stessi individui come cittadini dell'intera Nazione, l'interesse generale: la prima determinata dai delegati di ciascuno degli Stati componenti la Federazione; la seconda determinata dai delegati di tutto il paese. Or, nella Svizzera, questo concetto è violato. Gli Stati o Cantoni sono rappresentati, governati da autorità che più o meno direttamente, più o meno democraticamente, emanano dal popolo dei Cantoni: la Dieta, o Governo centrale, è composta dei delegati di ciascun Cantone scelti dai grandi Consigli dei Cantoni medesimi; la Svizzera non ha quindi rappresentanti proprî, e il Potere Nazionale non è che un secondo esercizio della Sovranità Cantonale. In questa Dieta scelta sotto l'inspirazione degli interessi locali, ogni Cantone, qualunque ne sia l'importanza, l'estensione, la popolazione - e sebbene gli oneri ne siano determinati dal numero de' suoi abitanti - ha un voto. Un voto è dato a Zurigo che, popolato di circa 225,000 abitanti, versa nell'esercito federale un contingente di circa 4,000 uomini e nell'erario tra i settanta e gli ottanta mila franchi: un voto a Zug che ha da 14,000 abitanti e contribuisce di 250 soldati e di 2,500 franchi al paese. Un voto rappresenta i 355,000 abitanti di Berna e i 13,000 d'Uri. Ove i piccoli Cantoni s'uniscano in un intento, una minoranza di mezzo milione o poco più tiene fronte a una maggioranza di due milioni incirca di Svizzeri. E quasi a evitare la possibilità che una inspirazione nazionale sorga efficacemente nel core d'uno o d'altro Delegato, un mandato imperativo cancella in lui ogni spontaneità di coscienza. I rappresentanti sono vincolati da istruzioni precise date dai grandi Consigli Cantonali, e le questioni, comunque urgenti, che sorgono inaspettate, non possono sciogliersi se non interrogando nuovamente quelle sorgenti d'autorità.
Mercè condizione siffatta di cose, i Gabinetti stranieri riescono facilmente dominatori sulla mal connessa Confederazione. Essi mal potrebbero tentare d'atterrire o corrompere un popolo di due milioni e mezzo di repubblicani; ma possono, indirizzandosi separatamente ai piccoli Cantoni, giovandosi delle loro tendenze aristocratiche e della loro ignoranza, o accarezzando di speranze e di piccole concessioni un Cantone a danno dell'altro, conquistarsi una minoranza legalmente potente a equilibrare le tendenze della maggioranza del popolo. E quelle seduzioni alternate colla minaccia perenne e temuta a torto dalla Svizzera di ridurre a nulla quella mallevadoria di neutralità che crea non securità ma dipendenza al paese, riescono a perpetuare nella Confederazione una debolezza che ordinamenti migliori cancellerebbero. L'assetto pubblico non tende, come dovrebbe, a porre in armonia verso un fine comune le esistenze Cantonali, ma soltanto a proteggerne la quasi assoluta indipendenza. L'autorità Federale manca di relazione diretta coi cittadini, e di forza per costringere i violatori de' suoi Decreti. Il sistema aristocratico, assurdo, di rappresentanza mantiene un principio funesto d'ineguaglianza nel core della Nazione, e semina rancori e gelosia tra Cantone e Cantone. La Confederazione non ha coscienza d'unità Nazionale. I Cantoni si toccano, non s'associano. Il diritto civile, la legislazione penale, la fede politica, si mantengono troppo diversi. E se non fosse il vigore che spetta naturalmente all'istituzione repubblicana, la Svizzera, mercè l'arti dei Governi che la circondano, sarebbe da lungo caduta nell'anarchia o nell'agonia lenta e disonorevole dell'impotenza.
Ho accennato queste cose per rendere ragione a un tempo dell'intento e del diritto della Giovine Svizzera. Congiurare per congiurare fu in passato vezzo di molti, non mio. Frammischiarsi deliberatamente nelle faccende interne d'una Nazione straniera è materia grave e pericolosa. Ma quando un vizio politico genera conseguenze Europee come le capitolazioni militari a servizio del dispotismo, concessioni ecclesiastiche a Roma papale, potenza all'ordine de' Gesuiti e violazioni perenni del Diritto d'Asilo, ogni uomo che crede potersi inframmettere utilmente a combatterlo, deve farlo. La libertà è diritto Europeo. L'arbitrio, la tirannide, l'ineguaglianza non possono esistere in una Nazione senza nuocere alle altre. I Governi lo sanno, ed è tempo che noi lo impariamo.
La Giovine Svizzera ebbe missione di combattere i vizî accennati; e se l'una o l'altra delle loro conseguenze sparì o è presso a sparire l'apostolato fondato da noi non v'ebbe parte.
Lo scritto dell'Iniziativa rivoluzionaria, in Europa43, steso sul finire del 1834, fu inserito nella Revue Républicaine, del gennajo 1835. Diretta da Godefroy, Cavaignac e Dupont, quella Rivista parigina rappresentava le opinioni della parte repubblicana ordinata sul terreno dell'azione nella Società dei Diritti dell'uomo. La questione Europea v'era di tempo in tempo tentata con aspirazioni generose, ma governate sempre dall'idea che alla Francia spettasse, quasi per decreto di Provvidenza, l'iniziativa del Progresso in Europa. E questa idea, filosoficamente e storicamente falsa e funestissima alla vera morale emancipazione dei popoli, avversava ostinatamente su tutti i punti, e segnatamente nella Svizzera dove l'Alta Vendita di Buonarroti aveva tuttavia molti seguaci, il nostro lavoro. Io la combatteva con frequenti circolari diramate segretamente, suprema formola delle quali erano le parole: nè Uomo-re nè Popolo-re. Ma richiesto di qualche lavoro dagli Editori della Revue, stimai opportuno di trattare apertamente la questione. La Storia degli anni che seguirono confermò le mie idee; ma allora le apparenze mi stavano contro: il Partito repubblicano era potente per numero, audacia, intelletto e virtù, nella Francia del 1834, e i popoli guardavano tutti riverenti in Parigi come unico centro di speranze e di vita (1862).
Fondai nel giugno del 1835 un giornale destinato a estendere l'Associazione e le sue idee nella Svizzera. Esciva due volte la settimana, su due colonne, francese l'una, tedesca l'altra.
Avevamo fatto acquisto d'una stamperia in Bienna, nel Cantone di Berna. Il professore Weingart, svizzero, dirigeva lo Stabilimento, nel quale allogammo operai profughi, tedeschi e francesi. E una Commissione d'uomini svizzeri, taluni, come Schneider, membri del Gran Consiglio, somministrava i mezzi e additava e confermava i lavori. Pubblicavamo, oltre il giornale, opuscoli politici e una Biblioteca popolare economica.
Il giornale, che portava il nome dell'Associazione e la formola: Libertà, Eguaglianza, Umanità, era diretto da me; ma, poi ch'io doveva starmi pur sempre semi-celato, Direttore visibile era un Granier, estensore in capo un tempo della Glaneuse in Lione e che l'insurrezione repressa aveva balestrato fra noi. Traduttore tedesco era un Mathy, giovine assai capace e fervido allora d'entusiasmo per la nostra fede, più dopo, poi ch'ei ripatriò, mutato, come dicono, in conservatore.
Tendevamo a formare una scuola e a richiamare la politica dalle gare meschine delle fazioni e dal culto esclusivo degli interessi materiali agli alti principî di moralità religiosa senza i quali i mutamenti non durano o volgono a liti d'individui o sette anelanti il potere. E il nostro linguaggio era pacifico, grave, filosofico, inusitato nella polemica giornaliera d'allora. Nondimeno, e appunto perchè nuovo, fruttò corrispondenti ed amici in tutti i Cantoni: pochi ma buoni, come diceva Manzoni dei versi del Torti. Erano giovani stanchi di scetticismo ribelle e di negazioni, ministri protestanti che c'interrogavano sul carattere religioso della nostra dottrina di Progresso, madri che avevano fino a quel giorno raccomandato ai figli di tenersi lontani dal subuglio, sterile fuorchè d'ire e pericoli dei Partiti e che intravvedevano, leggendoci, un Dovere d'amore e di Verità da compirsi e insegnarsi. Sei mesi dopo il primo numero della Jeune Suisse noi ci trovammo, comunque assaliti rabbiosamente dai materialisti della vecchia scuola economica come Fazy e altri simili a lui, a capo d'un numero di Svizzeri affratellati all'apostolato Italiano e presti ad opere attive per avviare la loro Patria all'intelletto della missione che Dio le assegnava.
Scrissi in quel giornale da cinquanta a sessanta articoli d'argomento Svizzero o intorno alla questione Europea44. Le più tra le idee ch'io v'espressi furono più dopo da me trasfuse in altri scritti.
Gli scritti che s'andavano via via stampando da Tedeschi e Svizzeri affratellati con noi, e il giornale, e più l'importanza che l'apostolato italiano conquistava visibilmente in una terra strategicamente pericolosa, indifferente fino allora al moto europeo, davano intanto pretesto e cominciamento a una persecuzione assai più accanita della prima. Finchè l'agitazione repubblicana si concentrava tutta, per assenso di popoli inserviliti, in un solo fôco, Parigi, era facile invigilarla e combatterla; non così quando, emancipati gli animi dal pregiudizio che affidava l'iniziativa perenne del moto alla Francia, sorgesse in più punti, assalitrice ovunque vivesse istinto di nazione e coscienza di diritti violati. I governi collegati vedevano inquieti levarsi o farsi potente una bandiera che mirava a un nuovo riparto d'Europa e che presentivano dovere essere un dì o l'altro la bandiera dell'Epoca. E deliberarono di soffocarla.
Le varie diplomazie, dalla Francia ai governucci italiani, dalla Russia all'Austria e ai governucci Germanici intimarono al fiacco e illiberale governo elvetico d'imporre fine al nostro apostolato e disperdere l'associazione. E a rendere la turpe concessione possibile, s'adoperarono i soliti modi: false accuse e agenti provocatori. Sul cadavere d'un Lessing accoltellato da mano ignota e per cagione ignota presso Zurigo, architettarono tutto un edificio di società segreta all'antica, di giuramenti terribili, di tribunali vehmici e di condanne mortali pronunziate dalla Giovine Germania. Su qualche parola avventata, espressione d'un desiderio inefficace, composero lunghe e minute rivelazioni di disegni, ordini, armi raccolte per invadere un punto o l'altro della frontiera Germanica. E a far nota di parole imprudenti e provocarle ove non escivano volontarie, seminarono le nostre file d'incitatori e di spie. Un Giulio Schmidt, sassone, trovò modo, fingendosi agli estremi di povertà e supplicando lavoro, d'introdursi nella nostra stamperia. Un Altinger, israelita, che assumeva il nome di barone Eib, si diede a promuovere, con un segreto che voleva esser tradito, arrolamenti fra gli operai tedeschi. Una circolare fu coniata in mio nome nell'ambasciata francese diretta allora dal duca di Montebello e diramata a parecchi tra gli esuli cacciati di Svizzera dopo la spedizione di Savoja e soggiornanti in varie città della Francia, a invitarli a Grenchen ov'io era per irrompere di là nel Badese. Potrei citar venti fatti di questo genere, ma si riassumono tutti, nei loro caratteri di profonda immoralità e di perfidia, in quel di Conseil che or ora ricorderò.
Le accuse segrete appoggiavano le Note pubbliche. E la guerra diplomatica inspirata e iniziata dall'Austria, dalla Prussia e dalla Russia, finì per concentrarsi sotto la direzione della Francia. Fu sempre abitudine della Francia monarchica di fare il male per impedire ad altri di farlo; e le monarchie dispotiche si valsero di quella vecchia tendenza per ottenere il fine voluto e rovesciarne i tristi effetti sulla monarchia costituzionale sospetta ad esse e temuta: minacciarono intervento perchè la Francia s'affrettasse ad intervenire; e riuscirono. Era anima del ministero francese Thiers. E' s'assunse di capitanare l'ignobile impresa.
Intanto, il governo centrale (vorort), credulo alle pazze denunzie, cominciava la codarda persecuzione contro gli esuli repubblicani. Il 20 maggio ebbi avviso da un ingegnere amico in Soletta che si distribuivano cartucce alla piccola guarnigione della città prima d'avviarla a una spedizione pericolosa. Alcune ore dopo duecento soldati e una mano di gendarmi circondavano e invadevano lo stabilimento dei Bagni. V'eravamo in tre, io e i due fratelli Ruffini; ma tra l'avviso e l'arrivo, era giunto, inaspettato, dalla Francia Harro Haring: gli era stata mandata la circolare apocrifa di convocazione, ed egli avea creduto, accorrendo, di compiere il debito suo. Era munito di passaporto inglese e lo ammonii di mostrarsi ignoto a noi; se non che quand'egli udì il capo di quella forza a intimarmi di seguirlo a Soletta, ei disse il proprio nome e fu imprigionato con noi.
Condotti nel carcere di Soletta, fummo, senza esame di sorta, lasciati liberi dopo ventiquattr'ore: la gioventù della città minacciava liberarci da sè. La lunga perquisizione nei Bagni di Grenchen non aveva scoperto un fucile, un proclama, una circolare, un solo indizio della pretesa spedizione germanica. Ci fu nondimeno intimato d'escir dal Cantone. Varcammo il limite e ci ricovrammo nel primo paesetto al di là, Langenau nel Bernese, in casa d'un ministro protestante, che ci accolse come apostoli d'una fede proscritta, ma santa e destinata al trionfo.
Non per questo la persecuzione si rallentò. Il governo centrale avea, nelle sue inquisizioni, trovato, rimpiattati in uno o in un altro Cantone, parecchi tra i cacciati del 1834, e a rabbonire i governi stranieri decretò che sarebbero ricondotti alla frontiera. Un dispaccio sommesso annunziava il 22 giugno all'ambasciatore francese la decisione, e chiedeva l'ammessione dei cacciati sul territorio di Francia: aggiungeva, pegno di devozione, la lista dei condannati e di quei ch'erano fra noi più sospetti. Ogni concessione codarda imbaldanzisce a insolenza il nemico, e, mercè i suoi ministri, l'Italia d'oggi lo sa. Il duca di Montebello rispose il 18 luglio colla Nota la più minacciosamente oltraggiosa possibile. Invocava, esigeva un sistema di mezzi coercitivi a danno degli esuli e annunziava che se la Svizzera non ponesse fine a ogni tolleranza contro gli incorreggibili nemici del riposo dei governi, la Francia provvederebbe da sè.
Era un guanto di sfida cacciato, senz'ombra di pretesto, all'indipendenza della Svizzera, nella quale Luigi Filippo aveva ne' suoi anni di sventura, trovato asilo. E a creare quell'ombra, s'adoprò un mezzo siffattamente immorale che giova ricordarlo a insegnamento del fin dove scendano le monarchie costituzionali dell'oggi, e a conforto dei repubblicani, contro i quali nessuno può sollevare accusa siffatta.
Sui primi del luglio di quell'anno 1836, un Augusto Conseil, affiliato alla polizia parigina, era stato chiamato al ministero dell'interno e spedito in Isvizzera con una missione riguardante gli esuli. Ei doveva, prima di tutto, tentare ogni via di contatto con noi, rappresentarsi come complice d'Alibaud, che aveva tentato poco innanzi di uccidere il re, e conquistarsi così la nostra fiducia: poi, cacciati noi, accompagnarci in Inghilterra e rimanerci vicino, denunziatore perenne: intanto, la sua presenza tra noi convaliderebbe davanti al governo svizzero le accuse di disegni regicidî che si movevano nelle Note. E a far sì ch'ei fosse creduto ciecamente da noi, l'ambasciata francese in Berna dovea ricevere da Parigi denunzia formale che lo indicherebbe partecipe dei tentativi di Fieschi e Alibaud e incarico di chiederne al governo elvetico la consegna o la cacciata. Per tal modo egli avrebbe potuto seguirci. Gli fu dato danaro, un passaporto col nome di Napoleone Cheli, e un indirizzo per corrispondere. Ei partì il 4 luglio alla nostra volta. La denunzia fu spedita poco dopo e trasmessa il 19 luglio dal Montebello al Direttorio svizzero. Conseil era in Berna dal 10.
Là, ei trovò modo d'affiatarsi con due esuli italiani, Boschi e Primavesi, poi con un Aurelio Bertola, preteso conte di Rimini, avventuriero tristissimo e truffatore, ch'io feci qualche anno dopo imprigionare a Londra, ma che trovava allora suo pro' nel recitare la parte di patriota perseguitato; e mentr'ei cercava d'ascriverli alla società segreta francese delle famiglie onde ne stendessero le fila in Berna, parlò loro delle sue relazioni coi regicidî, annunziò nuovi tentativi e chiese un abboccamento per rivelazioni importanti con me. Avvertito, fiutai la spia: un complice d'Alibaud non si sarebbe svelato mai a uomini ignoti a lui, e trovati a caso per via o in un caffè. Ricusai l'abboccamento e consigliai si costringesse impaurito a cedere le proprie carte. Ma prima che ciò si facesse, egli, sviato dalla polizia Bernese, ripartiva per Besançon, in cerca di nuove istruzioni da Parigi, di danaro e d'un altro passaporto.
Gli fu spedita ogni cosa e istruzione di tornare a Berna e presentarsi per consigli all'ambasciatore francese, fatto complice della trama egli pure. Tornò, sotto il nome di Pietro Corelli, il 6 agosto. Ebbe un abboccamento la sera col duca di Montebello. Il 7, Boschi, Primavesi, Migliari e Bertola che l'avevano incontrato nell'albergo del Selvaggio, seguirono il mio consiglio e minacciandolo, ebbero le sue carte e confessione esplicita d'ogni cosa.
Importava dimostrare più sempre la complicità dell'ambasciatore. Conseil fu quindi indotto a ripresentarglisi, seguito da lungi, la sera. V'andò; nol vide; ma vide in sua vece il segretario Belleval e n'ebbe danaro, un altro passaporto col nome d'Hermann e una lista d'esuli da invigilarsi: la lista conteneva, s'intende, il mio nome, quello dei fratelli Ruffini, e poi altri d'esuli tedeschi e francesi.
Le prove bastavano per chiarire ogni cosa e somministrare al governo svizzero un'arme potente per respingere le audacie francesi. Diemmo quindi conoscenza di tutto alla polizia. Una istruzione governativa iniziata il 16 agosto fu conchiusa da un documento contenente la confessione di Conseil45.
E nondimeno, in una Nota del 27 settembre, il duca di Montebello parlava sfrontatamente alla Svizzera il linguaggio della virtù calunniata, parlava di dignità offesa, sospendeva ogni relazione officiale colla Svizzera e minacciava di peggio. Tutta questa galante gentaglia che prende nome di diplomatici, ambasciatori, segretarî di legazione e che rappresenta in Europa le monarchie, vive, move e respira, siccome in proprio elemento, nella menzogna. Gli uomini politici dei nostri giorni si tengono onorati del loro contatto e s'affaccendano a ottenerne un sorriso, una stretta di mano. Io crederei insozzata la mia dalla loro. Il primo tra essi non vale l'onesto operajo che dice ruvidamente il vero e arrossisce se colto in fallo.
Gli uomini che governavano a quel tempo la Svizzera erano opportunisti, machiavellici, moderati; immorali quindi e codardi. L'imitazione di quelle che chiamano abitudini e tradizioni governative e non sono se non una deviazione dall'unica morale e logica idea del governo rappresentare tra i popoli per mezzo d'un popolo il Vero ed il Giusto, aveva infiacchito in essi il severo costume e il vigore repubblicano. Invece di rispondere all'ambasciatore: mentite e chiederne il richiamo al governo; invece di dire ai gabinetti stranieri: voi non avete diritto di giudici in casa nostra; lasciateci in pace - e certi come pur erano per esperienza che nessuno avrebbe osato di varcare la frontiera e assalirli - risposero sommessamente alle Note, querelandosi d'essere fraintesi, invocando le vecchie alleanze, gli antichi vincoli d'amicizia. I governi, vedendoli tremanti, insolentivano più che mai.
Allora, io diceva agli Svizzeri: «La sicurezza e l'indipendenza della patria sono nelle vostre antiche virtù e nell'onore. I suoi nemici stanno fra quei che tradiscono quelle virtù e contaminano l'onore della bandiera repubblicana piantata sul sepolcro dei loro padri. Che importa il godimento precario d'un diritto d'associazione o di stampa, se la santità di quel diritto v'è ignota, se invece di ravvisare in esso l'applicazione d'un principio universale, frammento della legge di Dio, voi insegnate ai vostri figli a non vedervi che un semplice fatto? Che importa la libertà s'essa deve, colla paura nell'anima e la vergogna sulla fronte, trascinarsi, in sembianza di cortigiana avvilita, d'ambasciata in ambasciata, per mendicarvi alla diplomazia monarchica una esistenza d'un giorno? Libertà siffatta non è se non amara derisione; e simile alla ironica leggenda che una mano d'empio inchiodava sulla croce di Cristo, essa forma l'eterna condanna degli uomini che la scrivono sulla bandiera e crocefiggono il Giusto al disotto.
«Sventura agli uomini che, sconoscendo quanto ha di santo l'esilio, calpestando la sacra ospitalità, speculano sull'isolamento del proscritto e pongono una corona di spine sulla testa consecrata dal battesimo dei patimenti e del sagrificio! Sventura al popolo capace d'assistere indifferente a quello spettacolo e senza sentirsi spronato a levare la mano e dire: quei proscritti sono fratelli che Dio ci manda; rispetto per essi e per noi! La libertà de' suoi padri si dissolverà come ghiaccio al sole, alla prima difficile prova. Le lagrime provocate dal suo egoismo testimonieranno contr'esso. Esse ne cancelleranno la gloria e il nome. Perchè Cristo disse: date da mangiare agli affamati e da bere a chi ha sete. Ma la libertà è il pane dell'anima e l'ospitalità è la rugiada versata da Dio sui buoni, perch'essi la riversino sulle fronti solcate dalla persecuzione.» (Giov. Svizz., 2 luglio 1836.)
E il popolo era, come sempre, diverso da' suoi raggiratori e presto a incontrare ogni sagrificio per mantenere intatto l'onore del paese. Il fermento era generale e generale il grido di resistenza. Radunanze patriotiche di diecimila uomini a Reiden, di ventimila a Viediken, ne facevano fede. Ma alle titubanze accennate s'aggiungevano le divisioni inerenti ad ogni federazione e fomentate dalle monarchie, ch'esercitavano influenza sopra un Cantone o sull'altro, la Prussia su Neuchâtel, l'Austria sui tre piccoli Cantoni, la Francia pel contatto dell'ambasciata, su Berna. Di fronte allo scandalo di Conseil e malgrado l'energica opposizione di parecchi fra i deputati, la Dieta ritrattò ogni espressione che nelle Note anteriori avesse sembianza d'accusa o rimprovero al governo francese, e decretò si procedesse più severamente che mai contro gli esuli pericolosi.
Era un aprire il varco all'arbitrio, e fu spinto all'estremo. Non potendo e pur volendo sopprimere il giornale La Giovine Svizzera, il governo imprigionò, sotto diversi pretesti, prima il traduttore tedesco, poi il correttore, e dopo lui i compositori tedeschi e francesi, e finalmente taluni fra i collaboratori, cittadini svizzeri, come Weingart e Schïeler: a noi la vita errante e l'impossibilità di comunicazioni regolari coi nostri vietavano di sottentrare con un lavoro periodico. Il giornale fu quindi costretto a cessare sul finire di luglio.
«Un vento gelato del nord» - io diceva in uno degli ultimi articoli, il 18 giugno - «ha soffiato sull'anime. Odo voci ignote a mormorare parole ignote anch'esse finora su questa terra repubblicana: rompiamo cogli esuli, rannodiamo coi governi: sagrifichiamo ad essi questa mano d'agitatori: proscriviamo i proscritti, e rovesciamo sulle loro teste le colpe delle quali i governi ci accusano. E si stendono liste di proscrizione, s'imprigionano ad arbitrio gli esuli contro i quali non milita accusa: novanta individui formano una categoria di sospetti: hanno ricompensa le denunzie e prezzo le teste. I giornali ridondano di calunnie. Non siamo interrogati nè ammessi ad esame. Segnati quasi capi d'armento, siamo destinati gli uni all'Inghilterra, gli altri all'America. Perchè? In virtù di qual diritto? Per quali scoperte? Quali delitti furono commessi da noi? Su qual codice è fondato il giudizio? Quali testimonianze s'invocano? Quali giustificazioni ci sono chieste? Come nell'antica Venezia, la persecuzione è fondata su denunzie segrete. Le condanne non poggiano sul diritto comune, su leggi note. Non v'è legge per noi. Il nostro presente, il nostro avvenire è dato in balìa al diritto dello Stato, a un non so che d'incerto, d'indefinito, a una autorità cieca e sorda come l'Inquisizione di Schiller, senza nome siccome l'Ateo. E non una voce di patriota influente, di legislatore repubblicano, si leva per protestare in nome degli uomini ai quali ogni protesta è vietata, e dire: i proscritti sono uomini: hanno diritto ad ogni umana giustizia: ogni condanna non fondata sulla legge di tutti è iniqua: ogni giudizio non preceduto da pubblica discussione, e da libera illimitata difesa, è delitto davanti agli uomini e a Dio. No; non una. Diresti che lo monarchie esiliandoci dalla Patria ci esiliassero dall'Umanità.
«Dall'Umanità? Sì - e Dio sa che il dolore da me provato mentr'io scrivo questo parole non deriva da considerazioni individuali - non ho mai sentita così profondamente com'oggi la verità di quel detto di Lamennais: Dio versi la pace sul povero esule, perch'egli è, dovunque, solo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Io scrivo senz'odio e senza amarezza. - Il primo mi fu sempre ignoto. Ma uno sdegno profondo mi solca l'anima, quand'io penso al come si giochi quaggiù sul tappeto d'una Cancelleria la libertà, la dignità, l'onore d'un popolo - quand'io vedo i delegati d'una repubblica ordinare, a benefizio delle polizie monarchiche, una tratta di bianchi - quando odo uomini che sono padri, fratelli, sposi, pronunziare spensieratamente, presso alla culla dei loro bambini, il nome d'America per altri uomini che hanno perduto ogni cosa e ai quali unico conforto è forse di poter guardare all'Alpi o al Reno, pensando che la loro patria è al di là. Son essi conscii di quel che fanno? Ricordano che noi pure, proscritti, abbiamo madri, vecchi padri e sorelle? Sanno le conseguenze che quella loro spensierata parola può trascinare per essi e per noi?
«Un giorno, nel 1834, un uomo mi venne innanzi richiedendomi d'ajuto fraterno. Era un proscritto, proscritto da vent'anni, e aveva bevuto a lenti sorsi tutto quanto il calice amaro che l'esilio versa sui poveri e soli. L'avevano sospinto da Berna a Ginevra, da Ginevra in Francia. La Francia lo aveva respinto, perch'ei mancava di carte regolari. Avea ricorso il paese a piedi e trovato un rifugio in Berna dove alcuni Italiani prendevano cura di lui. Fu riconsegnato ai gendarmi e respinto su Ginevra. Là, fu messo in prigione, per avere osato tornarvi, poi scacciato com'uomo senza domicilio legale. - Io lo vidi quand'ei compiva a quel modo il terzo viaggio. Le lagrime gli scendevano giù per le guancie, mentr'ei mi narrava i suoi casi. Commoveva profondamente. Gli intimarono, poco dopo, di partire per l'Inghilterra. E partì, attraversando Svizzera e Francia pedone.
«Quell'uomo era napoletano e si chiamava Carocci. Morì attraversando il mare.
«Sua madre e suo padre vivevano ancora. Aveva fratelli e sorelle. Dio perdoni ai repubblicani che avvelenarono di dolore i loro giorni.»
Nulla d'individuale, come dissi, inspirava le mie lagnanze. Non ho mai tentato, attraverso le persecuzioni alle quali soggiacqui, d'impietosire alcuno per me. Quando un conclusum della Dieta m'intimò l'esilio in perpetuità dalla Svizzera, mi strinsi nelle spalle e rimasi. Rimasi, cercato inutilmente per ogni dove, fino al dicembre di quell'anno, e sarei rimasto indefinitamente se il modo di vita, che ci era comandato dalle circostanze, non avesse seriamente minacciato la salute dei due amici che dividevano meco la persecuzione.
Nel gennajo del 1837, io giunsi in Londra con essi.
Ma in quelli ultimi mesi, io m'era agguerrito al dolore e fatto davvero tetragono, come dice Dante, ai colpi della fortuna che m'aspettavano. Non ho mai potuto, per non so quale capriccio della mia mente, ricordare le date di fatti anche gravi, spettanti alla mia vita individuale. Ma s'anch'io fossi condannato a vivere secoli, non dimenticherei mai il finir di quell'anno e la tempesta per entro i vortici della quale fu presso a sommergersi l'anima mia. E ne acenno qui riluttante, pensando ai molti che dovranno patire quel ch'io patii e ai quali la voce d'un fratello escito - battuto a sangue, ma ritemprato - dalla burrasca, può forse additare la via di salute.
Fu la tempesta del Dubbio: tempesta inevitabile credo, una volta almeno nella vita d'ognuno che, votandosi ad una grande impresa, serbi core e anima amante e palpiti d'uomo, nè s'intristisca a nuda e arida formola della mente, come Robespierre. Io aveva l'anima traboccante e assetata d'affetti e giovine e capace di gioja come ai giorni confortati dal sorriso materno e fervida di speranze se non per me, per altrui. Ma in quei mesi fatali mi s'addensarono intorno a turbine sciagure, delusioni, disinganni amarissimi, tanto ch'io intravidi in un subito nella scarna sua nudità la vecchiaja dell'anima solitaria e il mondo deserto d'ogni conforto nella battaglia per me. Non era solamente la rovina, per un tempo indefinito, d'ogni speranza italiana, la dispersione dei nostri migliori, la persecuzione che disfacendo il lavoro svizzero ci toglieva anche quel punto vicino all'Italia, l'esaurimento dei mezzi materiali, l'accumularsi d'ogni maniera di difficoltà pressochè insormontabili tra il lavoro iniziato e me; ma il disgregarsi di quell'edifizio morale d'amore e di fede nel quale soltanto io poteva attingere forze a combattere, lo scetticismo ch'io vedea sorgermi innanzi dovunque io guardassi, l'illanguidirsi delle credenze in quei che più s'erano affratellati con me sulla via che sapevamo tutti fin dai primi giorni gremita di triboli, e più ch'altro, la diffidenza ch'io vedeva crescermi intorno ne' miei più cari delle mie intenzioni, delle cagioni che mi sospingevano a una lotta apparentemente ineguale. Poco m'importava anche allora che l'opinione dei più mi corresse avversa. Ma il sentirmi sospettato d'ambizione o d'altro men che nobile impulso dai due o tre esseri sui quali io aveva concentrato tutta la mia potenza d'affetto, mi prostrava l'anima in un senso di profonda disperazione. Or questo mi fu rivelato in quei mesi appunto nei quali, assalito da tutte parti io sentiva più prepotente il bisogno di ricoverarmi nella comunione di poche anime sorelle che m'intendessero anche tacente; che indovinassero ciò ch'io, rinunziando deliberatamente a ogni gioja di vita, soffriva; e soffrissero, sorridendo, con me. Senza scendere a particolari, dico che quelle anime si ritrassero allora da me.
Quand'io mi sentii solo nel mondo - solo, fuorchè colla povera mia madre, lontana e infelice essa pure per me - m'arretrai atterrito davanti al vuoto. Allora, in quel deserto, mi s'affacciò il Dubbio. Forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l'idea ch'io seguiva era un sogno. E fors'io non seguiva una idea, ma la mia idea, l'orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria, più che l'intento della vittoria l'egoismo della mente e i freddi calcoli d'un intelletto ambizioso, inaridendo il core e rinegando gli innocenti spontanei suoi moti che accennavano soltanto a una carità praticata modestamente in un piccolo cerchio, a una felicità versata su poche teste e divisa, a doveri immediati e di facile compimento. Il giorno in cui quei dubbi mi solcarono l'anima, io mi sentii non solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un condannato conscio di colpa e incapace d'espiazione. I fucilati d'Alessandria, di Genova, di Chambery, mi sorsero innanzi come fantasmi di delitto e rimorso pur troppo sterile. Io non potea farli rivivere. Quante madri aveva già pianto per me! Quante piangerebbero ancora s'io m'ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d'una Patria comune, la gioventù dell'Italia? E se questa Patria non fosse che una illusione? Se l'Italia esaurita da due Epoche di civiltà, fosse oggimai condannata dalla Provvidenza a giacere senza nome e missione propria aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita? D'onde traeva io il diritto di decidere sull'avvenire e trascinare centinaja, migliaja d'uomini al sagrifizio di sè e d'ogni cosa più cara?
Non m'allungherò gran fatto ad anatomizzare le conseguenze di questi dubbi su me: dirò soltanto ch'io patii tanto da toccare i confini della follìa. Io balzava la notte dai sonni e correva quasi deliro alla mia finestra chiamato, com'io credeva, dalla voce di Jacopo Ruffini. Talora, mi sentiva come sospinto da una forza arcana a visitare, tremante, la stanza vicina, nell'idea ch'io v'avrei trovato persona allora prigioniera o cento miglia lontana. Il menomo incidente, un suono, un accento, mi costringeva alle lagrime. La natura, coperta di neve com'era nei dintorni di Grenchen, mi pareva ravvolta in un lenzuolo di morte sotto il quale m'invitava a giacere. I volti della gente che mi toccava vedere mi sembravano atteggiarsi, mentre mi guardavano, a pietà, più spesso a rimprovero. Io sentiva disseccarsi entro me ogni sorgente di vita. L'anima incadaveriva. Per poco che quella condizione di mente si fosse protratta, io insaniva davvero o moriva travolto nell'egoismo del suicidio.
Mentr'io m'agitava e presso a soccombere sotto quella croce, un amico, a poco stanze da me, rispondeva a una fanciulla che, insospettita del mio stato, lo esortava a rompere la mia solitudine: lasciatelo, ei sta cospirando e in quel suo elemento è felice. Ah! come poco indovinano gli uomini le condizioni dell'anima altrui, se non la illuminano - ed è raro - coi getti d'un amore profondo!
Un giorno, io mi destai coll'animo tranquillo, coll'intelletto rasserenato, come chi si sente salvo da un pericolo estremo. Il primo destarmi fu sempre momento di cupa tristezza per me, come di chi sa di riaffacciarsi a una esistenza più di dolori che d'altro: e in quei mesi mi compendiava in un subito tutte le ormai insopportabili lotte che avrei dovuto affrontare nella giornata. Ma quel mattino, la natura pareva sorridermi consolatrice e la luce rinfrescarmi, quasi benedizione, la vita nelle stanche vene. E il primo pensiero che mi balenò innanzi alla mente fu: questa tua è una tentazione dell'egoismo: tu fraintendi la Vita.
Riesaminai pacatamente, poi ch'io lo poteva, me stesso e le cose. Rifeci da capo l'intero edifizio della mia filosofia morale. Una definizione della Vita dominava infatti tutte le questioni che m'avevano suscitato dentro quell'uragano di dubbî e terrori, come una definizione della Vita è base prima, riconosciuta o no, d'ogni filosofia. L'antica religione dell'India aveva definito la Vita: contemplazione; e quindi l'inerzia, l'immobilità, il sommergersi in Dio delle famiglie Ariane. Il Cristianesimo l'avea definita espiazione: e quindi le sciagure terrestri considerate come prova da accettarsi rassegnatamente, lietamente, senza pur cercar di combatterle; la terra, guardata come soggiorno di pena; l'emancipazione dell'anima conquistata col disprezzo indifferente alle umane vicende. Il materialismo del XVIII secolo avea, retrocedendo di duemila anni, ripetuto la definizione pagana: la Vita è la ricerca del benessere; e quindi l'egoismo insinuatosi in noi tutti sotto le più pompose sembianze, l'esoso spettacolo d'intere classi che dopo aver dichiarato di voler combattere per il benessere di tutti, raggiunto il proprio, sostavano abbandonando i loro alleati, e l'incostanza nelle più generose passioni, i subiti mutamenti quando i danni della lotta pel bene superavano le speranze, i subiti sconforti nell'avversità, gli interessi materiali anteposti ai principî e altre molte tristissime conseguenze che durano tuttavia. M'avvidi che, comunque tutte le tendenze dell'anima mia si ribellassero a quella ignobile e funesta definizione, io non m'era tuttavia liberato radicalmente dalla sua inflenza predominante sul secolo e nutrita tacitamente in me dai ricordi inconscî delle prime letture francesi, dall'ammirazione all'audacia emancipatrice dei predicatori di quella dottrina e da un naturale senso d'opposizione a caste e governi che negavano nelle moltitudini il diritto al benessere per mantenerle prostrate e schiave. Io avea combattuto il nemico in altrui, non abbastanza in me stesso. Quel falso concetto della Vita s'era spogliato, a sedurmi, d'ogni bassa impronta di desiderî materiali e s'era riconcentrato, come in santuario inviolabile, negli affetti. Io avrei dovuto guardare in essi come in benedizione di Dio accolta con riconoscenza qualunque volta scende a illuminare e incalorire la vita, non richiesta con esigenza a guisa di diritto o di premio; e aveva invece fatto d'essi una condizione al compimento dei miei doveri. Io non avea saputo raggiungere l'ideale dell'amore, l'amore senza speranza quaggiù. Io adorava dunque, non l'amore, ma le gioje dell'amore. Allo sparire di quelle gioje, io avea disperato d'ogni cosa, come se il piacere e il dolore côlti fra via mutassero il fine ch'io m'era proposto raggiungere, come se la pioggia o il sereno del cielo potessero mai mutare l'intento o la necessità del viaggio. Io rinegava la mia fede nell'immortalità della vita e nella serie delle esistenze che mutano i patimenti in disagi di chi sale un'erta faticosa in cima alla quale sta il bene, e sviluppano, inanellandosi, ciò che qui sulla terra non è se non germe e promessa: negava il Sole, perch'io non poteva, in questo breve stadio terrestre, accendere alle sue fiamme la mia povera lampada. Io era codardo senza avvedermene. Serviva all'egoismo pure illudendomi ad esserne immune, soltanto perch'io lo trasportava in una sfera meno volgare e levata più in alto che non quelle nelle quali lo adorano i più.
La Vita è Missione. Ogni altra definizione è falsa e travia chi l'accetta. Religione, Scienza, Filosofia, disgiunte ancora su molti punti, concordano oggimai in quest'uno: che ogni esistenza è un fine: dove no, a che il moto? a che il Progresso, nel quale cominciamo tutti, a credere come in Legge della Vita? E quel fine è uno: svolgere, porre in atto tutte quante le facoltà che costituiscono la natura umana, l'umanità, e dormono in essa, e far sì che convergano armonizzate verso la scoperta e l'applicazione pratica della Legge. Ma gli individui hanno, a seconda del tempo e dello spazio in cui vivono e della somma di facoltà date a ciascuno, fini secondarî diversi, tutti sulla direzione di quell'uno, tutti tendenti a svolgere e associare più sempre le facoltà collettive e le forze. Per l'uno è giovare al miglioramento morale e intellettuale dei pochi che gli vivono intorno; per un altro, dotato di facoltà più potenti o collocato in più favorevoli circostanze, è promovere la formazione d'una Nazionalità, la riforma delle condizioni sociali in un popolo, lo scioglimento d'una questione politica o religiosa. Il nostro Dante intendeva questo più di cinque secoli addietro, quand'ei parlava del gran Mare dell'Essere, sul quale tutte le esistenze erano portate dalla virtù divina a diversi porti. Noi siamo giovani ancora di scienza e virtù, e una incertezza tremenda pende tuttavia sulla determinazione dei fini singolari, verso i quali dobbiamo dirigerci. Basti nondimeno la certezza logica della loro esistenza; e basti il sapere che parte di ciascun di noi, perchè la vita sia tale e non pura esistenza vegetativa o animale, è il trasformare più o meno, o tentare di trasformare, negli anni che ci sono dati sulla terra, l'elemento, il mezzo, nel quale viviamo, verso quell'unico fine.
La Vita è Missione; e quindi il Dovere è la sua legge suprema. Nell'intendere quella missione e nel compiere quel dovere sta per noi il mezzo d'ogni progresso futuro, sta il segreto dello stadio di vita al quale, dopo questa umana, saremo iniziati. La Vita è immortale: ma il modo e il tempo delle evoluzioni attraverso le quali essa progredirà è in nostre mani. Ciascuno di noi deve purificare, come tempio, la propria anima d'ogni egoismo, collocarsi di fronte, con un senso religioso dell'importanza decisiva della ricerca, al problema della propria vita, studiare qual sia il più rilevante, il più urgente bisogno degli uomini che gli stanno intorno, poi interrogare le proprie facoltà e adoperarle risolutamente, incessantemente, col pensiero, coll'azione, per tutte le vie che gli sono possibili, al soddisfacimento di quel bisogno. E quell'esame non è da imprendersi coll'analisi che non può mai rivelar la vita ed è impotente a ogni cosa se non quando è ministra a una sintesi predominante, ma ascoltando le voci del proprio core, concentrando a getto sul punto dato tutte le facoltà della mente, coll'intuizione insomma dell'anima amante compresa della solennità della vita. Quando l'anima vostra, o giovani fratelli miei, ha intravveduto la propria missione, seguitela e nulla v'arresti: seguitela fin dove le vostre forze vi danno: seguitela accolti dai vostri contemporanei o fraintesi, benedetti d'amore o visitati dall'odio, forti d'associazione con altri o nella tristissima solitudine che si stende quasi sempre intorno ai Martiri del Pensiero. La via v'è dimostra: siete codardi e tradite il vostro futuro, se non sapete, per delusioni o sciagure, correrla intera.
Fortem posce animum, mortis terrore carentem,
Qui spatium vitæ extremum inter munera ponat
Naturæ, qui ferre queat quoscumque labores,
Nesciat irasci, cupiat nihil.............
Son versi di Giovenale, che compendiano ciò che noi dovremmo invocare sempre da Dio, ciò che fece Roma signora e benefattrice del mondo. È più filosofia della vita in quei quattro versi d'un nostro antico che non in cinquanta volumi di quei sofisti che da mezzo secolo inorpellano, traviandoli, con formole d'analisi e nomenclature di facoltà la troppo arrendevole gioventù.
Ricordo un brano di Krasinski, potente scrittore polacco ignoto all'Italia, nel quale Dio dice al poeta: «Va e abbi fede nel nome mio. Non ti calga della tua gloria, ma del bene di quelli ch'io ti confido. Sii tranquillo davanti all'orgoglio, all'oppressione, e al disprezzo degli ingiusti. Essi passeranno, ma il mio pensiero e tu non passerete.... Va e ti sia vita l'azione! Quand'anche il core ti si disseccasse nel petto, quand'anche tu dovessi dubitare de' tuoi fratelli, quand'anche tu disperassi del mio soccorso, vivi nell'azione, nell'azione continua e senza riposo. E tu sopravviverai a tutti i nudriti di vanità, a tutti i felici, a tutti gli illustri; tu risusciterai non nelle sterili illusioni, ma nel lavoro dei secoli, e diventerai uno tra i liberi figli del cielo.»
È poesia bella e vera quant'altra mai. E nondimeno - forse perchè il poeta cattolico, non potè sprigionarsi dalle dottrine date dalla fede cattolica per intento alla vita - spira attraverso a quelle linee un senso di mal represso individualismo, una promessa di premio ch'io vorrei sbandita dall'anima sacra al Bene. Il premio verrà, assegnato da Dio: ma noi non dovremmo preoccuparcene. La religione del futuro dirà al credente: salva l'anima altrui e lascia cura a Dio della tua. La fede, che dovrebbe guidarci splende, parmi più pura, nelle poche parole di un altro polacco, Skarga, anche più ignoto di Krasinski, ch'io ho ripetuto sovente a me stesso: «Il ferro ci splende minaccioso sugli occhi: la miseria ci aspetta al di fuori; e nondimeno, il Signore ha detto: andate, andate senza riposo. Ma dove andremo noi, o Signore? Andate a morire voi che dovete morire: andate a soffrire voi che dovete soffrire!»
Com'io giungessi a farmi giaculatoria di quelle parole - per quali vie di lavoro intellettuale io riuscissi a riconfermarmi nella prima fede e deliberassi di lavorare sino all'ultimo della mia vita, quali pur fossero i patimenti e il biasimo che m'assalirebbero, al fine balenatomi innanzi nelle carceri di Savona, l'Unità Repubblicana della mia Patria - non posso or dirlo nè giova. Io vergai in quei giorni il racconto delle prove interne durate e dei pensieri che mi salvarono, in lunghi frammenti d'un libro foggiato, quanto alla forma, sull'Ortis, ch'io intendeva pubblicare anonimo sotto il titolo di Reliquie d'un Ignoto. Portai meco, ricopiato a caratteri minutissimi e in carta sottile, quello scritto a Roma e lo smarrii, non so come, attraversando la Francia al ritorno. Oggi, s'io tentassi riscrivere le mie impressioni d'allora, non riuscirei.
Rinsavii da per me, senza ajuto altrui, mercè una idea religiosa ch'io verificai nella storia. Scesi dalla nozione di Dio a quella del Progresso; da quella del Progresso a un concetto della Vita, alla fede in una missione, alla conseguenza logica del dovere, norma suprema; e giunto a quel punto, giurai a me stesso che nessuna cosa al mondo avrebbe ormai potuto farmi dubitare e sviarmene. Fu, come dice Dante, un viaggio dal martirio alla pace46: pace violenta e disperata nol nego, perch'io m'affratellai col dolore e mi ravvolsi in esso, come pellegrino nel suo mantello; pur pace, dacchè imparai a soffrire senza ribellarmi e fui d'allora in poi in tranquilla concordia coll'anima mia. Diedi un lungo tristissimo addio a tutte le gioje, a tutte le speranze di vita individuale per me sulla terra. Scavai colle mie mani la fossa, non agli affetti - Dio m'è testimone ch'io li sento oggi canuto come nei primi giorni della mia giovinezza - ma ai desiderî, alle esigenze, ai conforti ineffabili degli affetti, e calcai la terra su quella fossa, sì ch'altri ignorasse l'io che vi stava sepolto. Per cagioni, parecchie visibili, altre ignote, la mia vita fu, è e durerebbe, s'anche non fosse presso a compirsi, infelice; ma non ho pensato mai, da quei giorni in poi, un istante che l'infelicità dovesse influir sulle azioni. Benedico riverente Dio padre per qualche consolazione d'affetti - non conosco consolazioni da quelle infuori - ch'egli ha voluto, sugli ultimi anni, mandarmi, e v'attingo forza a combattere il tedio dell'esistenza che talora mi si riaffaccia; ma s'anche quelle consolazioni non fossero, credo sarei quale io sono. Splenda il cielo serenamente azzurro come in un bel mattino d'Italia o si stenda uniformemente plumbeo e color di morte come tra le brume del settentrione, non vedo che il Dovere muti per noi. Dio è al disopra del cielo terrestre e le sante stelle della fede e dell'avvenire splendono nell'anima nostra, quand'anche la loro luce si consumi senza riflesso come lampada in sepoltura. - (1862).
I primi tempi del mio soggiorno in Londra non corsero propizî al lavoro politico. Alla crisi morale durata nella Svizzera sottentrò - conseguenza in parte d'obblighi da me contratti per le cose d'Italia e ai quali io dovea consecrare il denaro destinato alla vita, in parte di danaro speso per altri - una crisi d'assoluta miseria che si prolungò per tutto l'anno 1837 e metà del 1838. Avrei potuto vincerla svelando le mie condizioni: mia madre e mio padre avrebbero trovato lieve ogni sagrifizio per me; ma essi avevano sagrificato già troppo e mi parve debito tacere con essi. Lottai nel silenzio. Impegnai, senza possibilità di riscatto, quanti rari ricordi io aveva avuto da mia madre e da altri; poi gli oggetti minori, finchè un sabato io fui costretto a portare, per vivere la domenica, in una di quelle botteghe, nelle quali s'accalca la sera la gente povera e la perduta, un pajo di stivali e una vecchia giubba. Mi trascinai, mallevadori taluni fra' miei compatrioti, d'una in altra di quelle società d'imprestiti che rubano al bisognoso l'ultima goccia di sangue - e talora l'ultimo pudore dell'anima - sottraendogli il trenta o quaranta per cento su poche lire da restituirsi di settimana in settimana, a ore determinate, in uffici tenuti, fra malviventi e briachi, nei public houses o luoghi di vendita di birra e bevande spiritose. Attraversai a una a una tutte quelle prove che, dure in sè, lo diventano più sempre quando chi le incontra vive solitario, inavvertito, perduto in una immensa moltitudine d'uomini ignoti a lui e in una terra dove la miseria, segnatamente nello straniero, è argomento di diffidenze sovente ingiuste, talora atroci. Io non ne patii più che tanto nè mi sentii un solo istante avvilito o scaduto. Nè ricorderei quelle prove durate. Ma ad altri condannato a durarle e che si crede per esse da meno, può giovare l'esempio mio. Io vorrei che le madri pensassero come nessuno sia, nelle condizioni presenti d'Europa, arbitro della propria fortuna o di quella dei proprî cari, e si convincessero che, educando austeramente e in ogni modo di vita i figli, provvedono forse meglio al loro avvenire, alla loro felicità e all'anima loro che non colmandoli d'agi e conforti e snervandone l'indole che dovrebbe agguerrirsi fin dai primi anni contro le privazioni e gli stenti. Io vidi giovani italiani, chiamati dalla natura alla bella vita, travolgersi miseramente nel delitto o ricovrarsi sdegnosi nel suicidio per prove ch'io varcai sorridendo, e accusati mallevadrici le madri. La mia - benedetta sia la di lei memoria - m'aveva preparato, con quell'amore che pensa all'avvenire possibile, tetragono ad ogni sventura.
Uscito da quelle angustie, mi feci via colle lettere. Conobbi e fui noto. Ammesso a lavorare nelle Riviste - taluna delle quali mi retribuiva una lira sterlina per ogni pagina - scrissi quanto era necessario per equilibrare la modesta rendita colle spese maggiori in Inghilterra che non altrove. I più tra quei lavori di critica letteraria sono compresi in questa edizione, e i lettori possono giudicarne i demeriti o i meriti. A me, pei soggetti direttamente italiani o per le frequenti allusioni alle vere condizioni della nostra terra, furono scala a richiamare l'attenzione degli Inglesi sulla nostra questione nazionale interamente negletta, e preparare il terreno a quell'apostolato deliberatamente politico che avviai in Inghilterra dopo il 1845 e che vi fruttò, credo, gran parte delle attuali tendenze a pro della nostra unità.
In Inghilterra, paese dove la lunga libertà educatrice ha generato un'alta coscienza della dignità e del rispetto dell'individuo, le amicizie crescono difficili e lente, ma più che altrove sincere e tenaci. E più che altrove è visibile negli individui quella unità del pensiero e dell'azione ch'è pegno d'ogni vera grandezza. Non so quale tendenza esclusivamente analitica, ingenita nelle tribù anglo-sassoni e fortificata dal protestantismo, insospettisce gli animi d'ogni nuovo e fecondo principio sintetico e indugia la nazione sulle vie del progresso filosofico e sociale; ma in virtù di quella unità della vita alla quale accenno, ogni miglioramento, conquistato una volta che sia, è conquistato per sempre; ogni idea accettata dall'intelletto è certa di trapassare rapidamente nella sfera dei fatti: ogni concetto, anche non accettato è accolto con tolleranza rispettosa, purchè le azioni di chi lo professa ne attestino la sincerità. E le amicizie s'annodano profonde e devote a fatti più che a parole anche tra uomini che dissentono sovr'una o altra questione. Molte delle mie idee sembravano allora talune, sembrano tuttavia, inattendibili o pericolose agli Inglesi; ma la sincerità innegabile di convinzioni immedesimate con me e logicamente rappresentate dalla mia vita, bastò ad affratellarmi parecchie tra le migliori anime di quest'isola. Nè io mai le dimenticherò finch'io viva, nè mai proferirò senza un palpito di core riconoscente il nome di questa terra ov'io scrivo, che mi fu quasi seconda patria e nella quale trovai non fugace conforto d'affetti a una vita affaticata di delusioni e vuota di gioje. Appagherei l'animo mio citando molti nomi di donne e d'uomini, s'io scrivessi ricordi di vita individuale più che di cose connesse col nostro moto politico; ma non posso a meno di segnare in questa mia pagina il nome della famiglia Ashurst, cara, buona e santa famiglia, che mi circondò di cure amorevoli tanto da farmi talora dimenticare - se la memoria de' miei, morti senza avermi allato, lo consentisse - l'esilio.
Il consorzio d'uomini letterati e lo scrivere intorno al moto intellettuale d'Italia ridestarono in me, in quei primi tempi di soggiorno in Inghilterra, il desiderio lungamente nudrito di crescere più sempre fama ad uno scrittore, al quale più che ad ogni altro, se eccettui l'Alfieri, l'Italia deve quanto ha di virile la sua letteratura degli ultimi sessanta anni. Parlo d'Ugo Foscolo, negletto anch'oggi affettatamente dai professori di lettere, pur maestro di tutti noi, non nelle idee mutate dai tempi, ma nel sentire degnamente e altamente dell'arte, nell'indole ritemprata dello stile e nell'affetto a quel grande nome di patria dimenticato da quanti a' suoi tempi scrivevano - ed erano i più - in nome di principi, d'accademie o di mecenati. Io sapeva che dei molti lavori impresi da lui nell'esilio parecchi erano stati soltanto in parte compiti, altri erano, per la morte che lo colpì povero e abbandonato, andati dispersi. Mi diedi a rintracciar gli uni e gli altri. E dopo lunghe infruttuose ricerche, trovai, oltre diverse lettere a Edgar Taylor - oggi contenute pressochè tutte nell'edizione ch'io pure ajutai, di Lemonnier - quanto egli aveva compito del suo lavoro sul poema di Dante, e in foglietti di prove, due terzi a un dipresso della Lettera apologetica ignota allora intieramente all'Italia. Quest'ultima scoperta fu una vera gioia per me. Quelle pagine, senza titolo o nome dell'autore, stavano cacciate alla rinfusa con altri scritti laceri, e condannati visibilmente a perire, in un angolo d'una stanzuccia del librajo Pickering. Come nessuno fra i tanti Italiani stabiliti in Londra o viaggiatori a diporto andasse in cerca di quelle carte quando tutte potevano senza alcun dubbio ricuperarsi, e toccasse a un altro esule, fra le strette egli pure della miseria, la ventura di restituirne, undici anni dopo la morte di Foscolo, parte non foss'altro al paese, è memoria fra le tante di noncuranza e d'ingratitudine, vizî frequenti nei popoli inserviliti. Ma oggi che gli Italiani millantano d'essere liberi, perchè, a espiar quell'oblìo non sorge una voce che dica: «Invece di mandar doni a principesse che nulla fanno o faranno mai pel paese, e inalzar monumenti a ministri che nocquero ad esso, ponete, in nome della riconoscenza, una pietra che ricordi chi serbò inviolata l'anima propria e la dignità delle lettere italiane, quando tutti o quasi le prostituivano?» Se non che forse, meglio così. L'Italia d'oggi serva atterrita e ipocrita del Nipote, mal potrebbe consolare l'ombra dell'uomo che stette solo giudice inesorabile e incontaminato dell'ambiziosa tirannide dello Zio.
Comunque, rinvenni io quelle carte; e lo dico perchè altri, non so se a caso o a studio, ne tacque. Ma il librajo, ignaro in sulle prime di quel che valessero e sprezzante, poi fatto ingordo dalla mia premura, ricusava cederle s'io non comprava il lavoro sul testo dantesco - e ne chiedeva quattrocento lire sterline. Io era povero e non avrei potuto in quei giorni disporre di quattrocento soldi inglesi. Scrissi a Quirina Magiotti, rara donna e rarissima amica, perchè m'ajutasse a riscattar le reliquie dell'uomo ch'essa aveva amato e stimato più ch'altri nel mondo: e lo fece; ma il librajo insisteva per cedere indivisi i due lavori o nessuno, ed essa non poteva dar tutto. Com'io, dopo molte inutili prove, riuscissi a convincere Pietro Rolandi, librajo italiano in Londra e che m'era amorevole, d'assumersi il versamento di quella somma e per giunta le spese dell'edizione, davvero nol so. Fu miracolo d'una fermissima volontà di riuscire da parte mia sopra un uomo calcolatore, trepido per abitudine e necessità, ma tenero in fondo del core delle glorie del paese più che i librai generalmente non sono.
Altre pagine del prezioso libretto, connesse appunto colle racquistate da me, furono poco dopo trovate in un baule di carte foscoliane sottratto alla dispersione dal canonico Riego, unico che vegliasse, nell'ultima malattia, al letto dell'esule, acquistato poi da Enrico Mayer e altri amici in Livorno, ma non esaminato fino a quei tempi. La scoperta dei frammenti smarriti ridestò in essi tutti un ardore di ricerca che fruttò all'Italia dapprima il volume di scritti politici d'Ugo Foscolo ch'io pubblicai in Lugano, poi l'edizione fiorentina delle opere diretta con intelletto d'amore dall'Orlandini. Manca una vita ch'io m'era assunto di stendere e che pur troppo mi fu vietata dalle circostanze e da cure diverse. Unico avrebbe potuto - e dovuto - scriverla degnamente G. B. Niccolini; ed è morto, e aspetta tuttavia anch'egli la sua.
Ma, l'edizione del Dante Foscoliano mi costò ben altre fatiche. M'offersi, com'era debito mio verso il generoso editore, di dirigere tutto il lavoro e corregger le prove. Ora, strozzato dalla miseria e dalla47 malattia, Foscolo non aveva compito l'ufficio suo fuorchè per tutta la prima cantica. Il Purgatorio e il Paradiso non consistevano che delle pagine della volgata alle quali stavano appiccicate liste di carta preste a ricevere l'indicazione delle varianti, ma le varianti mancavano e mancava ogni indizio di scelta o di correzione del testo. Rimasi gran tempo in forse s'io non fossi in debito di dichiarare ogni cosa al Rolandi; ma Pickering era inesorabile a vendere tutto o nulla, e il librajo italiano non avrebbe probabilmente consentito a sborsare quella somma per sola una cantica. A me intanto sembrava obbligo sacro verso Foscolo e la letteratura dantesca di non lasciare che andasse perduta la parte di lavoro compita; e parevami di sentirmi capace di compirlo io stesso seguendo le norme additate da Foscolo nella correzione della prima cantica e immedesimandomi col suo metodo, l'unico, secondo me, che riscattando il poema dalla servitù alle influenze di municipio, toscane o friulane non monta, renda ad esso il suo carattere profondamente italiano. Tacqui dunque e impresi io stesso la difficile scelta delle varianti e la correzione ortografica del testo. Feci quel lavoro quanto più coscienziosamente mi fu possibile e tremante d'essere per desiderio di sollecitudine irriverente al genio di Dante e all'ingegno di Foscolo. Consultai religiosamente i due codici ignoti all'Italia di Mazzucchelli e di Roscoe. Per sei mesi il mio letto - dacchè io non aveva che una stanza - fu coperto dalle edizioni del poema attraverso le quali io rintracciava le varie lezioni che la mancanza d'un testo originale, l'ignoranza dei tardi copisti e le borie locali accumularono per secoli su quasi ogni verso. Oggi, credo mio debito dir tutto il vero e separare il mio lavoro da quello di Foscolo48. - (1863).
Come le conseguenze logiche della nostra fede mi trascinassero a lavorare non solamente pel popolo, ma col popolo, non occorre ripeterlo. E i pochi popolani d'Italia coi quali, nei casi passati, io aveva avuto contatto mi s'erano mostrati tali e così vergini di calcolo e di basse passioni da confortarmi davvero al lavoro. Ma le opportunità per addentrarmi nello studio di quel prezioso elemento m'erano finora mancate. Londra m'offrì inaspettatamente la prima, e m'affrettai ad afferrarla.
Affiatandomi, sulle vie della vasta città, con taluni di quei giovani che vanno attorno coll'organino, imparai, con vero stupore e dolore profondo, le condizioni di quel traffico, condotto da pochi speculatori, ch'io non saprei additare con altro nome che con quello di tratta dei bianchi: vergogna d'Italia, di chi siede a governo e del clero che potrebbe, volendo, impedirlo. Cinque o sei uomini italiani stabiliti in Londra, rotti generalmente ad ogni mal fare e non curanti fuorchè di lucro, si recano di tempo in tempo in Italia. Là, percorrendo i distretti agricoli della Liguria e delle terre parmensi, s'introducono nelle famiglie dei montagnuoli, e dove trovano i giovani figli più numerosi, propongono i più seducenti patti possibili: vitto abbondante, vestire, alloggio salubre, cure paterne al giovine che s'affiderebbe ad essi: una certa somma, dopo trenta mesi, pel ritorno e per compenso dell'opera prestata. E steso un contratto; se non che i poveri montagnuoli non sanno che i contratti stesi sul continente non hanno, se non convalidati dai consoli inglesi, valore alcuno in Inghilterra. Intanto, i giovani raccolti a quel modo seguono lo speculatore a Londra: ivi giunti, si trovano schiavi. Alloggiati, quasi soldati, in una stanza comune, ricevono, i giovani un organino, i fanciulli uno scojattolo o un topo bianco, gli uni e gli altri ingiunzioni di portare, la sera, al padrone una somma determinata. La mattina, hanno, prima d'uscire, una tazza di the con un tozzo di pane; ma il pasto della sera dipende dall'adempimento della condizione: chi non raccoglie, non mangia; e i più giovani sono, per giunta, battuti. Io li vedeva, la sera in inverno, tremanti per freddo e digiuno, chiedenti, quando la giornata era stata - come in quella stagione è sovente - poco proficua, l'elemosina d'un soldo o di mezzo soldo agli affrettati pedoni, onde raggiungere la somma senza la quale non si attentano di tornare a casa. E non basta: l'avidità dei padroni arbitri onnipotenti trae partito dalle infermità, che commovono, quando sono visibili, le buone fantesche inglesi. Taluno di quelli infelici, sospinto sulla strada benchè consunto dal morbo e col pallore della morte sul volto, fu raccolto dagli uomini della polizia e portato allo spedale, dove morì senza proferire parola. A tal altro è ingiunto di fingersi mutolo, ferito in un piede o côlto da convulsioni epilettiche. Costretti da minacce tremende a mentire per conto dei loro tiranni, quei giovani, esciti buoni dalle loro montagne, imparano a mentire e architettare inganni anche per conto proprio, e tornano in patria profondamente corrotti. Spesso, sullo spirare dei trenta mesi, i padroni si giovano d'un pretesto qualunque, d'una lieve infrazione, facilmente provocata, ai patti, per cacciare sulla strada quelli infelici senza pagar loro la somma stipulata colla famiglia, e condannarli al bivio di perire di stenti o vivere d'elemosina e furti.
Una circolare diramata dal governo ai sindaci di comune e ai parrochi, perch'essi, influenti come sono nelle piccole località, illuminassero le famiglie sulle tristi condizioni alle quali, cedendo agli allettamenti de' speculatori, espongono i figli, basterebbe probabilmente a imporre fine al traffico o a moderarlo. La legalizzazione consolare inglese data in Italia ai contratti, e alcune istruzioni mandate agli agenti governativi italiani in Inghilterra perchè vegliassero a proteggere quei meschini, raddolcirebbero a ogni modo la loro sorte. Ma i governi monarchici s'occupano di ben altro. E quanto al clero italiano in Londra, i miei articoli sulla scuola gratuita mostrano abbastanza il come, diseredato omai non solamente di fede ma di carità, intenda la propria missione.
Tentai dunque d'alleviare in altro modo quei mali e istituii a un tempo un'associazione per proteggere quei giovani abbandonati, e una scuola gratuita per illuminarli sui loro doveri e sui loro diritti, onde ripatriando inspirassero migliori consigli ai loro compaesani. Più volte trassi i padroni, rei di violenza, davanti alle corti di giustizia. E il sapersi adocchiati li persuase a meno crudele e meno arbitraria condotta. Ma la scuola ebbe guerra accanita da essi, dai preti della Cappella sarda e dagli agenti politici dei governi d'Italia. Prosperò nondimeno. Fondata il 10 novembre 1841, durò sino al 1848, quando la mia lunga assenza e l'idea che il moto italiano, consolidandosi, aprirebbe tutte le vie all'insegnamento popolare in Italia, determinò quei che meco la dirigevano a chiuderla. In quei sette anni, la scuola diede insegnamento intellettuale e morale a parecchie centinaja di fanciulli e di giovani semibarbari che s'affacciavano sulle prime sospinti da curiosità e quasi paurosi alle modeste stanze del numero 5, Hatton Garden, poi s'addomesticavano a poco a poco conquistati dall'amorevolezza de' maestri, finivano per affratellarsi lietamente e con certo orgoglio di dignità acquistata all'idea di rimpatriare educati, e accorrevano, ponendo giù l'organino, ad assidersi per una mezz'ora, tra le nove e le dieci della sera, sui nostri banchi. Insegnavamo ogni sera leggere, scrivere, aritmetica, un po' di geografia, disegno elementare e d'ornato. La domenica, raccoglievamo gli allievi a un discorso d'un'ora sulla storia patria, sulle vite de' nostri grandi, sulle più importanti nozioni di fisica, sopra ogni cosa che paresse giovevole a secondare e inalzare quelle rozze menti intorpidite dalla miseria e dalla abbietta soggezione ad altri uomini. Quasi ogni domenica per due anni parlai di storia italiana o di astronomia elementare, studio altamente religioso e purificatore dell'anima che, tradotto popolarmente ne' suoi risultati generali, dovrebbe essere tra i primi nell'insegnamento. E da forse cento discorsi sui doveri degli uomini e su punti morali furono recitati da Filippo Pistrucci, improvvisatore noto un tempo all'Italia, e che, creato da me direttore della scuola, s'immedesimò con zelo senza pari colla propria missione.
E fu un secondo periodo d'operosità fraterna e d'amore che rinverdì a forti e costanti propositi l'animo mio e quello di altri esuli tormentati. Era davvero una santa opera santamente compita. Tutto era gratuito nella scuola. Direttore, vice-direttore - ed era un Luigi Bucalossi toscano, infaticabilmente devoto - maestri, quanti s'adopravano intorno all'istruzione degli allievi, s'adopravano non retribuiti. Ed erano tutti uomini che avevano famiglia e la sostentavano col lavoro. Insegnavano il disegno Scipione Pistrucci, figlio del direttore, e un Celestino Vai, vecchio bresciano, al quale era affidata la custodia della scuola, impiegato oggi in Milano nell'ufficio dell'Unità e del quale non vidi mai uomo più amorevole agli allievi, più convinto del dovere di tutti noi verso i poveri ineducati. Insegnavano a leggere e a scrivere operai che dopo aver faticato tutta la giornata al lavoro, rinunziavano alle sole ore che avessero libere per accorrere a compiere l'ufficio assuntosi, ed erano a un tempo sottoscrittori. Il 10 novembre d'ogni anno, anniversario della fondazione, noi raccoglievamo da circa duecento allievi, prima a una distribuzione di piccoli premî ai migliori, poi a una modesta cena, nella quale noi tutti facevamo da scalchi, distributori e domestici, e ch'era rallegrata da canti patriottici e da improvvisazioni del direttore. Una di quelle sere era eguale, nelle conseguenze morali, a un anno d'insegnamento. Quei miseri, che i padroni trattavano siccome schiavi, si sentivano uomini, eguali e animati. Amiche e amici inglesi intervenivano a quelle cene di popolani e ne uscivano commossi, migliori anch'essi. Ricordo la povera Margherita Fuller venuta dagli Stati Uniti con non so quali diffidenze di noi. Condotta in mezzo a una di quelle riunioni ci era, dopo un'ora, sorella. L'anima sua candida, e aperta a tutti i nobili affetti, aveva indovinato il tesoro d'amore che la religione del fine aveva suscitato fra noi.
L'esempio fruttò, prima in Londra, dove i preti della Cappella sarda, poi che videro inutili i loro sforzi per far cadere la nostra scuola, si ridussero a impiantarne un'altra nella stessa strada: poi in America, dov'io aveva in quel torno impiantato relazioni fraterne. Scuole simili alla nostra furono istituite nel 1842, per cura di Felice Foresti e di Giuseppe Avezzana, in Nuova York, per cura del professore Bachi in Boston, e per cura di G. B. Cuneo in Montevideo.
Intanto la scuola mi fu, come dissi, occasione di contatto frequente cogli operai italiani in Londra. M'occupai, scelti i migliori, d'un lavoro più direttamente nazionale con essi. Fondai una sezione di popolani nell'associazione e l'Apostolato popolare col motto: Lavoro e frutto proporzionato.
E ristrinsi pure in quelli anni i vincoli di fratellanza che, annodati nella Svizzera tra noi e i Polacchi, erano stati rallentati dai casi. Nè importa oggi ricordare i particolari di quel nuovo lavoro internazionale.
Solamente a mostrare come fin d'allora l'Associazione oltrepassasse nel suo concetto la sfera d'un moto nazionale polacco per allargarsi a quella che comprende tutte le tribù slave, inserisco le linee seguenti colle quali ci riunimmo a chi celebrava in Londra, il 25 luglio 1845, il diciannovesimo anniversario della morte dei martiri russi - (1863).
Credendo che superiore a tutte le patrie esiste una patria comune nella quale gli uomini son fatti cittadini dall'amore del bene, fratelli dal culto della stessa idea, santi dal martirio e che Pestel, Mouravief, Bestugef, Ryleief, Kochowski, morti per la redenzione delle famiglie slave, sono concittadini e fratelli a quanti combattono sulla terra per la causa del giusto e del vero.
Credendo che le famiglie slave sono chiamate a una grande missione d'ordinamento interno e d'incivilimento da diffondersi altrove, che non potranno compire se non con una serie di lavori fraterni, e che la Russia e la Polonia devono, per ragioni storiche e geografiche, essere a capo di quei lavori.
Credendo che la lega dei governi assoluti non può essere vinta se non dalla santa alleanza dei popoli.
Credendo inoltre che le famiglie slave dovranno un giorno affratellarsi specialmente all'Italia in una guerra al nemico comune, l'Austria.
Il comitato centrale della Giovine Italia, associazione nazionale, unita in anima e cuore ai voti, alle speranze, alle aspirazioni dei patrioti polacchi, dà nome e adesione alla commemorazione dei cinque martiri russi.
Nel 1844 ebbe luogo la spedizione dei fratelli Bandiera. I Ricordi ripubblicati in questo volume contengono quanto importa all'Italia, nè intendo riparlarne. Ma l'incidente della violazione delle mie lettere merita ch'io vi spenda alcune parole. È un episodio d'immoralità ministeriale monarchica da porsi allato a quello della spia Conseil riferito in questo volume; e quella immoralità dura tuttavia eretta a sistema da pressochè tutti i governi d'Europa.
A mezzo quell'anno, or non rammento più se in giugno o sul cominciare del luglio, m'avvidi che le lettere dei miei corrispondenti in Londra - ed erano tra quelli i banchieri per mezzo dei quali mi giungeva la corrispondenza straniera - mi venivano tarde di due ore almeno. Concentrandosi dai diversi punti all'uffizio postale generale, le lettere vi ricevono un timbro che accerta l'ora del loro arrivo: la distribuzione a domicilio ha luogo nelle due ore che seguono. Esaminai accuratamente quei timbri e trovai ch'erano generalmente doppî: al primo era sovrapposto un secondo timbro, di due ore più tardo e collocato in modo da celare il primo, e allontanare il sospetto. Bastava per me, non per altri increduli d'ogni violazione di ciò che chiamano lealtà britannica e che accoglievano con sorriso ironico i miei sospetti. I timbri così sovrapposti lasciavano mal discernere le due ore diverse e serbavano apparenza di lavoro affrettato e data illeggibile. Ideai d'impostare io stesso all'uffizio centrale lettera diretta a me, calcolando l'ora tanto che il primo timbro dovesse portare la cifra 10. Or dopo avere ricevuto quel timbro, le lettere a me dirette erano, per ordine superiore, raccolte e mandate a un uffizio segreto dov'erano aperte, lette, risuggellate, poi rinviate al postiere incaricato della distribuzione nella strada ov'io allora viveva, ch'era Devonshir Street, Queen square. Quel nefando lavoro consumava due ore a un dipresso; e il timbro da sovrapporsi alla cifra 10 dovea quindi portare il 12 che, per quanto facessero lasciava visibile parte dello zero del 10. Chiarito quel punto, raccolsi altre prove. Feci impostare, in presenza di due testimonî inglesi e ripetutamente, alla stessa ora e allo stesso ufficio postale, due lettere, una delle quali era diretta al mio nome, l'altra a un nome fittizio, ma alla stessa casa: i testimonî venivano ad aspettare con me la distribuzione; e accertavano con dichiarazione scritta come la lettera che portava il mio nome giungesse invariabilmente due ore più tardi dell'altra. In altre lettere a me dirette racchiusi granellini di sabbia o semi di papavero; e li trovammo, aprendo con cura, smarriti. Istituimmo una serie d'esperimenti intorno ai suggelli, scegliendo i più semplici e segnati di sole linee, poi collocandoli sì che le linee cadessero sulla lettera ad angolo retto; e ci tornarono identici di forma, ma colle linee piegate lievemente ad angolo acuto. Inserii un capello sotto la ceralacca, e non era più da trovarsi: risuggellando, lo consumavano. E via così, finchè raccolto un cumulo di prove innegabili, misi ogni cosa in mano a un membro del parlamento, Tommaso Duncombe, e inoltrai petizione alla Camera perchè accertasse e provvedesse.
L'accusa produsse vera tempesta. Alle interpellanze che da ogni lato furono mosse ai ministri, questi diedero per alcuni giorni risposte evasive; poi, meglio informati sul conto mio e convinti ch'io non mi sarei avventurato senza certezza di prove, confessarono, schermendosi in parte con certo vecchio editto che risaliva alla regina Anna e a circostanze eccezionali, in parte con insinuazioni a mio danno e come s'io avessi macchinato pericoli all'Inghilterra. Confutai queste ultime in modo da ridurre il ministro accusatore - ed era sir James Graham - a farmi ammenda pubblica in parlamento. E quanto all'altra difesa, afferrai la via che m'apriva per disvelare all'Inghilterra tutta la piaga. Non era da credersi che gli stessi ministri e gli altri che li avevano preceduti avessero resistito sempre, fuorchè in quell'unico caso, alla tentazione di valersi, pei loro fini, di quell'editto antiquato. Feci quindi chiedere e ottenni che s'istituissero due commissioni d'investigazione nelle due Camere. E le relazioni che fecero, comunque tendenti a palliare le colpe più che non a produrle brutte com'erano, provarono che dal 1806 fino al 1844, da lord Spencer a lord Aberdeen, tutti i ministri, compresi Palmerston, Russell e Normanby, s'erano successivamente contaminati di quell'arbitrio - che non solamente le mie e quelle d'altri esuli, ma le lettere di molti inglesi, di membri del parlamento, di Duncombe medesimo, erano state violate a quel modo - che si erano inevitabilmente praticati, a celare la colpa, artifizî contemplati dalle leggi penali, falsificazione di suggelli, imitazione di timbri e altri - che le mie erano state aperte per quattro mesi.
E provarono cosa più grave: che l'arti nefande di Talleyrand e Fouchè s'erano praticate dai ministri d'Inghilterra, non per indizî ch'io cospirassi contro lo Stato o m'immischiassi pericolosamente di faccende inglesi, ma per compiacere servilmente a governi stranieri e dispotici, e che ad essi - a Napoli e all'Austria - si trasmettevano regolarmente le cose che parevano più importanti nelle lettere a me dirette. Molte di quelle cose riguardavano appunto il disegno, da me combattuto, dei due Bandiera, e rivelate suggerirono al governo di Napoli l'atroce pensiero di provocarli, di sedurli, per liberarsene, all'esecuzione. I ministri inglesi s'erano fatti complici di quell'assassinio; e lo sentivano e ne arrossivano. Lord Aberdeen, il gentiluomo più onorato in Inghilterra per fama d'impeccabile schiettezza e la cui parola era considerata da tutti come sillaba di Vangelo, fu trascinato a mentire sfrontatamente alla Camera. Fatto interrogare da me se si fosse data comunicazione dei segreti contenuti nella mia corrispondenza a governi stranieri, il nobile lord aveva, plaudente la Camera - a quale affermazione di ministri non plaudono le Camere escite dalla legge del privilegio? - risposto: nè una sillaba di quella corrispondenza fu mai sottomessa ad agenti di potenze straniere. Poche settimane dopo, la relazione delle due commissioni investigatrici gli gettava in viso: le informazioni raccolte dalla corrispondenza erano comunicate a un governo straniero. Io scrissi il dì dopo su' giornali, alludendo alle calunnie insinuate contro me da sir James Graham, che quando uomini di Stato scendevano alla parte di falsificatori e bugiardi, non era da stupirsi che fossero anche calunniatori.
Nè giova stupirne. Ogni governo fondato sull'assurdo privilegio dell'eredità del potere e che si regge su vuote formole come quelle che il capo dello Stato regna ma non governa; che tre poteri serbandosi in equilibrio perenne creano il progresso, e siffatte delle monarchie costituzionali, è trascinato inevitabilmente presto o tardi all'immoralità. Vive di menzogne, di norme ideate, di tradizioni diplomatiche vigenti in una piccola frazione di società privilegiata, in guerra quindi più o meno dichiarata coll'altra, non delle inspirazioni che salgono dalla coscienza collettiva a quella dell'individuo. E ogni vita artificiale e profondamente immorale esce dal vero e dalla comunione colla umanità, ch'è la via per raggiungerlo. In quelli uomini di governo naturalmente buoni e leali, ma veneratori di formole artificiali architettate a sorreggere un concetto artificiale anch'esso e non desunto dalla natura intima delle cose, s'era fatalmente smarrito quel senso diritto e morale che insegna l'unità della vita, e si commettevano, come uomini di Stato, ad atti davanti ai quali si sarebbero ritratti impauriti com'uomini e nulla più. Intanto la loro politica immoralità insegnava immoralità agli inferiori guidandoli a dirsi: se per utile dello Stato è lecito dissuggellare, violare gli ultimi segreti, sottrarre e trasmettere l'altrui proprietà, perchè nol potremmo noi per l'utile delle nostre famiglie? Non v'è forse paese in Europa dove le lettere siano così frequentemente violate come in Inghilterra; e parlando delle lettere contenenti danaro, il direttore delle poste in quel tempo, lord Maberly, diceva che tanto valeva cacciarle sulla pubblica via quanto affidarle alla posta. Ma se i più tra gli uomini d'oggi non fossero schiavi d'anima ed educati dalla monarchia a guardare, più che l'uomo, la veste dell'uomo - se rifiutando l'immorale distinzione tra l'uomo politico e il privato e intendendo che al primo, come a quello che si assume una parte educatrice nella nazione corre anzi debito maggiore di scrupolosa onestà, visitassero severamente la colpa - se il dì dopo la menzogna, le sale dei convegni amichevoli si fossero tutte chiuse, come a uomo disonorato, a lord Aberdeen - la lezione sarebbe stata proficua non foss'altro a' suoi successori. Prevalse alla nozione morale il prestigio dell'aristocrazia e dell'alto ufficio; e mentre il paese pur dichiaravasi avverso all'abuso, lasciò che i colpevoli durassero amministratori. Però il segreto delle corrispondenze è oggi come allora, comunque più raramente, violato.
A me intanto quella violazione additò il momento proprio per trattare davanti l'Inghilterra la causa, fin allora negletta, della mia patria e con uno scritto diretto a sir James Graham cominciai quell'apostolato a pro dell'Italia che diede più tardi origine ad associazioni, riunioni pubbliche e interpellanze parlamentari. Lo intitolai: l'Italia, l'Austria e il Papa, e lo pubblicai in inglese. Fu poi tradotto nella Revue indépendante di Parigi.
Le prove accumulate in quel libretto a far conoscere lo sgoverno finanziario e amministrativo che pesava sulle provincie italiane soggette all'Austria e al papato sono oggi inutili49.
I documenti contenuti in questo volume riguardano un periodo solenne per gloria e sventura, per errori, per insegnamenti e per delusioni. Queste ultime mi riuscirono inaspettate e dolorosissime. Immemori della lunga nostra predicazione e del culto da essi medesimi giurato ai principî come a quelli che soli potevano dar salute all'Italia, i migliori tra i nostri - e parecchi m'erano individualmente amicissimi - al primo apparire d'una forza, o d'un fantasma di forza, disertarono la bandiera e si fecero adoratori ciechi del fatto. Da pochissimi infuori, temprati non solamente a combattere, ma, avversi i fati, a vivere solitarî nel mondo delle credenze e delle aspirazioni al futuro, il partito si sviò tutto quanto a transizioni, fazioni e concetti di leghe ipocrite e inefficaci tra rappresentanti d'opposti principî che tendevano scambievolmente a deludersi. L'Italia abbandonò allora le tradizioni generose della propria vita per rincatenarsi a quelle che nei secoli XVI e XVII ci vennero dalla incontrastata dominazione straniera e dalla inenarrabile corruttela d'una Chiesa non italiana nè alloramai più cristiana. Machiavelli prevalse a Dante. E i danni e la vergogna di quelle trasformazioni durano tuttavia.
Io potrei - e molti forse lo aspettano da me - scrivere un capitolo di storia che consegnerebbe al giudizio severo dei posteri molte debolezze oggi ignote che diedero cominciamento a quella crisi di dissolvimento morale; molte violazioni di solenni promesse rimaste arcane; molte ingratitudini d'uomini debitori a noi di fama e d'altro e che ci si fecero avversi appena videro schiudersi un'altra via per salire. Ma nol farò. Per cagioni d'affetto patrio, io non potrei dir tutto e di tutti, e anche il vero tornerebbe in certo modo ingiusto ai trascelti. Tacerò dunque; e mi limiterò ad accennare rapidamente la serie dei fatti tanto da porne alcuni, negletti finora o fraintesi, in luce migliore che giovi alla storia del principio nazionale, unico fine del mio lavoro.
Poi, a che pro? Perchè m'occuperei d'individui? Le loro colpe, i loro errori, le loro fiacchezze risalgono a cagioni morali e si ripetono oggi e si ripeteranno in altri negli anni futuri, finchè durano quelle cagioni, sole che importi distruggere. Le generazioni rappresentano, a seconda dalla loro educazione morale, idee o interessi: noi possiamo, quand'esse vivono governate dalle prime, antivederne gli atti e calcolarne logicamente, a pro dei nostri disegni, la capacità e la costanza; quand'esse traviano dietro ai secondi, mutabili per circostanze fuggevoli d'ora in ora, ogni logica è muta. La generazione vivente nel 1848 non aveva filosofia, nella sua generalità, se non quella degli interessi; interessi personali nei più guasti: interessi di vittoria, di partito, d'odio al nemico, nei migliori. La fede senza calcolo di frutto immediato nell'ideale e nell'avvenire, non era in essa. Noi avevamo sperato sostituirle in un subito l'entusiasmo pel bello e pel grande. E ci eravamo ingannati. La fede è dovere: il dovere esige una sorgente, una nozione superiore all'umanità, Dio. E Dio non era e non è pur troppo nella mente del secolo.
L'Italia era ed è tuttavia - e se s'eccettuino i buoni istinti che incominciano, segnatamente nelle classi operaje delle città, a rivelarsi - appestata di materialismo: materialismo che dalla filosofia meramente analitica e negativa del secolo passato s'infiltrò nella vita pratica, nelle abitudini, nel modo di considerare le cose umane. Le ardite negazioni del secolo XVIII assalivano un dogma inefficace oggimai perchè inferiore all'intelletto dell'umanità; erravano perchè confondevano uno stadio consunto di religione colla vita religiosa del mondo, una forma collo spirito che la riveste a tempo, un periodo di rivelazione coll'eterna rivelazione progressiva di Dio tra gli uomini; ma combattevano non foss'altro nella sfera del pensiero e la vita ritraeva ancora un non so che dell'antica unità. Oggi noi soggiaciamo non ai principî, ma alle conseguenze di quel periodo: traduciamo la dottrina negli atti, senza il vigore di battaglia ch'era nella dottrina medesima. Un alito di fervore religioso fremeva tuttora per entro a quella irreligiosa ribellione: gli uomini che abbiuravano il Dio del mondo cristiano inneggiavano con lunghe apostrofi alla Dea Natura, sollevavano sugli altari la Dea Ragione. Tra noi pochi - se pur taluno - s'attenterebbero, richiesti, di rispondere che Dio non è, ma i più non sanno e non curano di sapere ciò che importi Dio nella vita e come tutta una serie di solenni e inevitabili conseguenze derivi da quella prima nozione: facili a oziosamente accettarla a patto d'esiliarla inerte, infeconda, in non so quale angolo del regno delle astrazioni. La legge morale, conseguenza di Dio - la sanzione della legge nella vita futura dell'individuo - il dovere che ne discende a ciascun di noi - il vincolo fra terra e cielo, tra gli atti e la fede - sono cose indifferenti agli uomini d'oggi. L'unità della vita è così smembrata per essi; il nesso tra l'ideale definito dalla religione e il mondo visibile, che deve esserne interprete e rappresentarlo nei diversi rami dell'umana attività, è posto siffattamente in obblio che fu salutata a' dì nostri siccome formola d'alto senno civile la vuota frase libera Chiesa in libero Stato. Quella formola vale legge atea e religione falsa o vera, buona o trista non monta; vale progresso nella pratica e immobilità nella teorica, anarchia perenne tra il pensiero e l'azione, intelletto liberamente educato e coscienza serva. Diresti che nessuno intravveda l'unica ragionevole soluzione al problema, la trasformazione della Chiesa sì che armonizzi collo Stato e lo diriga, senza tirannide e progressivamente, sulle vie del bene.
Senza cielo, senza concetto religioso, senza norma che prescriva il dovere e la virtù, prima fra tutte, dal sagrificio, la vita, sfrondata d'ogni eterna speranza per l'individuo e d'ogni fede inconcussa nell'avvenire dell'umanità, rimane in balìa degli istinti, delle passioni, degli interessi, agitata, ondeggiante fra gli uni e gli altri a seconda degli anni e dei casi. I generosi impulsi e la poesia d'un entusiasmo naturalmente fervido quando l'anima vive più spontanea e meno signoreggiata dal mondo esterno, suscitano i giovani a contrasto colla tirannide e li avviano inconsci sulle vie dell'azione. Poi, quando le aspirazioni, le rapide speranze e le illusioni dorate sugli uomini e sulle cose si rompono alla fredda prosaica realtà del presente e le inevitabili delusioni, le persecuzioni, le disfatte aspreggiano a ogni tanto la via, sorge il dubbio, sorge quel senso di stanchezza che persuade l'impossibilità della lotta e dietro a quello s'insinua l'egoismo che tende a godere - dacchè l'immortalità è ignota - quaggiù. E allora, la prima proposta d'un disegno che non rinnega ma dimezza e pospone il programma, è ascoltata; il primo affacciarsi d'una forza appartenente ad altro campo, ma che pur promette adoprarsi contro il nemico, è salutato come un modo d'accostarsi con rischi e sagrificî minori all'intento. L'anima senza una fede sulla quale possa riposare secura e sentirsi potente a procreare fatti quando che sia, si ribellerebbe forse a una diserzione, ma s'arrende agevolmente a transazioni che pur vi conducono. Entrata su quella via di machiavellismo e d'ipocrite concessioni, s'avvela; smarrisce a poco a poco la luce del vero, s'avvezza ad affratellarsi col calcolo e muta più o meno lentamente ma inevitabilmente natura, finchè avvedendosi, tardi e quando è fatta incapace della virtù santa del pentimento s'irrita intollerante del biasimo altrui e s'ostina, per orgoglio e per utile ad un tempo, nel traviamento accettato.
Tale è la storia della generazione che, tra il 1847 e l'anno in cui scrivo, mutò lato e bandiera. E si rifarà fino a che gli uomini si rimarranno diseredati di Dio e d'una fede che insegni il Dovere. Io lo ripeto sovente, perchè so che in questo è la radice d'ogni nostro male. Il popolo d'Italia potrà essere fantasma di nazione, ma non nazione vera, grande, potente a fare, conscia della propria missione e ferma di compierla, se non rieducandosi a religione: religione intendo quale i progressi intellettualmente compiti e le tradizioni, studiate a dovere, del pensiero italiano l'additano.
Su questa condizione morale, o piuttosto immorale, di cose s'innestò la parte così detta de' moderati, composta d'uomini che avevano, come Farini, cospirato con noi e s'erano stancati d'una via sulla quale incontravano a ogni passo pericoli e persecuzioni; d'altri ai quali, come ad Azeglio, era ingenita una avversione aristocratica al popolo e alla democrazia e finalmente d'alcuni timidi angusti intelletti immiseriti fra le tradizioni del piccolo Piemonte e incapaci d'afferrare ogni concetto che non avesse perno in un re, in una corte, in un esercito regolare.
La tradizione della parte alla quale accenno non era splendida. Moderati si dicevano gli uomini che nel 1814 avevano, in Lombardia, applaudito al ritorno degli eserciti austriaci: moderati quei che avevano nel 1821 legato i fati dell'insurrezione piemontese a un principe disertore: moderati quei che avevano nel 1831 tradito il moto degli Stati romani prima colla teorica anti-nazionale del non-intervento da una provincia nostra ad un'altra; poi colla codarda capitolazione di Ancona. Ma erano individui, come ne trovi in ogni crisi, vuoti d'intelletto rivoluzionario, non partito costituito, ordinato. Ben di fronte alla Giovine Italia s'era formata, sotto nome di Veri Italiani, una società di fautori monarchici che si raccolsero intorno a un patrizio lombardo, Arconati, in Brusselle e di là s'adoprarono a diffondere le prime aspirazioni verso la dinastia savojarda: ma respinta dai buoni istinti del nostro popolo, abbandonata a poco a poco, mercè il nostro apostolato, da' suoi migliori, s'era trascinata nell'ombra seminando di soppiatto accuse ai repubblicani e germi di divisione, senza copia di seguaci, senz'eco. La parte moderata non pensò a costituirsi davvero e a sostituire alla nostra la propria influenza prima del 1843 e poco dopo la sventurata impresa dei fratelli Bandiera. Quell'impresa, attribuita inonestamente da essi a noi e segnatamente a me, aveva innegabilmente versato sconforto e diffidenza nelle nostre fila. Le circostanze a ogni modo non correvano propizie a disegni di moti e mi pareva che si dovesse lasciar tempo alle idee perchè trapassassero a poco a poco dalla gioventù degli ordini medî al popolo non foss'altro delle città. I vincoli dell'associazione s'erano quindi allentati e io mi limitava a mantener contatto qua e là, in Lombardia più che altrove, con nuclei di giovani uniti senza forma definita e liberamente a un intento d'apostolato e a invigilare se mai sorgesse il momento opportuno a far meglio. Di quell'intervallo di stanchezza e d'inazione forzata da parte nostra si giovarono i moderati.
La prima loro manifestazione fu nel 1845 in Rimini. E quasi a dichiarare l'assoluta assenza d'idee politiche, inalzarono bandiera bianca. Bensì, dovendo pur dire al popolo agitato, perchè movessero, diffusero un manifesto steso dal Farini ch'era pallida copia del memorandum dato inefficacemente dalle potenze al papa nel 1831. Quel manifesto sostituiva al moto nazionale i moti locali; allo grandi vitali quistioni dell'indipendenza, dell'unità, della libertà i miglioramenti amministrativi economici.
Io so che i più tra i capi dei moderati avevano essi pure nell'animo - non dirò la libertà, della quale non curano o poco - ma l'indipendenza d'Italia, la questione nazionale, la cacciata dello straniero. Dico che il metodo loro insegnava a disperarne per un lungo indefinito periodo di tempo e sviava dal segno, che noi gli avevamo additato, l'educazione del popolo. Dico che moltissimi fra quelli uomini non volevano l'unità, nessuno la credeva possibile. E dico che se i principi più avveduti, meno tristi e meno spronati dalla fatalità che li sospinge, per somma ventura e legge dei tempi, a rovina, avessero tanto quanto soddisfatto a quel monco programma, noi non avremmo oggi ventidue milioni d'Italiani stretti a unità di nazione, ma il vecchio mosaico di grandi e piccole monarchie e leghe più o meno ipocrite e traditrici. Quelle leghe furono l'ideale dei pensatori del partito: da Balbo fino a Cavour. Giacomo Durando predicava le tre o cinque Italie a beneplacito dei principi volonterosi. Mamiani era centro in Genova d'apostolato federativo. Gioberti proponeva in una lettera del 16 marzo 1847 a Pietro Santarosa che «s'ottenesse dall'Austria con rimostranze un mutamento di politica in Lombardia tanto che pacificata colla dolcezza e colle riforme, potesse poi, con agio e tempo, ricevere d'accordo coi potentati un assetto definitivo.» Cavour proponeva, non molto prima che Garibaldi scendesse nel regno, patti e alleanza al Borbone. L'assenza d'ogni fede unitaria nei moderati è fatto documentato che la storia dei tempi, quando sarà imparzialmente scritta, registrerà; nè le millanterie machiavelliche dei giorni posteriori all'unità conquistata dal popolo varranno a cancellarlo.
E un altro fatto, conseguenza di questo primo e troppo trascurato finora, verrà registrato dalla storia, base e scorta all'intelletto degli eventi di tutto il periodo; ed è il dualismo perenne tra l'azione, generatrice d'ogni mutamento importante, dell'elemento popolare nostro e l'influenza, potente unicamente a menomare, a sviare dal segno quei mutamenti, esercitata dai moderati. Oggi, a udirli, diresti avessero fatto l'Italia e promosso col loro metodo quanto ebbe luogo negli ultimi quindici anni. Ma quando il tempo e l'Italia rinsavita avranno imposto silenzio al cicalìo di gazzette vendute e alle calunnie e alle lodi sfacciate, i fatti e le inesorabili date diranno che dall'amnistia papale infuori, ogni concessione di principi, ogni passo mosso innanzi dal paese originò dall'azione, avversata dai moderati, del popolo, dai moti di piazza com'essi sprezzando dicevano. - Da sommosse in Livorno, nelle Romagne, in Roma, l'accresciuta libertà di stampa e l'istituzione delle guardie nazionali - dalle petizioni firmate a tumulto su per le vie e dagli assalti ai conventi, la cacciata de' Gesuiti - dall'insurrezione siciliana del 1848 gli Statuti regi - dalle cinque giornate di Milano la guerra, miseramente tradita, d'indipendenza - come nella recente seconda fase del periodo, dalle resistenze del popolo ai disegni federalisti del Bonaparte, dalle nostre minacciate spedizioni su Roma, dal moto di Sicilia, dalle imprese di Garibaldi, originarono le annessioni del Centro, l'invasione delle Marche, l'emancipazione del Mezzogiorno. Il nostro metodo sopravviveva, negli istinti del popolo, a noi. Soltanto i moderati, fatti per lungo artificio e pompose ripetute promesse e profezie misteriose e prontezza ad attribuire a sè stessi ogni successo ottenuto e a prudenza di tattica il biasimo dato invariabilmente ai tentativi, soli e visibili padroni del campo, raccoglievano, accettando i fatti compiuti, i frutti di quelli istinti.
Miravano non a conquistare un governo all'Italia, ma a conquistarsi i governi italiani: non s'indirizzavano al popolo, ma ai principi: non provocavano insurrezioni, ma un lento e temperato progresso dall'alto al basso: rinnegavano le associazioni segrete e la stampa clandestina e tentavano ottenere alcune dosi omiopatiche di libertà dalle carezze, dalle lusinghe, dalle adulazioni servili profuse ai governi. E quanto al Lombardo-Veneto e all'Austria, non avevano concetto di sorta; e i filosofi politici della setta si limitavano a vaticinare possibilità di risolvere la questione quando suonasse, per virtù d'atomi confederati e arcadiche conversioni di monarchi al progresso e al bene dei popoli, l'ora dello smembramento dell'impero turco in Europa. Ma quando la febbre popolare irrompeva - quando il sangue dei nostri martiri ribolliva nelle viscere del suolo d'Italia e a guisa d'agente vulcanico lo sollevava - si rassegnavano volonterosi e lasciavano intendere col loro sorriso ch'essi avevano antiveduto e aspettato quei moti anormali come conseguenza del loro operare sagace. Al popolo, politicamente ineducato e ignaro del come importi allo sviluppo dei fatti la coscienza delle vere loro cagioni, poco caleva di chi li rivendicasse: accettava chi più s'acclamava suo capo: confondeva causa ed effetti; e quando gli ripetevano che i suoi trionfi erano dovuti all'avere i moderati conquistato un papa che lo benediceva e un re che aspettava l'astro e teneva allato la spada d'Italia, plaudiva, colla gaja noncuranza del fanciullo, non - di tanto gli giovavano gli istinti e gli insegnamenti raccolti - al papato o alla monarchia, ma a Pio IX e a Carlo Alberto. Intanto i moderati s'insignorivano del potere e si collocavano a capo dell'alte sfere sociali.
Se non che non si viola impunemente la logica; ogni errore porge origine a una serie d'inevitabili conseguenze. Ogni menzogna proferita e accettata genera un grado d'immoralità che logora a un tempo vigore e virtù nel core della nazione. E temo che la conseguenza più grave della supremazia assunta dai moderati sarà pur troppo uno strato di nuova immoralità sovrapposto ai molti che la tirannide e la paura e il gesuitismo e il materialismo congiunti hanno steso d'antico intorno al core d'Italia.
Una profonda immoralità è infatti radice a tutte le teoriche e al metodo dei moderati. L'eterno vero è da essi perennemente sagrificato alla misera realtà d'un breve periodo; l'avvenire al presente; il culto dei principî all'utile presunto della giornata; Dio all'idolo subitamente inalzato dalla forza, dall'egoismo o dalla paura. Le forti credenze, i forti affetti, i forti sdegni non allignano in quelle anime fiacche, arrendevoli, tentennanti fra Machiavelli e Lojola, mute a ogni vasto concetto, vuote d'ogni profonda dottrina, abborrenti dalla via diritta, impastate di ripieghi, di transazioni, di finzioni, d'ipocrisia. Noi li udimmo, i capi della fazione, a dirci, colle stesse labbra che paragonavano nei loro congressi a Giove Olimpico il re di Napoli e dichiaravano miracolo il re di Piemonte e redentore novello Pio IX: è necessità dei tempi, ma in sostanza lavoriamo per voi. Li vedemmo insolenti col debole, striscianti in terrore davanti al potente; stringere or col popolo ora collo straniero, a propiziarsi l'uno e l'altro, patti che intendevano di non mantenere; dichiararsi riverenti al papa pur cercando modo di scavargli la fossa; professarsi alleati devoti del Bonaparte che abborrono come abborre chi soggiace e per sentita viltà; cospirare a un tempo, per prepararsi la via a due ipotesi, con Garibaldi e contro Garibaldi. Nè dico che a tutti fosse o sia sprone su queste vie tortuose e indegne degli educatori d'un popolo il basso desiderio di meritarsi una nomina di senatore o di consigliere di Stato. Parecchi tra loro vissero o vivono indipendenti. Ma la mancanza d'un concetto religioso e quindi l'intormentimento del senso morale, il torpore delle50 facoltà lasciate alla sola sterile analisi e l'interna anarchia delle idee senza base determinata, senza fede d'intento, hanno pervertito in essi intelletto e cuore e li commettono agli impulsi sconnessi che vengono ad essi di giorno in giorno dai casi, dai menomi fatti o dalle apparenze di fatti. Quando Salvagnoli diceva a Brofferio: bisogna tirare innanzi come si può e del resto colla verità non si governa, ei sommava in sè la teorica di tutto il partito. Quando i moderati acclamavano a Gioberti come al primo pensatore e al più potente filosofo che avesse l'Italia, preparavano ai posteri la giusta misura della loro mente e dell'ideale filosofico che veneravano.
No; Gioberti, il gran sacerdote della setta, non era filosofo; e l'essere egli stato generalmente riconosciuto siccome tale dimostrerà a quali poveri termini fossero ridotti in Italia gli studî filosofici. La filosofia è una affermazione dell'individualità fra una sintesi religiosa che cade e un'altra che sorge: è una coscienza del mondo presente illuminata dai raggi d'un mondo futuro: è un criterio determinato di vero fondato sulla universale tradizione del passato e tendente con un metodo egualmente determinato a indagar l'avvenire. Gioberti non ebbe vero intelletto di tradizione nè intuizione - oggi nessuno vorrà negarlo - dell'epoca che va maturandosi. L'uomo che esordì dalle dottrine di Giordano Bruno per sommergersi in un concetto neo-guelfo di primato italiano per mezzo del papato - che salutò d'entusiasmo la formola Dio e Popolo per rinnegarla poi a profitto d'un cattolicesimo rintonacato - che dopo d'avere fulminato dall'altezza d'una coscienza filosofica gli artifici del gesuitismo, li adottò cardine de' suoi disegni, appena entrato sull'arena della politica pratica - che viaggiò di città in città, pellegrino crociato d'una monarchia da lui sprezzata, adulando a ciascuna da Pontremoli a Milano come a prima città d'Italia - che diceva a me nel 1847 in Parigi: io so che differiamo in fatto di religione; ma Dio buono! il mio cattolicesimo è tanto elastico che potete inserirvi ciò che volete - non fu nè filosofo nè credente. Ingegno facile, rapido, trasmutabile, fornito d'una erudizione copiosa ma di seconda mano e non derivata dalle sorgenti, capace d'eloquenza, ma di parole più che di cose, fervido d'imaginazione più che di core, non ambizioso nè cupido di potere o d'agi ma vano e irritabile e intollerante d'ogni opposizione, Gioberti soggiacque per impazienza di successo e per indole naturalmente obbiettiva agli impulsi esterni, agli avvenimenti che si sottentravano e v'accomodò, scendendo dalle serene-immutate regioni della filosofia, le sue facoltà. Non diresse, riflesse. E dacchè il periodo era, come io dissi, guasto d'immoralità, non cercò di vincerla, vi s'adattò. Ei fu, inconsciamente, con Balbo e Azeglio, tra i primi corruttori della giovine generazione: mentre Balbo insegnò la rassegnazione della scuola cattolica e seminò lo sconforto nelle forze collettive del paese - mentre Azeglio pose in core alle classi medie della nazione il materialismo veneratore servile dei fatti e i germi d'un militarismo pericoloso - Gioberti rivestì di sembianze filosofiche l'immorale dottrina dell'opportunità e mascherò da idea l'irriverenza alle idee. E fu primo - biasimo assai più grave - che introducesse nel campo della libertà l'arme atroce della calunnia politica e l'insana accusa di settatori dell'Austria contro repubblicani e dissenzienti dal concetto del regno del nord, dalle fusioni imposte, dalle guerre che rispettavano il Trentino e Trieste e da ogni idea che non fosse sua.
I fatti del 1848 e del 1849 sono commento alle cose ch'io dico. A me non tocca or ripetere ciò ch'io accennai di quei fatti nei Cenni e Documenti della guerra regia e negli altri scritti contenuti in questo volume e nel seguente. Ma dirò - perchè importa al piccolo nucleo di repubblicani che si serbarono in quei due anni incontaminati - come sentissimo, come prevedessimo fin d'allora gli eventi e quale fosse la norma della nostra condotta.
Fin da quando, gran tempo innanzi al delirio che invase nel 1847 le menti, si mostrarono, nel mezzogiorno segnatamente, i primi indizî di tentennamento fra i due principî, io mi diedi a combatterli più che pubblicamente privatamente, per via di lettere. E ne inserirò qui a saggio delle molte ch'io scrissi, una ch'io diressi a un Leopardi, membro del Comitato napoletano, repubblicano nel 1833, incerto nel 1834 dopo il mal esito del tentativo sulla Savoja, monarchico dichiarato nel 1848 e autore d'un libro oggi dimenticato nel quale sono da trovarsi parecchie falsità sul mio conto e su quello di parte nostra.
«..............Avete fede» - io gli diceva - nei destini d'Italia? Avete fede nel secolo? V'arde il sacro pensiero di proclamare l'unità delle famiglie italiane? Avete provato quanto ha di grande, di solenne, di religioso, il concetto che chiama la generazione del secolo decimonono a creare una Italia? Volete farla grande e bella fra tutte le nazioni? Intendete come si tratti per noi d'un'opera immensa, divina, ove ci riesca di darle la parola dell'epoca nuova, di cacciarla alla testa d'un periodo di civiltà, di commetterle una missione che influisca sull'umanità intera? Allora, staccatevi dalle idee di transazione anche momentanea, anche concepita come gradino al meglio, e siate repubblicano, repubblicano sin d'oggi apertamente e credente nella possibilità, nella necessità del trionfo del simbolo repubblicano. Però che tutte le altre idee sono illusioni, menzogne della vecchia politica che s'è abbarbicata alle menti.
«Guardate all'Europa. Il suo moto è a repubblica, moto universale che aumenta ogni giorno, che trascina gli intelletti un tempo più schivi, fin Chateaubriand, fin Lamennais. La prima rivoluzione francese, avvenga quando che sia, sarà per necessità repubblicana: la prima insurrezione germanica, repubblicana per necessità: dacchè le divisioni politiche e l'assenza d'una famiglia che abbia quanto basti d'influenza e di virtù per riunirle, escludono il governo monarchico a quei che vogliono unificare l'Alemagna.
«La Svizzera si regge a repubblica e progredisce verso un nuovo assetto più popolare e più energicamente concentrato. E voi vorreste che l'Italia, sorgendo a rivoluzione, gridasse un grido costituzionale monarchico? Vorreste collocarla in condizioni di avere rivoluzioni posteriori? Ridurla allo stato della Francia d'oggi? Porla retrograda fra i popoli che s'affrettano alla meta? L'Italia si trascinerebbe stentatamente dietro al moto europeo, quando è destinata a precorrerlo? Il simbolo popolare, dovunque verrà proferito, darà a quel popolo la palma dell'incivilimento europeo, e noi, questa palma vogliamo darla all'Italia - e possiamo, volendo.
«Il simbolo popolare è unico a darle vigore e possibilità di unità. Create una o più monarchie costituzionali: avrete sancita, educata, fortificata la divisione in Italia: avrete di necessità creato un'aristocrazia, elemento indispensabile nel reggimento monarchico costituzionale: avrete forse gettati i germi d'una guerra civile tremenda. Perchè non giova illudersi; cacciato un governo costituzionale nel regno di Napoli, credete voi che il Piemonte e la Lombardia s'uniscano sotto la bandiera di quel re? No. Le gare, le invidie sono sopite perchè il simbolo popolare, che s'è affacciato, non ammette irritabilità d'amor proprio di provincie; ma si ridesteranno formidabili ogni qual volta si parlerà di monarchia. Il Piemonte non subirà mai un re napoletano. Napoli non subirà mai un re piemontese. Avanza dunque una federazione di re italiani. Una federazione di re non ha esistito, nè esisterà mai.
«Una federazione non è che un passo mosso verso l'unità, e questa è contraddittoria alla esistenza dinastica dei re. Una lega di re può esistere - esiste; ma contro ai popoli, contro al moto delle idee, non a favore della libertà e delle idee progressive. E d'altra parte, ponete Napoli governata costituzionalmente, come farete cotesta lega? Pacificamente o colle armi? Pacificamente no certo, nè alcuno lo crede. Sarebbe portento tale che supererebbe le difficoltà d'una rivoluzione repubblicana. Colle rivoluzioni non l'avrete mai; perchè, a cagion d'esempio, l'insurrezione ligure non sarà mai che repubblicana51. Abbiatelo - dalle cagioni in fuori che fanno tendere Genova a separarsi da un re piemontese - come fatto inevitabile, del quale io starei mallevadore sulla mia testa. Allora, che farete in Italia? Se ponete anche che le rivoluzioni strappino ovunque un patto costituzionale ai nostri principi, poserete voi una confederazione italiana sulla lega dei principi costituzionali, per violenza esercitata sovr'essi? Faranno lega, forse; ma per emanciparsi dai popoli - non per altro. Noi vogliamo non solo mutar le sorti d'Italia, ma rigenerarla; perocchè vogliamo farne un gran popolo; ed elemento d'un popolo grande è, più che non si pensa, un popolo schiavo, ma fremente. Gli estremi si toccano. Nelle grandi scosse i popoli si ritemperano, si consacrano alle grandi cose. Non così se, invece di chiamarli dal nulla alla creazione, volete indugiarli in tentativi incerti e graduati. La monarchia costituzionale è il governo più immorale del mondo; istituzione corrompitrice essenzialmente, perchè la lotta organizzata, che forma la vitalità di quel governo, solletica tutte le passioni individuali alla conquista degli onori e della fortuna che sola dà adito agli onori. Vedete la Francia! come ridotta in Parigi! e che indifferenza e che egoismo non la ucciderebbe se non sorgessero tratto tratto i martiri repubblicani a riconfortarla! Gli anni della Restaurazione, la commedia dei quindici anni e l'ipocrisia continua delle lotte d'opposizione parlamentare l'hanno sfinita, gangrenata, guasta per modo, che se la sua missione d'incivilimento è finita, se ad un popolo qualunque dà l'animo di sorgere primo. E dovete paventare più per l'Italia.
«La Francia ha inaugurato il programma dell'èra moderna; la Francia ha avuto la Costituente e la Convenzione: l'Italia, uscente dal servaggio per addestrarsi nell'arena costituzionale, avrà da aggiungere ai vizî del primo i vizî e le corruttele del reggimento monarchico-misto. Quindi, troncato l'avvenire italiano - troncata, per un mezzo secolo, la grandezza italiana - troncato, forse per sempre - io non cesserò mai di ripeterlo a voi caldo e intelligente italiano - il primato morale italiano sulla civiltà dell'Europa. Pure, se a fronte d'una quasi impossibilità di sorgere come vogliamo, si mostrasse una certezza, una speranza fondata di sorgere come possiamo! Ma noi abbiamo spiato bene addentro il pensiero dell'Europa monarchica. Abbiamo esplorato tutte le vie di miglioramento. Non ve n'è una fondata sulle mire dei governi. Siamo soli, o coi popoli.
«L'Europa è in oggi un campo d'audacia pel partito repubblicano; un campo d'astuzia pel partito monarchico dove la forza delle cose ha strappato le concessioni; un campo di ferocia dove il dispotismo regna sicuro.
«L'Austria e la Russia rappresentano quest'ultimo. La Francia e la Spagna l'altro.
«L'Inghilterra nulla rappresenta nel sistema europeo. Il principio motore del governo non è mutato. È l'egoismo nazionale, commerciale - e non altro. Da Canning in giù, uomo mal noto ai buoni, e che in più cose gode di fama usurpata, non v'è grado di progresso verso idee d'equilibrio europeo. V'è una lotta segreta ma vivissima interna tra l'aristocrazia e il popolo, che assorbe ogni cosa. L'alleanza colla Francia è nulla, è parola cacciata a illudere i due popoli - null'altro. Quando il governo inglese ebbe voce che si tenterebbero reazioni Carliste in Francia, cacciò il partito whig e spinse il tory. Il nome di Wellington rappresentante il dispotismo nella sua brutalità militare, fu posto innanzi. Svanite le speranze dell'assolutismo si tornò alle tendenze di Grey. Ma chiunque conosce l'Inghilterra, sa come in oggi gli whigs52, sieno ridotti, come perdano ogni giorno le forze nella gran contesa che pende tra i tories e i radicali, e come non possedano più se non quella vita che si trascina senza concetto di avvenire, senza idee d'iniziativa Europea, senza possibilità di averle e praticarle. L'Inghilterra non è, nè sarà mai alla testa di una propaganda qualunque. Essa riconosce i fatti: riconosce la regina in Ispagna: riconosce D. Pedro, perchè tende da secoli a farsi del Portogallo una specie di colonia commerciale: riconoscerebbe noi, ove insorgessimo vigorosi. - Ma, nè un uomo, nè un obolo dal governo per un punto ch'esso non desideri far suo direttamente o indirettamente - siatene certo.
«La Spagna non è ora a porsi in calcolo per un appoggio, come non è per un ostacolo ai progetti dei popoli. Il governo, intravedendo una insurrezione, ha transatto; ma, nè buona fede al di dentro, nè influenza vera al di fuori. -
«La Francia? - Luigi Filippo è collocato in un bivio. Il partito repubblicano minaccia cacciarlo; le potenze del Nord minacciano cacciarlo. La guerra, da qualunque parte venga, gli è mortale, ed egli lo sa. La guerra trae seco infallibile - alla prima vittoria come alla prima disfatta - il trionfo repubblicano. L'ira del popolo nel secondo caso, le sole promozioni nel primo, bastano a rovinarlo, perchè l'esercito, nella bassa ufficialità, gli è minato. Il re, il governo non ha partito alcuno: partito di Luigi Filippo in Francia non esiste: esiste un partito di ciò che è, dello stato-quo; un partito della pace a ogni prezzo fondato sugli interessi immediati. Togliete la pace, togliete l'unica speranza di quel partito che chiamano juste-milieu, la rivoluzione è compiuta. Per questo il governo ha evitato la guerra quando, due o tre volte, tutta l'Europa la gridava inevitabile. Noi dicemmo il contrario sempre, perchè nessun governo si suicida53. Per questo Luigi Filippo ha sacrificato, nel 30 la Spagna, nel 31 l'Italia, poi la Polonia - a malgrado delle promesse solenni. Per questo egli ha obbedito agli ordini del Nord, che gl'imposero di vietare le associazioni. Per questo ei s'è fatto capo, ora di fresco, della crociata diretta dai governi contro i proscritti, temuti perchè repubblicani e tutte le arti sue tendono a cacciarli in America. Per questo egli ha avvertito sempre i governi di ciò che si tramava contr'essi, ogni qualvolta gli venne fatto di risaperne come all'epoca del tentativo di Francoforte. Per questo metterà sempre tutti gli ostacoli che per lui si possono a qualunque moto italiano, perchè moto italiano e guerra sono sinonimi. V'è tal cumulo di fatti oggimai sul conto di Luigi Filippo, che il travedere intenzioni di progresso in lui è un ostinarsi ne' sogni. Bensì la Francia lo inceppa, il fremito delle nazioni lo inceppa; e però, mentre i re del Nord stanno Attila della tirannide, a lui è stata affidata una parte ipocrita. Luigi Filippo è il Tartuffo della santa lega. A lui è stato commesso il differire i moti, che gli altri si riserbano di spegnere dov'ei non riesca. Quindi le voci di leghe e di speranza cacciate a caso, onde i popoli seguano e si ritengano nell'aspettativa e nell'inerzia. Sogni che sviano dal lavoro e dalle vere terribili cospirazioni - inganni tesi per la millesima volta ai cospiratori di tutti i paesi, senza che questi rinsaviscano mai. Quei progetti che vi seducono gli furono affacciati, non da noi direttamente, chè abbiamo cacciato il guanto e lo manteniamo, ma da gente inspirata da noi e che doveva servirci di esploratrice - affacciati, nel 31, al segno di proporre un re d'Italia che gli fosse figlio: affacciati in altra forma risguardante l'Italia centrale, al tempo dell'occupazione di Ancona - affacciati poco prima della spedizione di Savoja, e ogni volta che si venne alle strette, un ritrarsi è un tradire. Abbiamo prove materiali della politica che qui vi accenno.
«E perch'ei lo sa, perch'ei sa che in lui non avremo fiducia mai, che da noi egli non ha speranza nè di rivelazione nè d'altro, intende a cacciarci in America. E prima che ciò avvenga, potrebbe accadergli ciò che gli troncasse a mezzo la via. Ma per somma disavventura, vi sono, a Parigi specialmente, uomini illusi che vorrebbero ostinarsi a fidare, e vi sono altri a' quali è principio opporsi ad ogni tentativo che non venga da Parigi, e che, non sapendo il come, tentano illudere i nostri concittadini a sperare in progetti, de' quali Luigi Filippo e i suoi agenti ridono di soppiatto. Il nostro Pepe è fra quelli ed alcuni de' nostri e molti dell'Italia centrale. Ma quali? Membri di governi provvisorî, che tradirono la causa italiana alla illusione del non intervento, e non possono in oggi condannarsi da sè, però insistono su quelle miserie. Uomini d'una fratellanza che s'intitola de' Veri Italiani, diretta sotterraneamente da quella stessa alta vendita che noi abbiamo denunciata, perchè è rovina alla causa, e che, prefiggendosi apparentemente gli stessi principî che noi predichiamo, va pure stillando negli animi la massima che nessun moto è da tentarsi, che l'Italia è impotente a reggersi insorta, che dalla sola Francia può partire il segnale. - E guai se coteste massime filtrano negli Italiani! Guai se i buoni, come siamo noi e siete voi, non le contrastano a viso aperto!
«Riflettete. Il partito dell'Austria, e però delle potenze del Nord, è preso: guerra, guerra inevitabile a qualunque progresso italiano, perchè qualunque progresso è mortale all'Austria; guerra, ne segua che può. E quando essa vide il pericolo non si arretrò nè davanti a patti di non intervento, nè a minaccie nè ad altro. Volete ch'essa si rassegni a morire? A morire vilmente? Essa avventurerà la vita per tentare la vittoria, anzichè rimanersi spettatrice inerte de' nostri progressi. La guerra coll'Austriaco noi non possiamo evitarla mai, sia che moviamo a gradi, sia che ci lanciamo d'un balzo all'ultimo della carriera. La speranza di evitare questa guerra è la causa che ha perduto tutte le nostre rivoluzioni. L'avere posto i re a direttori dell'impresa italiana ci ha tratto in fondo fino ad oggi. Perdio! Ricadremo ne' vecchi errori? Attraverso tanto sangue di martiri sparso per questa Italia che vogliamo liberare, torneremo ancora una volta al punto d'onde partimmo?
«Io non vi ho parlato di principî perchè in politica l'unica vertenza che può esistere fra gente come noi siamo non può posare che sulla questione di fatto, di possibilità o d'impossibilità, ma pure è necessario ch'io il dica; è necessario che sappiate a che attenervi circa alle intenzioni della Giovine Italia. Nulla è mutato alle sue leggi, al suo scopo, ai mezzi ch'essa intende di scegliere e di porre in opera. Però essa insiste ed insisterà nel suo grido repubblicano, essa rifiuterà qualunque transazione s'offrisse: essa crede alla potenza di rigenerarsi in Italia, alla possibilità della iniziativa italiana in Europa, al dovere di ogni buon Italiano di promuoverla con ogni mezzo. L'impresa è grande, ma per questo è italiana. Per questo io v'invito a promuoverla. Non vi sviate per quanto v'è di più sacro, dietro a speranze chimeriche: queste speranze le abbiamo nutrite un giorno noi pure: poi una accurata disamina e un addentrarci più sempre nel segreto delle Corti alleate, e un'intima conoscenza delle molle che pongono in gioco queste voci di transazione, ci hanno convinti che nulla v'ha da sperare se non nell'armi, nel popolo e nei popoli. Come intendiamo adoperar queste forze vi dirò domani in un'altra mia alla quale io vi pregherò di risposta.
«Dio voglia, per l'Italia e per noi, ch'essa sia quale io la invoco e la spero.
«Ho scritto a voi; ma, come bene intendete, per tutti i buoni che sono con voi e che vi prego d'abbracciare per me.
«Siatemi fratelli, e innanzi.»
Quella lettera fu scritta nel 1834. Tredici anni dopo, quando l'entusiasmo per Pio IX toccava i limiti della follìa e Montanelli - anima buona, ma debole e affascinata successivamente dalla Giovine Italia, dai sansimoniani, dai neo-cattolici, da Gioberti, da tutti e da tutto - mi scriveva cose mirabili intorno alla trasformazione del papato e all'accordo del dogma cattolico coi progressi dello spirito umano, insistendo perch'io parlassi da convertito o tacessi, io rispondeva il 16 luglio 1847: «.....Nell'impossibilità di ricreare la fede in un dogma oggi essenzialmente in cozzo coi progressi irrevocabili dell'intelletto spinto a nuovi mondi da Dio padre ed educatore, voi vi troverete colla nuda e sola morale; e io so che nessuna morale può durare feconda di vita nell'umanità senza un cielo e un dogma che la sopportino......... Lascio al tempo la verificazione dei miei presagi, e s'io vedrò la vita dell'umanità rinnovarsi nella vostra credenza, io mi prostrerò riverente agli altari dei nostri padri.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Andreste errato di molto se credeste me e quelli che stanno con me intolleranti, esclusivi adoratori dei principî democratici repubblicani e trattenuti per quelli dall'unirci a voi. L'avvenire democratico repubblicano, non al modo degli Stati Uniti ma ben altro e ben altrimenti religioso e derivante dall'autorità bene intesa, m'apparisce così inevitabile, così connesso col disegno provvidenziale che si manifesta nella progressione storica dell'umanità, ch'io non sento bisogno alcuno d'essere intollerante...... Se oggi dunque la maggioranza buona della nazione s'accentrasse intorno a un papa o a un re e lo gridasse iniziatore de' suoi destini e questo papa o questo re li iniziasse davvero, io primo dimenticherei che questo re m'ha rapito il mio primo e migliore amico, che questo papa rappresenta essenzialmente una credenza o per meglio dire un ricordo d'autorità contro la quale tutta l'anima mia si ribella; e accetterei la bandiera ch'egli m'offrisse e darei quel che m'avanzasse di vita e di sangue e persuaderei gli amici miei a far lo stesso....... Bensì, dov'è essa questa bandiera intorno alla quale vorreste avermi? Io non conosco che una sola bandiera, quella della nazione, quella dell'unità. Io vi sacrificherei per un tempo, tutte54 l'altre parole che vorrei scritte sul vostro vessillo; ma quell'una no. E mi parrebbe di tradire Dio, la patria e l'anima mia.......
«Non so se voi conosciate il papa, se ne abbiate quindi potuto ottenere nel colloquio privato quella fede ch'io non potrei trarre se non dai fatti. A me i fatti sinora non rivelano che il buon uomo, il principe che tra per le necessità dei tempi più minacciosi ne' suoi Stati che non altrove, tra per la bontà del cuore, ha dovuto vedere se amministrando un po' meglio, con un po' più di tolleranza, con un po' più d'amore, le condizioni de' suoi sudditi, non si potrebbe imporre fine ai tumulti, alle congiure, alle insurrezioni fatte ormai permanenti. Dati i primi passi, gli applausi poco dignitosi degli uni, le esagerazioni, ipocrite nei più, d'entusiasmo..... gli hanno fatto legge di durare nella benevolenza, nelle parole della gratitudine e della fiducia. Più in là non vedo per quanto io mi faccia...... Ho taciuto sempre per non essere accusato di nuocere a progetti ignoti e ho studiati attentamente gli atti, le parole del papa e degli scrittori moderati. Per questi ultimi ho spesso arrossito; ma nel papa, io lo ripeto, non ho potuto vedere che l'uomo buono, senza una fede, tentennante fra l'Austria e le proprie tendenze, senza una sola delle intenzioni italiane ch'altri ha voluto vedere ne' suoi primi atti. S'io m'inganno, il primo fatto che mi smentirà mi troverà pronto a ravvedermi. Ma fino a quel fatto, dov'è la bandiera di Pio IX? Dov'è la bandiera italiana senza la quale io non intendo unione possibile ed efficace? Io invecchio e non posso facilmente farmi entusiasta di sogni e di sogni, dato che tali fossero, pericolosi.......
«Non approvo la strategìa che m'indicate in poche linee, ma prima di dirvi il perchè, vorrei farvi intendere che il mio non approvarla non parte da spirito di liberalismo cospiratore. La cospirazione non è per me un principio, è un tristissimo fatto, un derivato d'una condizione di cose che la rende indispensabile. Tutte le mie tendenze individuali stanno per la pubblicità e voi dovreste farmi giustizia e ricordare che lasciandomi spesso tacciare di imprudenza, ho aggiunto fino dalle prime mosse la pubblicità al lavoro segreto; che la Giovine Italia si mise subito in aperto contrasto colla vecchia Carboneria fissa a voler procedere in tutto e per tutto nell'ombra; che da noi si fece segretamente quello che non poteva farsi pubblicamente, ma che inalzammo una bandiera e ci cacciammo a tenerla levata a viso aperto e come predicatori di principî. Se v'è chi m'apra una via di predicare unità di nazione in Italia, io lo benedirò e verrò immediatamente in Italia. Ma qualunque predicazione non abbia quel nome, quel vocabolo a principio e fine, tornerà, temo, non solamente inutile ma dannosa. Io non posso accettare la strategìa che mi proponete perchè non può condurre a quel fine; può condurre a conquistare qualche miglioramento amministrativo, qualche concessione, qualche riforma di codici; può condurre, se pur volete, a conquistare una porzioncella omiopatica di libertà a ciascuno dei molti Stati in cui siamo divisi, non già a riunirli, a farne nazione: può condurre, se vi ci concentriamo tutti, a sviare gli animi dalla meta, a persuadere le popolazioni italiane che possono migliorare le loro condizioni sotto gli attuali governi, a dare sfogo all'attività concentrata dei giovani che un giorno avrebbe prodotto l'esplosione nazionale, a cacciare nuovi germi di divisioni federalistiche, a creare vanità locali, a generare spirito di machiavellismo e di tattica dove abbiamo bisogno di fede, sincerità e virtù vera.....
«Mentr'io m'era deciso di tacere, sento ormai dovere di parlare e parlerò fra non molto. Non parlerò esclusivo come parmi temiate; parlerò d'Italia e d'unità nazionale, perchè i più fra i vostri la pongono in dimenticanza; e mentre voi continuerete a giovarvi delle occasioni che, non l'amore ma la debolezza dei governi vi porge, per spingere innanzi le popolazioni assonnate e divise, io procurerò di tenere alzata la santa bandiera, sì che, sospinte, sappiano a che fine dirigersi: dirigersi, badate, quanto lentamente casi e tempi vorranno - la nostra non è questione di tempo - ma dirigersi continuamente a quell'unico intento che le moltitudini potrebbero facilmente dimenticare per adagiarsi nel letto di rose dei miglioramenti materiali e amministrativi: - soli che voi, seguendo il metodo attuale, possiate ottenere e precariamente...»
E più dopo ancora, il 3 gennajo 1848, io scriveva a Filippo de Boni:
«..........Non so con quale occhio vediate ora l'andamento delle cose nostre; ma due fatti son certi: il retrocedere del papa e il pessimo maneggio dei moderati. Abbiamo taciuto: ceduto quanto si poteva; ma non giova. Il silenzio è interpretato come congiura, e sapete che vanno ripetendo per ogni dove ch'io sto maneggiando per un moto repubblicano immediato! Perduto il papa, impazziscono pel primo capitano d'Italia, l'eroe del Trocadero: perduto quello, impazziranno pel Granduca; più tardi Dio sa per chi. Che sperare per la rigenerazione d'Italia da un partito che grida viva il re di Napoli dopo le atrocità di Messina e di Reggio e stende petizioni a quel re imbrattato di sangue? da un partito che predicò nel Risorgimento l'unità d'Italia essere assurda, illegale, funesta? da un partito che ne' suoi giornali comincia a transigere coll'Austriaco e insinua che anche lo Stato del Lombardo-Veneto migliorerà? da un partito ch'è una menzogna in faccia a sè stesso, che si dichiara, in molti de' suoi membri, unitario e nondimeno imprende a educare, terrorizzando, il popolo all'eccellenza del federalismo, salvo, come dicevano in un convegno tenuto in Genova per la Lega, a educarlo più tardi alla eccellenza dell'unità? Coscienza di scrittori e d'apostoli.
«Mentr'io vi scriveva, giunge la vostra; e sospendo la mia tirade contro i moderati, dacchè vedo che consentiamo...... Dal vostro silenzio argomento che, voi non avete ricevuto la mia Lettera al papa, ch'egli ebbe in settembre e ch'io ho consentito si stampasse perchè mi pare che da un lato possa far sentire vieppiù il contrasto fra' suoi doveri e la sua attuale condotta, e che dall'altro mantenga saldo il nostro principio dell'unità.
«.........Con tutta l'avversione ch'io ho a Carlo Alberto, carnefice dei migliori miei amici, con tutto il disprezzo che sento per la sua fiacca e codarda natura, con tutte le tendenze popolari che mi fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da tanto da essere veramente ambizioso e unificar l'Italia a suo pro, direi amen.
«Ma ei sarà sempre un re della Lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la prenderà non farà che impaurir l'Austria e ritenerla forse nei suoi confini, che i re della Lega rispetteranno; e questo è il peggio.
«..........Vidi il nome vostro fra i collaboratori della Concordia. Vorrei foste scelto a dirigere quel giornale. Valerio è una delle migliori anime ch'io mi conosca in Torino; ma minaccia da molto di cadere in quella politica sentimentale creata da taluno fra i neo-cattolici, che perdona tutto, spera tutto da tutti, abbraccia re, popoli, federalisti, unitari, e intende che la risurrezione d'Italia si compia in Arcadia. Il titolo stesso è arcadico. Concordia? Tra chi?......»
Tra questa lettera e l'altra indirizzata a Montanelli io scrissi la lettera a Pio IX contenuta in questa edizione. Quello scritto mi fu apposto da uomini deliberati di trovare a ridire quasi deviazione politica e prova a ogni modo di credulità nelle intenzioni del papa. I critici o non lessero o non capirono, per ansia di cogliermi in fallo, la mia lettera. Le forme adottate furono quelle senza le quali, nell'Italia, allora tutta farneticante, non un uomo l'avrebbe letta. Ma la sostanza diceva a Pio IX: «Albeggia un'epoca nuova: una nuova fede deve sottentrare all'antica: questa nuova fede non accetterà interpreti privilegiati fra il popolo e Dio. Se volete, giovandovi dell'entusiasmo ch'or vi circonda collocarvi a iniziatore di quell'epoca, di quella fede, scendete dal seggio papale e movete apostolo del Vero tra le turbe come Pietro Eremita predicatore della crociata. Il popolo vi saluterà capo e fonderà in Italia uno Stato che cancellando l'atea formola: sia dato l'uomo interno alla Legge e all'Amore, l'esterno alla Forza; adorerà l'altra: l'uomo interno e l'esterno, l'anima e il corpo son uno: una è la legge che deve dirigerli» - e diceva agli italiani: «È necessario che Pio IX sia tale, s'ei deve rigenerarvi e crear l'Italia: or lo credete da tanto?»
Se quella lettera non fu intesa allora a quel modo da una gente che delirava, non è colpa mia. Ma quei che dopo aver delirato e più volte cogli altri s'atteggiano oggi a critici puritani del mio passato, sono fanciulli davvero e non meritano ch'io mi dilunghi a confutare le loro accuse.
Sei mesi dopo ch'egli aveva avuta la mia lettera Pio IX dava, coll'enciclica del 19 aprile 1848, una solenne smentita alle adorazioni dei neo-guelfi e ai sogni dei moderati. Se non che ad anime siffatte tornava facile ogni cosa fuorchè il rinsavire. I neo-guelfi si tramutarono in ghibellini; i moderati, che avevano dissertato a provare la sola via di salvar l'Italia esser nel congiungimento del pastorale colla spada, dissertarono a provare che la spada d'Italia bastava. Nel marzo intanto quella spada, che potea salvare davvero l'Italia, era stata snudata dal popolo nel Lombardo-Veneto e poco prima in Sicilia. E il primo suo lampeggiare in Sicilia aveva convertito i principi agli ordini costituzionali e ottenuto in un subito più assai che non avevano ottenuto le tattiche adulatrici di tutto un anno: il secondo in Milano aveva sgominato un esercito creduto fin allora invincibile e affrancato quasi dal nemico straniero il suolo d'Italia. La vera forza era dunque visibilmente nel popolo. Bastava intenderlo: bastava dire al popolo: prosegui, l'impresa è tua - ai principi: alleati tutti, padroni nessuno - ai principi, al popolo, all'Europa: vogliamo essere uniti, liberi, forti: vinta la guerra dell'indipendenza, l'Assemblea nazionale deciderà in Roma degli ordini coi quali dovrà reggersi l'Italia - perchè l'impresa si compisse in guisa degna di noi. Un governo d'insurrezione e di guerra - e il nucleo di quel governo esisteva nella commissione delle Cinque giornate - che avesse affratellato in sè l'elemento lombardo col veneto e chiamato qualch'altro dalla Sicilia e d'altrove, avrebbe, col programma accennato, unificato fin d'allora l'Italia.
Se non che i moderati dai quali l'insurrezione lombarda era stata fino all'ultimo giorno avversata come impossibile - che avevano, richiesti, spronati dai nostri, contribuito fra tutti d'una misera somma di settemila lire italiane alla lunga agitazione anteriore - e che avevano invariabilmente alternato fra i tentativi di conciliazione coll'Austria e gli inutili maneggi segreti colla monarchia piemontese - s'impossessarono del moto appena lo videro trionfante; gli uomini della commissione delle Cinque giornate abbandonarono, per disdegnosa noncuranza, il potere a un governo provvisorio che disprezzavano - e i giovani che avevano antiveduto, preparato, capitanato sulle barricate il moto del popolo, inesperti, soverchiamente modesti e paghi dei gloriosi fatti compiti, si ritrassero dall'arena quando importava tenerla.
Quei giovani erano nostri. Nostri, esciti pressochè tutti dalla Giovine Italia, amici miei e in contatto con me, erano Mora, Burdini, Romolo Griffini, il povero Pezzotti, Carlo Clerici, De Luigi, Ercole Porro, Daverio, Bachi, Ceroni, Antonio Negri, Bonetti, Pietro Maestri e gli altri che avevano, stretti a nucleo e consigliandosi talora con Carlo Cattaneo, educato il popolo all'abborrimento dello straniero, diffuso scritti popolari, predicate le idee, insegnato ai giovani la coscienza della propria forza, ispirata e diretta l'agitazione progressiva che affratellò le moltitudini nel concetto e deliberato il moto quando giunse la nuova delle concessioni imperiali: nostri e giova or dirlo e nominarli, dacchè nessuno lo disse o li nominò. Al nucleo di quei giovani repubblicani appartenevano Emilio Visconti Venosta oggi ministro e un Cesare Correnti, spettabile per ingegno ma appestato di scetticismo e senza fede ne' principii, della cui rovina m'occorrerà tra non molto dar cenno.
Taluno fra quei buoni si lasciò, poco prima del moto, sedurre dal raggiro monarchico e scese, a insaputa del nucleo, a patti coi faccendieri torinesi che mentivano quando promettevano ajuti ma che presentivano possibile l'insurrezione e miravano a impadronirsene. Errarono tutti - e lo noto perchè l'errore si ripete generalmente nelle insurrezioni e le svia - affaccendandosi a prestabilire un governo. Il governo d'una insurrezione deve sorgere dall'insurrezione stessa; tra i più arditi e a un tempo avveduti a guidare il popolo nella lotta. Scegliendolo prima, la scelta cade inevitabilmente sovr'uomini stimati influenti per uffici anteriori o ricchezza o tradizioni di famiglia, buoni forse, ma che non avendo il segreto dei santi sdegni e delle sante audacie del popolo, non hanno fiducia in esso nè intelletto d'iniziativa rivoluzionaria nè coscienza del fine cercato dall'insurrezione e tradiscono, sovente inconsci, il mandato per ignoranza o paura. Noi vedemmo nell'ultimo mezzo secolo insurrezioni repubblicane date al governo d'uomini d'opposizione monarchica - insurrezioni contro il dominio straniero fidate a individui che avevano patteggiato con esso accettandone incarichi pubblici - insurrezioni preparate e iniziate, come in Polonia, dall'elemento democratico, cedute all'influenza di principi e aristocrazie, consumarsi miseramente in un cerchio di transazioni che senza fruttare un solo ajuto reale dai governi, incepparono, limitarono, spensero l'energia popolare e l'entusiasmo delle nazioni sorelle. In Lombardia - dacchè per inopportuna modestia, fiacchezza o noncuranza colpevole, i promotori dell'insurrezione si ritrassero dal dirigerne lo sviluppo - il governo fu dato a uomini inetti come Casati, aristocratici come Borromeo, raggiratori come Durini: anime di cortigiani che non potevano vivere senza padrone e cacciarono popolo, libertà, avvenire d'Italia e ogni cosa, senz'ombra di patti a' piedi di Carlo Alberto.
Quand'io giunsi in Italia, era tardi per ogni rimedio. I moderati guidavano dominatori: gli altri seguivano ciechi: il popolo, tra il quale avevano diffuso le più atroci calunnie a danno dei repubblicani, fidava illimitatamente nel re.
Due partiti s'affacciavano a un uomo della mia fede.
Ritrarsi; e come Trasea escì, ravvolta la testa nel manto, da un senato corrotto e tremante, allontanarsi da una terra dimentica dei principii e condannata a rovina: ricalcare le vie dell'esilio e dall'esiglio tenere levata in alto la bandiera repubblicana: non guardare a tempi nè ad uomini e dir tutta la verità, inascoltato, maledetto dai vivi, perchè i posteri la ricevessero un giorno e ammirassero chi non l'aveva taciuta mai: - ed era partito al quale tutte le sdegnose tendenze dell'animo mio mi spronavano.
Rassegnarsi all'onnipotenza dei fatti e tentare lentamente di modificarli tanto da trarne un grado di progresso verso non foss'altro un dei termini del problema, l'unità: non separarsi dai proprî fratelli perchè sviati: non interrompere, collocandosi in una sfera per allora inaccessibile ad essi, la tradizione emancipatrice iniziata: confutare colla pazienza dell'onesto e colla mesta riverenza alla volontà del paese le accuse d'intolleranza, di spiriti esclusivi e dittatoriali, versate sui repubblicani: tacere, senza apostasia, parte del vero perchè l'altra possibilmente prevalesse; percorrere col popolo e senza illusione la via crucis delle delusioni onde conquistare il diritto di dirgli un giorno: io era teco: ricordati; insegnare a ogni modo l'amore, e il dovere perpetuo del sagrificio, anche della fama, e non del vero ma d'ogni orgoglio del vero, a pro di chi s'ama.
E mi scelsi quest'uno.
Taluni, molt'anni dopo - Giuseppe Sirtori unico allora - mi rimproverarono quella scelta. A Giuseppe Sirtori fondatore nel marzo del 1848 in Milano d'una società democratica e che, partendo per Venezia, mi scrisse ch'io disertava, non m'occorre rispondere: egli è oggi generale di re e credente nella onnipotenza del regio statuto; io sono tuttavia esule e repubblicano. Ma agli altri, fratelli miei di credenza, dirò ch'io ho ripensato sovente a quel periodo della mia vita con profonda tristezza, ma senz'ombra di rimorso. Noi eravamo fatti, quand'io giunsi in Italia, impercettibile minoranza. Il popolo non era - nè sarà mai in Italia monarchico; ma era ciò che oggi chiamano opportunista: vedeva una forza ordinata, un esercito d'italiani presto a combattere contro l'abborrito straniero e, a quanto gli predicavano uomini tenuti fino a quell'ora da esso in conto di apostoli della libertà, unica sua salute: quell'esercito era capitanato da un re; le acclamazioni salutavano quindi liberatori, esercito e re. Sul compirsi della quinta giornata, quando il popolo, ebbro di vittoria, era solo sull'arena, la parola repubblica avrebbe potuto proferirsi: nell'aprile avrebbe suscitato, e senza pro, la pessima fra tutte guerre, la guerra civile. D'altra parte, perchè parlare a ogni tratto di sovranità popolare, di riverenza alla volontà del paese, e tenerle in niun conto non sì tosto si pronunziassero in modo diverso dal desiderio? Non toccava a noi repubblicani più che ad altri educare gli animi, salva la missione di modificare le idee coll'apostolato, al dovere di non violarle colla forza? Il diritto d'iniziativa era in noi quando, schiavo universalmente il nostro popolo, noi dovevamo, noi soli potevamo aprire la via: desto e libero il popolo, non avevamo diritto fuorchè di consiglio, di voto, o d'azione in virtù d'un mandato affidatoci. E quanto al ritrarci nell'isolamento per poter dire tutto il vero, pareva a me tentazione dell'io inconsciamente geloso più di sè stesso, della propria dignità o del proprio atteggiarsi pei posteri, che non del fine da raggiungersi e della patria, traviata, inferma, ingannata, pur sempre patria, cara e sacra pel passato e per l'avvenire. Rousseau poteva vivere solitario e dire senza reticenze quanto parevagli vero, perch'ei non tentava nè presentiva la Rivoluzione imminente nella sfera dei fatti; ma per noi, per me, la Rivoluzione era iniziata: egli era uomo di pensiero soltanto, noi di pensiero e d'azione. E se avevamo una missione speciale, era quella appunto di tradurre sempre - come e quanto concedevano le circostanze - il pensiero in fatti: se un insegnamento poteva escire dalla nostra vita era quello di non separarsi mai dalle sorti della nostra terra, di dividere tutti i palpiti della sua vita, di menomarne i mali o tentarlo quando non potevamo distruggerli, di conquistarle un grado d'educazione, una frazione dell'ideale, quando l'ideale stesso era - per colpe non nostre - impossibile.
Praticamente io antivedeva la rovina della guerra regia: ma una speranza m'accarezzava l'anima sconfortata; e quella speranza avea nome Venezia. Su Venezia sventolava la bandiera repubblicana. Quando l'imbecillità e il tradimento avrebbero consumato l'opera loro nella Lombardia, gli occhi di tutti, liberi di false visioni, si sarebbero rivolti a quella bandiera. Da Venezia, fatta centro di resistenza e guida, avrebbe potuto risorgere la guerra del popolo. Per questa idea ch'io taceva, io avviava la legione Antonini a Venezia: per questa io consigliava a Garibaldi, reduce da Montevideo, di recarvisi a porre se e il suo nucleo di prodi a' cenni del governo veneto: per questa tentai più dopo di concentrarvi i Polacchi condotti dal poeta Mickiewicz. Se non che l'imbecillità e il tradimento dovevano distruggere, consumando l'opera loro in Milano, ogni possibilità d'una nuova chiamata alla Lombardia.
Ho nominato la legione Antonini. E la seguente lettera ch'io indirizzai a Lorenzo Valerio, direttore della Concordia, giornale torinese, ricorderà come i moderati d'allora intendessero in modo non dissimile da quei d'oggi l'unione dei partiti e come incoraggiassero i nostri sforzi.
«Signore. - In alcune linee inserite nel vostro numero del 25 aprile è parlato della banda d'operai male intenzionati provenienti di Francia e scesi, credo, il dì dopo in Genova, per avviarsi qui dove si combatte la guerra dell'indipendenza. La banda male intenzionata è una legione d'Italiani che all'annunzio ricevuto in terra straniera dell'insurrezione lombarda decisero raggiungere in ogni modo i combattenti la guerra santa. Il danaro indispensabile per la mobilizzazione del corpo fu raccolto dall'Associazione nazionale italiana alla quale io presiedo; e il cui programma ripubblicato da più giornali d'Italia e approvato dalla vostra censura, non espresse altro simbolo fuorchè l'indipendenza e l'unificazione d'Italia. Dall'Associazione escirono i capi della legione e le norme regolatrici della mossa. Il capo che la dirige è il generale Antonini, incanutito nelle guerre di Francia e di Polonia.
«La mossa fu preceduta da un indirizzo della legione ai loro fratelli italiani, che fu reso pubblico in parecchi giornali, forse nel vostro, e che avrebbe dovuto meritare agli uomini che lo dettarono risposta fraterna assai diversa dalle misere calunnie diffuse da non so chi e che mi pesa vedere riprodotte nel vostro giornale. La legione fu accolta in Genova con apparato di precauzioni governative, e quel ch'è peggio, con tale una freddezza dalla ingannata popolazione genovese che dev'essere stata punta mortale al cuore d'uomini che accorrevano a dare il sangue per la patria loro e molti de' quali si erano preparati a missione siffatta con lunghi anni d'esilio e patimenti virilmente incontrati.
«È duro il discendere dopo lunga assenza e col palpito di chi cerca e merita amore, sulla propria terra, e incontrarvi calunnie e minaccie ridicole, è vero, di bajonette. È duro l'accorrere lietamente, in nome d'Italia, ad affrontare le palle austriache per la libertà del paese, e trovarsi a un tratto fra volti diffidenti e irosi, tra gente che accusa la parola e il silenzio d'ingratitudine e d'anarchia. Poco importa del resto. Gli uomini devoti a un'idea non aspettano conforti se non dalla propria coscienza e da Dio; ma stimandovi com'io vi stimo, ho sentito necessità prepotente di richiamare la vostra attenzione sul carteggio dei vostri corrispondenti di Genova, perchè le colonne della Concordia non si contaminino di ben altre ingratitudini che non quelle di che s'accusano in oggi, per nuova moda, uomini che hanno lungamente amato, patito, operato, quand'altri taceva, per la patria loro, unicamente perchè non rinnegano a un tratto le credenze maturate per vent'anni di studî e «d'esiglio.»
Accettai dunque - e i miei amici accettarono con me - i fatti compiuti come terreno donde movere innanzi. Piegammo la testa alla manifestazione della volontà popolare che diceva monarchia e pensammo a provvedere, per quanto era in noi al trionfo d'una guerra che si combatteva sotto bandiera non nostra, ma che ricacciando l'Austria oltre l'Alpi potea farci liberi di conquistare l'unità della patria. Ma rassegnandoci al silenzio, non rinnegammo la fede nel nostro ideale. Ci offrimmo alleati leali e a tempo del campo regio; non dichiarammo che quel campo era il nostro. Sospendemmo, come inopportuna e pericolosa all'impresa emancipatrice dallo straniero, la predicazione dei nostri principî; non ci facemmo predicatori di principî contrarî. E lo dico pensando ai molti, i quali repubblicani giurati ieri, sono, mentr'io scrivo, giurati monarchici, non per convincimento mutato, ma per ciò ch'essi chiamano tattica e non è se non mancanza d'una fede qualunque. Essi non potranno mai, checchè tentino, richiamarsi all'esempio nostro. Noi ci mantenemmo puri di menzogna e d'ossequio servile; essi no. Dimenticando che primo, supremo dovere verso un popolo che sorge a nazione è l'educazione morale alla dignità dell'anima e alla costanza, essi, sperando in quel modo ottenere qualche miglioramento finanziario, qualche riformuccia amministrativa dalla parte avversa, gittano a' piedi della monarchia il presente e l'avvenire; accettano incondizionatamente l'istituzione contro la quale predicavano pochi anni addietro; giurano che da uno Statuto, il cui primo articolo è violazione della libertà di coscienza, escirà logicamente ogni sviluppo possibile di libertà; teorizzano sull'assurdo equilibrio dei tre poteri; s'irritano, pur sogghignando nel loro segreto, se il sacro inviolabile nome del re è tratto sull'arena da un incauto ministro e dichiarano che tutta la questione italiana si risolve in un mutamento, non di principî, ma d'uomini. E gli avversi ridono delle proteste additando, col rancore di chi non perdona, il passato, e il popolo attinge in quel machiavellismo d'evoluzioni un insegnamento d'immoralità o un senso di sfiducia egualmente dannosi. Quei che verranno dopo noi li diranno apostati; io li compiango deboli e malati della malattia d'un secolo scettico e senza ideale.
I pochi rimasti, nel 1848, fedeli all'ideale repubblicano seppero rispettare la volontà, suprema s'anche errata, del popolo e serbarsi nondimeno incontaminati. E v'insisto perchè, mentre taluni ci accusano d'avere deviato in quel periodo dalla fede, i più persistono, ingannati dalle calunnie d'allora, a credere che da noi escissero per avventatezza repubblicana, semi d'anarchia e di ruina nel conflitto contro lo straniero. Donde escissero quei semi è accertato negli scritti del volume anteriore, nella memoria di Carlo Cattaneo Sull'insurrezione di Milano e nell'Archivio triennale delle cose d'Italia. A me, in questo lavoro che compendia la tradizione repubblicana italiana negli ultimi trentaquattro anni, importa provare come il nostro linguaggio rimanesse invariabilmente conforme al programma di condotta adottato; tanto che gli Italiani sappiano potere la parte nostra ingannarsi ma non ingannare.
Quel programma di condotta - unità nazionale anzi tutto; guerra concorde contro lo straniero: sovranità del paese da interrogarsi al finir della guerra - era già indicato sin dal febbrajo e prima dell'insurrezione lombarda in una lettera ch'io indirizzai ai Siciliani e che riproduco:
«Siciliani! - Voi siete grandi. Voi avete in pochi giorni fatto più assai per l'Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni d'agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi. Avete, esaurite le vie di pace, inteso la santità della guerra che si combatte per le facoltà incancellabili dell'uomo e del cittadino. Avete, in un momento solenne d'ispirazione, tolto consiglio dalla vostra coscienza e da Dio: decretato che sareste liberi: combattuto, vinto e serbato la moderazione dei forti nella vittoria. E la vostra vittoria ha mutato - tanto i vostri fati sono connessi con quelli della penisola - le sorti italiane. Per la vostra vittoria s'è iniziato un nuovo periodo di sviluppo italiano: il periodo del diritto, delle istituzioni, dei patti sostituito al periodo delle concessioni e delle riforme. Per la vostra vittoria, il popolo italiano ha riconquistato la coscienza delle proprie forze, la fede in sè. Per voi, noi, esuli dall'Italia, passeggiamo con più sicura e serena fronte tra gli stranieri che ieri ci commiseravano ed oggi ci ammirano. Dio benedica l'armi vostre, le vostre donne, i vostri sacerdoti e voi tutti, come vostri fratelli v'amano e v'ameranno d'amore perenne e riconoscente.
«Ma perchè noi v'amiamo riconoscenti, perchè ripetiamo con orgoglio il vostro nome e le vostre gesta ai nostri ed agli stranieri perchè salutiamo in voi un elemento iniziatore di progresso italiano, noi abbiamo diritto di parlarvi liberi come fratelli a fratelli: abbiamo diritto di ricordarvi i nostri comuni doveri: abbiamo diritto di dirvi: voi siete nostri; voi non potete staccarvi da noi, non potete esservi rivelati ottimi fra quanti abitatori ha l'Italia, per ritrarvi, per isolarvi. Foste grandi di prodezza e d'onore davanti agli obblighi del presente; noi vi chiediamo d'essere grandi nell'amore, grandi nel presentimento dell'avvenire.
«Voi siete in oggi parte importante, vitale, dello Stato più popoloso, più forte per posizione, navigli e armi, d'Italia. Primi a levare in esso il grido di libertà, primi al trionfo, salutati d'ammirazione concorde dai vostri concittadini di terra-ferma, voi avete conquistato una influenza che non morrà, una potenza morale che nessuno vuole o può contrastarvi, diritti che nessuno s'attenterà più di rapirvi. Perchè scemereste, separandovi, forza ai vostri concittadini e a voi? Perchè dal rango che, uniti, potete occupare in Europa, scendereste, per volontario suicidio, al quarto, all'ultimo rango, condannandovi a debolezza perenne e alla inevitabile influenza straniera? Perchè il governo di Napoli v'ha lungamente oppressi e trattati come popoli di colonia? Ma non pesava la stessa tirannide su' vostri concittadini di terra-ferma? Non l'abborrivano, non l'abborrono essi, come voi l'abborrite? Non protestarono colle congiure, colle associazioni segrete, col sangue dei migliori fra i loro? Non furono i vostri carnefici carnefici ai Napoletani? Non corsero più volte patti solenni d'insurrezione tra voi e gli uomini delle Calabrie? Non ebbero quei patti solenne manifestazione in faccia all'Italia, in faccia all'Europa, nella bandiera levata fra l'agosto e il settembre del 1847, per entro il breve cerchio di quarantotto ore, in Reggio e in Messina? Ah, non dimenticate, o Siciliani, l'alleanza che i martiri di Reggio e Messina e Gerace segnarono del loro sangue. Non tradite nella vittoria le sante promesse della battaglia. Siate ora e sempre fratelli, come giuraste. Non fate che lo straniero dica esultando: saranno liberi forse, uniti e potente non mai. Avete insegnato all'Italia la potenza del volere; insegnatele la santità dell'amore, insegnatele la religione dell'unità che sola può ridarle gloria, missione e iniziativa, per la terza volta in Europa.
«Io non sono napoletano. Nacqui in Genova, città grande anch'essa una volta per vita propria, libera, indipendente: grande per aver dato, nel 1746, all'Italia sopita l'ultimo esempio di virtù cittadina, come voi avete or dato il primo all'Italia ridesta. Come voi, fummo nel 1815 dati, senza consenso nostro, a un altro Stato d'Italia col quale pur troppo i ricordi del passato aspreggiavano le contese e dal quale pur troppo, come avviene sempre in ogni unione non liberamente scelta, ma decretata dall'arbitrio straniero, avemmo per molti anni più danni assai che vantaggi. E non per tanto, quanti fra noi amavamo la patria comune, quanti avevano desiderio e certezza dell'avvenire, salutarono quella unione come fatto provvidenziale. In questo lento ma costante moto di popolazioni oggimai vicino al suo termine che, logorate con lavoro di secoli influenze di razze dominatrici, aristocrazie feudali, ambizioni di municipî discordi, prepara all'Europa, dopo l'Italia dei Cesari e l'Italia dei Papi, l'Italia del Popolo, ogni frazione di terra italiana unificata ad un'altra segna un trionfo per noi, una difficoltà pacificamente rimossa. Ogni smembramento sarebbe un passo retrogrado. Tolga il cielo che l'esempio funesto debba, o Siciliani, venirci da voi!
«La vostra questione, o Siciliani, sta, non fra Napoli e voi, ma tra voi e l'Italia futura, tra un alto insegnamento d'unione e un pessimo d'individualismo locale; tra l'Europa che deciderà dall'opere vostre se noi risorgiamo a nazione o a mero egoismo d'utile materiale e di libertà, e l'Austria che studia i modi di conculcarci e vi riescirà se invece di stringerci a falange serrata, ci confineremo nella formola immorale del ciascuno per sè, nell'esosa indifferenza alle sorti comuni; e sta fra la vita potente, attiva europea, che si prepara a venticinque milioni d'Italiani ricchi di mente, di cuore e di mezzi, e l'esistenza nulla, impotente, dominata dalla prima influenza straniera che vorrà soggiogarvi, destinata all'isola vostra se sola e non immedesimata coi fati della penisola. Pensatevi. Molti fra voi vi parlano di costituzioni vostre, di tradizioni, di diritto pubblico fondato su precedenti del 1812. In nome di Dio, non tollerate che la posizione conquistata da voi cogli ultimi fatti scenda a termini così meschini. Se poteste mai rassegnarvi a ritrocedere nel passato e cercarvi le origini del vostro diritto, rinneghereste a un tempo l'Italia futura e la coscienza che vi spronava a insorgere e vi meritava vittoria.
«Le origini del vostro diritto stanno, o Siciliani, non in una costituzione ineguale alle ispirazioni dei tempi che vi fu data quando il gabinetto inglese non aveva altro modo di far dell'Isola vostra una stazione militare per le sue armate e che vi fu tolta quando, caduto Napoleone, quel bisogno cessò; ma nella vostra gloriosa insurrezione del 12 gennajo e nell'entusiasmo con che essa fu accolta da un capo all'altro della penisola. E quel diritto non vi fallirà perchè fa parte del nuovo diritto italiano, diritto che non conosce i trattati del 1815 e darà la formola d'una nuova vita che scenderà dalla nozione di Dio all'interpretazione del popolo: vita d'una nazione che non fu mai sino ad ora e sarà. Ma l'altro il vecchio diritto desunto da fatti non nostri, scritto un terzo di secolo addietro a formole ambigue come la parola dell'inganno, violato a ogni tratto dai principi e cancellate oggimai da pianto e sangue di molti popoli, riannetterebbe il vostro sviluppo a una tradizione di menzogne, vi travolgerebbe nelle reti d'una diplomazia corrotta e corrompitrice, e vi preparerebbe, presto o tardi, infallibilmente tradimenti eguali a quelli che già provaste.
«Siciliani, fratelli! Vi sentite voi forti per riassumere in voi soli la vita, quale un giorno sarà, dell'Italia, maturi per balzare d'un salto all'ideale che affatica l'anime nostre e costituirvi a un tratto con ordini di governo superiori a quanti esistono in oggi, nucleo e insegnamento vivo della nazione? In quell'unico caso, cesserebbe in me, cesserebbe in noi tutti, il diritto di scongiurarvi all'unione cogli Stati di terra-ferma. Ma se voi sentite prematuro il disegno, se tra voi e Napoli non corrono in oggi se non questioni di forme, d'istituzioni divergenti soltanto nei particolari, di maggiore o minore emancipazione locale, ascoltate la parola d'un fratello vostro che ama, dopo Dio, la patria comune e ha logorato in quell'amore la vita: è parola, oso dirlo, di tutta Italia. Ponete quel santo nome di nazione sulla bilancia, non date l'esempio d'uno smembramento ai fratelli che guardano in voi. Rimanete uniti ai vostri concittadini della penisola: uniti per combattere insieme ad essi le battaglie della libertà, per combattere fra non molto insieme a noi tutti le battaglie dell'indipendenza: uniti per confortarci del vostro aspetto e della vostra parola autorevole nei nostri parlamenti, nelle nostre adunanze: uniti perchè i fratelli, schiavi tuttora, si inanimiscano alla guerra sacra; uniti perchè lo straniero senta la virtù del sacrificio nell'anime nostre e ammiri; uniti perchè i fati dell'Italia si compiano, mercè vostra, più rapidi e l'umanità si rallegri e Dio protegga bella di potenza e d'amore la terra sua prediletta.»
Poco dopo, nel programma dell'Associazione nazionale italiana ch'io fondai, nel mio breve soggiorno in Parigi, il 5 marzo, io diceva:
«............Qualunque sia, nelle nostre menti il concetto del progresso futuro, qualunque la forma che lo rivelerà alle nazioni europee, noi tutti sappiamo che fummo grandi - che vogliamo e dobbiamo esser grandi, più grandi che mai non fummo pel bene della patria e dell'umanità - e che nol possiamo se non vivendo d'una vita comune, ordinandoci forti e compatti sotto una sola bandiera, affratellandoci in un solo patto d'amore, sommando in una tutte quante le facoltà, le forze, le aspirazioni del core e del senno italiano. Sappiamo che tra noi e quel patto d'amore fraterno ed uno sta l'Austria - che all'Austria soggiacciono molti milioni d'Italiani fratelli nostri - che prima della loro emancipazione noi non possiamo aver patria - che vita, libertà, forza, unità, securità di progresso, saranno menzogna per noi, finchè non avremo con guerra aperta, ostinata, irreconciliabile, cacciato oltre le ultime Alpi lo straniero che contamina le nostre contrade. Sappiamo che fintantochè un solo Italiano avrà chiuso il labbro e compresso il pensiero dalla forza brutale straniera, tutto sarà per noi provvisorio e incerto; e a fronte dei nostri patti, dei nostri imperfetti progressi quell'Italiano potrà sorgere e dire: io pure nacqui sul vostro terreno: a me pure Dio rivelava parte dell'idea che l'Italia è chiamata a rappresentare nel mondo: e il mio labbro fu muto e il mio senno e il mio cuore non ebbero parte nei vostri consigli, nei decreti ai quali voi volete ch'io, non consultato, soggiaccia.
«Rappresentare questo pensiero, questa comune credenza è l'intento dell'Associazione in nome della quale parliamo. L'Associazione non è toscana, piemontese o napoletana; è italiana: non tende a discutere questioni d'interessi locali; tende ad armonizzarli, a unificarli nel grande concetto nazionale: non prefigge a' suoi sforzi il trionfo predeterminato d'una o d'altra forma governativa; ma li consacra a promuovere, con tutti i mezzi possibili e in accordo colle ispirazioni progressivamente manifestate dal popolo italiano lo sviluppo del sentimento nazionale; li consacra ad affrettare col consiglio e coll'opera, collo studio accurato dei voti dei più e coll'esercizio del diritto di suggerimento fraterno, il momento in cui il popolo italiano fatto nazione, libero indipendente, forte della coscienza de' proprî diritti e della propria missione, santo dell'amore che annoda in bella eguaglianza i credenti in comuni doveri, potrà dar voto solenne intorno alle forme di viver civile che meglio gli converranno, intorno alle condizioni politiche, sociali, economiche che ne costituiranno l'essenza.
«È questo un momento solenne: momento di crisi suprema, di nuova vita europea. Qui d'onde scriviamo, un popolo glorioso tra quanti mai furono, ha provato l'onnipotenza della volontà nazionale e rovesciando in poche ore un edifizio a cui gli eserciti, le corruttele, le false dottrine e le diplomazie promettevano lunga durata, ha iniziato un nuovo diritto europeo. Ma a noi rimane intatta una grande missione: cancellare dal mondo europeo un'antica ingiustizia e sostituire sulla Carta d'Europa, coll'esempio della nostra emancipazione, una libera federazione di nuove nazioni a un impero fattizio, colpevole d'avere negato per secoli la santa legge di progresso che Dio prefiggeva all'umanità......»
E il 22 marzo, in un indirizzo al governo repubblicano di Francia, io definiva nuovamente in questi termini il fine dell'Associazione.
«........Il suo scopo, signori, è quello che fu annunziato o preveduto da tutti i grandi italiani, da Arnaldo da Brescia fino a Machiavelli, da Dante fino a Napoleone, che appartiene a voi come a noi: l'unificazione politica della penisola; l'emancipazione dal mare all'Alpi di questo suolo dal quale esciva due volte la parola d'ordine dell'unità europea; la fondazione d'una nazionalità forte e compatta che possa pel bene del mondo collocarsi nella confederazione dei popoli e apportare al lavoro comune le ispirazioni e il sagrificio, il pensiero e l'azione di venticinque milioni d'uomini liberi, fratelli e uniti in una sola fede nazionale: Dio e il Popolo in una sola fede internazionale: Dio e l'Umanità.
«Questa fede, signori, è, malgrado gli sforzi fatti per oscurarla, la fede dei nostri padri. Dalla scuola pitagorica dell'Italia meridionale sino ai filosofi pensatori del secolo XVII - fra le torture che invano tentavano d'annientare l'idea sociale di Campanella e le palle che troncavano sulle labbra dei fratelli Bandiera il loro ultimo grido di viva l'Italia! il genio italiano ha sempre dichiarato, con una serie non interrotta di proteste individuali che sua tradizione nazionale era Unità e Libertà: unità come pegno della missione, libertà come pegno di progresso.
«Fra i ceppi, fra le corruttele figlie del dispotismo, sotto la bajonetta straniera che minacciava ogni battito del suo core, dal fondo delle segrete, dall'alto dei patiboli, il genio italiano gridò sempre alle attente nazioni: l'Italia non è morta; essa sta trasformandosi, e la sua grande idea escirà pura, com'oro dal crogiolo, dai suoi trecento anni di schiavitù, quando l'opera di fusione sarà compita quando le popolazioni italiane si stringeranno in un amplesso unanime intorno alla santa bandiera della patria comune per dare all'Europa, dopo l'Italia degli imperatori e l'Italia dei papi, l'immenso spettacolo dell'Italia del popolo.
«Questo momento, signori, noi lo crediamo vicino.»
Con queste idee, con questo programma, io mi recai in Milano. E le prime parole indirizzate ai Bresciani, i quali si querelavano, per non so quale faccenda interna, di Milano, furono di concordia e di pace. «Oggi l'uomo - io diceva - non è che l'incarnazione d'un dovere. Troppo grandi cose avete da fare, perchè vi sia lecito pensare alle locali vertenze. Avete in mira, voi come Milano, come tutte le altre città dello Stato, i destini di venticinque milioni d'uomini che vi sono fratelli, il rinnovamento della terra che v'ha dato vita la creazione d'un popolo, gran parte dei fati europei, però che i fati europei dipendono essenzialmente da noi. E a compiere i vostri doveri, avete d'uopo di miracoli d'amore; avete d'uopo di sorridere come a gioja suprema, ad ogni sagrificio d'individualità, che le circostanze vi chieggano. Ho sentito ieri, vedendo sfilare i soldati del reggimento Ceccopieri tornati alla bandiera della patria, un bisogno prepotente d'abbracciar con amore il mio primo nemico, un bisogno di qualche grande sagrificio pel bene comune, per farmi degno della mia contrada. Voi tutti sentite com'io sento...» Nè queste idee furono tradite mai da me e da' miei amici. Le mantenemmo fedelmente, tra diffidenze, calunnie e minacce, per tutto il periodo della guerra regia. Forse, se tutti gli uomini di parte nostra si fossero schierati risolutamente con noi intorno al programma: Guerra e Costituente Nazionale dopo la guerra, che poggiava su promesse solenni date da Carlo Alberto e dal governo provvisorio, la lotta contro l'Austria avrebbe avuto esito diverso. Ma i più tra i nostri si diedero, come dissi, senza patti. La monarchia rimase incondizionatamente padrona.
Il giorno istesso in cui doveva, in seno al governo, discutersi il malaugurato decreto della fusione, comparve inaspettato nella mia stanza Cesare Correnti, seguito da Anselmo Guerrieri, e mi parlò, com'uomo che v'intravvede rovina, della proposta. Dissi a lui e al Guerrieri ciò ch'io avea detto poche ore prima a un altro membro del governo, Durini, che m'aveva inutilmente tentato perch'io aderissi. La fusione subitamente richiesta e con aperta violazione dei patti, dal re era indizio certo ch'ei sentiva le sorti della guerra corrergli avverse e premeditava ritrarsi, ma con un documento di signoria da dissotterrarsi quando che fosse in futuro. L'adesione intanto persuaderebbe la Lombardia del contrario e infondendole più sempre fede nella determinazione del re, l'addormenterebbe a stimarsi secura e difesa quando appunto importava risuscitarne l'energia e prepararla a salvarsi da sè. Le promesse tradite irriterebbero i partiti che si erano persuasi per amor di patria a tacere. L'ingrandimento della monarchia di Savoja, non più sospetto ma fatto, darebbe a tutti gli altri principi d'Italia il pretesto, da lungo cercato, per separarsi da una guerra senza speranza per essi. Il re, soddisfatto d'avere conquistato un diritto alle terre lombarde, si rassegnerebbe più facilmente a differirne l'attuazione e cedere per allora il campo all'Austriaco. La Lombardia, non più alleata ma suddita, perderebbe ogni opportunità di preparare la propria difesa, e perderebbe, soggiacendo, anche l'unico vanto, prezioso per l'educazione e per l'avvenire d'Italia, d'aver mirato a fondare, anzichè un misero regno del Nord, l'unità nazionale. Queste e altre cagioni trovavano assenso nei due, i quali si dichiaravano deliberati in ogni modo d'opporsi e chiedevano d'intendersi con me sul come. Proposi che s'intendessero con Pompeo Litta e coll'Anelli di Lodi - unico per fede, onestà incontaminata e senno antiveggente in quel gregge di servi - poi, esaurito ogni argomento, protestassero uniti contro il voto della maggioranza, si ritirassero dal governo e pubblicassero, esponendone le cagioni, dimissioni e protesta: lasciassero il resto a noi. Noi avremmo con una manifestazione popolare costretto il governo a dimettersi; ma invece di sostituire all'elemento monarchico il nostro e ad evitare ogni pericolo d'aperto contrasto col re, avremmo acclamato i quattro oppositori e senza rompere interamente la tradizione legale raccolto intorno a quel nucleo d'antichi governanti altri nuovi non repubblicani, ma consapevoli dei pericoli che s'addensavano e capaci di scongiurarlo o tentarlo. La proposta fu accettata e promisero: Correnti più assai concitatamente dell'altro; e poco mancò, tanto pareva fremente e melodrammatico, ch'ei non giurasse sul pugnaletto che aveva a fianco.
Il giorno dopo, i primi nomi che mi ferirono l'occhio in calce al decreto furono quei di Correnti e Guerrieri. Seppi che quest'ultimo, natura buona ma debole, s'era lasciato travolgere dal compagno e ne ebbe per molti giorni rimorso vivissimo.
Rividi, caduta Milano, Correnti. Io era nel giardino Ciani in Lugano con Carlo Cattaneo e altri, quando Pezzotti - uno de' migliori nostri e che morì suicida nelle prigioni dell'Austria - venne a dirmi che Correnti chiedeva vedermi. Ricordo ancora il volto di pentito e l'accento di supplichevole con cui, fisso l'occhio al suolo, ei mi disse: non parlarmi del passato, ma usciere, sentinella, ufficiale, fatemi ciò che volete, pur ch'io giovi al paese. Riferii quelle parole agli amici: diffidavano tutti. Pensai nondimeno che s'egli avea male operato, i casi di Milano erano tali da guarire radicalmente chi non fosse profondamente corrotto. E divisai d'avviarlo a Venezia, dove il popolo teneva levata in alto la bandiera tradita dalla monarchia. In Lombardia, Garibaldi errava tuttavia in armi tra Como e Varese. Migliaja d'esuli s'accalcavano nel Cantone Ticino e potevano, se una opportunità s'affacciasse, rivarcare la frontiera. Gli spiriti duravano in fermento nelle valli bergamasche e bresciane, importava dare un centro visibile, una bandiera, una direzione semi-legale all'agitazione e mi pareva che dovesse trovarsi in Venezia. Manin v'era l'anima della difesa. Deliberai dunque d'inviargli Correnti a dirgli le nostre forze, le nostre speranze e persuaderlo che concentrasse in sè la direzione del moto, additasse il dovere alla Lombardia e dicesse: Venezia, emancipata dal tradimento, combatte non per sè, ma per tutti: stringetevi tutti intorno alla sua bandiera repubblicana. Il pentito accettò la proposta festante: ebbe lettere e danaro da noi; e partì, accompagnato da un fidatissimo nostro, Ercole Porro.
Non so che cosa ei dicesse a Manin: so che Manin nulla fece di quanto era debito suo; ch'ei, Correnti, non si fece mai vivo con noi; e che lo udimmo poco dopo in Torino, faccendiere di quella inetta, assurda, aristocratica congrega che s'intitolava Consulta e accoglieva Casati e quanti altri avevano con lui rovinato il paese.
Ho citato fra i tanti quest'incidente perch'altri indovini quale storia io potrei tessere dei moderati di quel periodo - perchè gl'Italiani v'imparino a non fidarsi, fino a vittoria compiuta, di subiti pentimenti - e perchè i giovani vedano come le tendenze scettiche possano travolgere a bassa e sleale condotta le menti più svegliate e chiamate ad altro.
Tentammo il possibile per ricominciare popolarmente la lotta e la iniziammo in Val d'Intelvi. Ma da un lato gare inaspettate fra d'Apice e Arcioni, capi militari dell'impresa, dall'altro la potenza del pregiudizio monarchico che immobilizza la leva dell'azione nella capitale e, quella caduta, sconforta dall'osare le città di provincia, fecero inutile ogni tentativo. Di tutto quello splendido moto di popolazioni, non rimase se non un potente insegnamento, ch'io sperai fosse allora raccolto e non fu. Tutte quelle migliaja d'esuli d'ogni condizione e d'ogni colore che giuravano non commetterebbero più mai le sorti della patria a un principe e applaudivano freneticamente agli ultimi versi della Clarina di Berchet recitati da Gustavo Modena, sagrificavano come prima servili, pochi anni dopo, alla monarchia.
Lasciai, disperata ogni cosa in Lombardia, la Svizzera e m'avviai, per Francia, verso Toscana.
Il papa era intanto fuggito. Roma era fatta libera di governarsi a suo modo. Venezia prometteva lunghe difese. La rivoluzione viveva tuttavia in Toscana, governata da uomini, un tempo, di fede nostra. La cessione di Milano lasciava screditata la monarchia, irritati gli animi e disposti ad accettare il principio contrario. L'impresa nazionale, caduta nel nord, potea risorgere dal centro. Da Roma dovea escire la parola iniziatrice; e forse, uscendo senza indugio, mentre durava il fremito universale e Napoli non s'era peranco rassegnata alla schiavitù, sarebbe stata più feconda di conseguenze che non fu dopo quattro mesi. Convinto di questo e libero oggimai di seguire apertamente la fede mia, indirizzai il 5 novembre la seguente lettera a' miei amici romani55.
«........................Tendo l'orecchio a udire se mai venisse dalla città vostra un'eco di parola maschia, libera, degna di Roma, un suono di popolo ridesto all'antica grandezza; e non odo che le solite evirate vocine d'Arcadi parlamentari che ricantano alla culla d'una nazione le nenie mortuarie delle spiranti monarchie costituzionali. Scorro avidamente coll'occhio le colonne del vostro Contemporaneo, sperando ogni giorno trovarvi un di quei decreti che ingigantiscono chi li legge; e dopo il famoso autografo nel quale il papa raccomanda, in cattivo italiano, non il ministero, ma i proprî palazzi, non vi trovo, a consolazione del mondo cattolico, se non che Roma è tranquilla. Tranquilla sta bene; anche il Signore riposava tranquillo il settimo giorno, ma dopo d'avere creato un mondo.
«E voi potete, volendo, creare un mondo civile. Voi avete in pugno le sorti d'Italia e le sorti d'Italia son quelle del mondo. Voi non conoscete, o immemori, la potenza ch'esercita l'accozzamento di quattro lettere che forma il nome della vostra città; voi non sapete che ciò che altrove è parola, da Roma è un fatto, un decreto imperatorio: urbi et orbi. Perdio! Che i vostri monumenti, i vostri ricordi storici non mandino una sola ispirazione all'anima degli uomini che reggono le cose vostre! Io, nella mia religione romana, m'andava confortando dello spettacolo di meschinità e d'impotenza che pur troppo ci danno finora le nostre città col pensiero che toccava a Roma, che il Verbo non poteva uscire se non dalla Città Eterna: ma comincio a temere d'essermi illuso. Roma così com'è, colle sedute ch'io leggo è una ironia, una cosa, perdonatemi, tra il ridicolo e il lacrimevole.
«Io non credo che la provvidenza abbia mai detto così chiaramente ad una nazione: tu non avrai altro Dio che Dio, nè altro interprete della sua legge che il popolo. E non credo che sia al mondo una gente più ostinata della nostra a non vedere nè intendere. La provvidenza ha fatto dei nostri principi una razza d'inetti e di traditori, e noi vogliamo andare innanzi a rigenerarci con essi. La provvidenza, quasi a insegnarci guerra di popolo, ha fatto sconfiggere un re in una impresa già quasi vinta, e noi non vogliamo far guerra se non con quel re. La provvidenza ha fatto del Borbone di Napoli un commento vivo dei ricordi di Samuele agli Israeliti che chiedevano un re, e la Sicilia, liberata di quello, bussa alle porte delle sale regie in cerca d'un altro. La provvidenza vi fa d'un papa un fuggiasco spontaneo: vi toglie, come una madre al bambino, ogni inciampo di sulla via; e voi, ingrati, rimanete in forse e come se non aveste mente, nè cuore, nè storia, nè esperienza che basti, nè avvenire, nè l'Italia in fermento d'intorno a voi, nè l'Europa in fermento d'intorno all'Italia, nè la Francia repubblicana allato, nè la Svizzera repubblicana di fronte, nè venti altre cagioni di decisione, andate ingegnandovi a governarvi coll'autografo dei palazzi. Carlo XII, prigioniero dei Russi, mandava un suo stivale a governare lo Stato; ma son parecchi anni e Carlo XII non era fuggito e la metropoli svedese non era Roma.
«Io vivo, voi lo sapete, irrequieto per l'unità d'Italia messa a pericolo dai guastamestieri, non per la repubblica immancabile, inevitabile, non solamente in Italia, ma in pressochè tutta Europa. E aspetto come ho detto, scritto e stampato, devoto e sommesso che la volontà dell'Italia si manifesti solennemente. Ma parmi di potervi dire senz'essere agitatore: quando la forma repubblicana, senz'opera vostra, senza violenza, senza usurpazione di minorità, v'è messa davanti, pigliatela; non fate vedere all'Italia e all'Europa che voi, repubblicani nati, la rifiutate senza perchè. Voi non avete più governo; non potere, malgrado l'autografo, che sia legittimo. Pio IX è fuggito: la fuga è un'abdicazione: principe elettivo, egli non lascia dietro sè dinastia. Voi siete dunque, di fatto, repubblica, perchè non esiste per voi, dal popolo in fuori, sorgente d'autorità. Uomini logici ed energici ringrazierebbero il cielo del consiglio ispirato a Pio IX e direbbero laconicamente: il papa ha abbandonato il suo posto: noi facciamo appello dal papa a Dio convocando un Concilio. Il principe ha disertato, tradito: noi facciamo appello dal principe al popolo. Roma è, per volontà di provvidenza, repubblica. La Costituente italiana, quando queste mura l'accoglieranno, confermerà, muterà o amplierà questo fatto. E scelto dal popolo un governo, s'accoglierebbe in Roma, poichè i popoli d'Italia non son liberi tutti sinora, il nucleo iniziatore e precursore della Costituente italiana futura; e questo nucleo d'uomini noti, mandati dalla Toscana, dalla Sicilia, da Venezia, dall'emigrazione lombarda, dai circoli, dalle associazioni, presterebbe appoggio efficace al governo; e quel governo, con pochi atti nazionali davvero, diventerebbe governo morale di tutta Italia in brev'ora. Dio che ajuta i volenti e ama Roma farebbe il resto.
«Perchè non abbiate fatto questo nelle prime ventiquattr'ore, perchè non lo facciate ora, m'è arcano. So che così non potete stare; e che tra il seguir questa via e il mandar deputati supplichevoli a Pio IX e dirgli: tornate onnipotente, cancelliamo ogni traccia della giornata del 16, non è via di mezzo. Taluni mi scrivono che li trattiene il timore d'essere invasi. Invasi? E nol sarete voi a ogni modo? Non vedete che la questione sta fra il concedere la iniziativa e la scelta del tempo e del come al nemico o l'assumerla voi, averne tutti i vantaggi e sconvolgere i disegni dell'invasore? Non vedete che in una ipotesi cadrete derisi perchè nessuno moverà in ajuto d'un ministero tiepido e senza nome; nell'altra inizierete quello a che tutti in Italia tendono, quello a che sarete trascinati inevitabilmente un dì o l'altro, ma coi traditori nel campo?
«Nè sarete soli a combattere...»
Giunsi in Livorno l'8 febbrajo 1849, quando appunto giungeva al governatore Pigli l'annunzio della fuga del duca. E fui pregato d'annunziarla io stesso al popolo, che s'era raccolto per festeggiarmi, dacchè temevano non si trascorresse a violenze contro i fautori noti del fuggiasco principe. Era timore mal fondato. Il popolo livornese è popolo d'alti spiriti, tenerissimo di libertà e presto sempre a virilmente conquistarla o difenderla: facile appunto per questo a guidarsi sulle vie del bene, purchè additate da chi abbia fiducia in esso e ispiri ad esso fiducia. Annunziai il fatto come buona nuova e dicendo quanto importasse ai cittadini di provare a tutti che potevano vivere più che mai concordi e amorevoli senza principe. Nè vidi mai città più lieta e ordinata. A taluni che parlarono d'atterrare una statua del duca, bastò suggerire che la velassero. Livorno è città repubblicana e onorerà tra le prime l'Italia futura.
Il 9 febbrajo, la repubblica era proclamata in Roma.
Era l'iniziativa ch'io cercava; e m'adoprai quanto seppi in Firenze perchè la Toscana affratellasse le proprie sorti a quelle di Roma. L'esempio avrebbe fruttato in Sicilia e altrove. Minacciata dall'Austria, insidiata dal Piemonte, il cui ministro Gioberti tendeva a restaurare i principi per ogni dove56, la Toscana non poteva, isolata, salvarsi. Ricovrandosi sotto l'ali di Roma, essa poneva i proprî fati sotto la tutela del diritto italiano e accrescendone le forze, apriva la via alla possibilità d'un nuovo moto della nazione: cadendo, essa lasciava almeno una splendida testimonianza a pro dell'unità repubblicana, giovevole all'educazione politica del paese. E gli istinti del popolo, afferravano, come sempre, il concetto. In una pubblica adunanza tenuta il 18 febbrajo sotto le logge degli Uffizî e alla quale si affollavano da diecimila persone, feci votare l'adozione della forma repubblicana, l'unione a Roma e la formazione d'un Comitato di difesa, composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti. Gli uomini che reggevano ricusarono. Io partii alla volta di Roma, dove m'avevano eletto deputato.
Roma era il sogno de' miei giovani anni, l'idea madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; e v'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all'Europa. Io avea viaggiato alla volta della sacra città coll'anima triste sino alla morte per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incontrate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblicana in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo, d'una scossa quasi elettrica, d'un getto di nuova vita. Io non vedrò più Roma, ma la ricorderò, morendo, tra un pensiero a Dio e uno alla persona più cara, e parmi che le mie ossa, ovunque il caso farà che giacciano, trasaliranno, com'io allora, il giorno in cui una bandiera di repubblica s'inalzerà, pegno dell'unità della patria italiana, sul Campidoglio e sul Vaticano.
Le cagioni che mi determinarono a trasvolare sul 1848 militano identiche perch'io mi taccia sulla storia dei quattro mesi che corsero dal mio giungere in Roma fino alla caduta della repubblica. Non potrei dir tutto. E mi limiterò ad accennare per sommi tocchi la parte mia e il concetto che governò gli atti miei. Nella pagina gloriosa che Roma scrisse in quel breve periodo, l'individuo dovrebbe sfumare. Pur sono anch'io repubblicano e la mia vita, comunque poca cosa, è parte della tradizione repubblicana. Nè vedo perchè, presso all'escirne, io debba lasciarla, per molti errori che gli avversi a noi v'accumularono intorno, fraintesa.
Fu scritto che noi, vincitori un istante, proclamammo la repubblica romana, non l'italiana. L'accusa è stolta. Una insurrezione, dichiarando illegale quanto esiste d'intorno a sè, può scrivere sulla propria bandiera ogni più audace formola, purchè suggerita dalla coscienza del Vero: un'Assemblea escita legalmente e pacificamente dal voto d'una frazione menoma del paese, nol può. Il mandato avuto è supremo per essa. Proclamare da Roma - di fronte al Piemonte costituzionale e armato - di fronte alle condizioni generali - la repubblica per tutta l'Italia, sarebbe, del resto, stato più ch'altro, ridicolo. La repubblica non poteva conquistare l'Italia a sè se non emancipandola dallo straniero, facendola. E per farla, bisognava creare una forza.
Pochi giorni bastarono a convincermi che non solamente quella forza non esisteva, ma che nessuno pensava a ordinarla. Gli istinti buoni abbondavano: mancava un concetto. Da circa 16,000 uomini formavano l'esercito dello Stato; ma erano senza coesione, senza uniformità di disciplina, d'assisa e di soldo; lo stato maggiore era nullo; il materiale di guerra pochissimo. Le forze disponibili erano disseminate in gran parte lungo la frontiera napoletana, unico punto da dove quei che reggevano temevano offese e che quel metodo radicalmente errato di cordone militare, debole per ogni dove, non avrebbe potuto difendere.
Io non temeva offese da Napoli: un tentativo da quel lato, creando in noi un diritto di reazione, era, più che da temersi, da desiderarsi. Nè allora io presentiva pericoli dalla Francia; ma li presentiva inevitabili, presto o tardi, dall'Austria. E dov'anche l'Austria non avesse assalito, dovevamo prepararci ad assalirla noi. Ridestare l'Italia contro l'eterno nemico; iniziare una nuova crociata e dire col fatto al paese: la repubblica farà ciò che la monarchia non seppe o non volle; era quello il mio disegno. Preparare la resistenza a un pericolo, che poteva essere imminente e preparare a un tempo l'azione futura se quel pericolo non si verificasse, era ciò ch'io adombrava, dicendo in quei giorni all'Assemblea: bisogna lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità.
Il 16 marzo, proposi all'Assemblea l'elezione d'una Commissione di guerra composta di cinque individui, che dovesse studiare i modi migliori d'ordinamento per l'esercito e provvedere all'altra necessità di difesa e d'offesa. Il 18 la Commissione era eletta. Carlo Pisacane ne era anima e vita. E con lui io m'intendeva compiutamente.
Al sistema inefficace dei distaccamenti sparsi su tutti i punti della lunga frontiera meridionale, sostituimmo, pensando alla difesa, il concentramento delle forze su due punti, Bologna e Terni; e a questo concentramento anteriore fu dovuta in parte la possibilità della prolungata difesa di Roma.
Alla cifra di 16,000 uomini sostituimmo, pensando all'offesa, quella di 45,000, cifra facile a raggiungersi colla coscrizione nello Stato e cogli elementi che potevamo agevolmente raccogliere dall'altre parti d'Italia.
Il Piemonte intanto, in parte per timore di vedere l'iniziativa nazionale trapassare dalla monarchia alla bandiera repubblicana, in parte per altre cagioni, intimava nuovamente la guerra all'Austria. La repubblica romana non era stata riconosciuta dal Piemonte. E nondimeno, bastò la lettura del bando che annunziava imminente le ostilità perchè, affogata nell'entusiasmo ogni considerazione, la Repubblica decretasse spontanea, senza alcun patto, l'invio di 10,000 uomini, capo il tenente colonnello Mezzacapo: spontanea, dico, perchè Lorenzo Valerio non giunse, con missione semi-officiale d'intendersi in Roma se non dopo il decreto. Il 21 marzo, i soldati di Roma partivano. Se non che quattro giorni bastarono a quella misera guerra regia, iniziata il 20, e conchiusa, colla colpa e colla vergogna di Novara, il 24. La monarchia vedeva poco dopo Roma assalita dallo straniero, senza neanche una parola di protesta a suo pro.
Il 29 marzo fui scelto Triumviro. Aurelio Saffi e Armellini mi furono colleghi.
Il 17 aprile confermammo con decreto le proposte anteriori sulla cifra e sull'ordinamento dell'esercito. Avevamo già sui primi di quel mese tentato ogni modo per avere in Roma la Divisione lombarda, forte di 6 a 7000 uomini: ma il governo sardo, ajutato dal general Fanti, deluse, ingannando, il disegno57.
Il 25 aprile i Francesi erano in Civitavecchia. Non avevamo avuto un mese di tempo per ordinare le forze, assestar la finanza, rimediare al difetto d'artiglierie, provvederci d'armi.
Con quei che scrissero essere stato errore il resistere non è da discutersi. Ma alle molte evidenti cagioni che ci comandavano di combattere, un'altra se ne aggiungeva per me intimamente connessa col fine di tutta la mia vita, la fondazione dell'unità nazionale. In Roma era il centro naturale di quell'unità; e verso quel centro bisognava attirare gli sguardi e la riverenza degli Italiani. Or gli Italiani avevano quasi perduto la religione di Roma: cominciavano a dirla tomba, e parea. Sede d'una forma di credenza omai spenta e sorretta dall'ipocrisia e dalla persecuzione, abitata da una borghesia vivente in parte sulle pompe del culto e sulle corruttele dell'alto clero e da un popolo virile e nobilmente altero, ma forzatamente ignorante e apparentemente devoto al papa, Roma era guardata con avversione dagli uni, con indifferenza sprezzante dagli altri. Da pochi fatti individuali infuori, nulla rivelava in essa quel fermento di libertà che agitava ogni tanto le Romagne e le Marche. Bisognava redimerla e ricollocarla in alto perchè gli Italiani si riavvezzassero a guardare in essa siccome in tempio della patria comune: bisognava che tutti intendessero la potenza d'immortalità fremente sotto le rovine di due epoche mondiali. E io sentiva quella potenza, quel palpito della immensa eterna vita di Roma al di là della superficie artificiale che, a guisa di lenzuolo di morte, preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente. Io avea fede in essa. Ricordo che quando si trattava di decidere se dovessimo difenderci o no, i capi della guardia nazionale, convocati e interrogati da me, dichiararono, deplorando, pressochè tutti che la guardia non avrebbe in alcun caso ajutato la difesa. A me pareva d'intendere il popolo più assai di loro: e ordinai che i battaglioni sfilassero il mattino seguente davanti al palazzo dell'Assemblea e si ponesse da un oratore la proposta ai militi. Il grido universale di guerra che s'inalzò dalle loro file sommerse irrevocabilmente ogni trepida dubbiezza di capi.
La difesa fu dunque decisa dall'Assemblea e dal popolo di Roma per generoso sentire e riverenza all'onore d'Italia, da me per conseguenza logica d'un disegno immedesimato da lungo con me. Strategicamente, la guerra avrebbe dovuto condursi fuori di Roma, sul fianco della linea d'operazione nemica. Ma la vittoria era, se non ci venivano ajuti d'altrove, dentro e fuori impossibile. Condannati a perire, dovevamo, pensando al futuro, proferire il nostro morituri te salutant all'Italia da Roma.
Pur nondimeno e anche antivedendo inevitabile la sconfitta, noi non potevamo, senza tradire il mandato, trascurare l'unica via di salute possibile; ed era un mutamento nelle cose di Francia. L'invasione era concetto di Luigi Napoleone che, meditando tirannide, volea da un lato avvezzare la soldatesca a combattere la repubblica altrove, dall'altro prepararsi il suffragio del clero cattolico e di quella parte di popolo francese che in provincia segnatamente ne segue le ispirazioni. L'Assemblea di Francia, incerta e divisa com'era, dissentiva da ogni proposito deliberatamente avverso a noi: aveva approvato l'intervento, ingannata sulle nostre condizioni e sul fine segreto della spedizione. I complici di Luigi Napoleone affermavano imminente la invasione austro-napoletana a pro della dominazione assoluta papale e dichiaravano la popolazione dello Stato nemica al sistema repubblicano e soltanto compressa dal terrore esercitato da pochi audaci: Roma quindi impotente a resistere e preda in brevi giorni dell'Austria se non s'inframmettevano l'armi di Francia. Provare alla Francia l'assenza in Roma di ogni terrore, l'unanime volere delle nostre popolazioni, la possibilità per noi di resistere a un intervento austriaco o napoletano; costringere Luigi Napoleone a smascherare il suo vero disegno; combattere, separando nella serie dei nostri atti, la nazione dal Presidente di Francia: vincere tanto da testimoniare della nostra determinazione, ma senza abusare della vittoria, senza irritare l'orgoglio e le subite passioni francesi; somministrare per tal modo una opportunità ai membri della Montagna, ai nostri amici nell'Assemblea, d'iniziare la resistenza a Luigi Napoleone: era questo il debito nostro e non lo tradimmo. Quindi gli ordini mandati a Civitavecchia e traditi dall'altrui arrendevolezza alle menzognere promesse del generale Oudinot, di resistere a ogni patto, non fosse che per ore, pur tanto da provare il desiderio unanime di resistere, l'energia delle nostre dichiarazioni agli inviati del campo francese, i preparativi solleciti e la battaglia - e a un tempo la richiesta ai municipî, accolta da tutti, perchè esprimessero nuovamente adesione al governo repubblicano - il rinvio dei prigionieri francesi fatti nella giornata del 30 aprile - l'ordine spedito in quel giorno a Garibaldi di desistere dall'inseguire i Francesi in rotta - e generalmente l'attitudine assunta e mantenuta da noi durante l'assedio e ch'io compendiava dicendo che Roma era non in condizione di guerra con la Francia, ma di pura difesa. Quell'ordine a Garibaldi mi fu apposto come errore, da chi non guardò che al fatto isolato. Ma che importava, di fronte al concetto accennato, qualche centinajo più di Francesi morti o prigioni?
E quel concetto - gli uomini dagli appunti non dovrebbero dimenticarlo - se Luigi Napoleone non violava ogni tradizione di lealtà affidando all'inviato Lesseps poteri illimitati pacifici e annullandoli a un tempo con istruzioni segrete trasmesse al generale Oudinot, riesciva. Il 7 maggio, commossa dall'opera nostra e dal nostro linguaggio, l'Assemblea di Francia invitava solennemente il potere esecutivo ad adottare senza indugio i provvedimenti necessarî a far sì che la spedizione di Roma non fosse più oltre sviata dal vero suo fine; e mandava incaricato di statuire gli accordi con noi il Lesseps. Sul finire di maggio, si firmava tra noi e il plenipotenziario di Francia un patto che dichiarava: - L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni dello Stato romano: esse riguardano l'esercito francese come un esercito amico che viene a correre alla difesa del loro territorio. - D'accordo col governo romano e senza menomamente intromettersi nell'amministrazione del paese, l'esercito francese prenderà gli alloggiamenti esteriori convenienti, tanto per la difesa del paese come per la salubrità, alle sue truppe. Così la guerra era convertita in alleanza: l'esercito francese diventava nostra riserva contro ogni altro invasore straniero: Roma, com'io aveva detto, rimaneva sacra e inviolabile ad amici e nemici: la diplomazia repubblicana otteneva una vittoria splendida come quella dell'armi repubblicane in aprile: noi eravamo liberi di correre ad affrontare gli Austriaci e li avremmo disfatti.
Ognun sa come Oudinot rifiutasse d'assentire al trattato e disdicesse a un tratto la tregua. Egli aveva da Luigi Napoleone istruzioni segrete direttamente contrarie a quelle da lui date a Lesseps.
Il 13 giugno, i nostri amici nell'Assemblea francese tentarono, capitanati da Ledru Rollin, sommovere Parigi contro l'infamia commessa: ma non riuscirono. Il loro tentativo era un appello all'insurrezione senza i preparativi necessarî a iniziarla.
Taluno m'appose d'aver continuato la difesa anche dopo le infauste nuove del 13 giugno. Avrei creduto tradire il mandato, l'onore del paese, la bandiera repubblicana e me stesso, s'io avessi fatto altrimenti. Dovevamo noi lacerare la pagina gloriosa che Roma scriveva, dichiarando all'Europa che se avevamo accettato la guerra, non l'avevamo fatto per compire, a ogni prezzo, un dovere, ma perchè speravamo in una insurrezione francese?
Noi dovevamo resistere fino all'estremo. Quando si trattava nell'Assemblea di decidere tra l'accogliere i Francesi che movevano su Roma o combatterli, io m'astenni, per non esercitare influenza sopra una decisione che doveva essere espressione collettiva e spontanea, dall'assistere alla seduta: il Triumvirato non v'era rappresentato che da Saffi e Armellini, titubanti ambidue. Ma raccolto da un popolo e da un popolo repubblicano, in nome del Dritto, il guanto nemico, il duello non dovrebbe cessare che coll'esaurimento assoluto o colla vittoria. Le monarchie possono capitolare; le repubbliche muojono: le prime rappresentano interessi dinastici; possono quindi ajutarsi di concessioni e occorrendo di codardie per salvarli: le seconde rappresentano una fede e devono testimoniarne fino al martirio. Per questo noi avevamo fatto anzi tratto gremir Roma di barricate: alla guerra delle mura doveva sottentrare la guerra delle strade; e in Roma sarebbe stata tremenda. Quella guerra fu resa impossibile dai Francesi i quali s'appagavano visibilmente di padroneggiare la città dalle alture occupate e ridurla, strema com'era di vettovaglie, ad arrendersi. Ma l'idea di prolungare la lotta finchè ci rimanesse un uomo e un fucile era siffattamente elementare nell'animo mio che, disperata ogni difesa in Roma, proposi un altro partito: escire dalla città: escirne col piccolo esercito e coi popolani armati che volessero seguirci: escirne noi Triumviri accompagnati dai ministeri e se non da tutta, da una numerosa delegazione dell'Assemblea, tanto da dare alla mosse dell'esercito autorità legale e prestigio sulle popolazioni. Allontanarci rapidamente da Roma, approvvigionarci sull'Aretino, gettarci poi tra Bologna e Ancona, sulla linea di operazione austriaca, e cercare con una vittoria di risollevar le Romagne; era quello il disegno mio. I Francesi avrebbero così occupato Roma senza vincere la repubblica e sotto una perenne minaccia; nè avrebbero potuto seguirci sul nuovo terreno se non combattendo a pro dell'Austria e smascherando l'infamia dell'invasione davanti alla loro patria e all'Europa. E fu il disegno tentato da Garibaldi, ma con poche migliaja raccozzate da corpi diversi, senza artiglieria, senza appoggio d'autorità governativa e in condizioni che vietavano ogni possibilità di successo.
Il 30 giugno, padroni i Francesi dei bastioni e di tutte le alture, convocai i capi militari a consiglio. Garibaldi rispose non potere allontanarsi un solo istante dalle difese e ci recammo quindi ov'egli era. Là dichiarai che l'ora suprema per Roma essendo giunta e urgendo decidere qual partito dovesse scegliersi, il governo desiderava, prima di comunicare coll'Assemblea, raccogliere i consigli dei capi dell'armi. Dissi com'erano innanzi a noi tre partiti: capitolare - resistere finchè la città fosse rovina - escire da Roma, trasportando altrove la guerra: il primo essere indegno della repubblica: il secondo inutile dacchè l'attitudine dei Francesi annunziava che non scenderebbero a battaglia di barricate e di popolo, ma aspetterebbero, tormentandoci dall'alto colle bombe e le artiglierie, che ci vincesse la carestia: il terzo essere quello ch'io, come individuo, proponeva. Furono diversi i pareri. Avezzana, i capi romani e altri votarono, a maggioranza di due, perchè rimanessimo, ostinati a difenderci, in Roma: Roselli, Pisacane, Garibaldi con altri parecchi accettarono la mia proposta: non uno - e lo ricordo a onore del piccolo esercito repubblicano - pose il nome nella colonna in capo alla quale io aveva scritto: capitolazione. Disciolsi il Consiglio e m'affrettai all'Assemblea.
Ad essa, raccolta a comitato segreto senza intervento di popolo, dissi ciò ch'io aveva detto al Consiglio di guerra: e proposi il partito che solo mi pareva degno di Roma e di noi. L'Assemblea non volle accettarlo. Non narrerò i particolari, a me tristissimi, della seduta. Ma trovai avversi al partito i migliori amici ch'io m'avessi tra i membri. Taluni mi rimproverarono poco dopo, e a ragione, di non avere anzi tratto preparato gli animi alla decisione; se non che la singolare, tranquilla e veramente romana energia mostrata fino a quel momento dall'Assemblea m'aveva illuso a credere che la proposta sarebbe stata accolta con plauso.
Prevalse il partito proposto da Enrico Cernuschi, e fu decretato che Roma cessasse dalle difese.
Io aveva lasciato l'Assemblea prima che il voto sancisse quella proposta. Il decreto fu trasmesso al Triumvirato coll'invito a noi di comunicarlo al generale francese e trattar con lui pei provvedimenti necessarî a tutelar l'ordine e le persone nella città conquistata. Ricusai di farlo: scrissi all'Assemblea ch'io era stato eletto Triumviro per difendere, non per sotterrar la repubblica, e accompagnai quelle parole colla mia dimissione. I miei due colleghi s'unirono a me.
Il 3 luglio, io deposi nelle mani dei segretari dell'Assemblea la seguente protesta:
«Voi avete, coi vostri decreti del 30 giugno e del 2 luglio, confermato involontariamente, voi incaricati dal popolo di tutelarla e di difenderla sino agli estremi, il sagrificio della repubblica; ed io sento, con un immenso dolore sull'anima, la necessità di dichiararvelo, perchè non rimanga taccia a me stesso davanti alla mia coscienza e per documento ai contemporanei che non tutti disperavano, quando voi decretaste della salute della patria e della potenza della nostra bandiera.
«Voi avevate da Dio e dal Popolo il doppio mandato di resistere, finchè avreste forze, alla prepotenza straniera e di santificare il principio incarnato visibilmente nell'Assemblea, provando al mondo che non è patto possibile tra il giusto e l'ingiusto, fra il diritto eterno e la forza brutale, e che le monarchie, fondate sull'egoismo delle cupidigie, possono e devono cedere o capitolare, ma le repubbliche, fondate sul dovere e sulle credenze, non cedono, non capitolano: muojono protestando.
«Voi avevate ancora forza nei generosi della milizia che pugnavano mentre voi stendevate il decreto fatale; nel popolo che fremeva battaglia; nelle barricate cittadine; nell'influenza esercitata dal vostro consesso sulle provincie. Nè popolo nè milizia vi domandavano di cedere: la città era tuttavia irta di barricate ordinate da voi come solenne promessa che Roma si sarebbe, esauriti i modi della milizia, popolarmente difesa. E nondimeno voi decretaste impossibile la difesa e la rendeste tale pronunciando l'esosa parola. Voi dichiaraste che l'Assemblea stava al suo posto. Ma il posto dell'Assemblea era l'ultimo angolo di terreno italiano dove potesse tenersi eretta, anche un giorno di più, la bandiera della repubblica; e voi, confinando l'esecuzione del mandato per entro le mura del Campidoglio, uccidevate sotto la morta lettera lo spirito del decreto.
«Voi sapevate, per insegnamento di storia e di logica, che nessuna Assemblea può durar libera un momento solo colle bajonette nemiche alle porte; e che la repubblica cadrebbe il giorno in cui un soldato francese porrebbe piede dentro le mura di Roma. Voi dunque, decretando che l'Assemblea repubblicana starebbe in Roma, decretavate a un tempo e inevitabilmente la morte della repubblica e dell'Assemblea. E decretando che l'esercito repubblicano escirebbe di Roma senza voi, senza il governo, senza la rappresentanza legale della repubblica, decretavate, senza avvedervene, la prima manifestazione di dissenso tra quei ch'erano stati fortissimi nell'unione e, Dio nol voglia, lo scioglimento d'un nucleo sul quale riposavano tutte le più care speranze d'Italia.
«Voi dovevate decretare l'impossibilità del contatto, fuorchè di guerra, fra gli uomini chiamati a rappresentar la repubblica e gli uomini venuti a distruggerla - ricordarvi che Roma era, non una città, ma l'Italia, il simbolo del pensiero italiano, e grande appunto perchè, mentre tutti cadevano disperando, aveva detto: io non dispero, ma sorgo - ricordarvi che Roma non era in Roma, ma dappertutto dove anime romane, santificate dal pensiero italiano, erano raccolte a combattere e soffrire per l'onore d'Italia - ricordarvi che terra italiana si stendeva d'intorno a voi e trasportare governo, Assemblea, ogni elemento rappresentante il pensiero e i buoni armati del popolo in seno all'esercito, portando di terreno in terreno, finchè tutti vi fossero chiusi, il palladio della fede e della missione di Roma. A confortarvi della speranza che il fatto frutterebbe, sorgevano ricordi antichi e il ricordo moderno dell'Ungheria. Ma dov'anche nessun esempio vi confortasse, voi, fatti apostoli della terza vita d'Italia, dovevate essere primi a dare spettacolo di nuova indomita costanza all'Europa. Queste cose vi furono dette: non le accettaste; e io, rappresentante del popolo, protesto solennemente in faccia a voi, al popolo, a Dio contro il rifiuto e le sue conseguenze immediate.
«Roma è destinata dalla provvidenza a compiere grandi cose per la salute dell'Italia e del mondo. La difesa di Roma ha iniziato queste grandi cose e scritto la prima linea d'un immenso poema che si compirà checchè avvenga. La storia terrà registro della iniziativa e della parte che voi tutti, generosi d'intenzioni, v'aveste. Ma dirà pure - e gemo, per affetto violato a un tratto, scrivendo - che nei supremi momenti nei quali voi dovevate ingigantirvi maggiori dei fati, falliste alla vostra missione e tradiste, non volendo, il concetto italiano di Roma.
«Possa l'avvenire trovarci uniti a riscattar questa colpa!»
Entrati i Francesi e rientrata con essi la coorte di preti nemici che s'era accentrata cospiratrice in Gaeta, io rimasi una settimana pubblicamente in Roma. Le ciarle delle gazzette francesi e cattoliche sul terrore esercitato da me in Roma durante l'assedio m'invogliavano di provare a tutti la falsità dell'accusa, offrendomi vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi e ottenerne guiderdone dalla setta dominatrice. Poi, non mi dava il cuore di staccarmi da Roma. Vidi, col senso di chi assiste alle esequie della persona più cara, i membri dell'Assemblea, del governo, dei ministeri, avviarsi tutti all'esilio; invasi gli ospedali dove giacevano, più dolenti del fato della città che non del proprio, i nostri feriti; le fresche sepolture dei nostri prodi calpestate, profanate dal piede del conquistatore straniero. Io errava al cader del sole, con Scipione Pistrucci e Gustavo Modena, ambi ora morti, per le vie di Roma quando appunto i Francesi movendo lentamente, colle bajonette in testa; fra un popolo cupo, irritato, intimavano lo sgombro delle contrade, fremente di sdegno e ribollente di pensieri di lotta. Parvemi che gli occupatori si fossero collocati in modo sì incauto da prestare opportunità a una serie di sorprese e m'affrettai a chiedere al generale Roselli e a' suoi dello stato maggiore se, dove un leva leva di popolo capitanato da me, che non aveva vincolo di patti con anima viva, avesse luogo, ajuterebbero, ed assentirono: ma era tardi: i capi-popolo erano in fuga e ogni tentativo fallì. Suggerii al Roselli di chiedere al generale Oudinot, sotto colore d'evitare collisioni probabili, la distribuzione del piccolo esercito romano in accantonamenti fuori della città: là, i nostri militi si sarebbero riavuti dall'esaurimento della lunga lotta: avremmo potuto riequipaggiarli: io mi sarei tenuto celato e prossimo ad essi; poi, forse, avremmo potuto cogliere un momento propizio per gittarci a sorpresa sul nemico di Roma. Ma quel disegno, sulle prime accettato, tornò pure inutile: la partenza in armi di Garibaldi insospettì l'Oudinot: fu intimato che l'artiglieria romana rimanesse in città: i nostri militi, convinti che il nemico era capace d'ogni iniquo procedere, s'insospettirono alla volta loro che si volesse collocarli senza mezzi di difesa tra i Francesi e gli Austriaci e farne macello; il piccolo esercito si smembrò e poco dopo fu sciolto. Pazzi e rovinosi consigli; ma in quei giorni tutte le potenze dell'anima mia non vivevano che d'una idea: ribellione a ogni patto contro la forza brutale che, in nome d'una repubblica, annientava, non provocata, un'altra repubblica.
Perchè preti e Francesi non si giovassero allora dell'occasione ch'io offriva per avermi morto o prigione, m'è tuttavia arcano. Ricordo come la povera Margherita Fuller e la cara venerata amica mia Giulia Modena mi supplicassero di ritrarmi e serbarmi, com'esse dicevano, a tempi migliori. Ma s'io avessi potuto antivedere i nuovi disinganni e le ingratitudini e il fallirmi d'antichi amici che m'aspettavano e non avessi pensato che al mio individuo, avrei detto loro: lasciatemi, se mi amate, morire con Roma.
Comunque, partii. Partii senza passaporto e mi recai in Civitavecchia. Di là mandai a chiederne uno all'ambasciata americana, e l'ebbi, ma non contrassegnato, come si richiedea per l'escita, dalle autorità francesi, inutile quindi. Stava in Civitavecchia un vaporuccio, il Corriere Côrso, presto a salpare. Il capitano, parmi un De-Cristofori; côrso egli pure, m'era ignoto: m'avventurai nondimeno a chiedergli se volesse, a suo rischio, accogliermi senza carte, ed ebbi inaspettato assenso da lui. M'imbarcai. Il vapore moveva verso Marsiglia, toccando Livorno, allora tenuta dagli Austriaci. Trovai sul bordo, ingrato spettacolo, una deputazione di Romani tra gli avversi a noi che s'avviava a quest'ultimo porto per risalparne e recarsi a implorare Pio IX in Gaeta. Non li guardai. Ma essi mi conoscevano e il capitano temeva ch'essi, scendendo in Livorno, denunziassero la mia presenza agli Austriaci. Nol fecero e giunsi in Marsiglia. Non importa ai lettori sapere com'io, sprovveduto di passaporto, v'entrassi e come mi venisse fatto di recarmi, attraverso le terre del nemico, in Ginevra. Ma ho notato queste cose di me, perchè gli storici e i gazzettieri di parte moderata, menzogneri per calcolo, ciarlarono allora e riciarlerebbero, occorrendo, oggi, dei miei tre passaporti, degli appoggi inglesi ch'io m'era procacciati anzi tratto e della prudenza colla quale io provvedeva alla mia salvezza.
Pur, nè calunnia sistematica di moderati nè altro può cancellare l'unico fatto che importi; ed è la difesa. La pagina gloriosa, iniziatrice, profetica, che Roma scrisse in quei due mesi di guerra rimarrà documento ai rinsaviti dagli errori dell'oggi di ciò che possono un principio e un nucleo d'uomini fermi in incarnarlo logicamente, intrepidamente nei fatti. Roma era città di vastissima cinta, non munita, pressochè aperta sulla sinistra del Tevere, ad ogni assalto nemico. Difettavamo d'artiglierie; eravamo sprovveduti di mortai: non preparati a guerra: mancanti, per fatto del vecchio governo, del nervo d'ogni resistenza, danaro; mancanti a segno che la notte della nostra elezione, raccolti noi Triumviri ad esaminare qual fosse la condizione finanziaria e guerresca della repubblica, ponemmo a voti se non dovessimo rassegnare la mattina dopo l'ufficio. La popolazione era, per lunghi secoli di schiavitù corruttrice, ignara, intorpidita, incerta, sospettosa d'ogni cosa e d'ogni uomo; e noi eravamo nuovi, ignoti i più, senza prestigio di nascita, di ricchezza, di tradizioni. Individui ch'erano stati a governo e rappresentavano l'elemento moderato costituzionale diffondevano, duce Mamiani, presagi sinistri sugli effetti della forma adottata e non s'arretravano dal cospirare col nemico straniero. Gaeta era fucina di raggiri, di turbamenti e congiure: di ribellione aperta sull'Ascolano. Fummo assaliti subitamente, prima d'ogni sospetto! assaliti da chi era potente in Italia per antichi affetti, tenuto per invincibile in guerra e ajutato dal prestigio d'una bandiera repubblicana come la nostra: poi dal re di Napoli, dagli Austriaci e dalla Spagna. E nondimeno fugammo, colle nostre nuove milizie, le truppe del re di Napoli, combattemmo l'Austria, resistemmo per due mesi all'armi francesi. Nella giornata del 30 aprile i nostri giovani volontari videro in rotta i vecchi soldati d'Oudinot; in quelle del 3 e del 30 giugno pugnarono in modo da meritare l'ammirazione del nemico. Il popolo, rifatto grande da un principio, partecipava alla difesa, affrontava con calma romana le privazioni, scherzava sotto le bombe. Popolo, Assemblea, Triumvirato ed esercito furono una cosa sola, s'afforzarono a vicenda d'illimitata fiducia. Governammo senza prigioni, senza processi: io potei mandare a dire a Mamiani, quando fui avvertito de' suoi colloqui notturni con Lesseps, che seguisse pure, non temesse del governo, badasse soltanto a sottrarre la conoscenza del fatto al popolo: sprezzammo le piccole cospirazioni e vedemmo il cavaliere Campana, convinto dopo lungo studio dell'impotenza d'ogni tentativo di fronte all'accordo dell'immensa maggioranza con noi, venire egli stesso spontaneo a denunziare i suoi complici. Queste cose furono dovute all'istituzione repubblicana, ai forti istinti del popolo ridesti dall'esistenza d'un governo suo, alla formola Dio e il popolo che diede subitamente a ciascuno coscienza del proprio dovere e del proprio diritto, alla nostra fiducia nelle moltitudini, alla fiducia delle moltitudini in noi. La monarchia non aveva saputo, con 45,000 soldati e col Piemonte a riserva, trovare in Milano altra via di salute che il tradimento. E mentr'io scrivo, la monarchia, con mezzo milione d'armati tra soldati regolari, volontari e guardie nazionali mobilizzabili - con un vasto materiale di guerra - con mezzi finanziari considerevoli - con ventidue milioni d'Italiani invocanti Venezia - esita ad assalire, sul terreno italiano, le forze austriache.
Viva la repubblica! Il sentimento repubblicano poteva solo ispirare tanto valore agli Italiani. Sono parole contenute nella relazione scritta a nove ore di sera del combattimento del 3 giugno da Luciano Manara.
Non so quanto i Romani ricordino oggi il 1849. Ma se le madri romane hanno, come dovevano, insegnato ai figli la riverenza ai martiri repubblicani, in quell'anno, della loro città - se additarono loro sovente il luogo ove cadde ferito a morte il giovine poeta del popolo, Goffredo Mameli - il luogo ove Masina, già indebolito da un colpo e con diciannove seguaci, avventò il cavallo contro una posizione difesa da 300 francesi e moriva - il luogo ove perivano senza ritrarsi, combattendo venti contro cento, Daverio e Ramorino - Villa Corsini - Villa Valentini - il Vascello - Villa Panfili - le pietre dei dintorni di Roma santificate quasi ciascuna dal sangue d'un caduto col sorriso sul volto, col grido repubblicano sul labbro - Roma non sarà, sorgendo, profanata - o nol sarà lungamente - dalla monarchia (1864).
La condotta di parte nostra, determinata dall'iniziativa altrui e da fatti che si svolsero indipendenti dalla nostra fede, risulterà chiara a chi vorrà esaminarla spassionatamente: noi ci limitammo a trarre il migliore partito possibile dagli eventi, perchè il paese se ne giovasse a tener sospesa sul capo agli uomini, che a noi sottentravano, la spada di Damocle della Rivoluzione; perch'essi inoltrassero a forza sulla via, non foss'altro dell'Unità Nazionale. Ma, in quel periodo di tempo tentammo una iniziativa, della quale giova parlare perchè generò, a mio credere, conseguenze importanti.
La Lombardia era, per colpe monarchiche, nuovamente dominio dell'Austria; ma aveva, con fatti, provato d'essere capace d'emanciparsi per virtù di popolo. Venezia era caduta, ma dopo lunghe eroiche prove e come chi vince. Roma era dei Francesi e del Papa, ma l'esito morale della battaglia era nostro: redenta davanti all'Italia, la sacra Città era per la terza volta centro e perno delle aspirazioni della Nazione. S'anche le anime nostre fossero state capaci di sconforto, non ne avevamo cagione.
Ci raccogliemmo, dopo la caduta di Roma, in Losanna, Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Mattia Montecchi ed io. Altri profughi ci raggiunsero, collocandosi nei paesetti fra Losanna e Ginevra. Imprendemmo senza indugio - settembre 1849 - la pubblicazione dell'Italia del Popolo, collezione di scritti mensile, il cui programma era, com'io diceva, nella parola escita il 9 febbrajo da Roma, madre comune e centro d'Unità a tutte le popolazioni d'Italia e nella missione che all'Italia assegnano la tradizione e la coscienza popolare. Gli scritti ch'io v'inserii sono, da pochi in fuori, contenuti nel Vol. VII delle Opere. Ma i lavori che v'inserirono Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Filippo De Boni e altri, meriterebbero d'essere raccolti in un volume e gioverebbero perchè combattono vecchi errori, rinnovati in oggi e fatali. Ne pubblicammo sedici fascicoli sino al febbrajo 1851. Ma nel maggio 1850 l'Assemblea di Francia era chiamata a discutere una legge restrittiva del suffragio, che violava apertamente l'articolo 3.° della Costituzione e spianava la via alle mire usurpatrici di Luigi Napoleone. Pensai giunta l'occasione d'un moto decisivo in Parigi e, avventurandomi, mi vi recai. E questa mia assenza nocque naturalmente all'Italia del Popolo, ch'io dirigeva; e comunque dall'Inghilterra ov'io, dopo il soggiorno d'un mese incirca in Parigi, mi condussi, cercassi continuarle vita, non vi fu modo. Il Buonamici, editore, datosi al tristo, fuggì abbandonando moglie e negozio, in Australia. Il piccolo nucleo si sciolse. Saffi, Montecchi, Agostini mi raggiunsero in Londra.
In Parigi ebbi a confermarmi nelle idee, nudrite ed espresse fino dal 1835, che la Francia era per molti anni perduta e che l'iniziativa del moto Europeo era da trovarsi altrove. Vidi Lamennais, Flotte, Giulio Favre e quanti mi parevano all'uopo, fino al principe Napoleone Bonaparte, antico cospiratore con me finchè gli Orléans reggevano. Non v'era speranza. Gli animi erano travolti da gare di parte, da stolte paure, da rancori personali, e smarrivano il segno. M'affannai inutilmente a dimostrare a quanti vennero a segreto convegno con me, che il vero unico pericoloso nemico della Repubblica era il Presidente, e che importava anzi tutto togliergli forza di compier disegni, evidenti fin d'allora per me. La borghesia, impaurita dei pazzi sistemi che assalivano la proprietà, tremava d'un socialismo inverificabile e minaccioso soltanto a parole. I repubblicani avventati, o come li dicevano rossi, non vedevano pericoli alla repubblica fuorchè dai bianchi, dai monarchici dell'Assemblea, capaci di sviare e profanare l'Istituzione, incapaci, per difetto d'unità di consigli e d'audacia, d'abolirla. Tutti sprezzavano, errore dei più fatali, il nemico e mi dicevano, quand'io vaticinava il colpo di Stato, che se mai tentasse, il Presidente sarebbe quetamente condotto a Charenton, ospizio degli impazziti. Lasciai Parigi col presentimento della catastrofe.
Ma l'Italia? Era essa condannata a seguire, quasi satellite, i fati di Francia? Non poteva un popolo di ventisei milioni, ridesto a coscienza di libera vita dalle giornate di Milano e dalle eroiche difese di Venezia e Roma, raccogliere l'iniziativa tradita altrove? Padrone del proprio suolo e del proprio avvenire nel 1848, quel popolo non era caduto se non perchè aveva ceduto la direzione delle proprie forze e del moto a mani d'inetti e di tristi, a principi e cortigiani. Bisognava insegnargli che non esistono capi per diritto di nascita o di ricchezza: che soli capi legittimi d'una rivoluzione sono gli uomini che hanno più combattuto per essa: che un popolo non deve mai rinunziare al proprio diritto d'iniziativa, nè confidar ciecamente, nè allontanarsi dall'arena, nè dire a sè stesso: altri farà in vece mia. E per questo, il miglior partito era quello di condurre il popolo primo sul campo, tanto ch'esso imparasse in un tratto il proprio debito e la propria forza, e gli altri imparassero a rispettarlo e temerlo.
Questi pensieri mi diressero nel nuovo stadio d'agitazione che da Londra iniziai.
In Roma, io aveva lasciato, prima d'allontanarmene, le norme necessarie all'impianto d'una Associazione Nazionale segreta, che si ordinava rapidamente. In Londra fondai un Comitato Europeo e un Comitato Nazionale Italiano.
L'impianto e gli Atti del Comitato Nazionale trovarono favorevole accoglimento in Italia. Gli animi si riconfortarono a speranza e lavoro. Adesioni e promesse vennero pressochè unanimi dagli uomini che, nei fatti di Venezia e di Roma, avevano conquistato nome e influenza. Comunque, per diverse cagioni, il risultato pratico dell'Imprestito dovesse, in ultima analisi, come dirò, riuscire meschino, le nostre cedole erano su quei primi tempi ricercatissime. L'ordinamento segreto si estendeva rapidamente. Nella Lombardia, in Toscana, in Roma, la stampa clandestina s'iniziava operosa, ardita, irreperibile. Un Comitato Siciliano si costituiva fin dalla prima metà del 1851 nell'Isola, e un altro Comitato d'esuli Siciliani in Parigi stava anello intermedio fra quello e noi. Tra il 1850 e il 1851 si fondavano in Piemonte e nella Liguria le prime Associazioni Operaie, paghe del modesto fine del mutuo soccorso, ma pronte a cogliere ogni opportunità di dichiarare la loro devozione alla Patria. In Genova, dove, giovandosi della semi-libertà concessa dallo Statuto, il popolo s'accalcava a pubbliche manifestazioni, anche l'elemento militare s'affratellava: un sergente di bersaglieri prorompeva, in un banchetto d'oltre a duecento individui, in quel grido che dovrebbe suonare per tutto l'esercito nazionale: anche la truppa è popolo, e Francesco Quetand, della Brigata Savoja, parlando per tutti i suoi commilitoni, osava proferire il mio nome e quello di Garibaldi, e conchiudeva: le nostre armi non si tingeranno mai del vostro sangue ch'è nostro sangue, perchè noi non abbiamo che una madre58. E in Roma, l'Associazione alla quale accennai s'era, in un anno, fatta potente di tanto, che dichiarava a mezzo il 1851 compito il lavoro preparatorio e scioglieva, entrando in un secondo periodo, il suo Comitato, per istituire una Direzione Centrale, incaricata di studiare i modi e le opportunità dell'azione. A quella Direzione, affidata a un uomo singolare per intelletto, per fede, per cuore e per illimitato spirito di sagrificio, era mia mente d'accentrare a poco a poco tutti gli elementi nostri in Italia.
E da tutto quel lavoro sorgeva spontanea una parola: Repubblica. La stampa clandestina milanese saettava continuamente i tentativi dei monarchici lombardi ricoverati in Piemonte. Il Comitato Siciliano scriveva in fronte ai suoi Atti la formula: Dio e il Popolo. Repubblicano si chiariva il Comitato dei Siciliani in Parigi. Repubblicana era la stampa segreta toscana. Di Roma non occorre ch'io dica. Ma in Genova, quando l'11 giugno 1850, in un pubblico convito, l'avv. Brofferio avventurava parole, che a torto o ragione furono interpretate come favorevoli alla federazione e alla monarchia, un grido unanime gli rispose: Viva Roma, capitale della Repubblica Italiana! Noi non avevamo provocato l'espressione di quella tendenza; ma dovevamo raccoglierla e movere un passo innanzi. Non potevamo pretendere di guidare con bandiera neutra un lavoro generale, che inalberava la bandiera repubblicana.
Come membro del Comitato Europeo, apposi, nell'agosto del 1851, il mio nome a un suo Atto, che s'indirizzava agli Italiani e additava loro come sola via di salute l'istituzione repubblicana. Per quel fatto, Giuseppe Sirtori c'intimò, con parole dissennatamente irritate, di protestare, come Comitato Nazionale, contro quell'Atto o d'accettare la di lui dimissione. Accettammo la dimissione, dichiarando «che il Manifesto del Comitato Europeo non racchiudeva contradizione alcuna col nostro e che il consiglio dato agli Italiani d'attenersi, pel moto futuro, al simbolo repubblicano, era conseguenza logica del principio di Sovranità Nazionale da noi sancito.»
Di mezzo a quel fervore d'apostolato, io guardavo sempre all'Italia e alla possibilità di ridestarla all'azione. E l'opportunità non tardò a rivelarsi.
S'era formata, spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852, in Milano, una Fratellanza segreta di popolani, repubblicana di fede e con animo deliberato di preparare l'insurrezione e compirla. Non s'era rivolta per ajuti e consigli ad abbienti o letterati; non aveva cercato contatto con noi: aveva prima voluto esser forte. Uomini di popolo erano suoi capi: influente fra tutti, un tintore, Assi di nome, assiduo di cure nell'ordinamento e largo in quell'opera d'un po' di fortuna che gli era venuta dal lavoro: lo chiamavano il Ciceruacchio di Milano. La Fratellanza v'era divisa in nuclei contrassegnati dalle lettere dell'alfabeto: abbracciava ogni ramo di lavoro, e con quel senso pratico ch'è facoltà prominente degli operai, s'era giovato del facile accesso ai luoghi più vigilati, per raccogliere quante nozioni di fatto potevano, in un momento dato, agevolare una impresa. E nel silenzio, senza che l'esistenza ne fosse sospettata, non dirò dal nemico, ma dagli uomini appartenenti nell'altre classi al simbolo nazionale, aveva raggiunta la cifra di parecchie migliaja d'affratellati.
Allora soltanto l'Associazione, sentendosi forte e vogliosa di fare, cercò contatto con me. Offriva azione immediata, e chiedeva istruzioni, direzione, ajuti in armi e danaro.
Come sintomo, il fatto che mi si rivelava era di una importanza vitale, e additava innegabile l'incarnazione del lungo nostro apostolato nel popolo.
Come avviamento all'azione, era incerto: pendeva dalla somma di mezzi, richiesta a porre in moto quell'elemento e, più ch'altro, dalla risposta a una questione difficile: sarebbe l'energia del popolo nell'azione eguale alla costanza spiegata nel preparare? Scelsi un uomo militare non noto, prudente, avveduto, d'abitudini atte a cattivarsi la fiducia dei popolani e a studiarli; e lo mandai verificatore in Milano.
Una serie di relazioni che mi venne da lui, confermò tutte le affermazioni degli artigiani milanesi sulle forze e sulla disciplina della Fratellanza. Accolto siccome capo e in contatto continuo coll'Assi e con quanti stavano alla direzione dei nuclei, ei mi giurava che potevano e volevano. Quanto mi adoprai a raccogliere per altre vie raffermava le relazioni dell'inviato.
Non mi dilungherò a spiegare com'io accettassi l'ipotesi dell'azione: ne parlo in uno scritto da trovarsi poco oltre; e del resto, chi ha letto i miei volumi, sa ch'io credeva - e dacchè la nostra Rivoluzione Nazionale non è compita, credo - unica via all'educazione politica del paese l'Azione. L'Italia era per ogni dove solcata di lavori nostri; e dopo i fatti del 1848 io mi sentiva convinto che una sconfitta all'Austria in Milano avrebbe dato moto all'insurrezione lombarda dapprima, poco dopo a quella di tutta Italia. E nondimeno, la decisione del movere non fu mia. Inferociti pei supplizî di Mantova59, gli influenti fra i congiurati, raccolti una notte in numero di sessanta a convegno, decretarono sul finire dell'anno che si moverebbero e m'inviarono dichiarazione solenne che, s'anche il Comitato Nazionale ricusasse assenso ed ajuto, farebbero, anzichè soggiacere a uno a uno alle persecuzioni dell'Austria, in ogni modo e da sè. Vivono tuttavia gli uomini che potrebbero, ov'io non dicessi il vero, smentirmi.
Accennerò soltanto rapidamente - chi mai potrebbe in questi giorni60 diffondersi in particolari su cose passate? - come si preparasse e perchè fallisse l'impresa.
Mancavano all'Associazione le armi; mancava il denaro. Di denaro diedi quanto occorreva sul non molto raccolto dall'Imprestito Nazionale. Ma il contrabbando delle armi era difficilissimo e, scoperto, com'era probabile, avrebbe rivelato il disegno. Riescii ad introdurre in Milano un certo numero di projettili di nuova invenzione che non giovarono, dacchè le barricate, alla difesa delle quali erano destinati, non furono fatte; ma, quanto ai fucili, risposi che le insurrezioni erano avviamento alla guerra, non guerra; che l'armi dovevano e nelle città potevano sempre conquistarsi sul nemico; che a conquistarle bastavano animo deliberato davvero e coltella. Quei buoni popolani intesero, e dissotterrate, non so di dove, da circa cento pistole, arrugginite le più e inservibili, si diedero pel resto lietamente a raccogliere pugnali e temprare e immanicare grossi chiodi da barca, dove i pugnali mancavano.
Non v'è cosa alcuna che, nell'insorgere d'una città, non possa compiersi per sorpresa; soltanto è necessario, perchè le sorprese riescano, che siano tenute gelosamente segrete ai più, tra quelli stessi che devono compirle e siano eseguite a puntino e a scocco d'oriuolo. Fu architettato un numero di sorprese che dovevano dar Milano, senza grave lotta, in mano agli insorti. Le caserme, i corpi di guardia, il fortino, il Castello dovevano alla stessa ora, anzi allo stesso minuto, assalirsi a un tratto, invadersi, quando sprovveduti quasi di difensori, da squadre, apprestate a pochi passi, d'uomini armati d'arme corta e ignari essi medesimi, dai capi infuori, dell'operazione da compiersi, fino al momento in cui sarebbero stati raccolti al convegno. Da quella generale sorpresa dovevano escire a un tempo la disfatta della soldatesca e l'armarsi dei popolani. I luoghi occupati dal nemico erano stati minutamente studiati, nell'interno e negli approcci, dal capo militare preposto all'ordinamento e, sotto la di lui direzione, dai capi chiamati a guidare all'azione le squadre. S'era scelto per l'insurrezione il 6 febbrajo 1853, giorno detto del giovedì grasso, in cui i sollazzi carnevaleschi chiamano in piazza, senza ch'altri sospetti, tutto quanto il popolo di Milano. Alle due pomeridiane incirca, i soldati ricevevano la loro paga e si disperdevano per la città e nelle taverne a bere, giuocare e ballare. Contro i piccoli nuclei rimasti a guardia dei luoghi diversi, il subito assalto avrebbe avuto luogo alle cinque. Le truppe consegnate a quartiere o altri simili indizî avrebber rivelato il nemico essere avvertito e sulle difese; e il moto sarebbe stato quetamente, senza grave sconcerto, senza agitazione visibile, protratto a tempo più opportuno.
I tre punti che più importavano erano il Palazzo ove risiedeva il Comando Generale, il locale della così detta Grande Guardia, e il Castello.
Nel primo, custodito da soli venticinque uomini, si raccoglievano a pranzo, appunto alle cinque pomeridiane, Governatore, Generali, uffiziali componenti lo Stato Maggiore e altri; la sorpresa, comparativamente facile, di quel palazzo, bastava quindi a interromper ogni unità d'ordini e cacciar l'anarchia nella difesa. Cento e più risoluti popolani dovevano impadronirsene; ed erano stati affidati a un tale, ch'era noto sotto il nome di Fanfulla, era stato nel 1848 ufficiale nei lancieri di Garibaldi, ed era tenuto prode da tutta Milano. Il secondo, dov'erano centoventi uomini con tre ufficiali e due obici carichi a mitraglia, collocati davanti al portone, presentava più gravi difficoltà; ma il punto aveva per l'insurrezione importanza strategica, e s'era scelto a punto di concentramento per gl'insorti d'una larga sezione della città: il popolano - non ricordo il nome e men duole, ma trafficava carbone e teneva bottega - eletto a impadronirsene co' suoi, doveva, riuscendo, afforzarvisi, chiudendo ogni ingresso e lasciando aperta a metà quello soltanto dove erano gli obici destinati a proteggerlo. Il Castello era punto naturale di concentramento al nemico, minaccia temuta più del dovere dalla città e racchiudeva, oltre quei del presidio, 12,000 fucili: la sorpresa era dunque cosa vitale per noi e s'era accertata in modo da non ammettere, se ignaro il Governo, un'ombra di dubbio: diciotto uomini, scelti fra i più arrischiati e comandati dal Capo di tutto quanto l'ordinamento, dovevano avventarsi improvvisi col pugnale alla mano sui diciotto soldati messi a custodia della prima corte; e, a un segnale dato, due squadre di popolani, sommanti a trecento incirca, comandate una dall'Assi, l'altra da un falegname capo di bottega, il cui nome m'è ignoto, dovevano irrompere a corsa da tutti i luoghi dove, in vicinanza del Castello, i capi li avrebbero, poco prima della fazione, appostati. I pochi soldati rimasti, dispersi nei cameroni, inermi e côlti alla sprovveduta, non avrebbero di certo potuto resistere a quella piena. I fucili di deposito nei magazzeni erano nostri, in un batter d'occhio; i due armajuoli, che di tempo in tempo li ripulivano e riattavano, erano nostri, avevano le chiavi dei magazzini e dovevano in quel giorno, sotto un pretesto qualunque, tenerli aperti perchè l'operazione non incontrasse il menomo indugio; e attennero la promessa. Il Capo stesso, sprezzatore d'ogni rischio, s'introdusse, un'ora prima della prestabilita all'insorgere, nella piazza interna del Castello e li vide al lavoro. Riescito il colpo, un colpo di cannone e la bandiera tricolore inalzata dovevano essere segnale agli insorti d'accorrere ad armarsi.
Mentre si sarebbero compite quelle sorprese, duecento giovani dovevano correre a due a tre le strade della città e cogliere soldati e ufficiali che, avvertiti dal romore levato, avrebbero, uscendo dalle taverne, dai caffè, dalle abitazioni, tentato raggiungere isolati i varii punti di concentramento. Era un Vespro; e gli scribacchiatori moderati ci accusarono d'avere preparato armi non generose. Ma chi, da Dante a noi, non aveva registrato fra le glorie italiane il Vespro di Sicilia? Chi, fra gli ipocriti ai quali alludo, non avrebbe acclamato al tentativo dei popolani lombardi, se coronato dalla vittoria? A emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme - se lunga o breve non monta - è santa; e se l'arbitrio sospettoso d'uomini, che a proteggere l'usurpazione di terre non loro si giovano dell'arme infame del patibolo non lascia ai cittadini altro ferro che quello delle loro croci, benedetto sia chi, a salvare la libertà dei corpi e dell'anime, svelle e aguzza ad offesa quel ferro!
A tutto s'era pensato, a tutto s'era, come meglio potevasi, provveduto. Ottanta terrazzani erano presti, forniti di picconi, pali di ferro e pale a inalzar barricate, ove si prolungasse, per incidenti non preveduti, la lotta. L'impresario dell'illuminazione a gas era nostro e s'era con lui d'intesa perchè l'illuminazione, occorrendo, non avesse luogo. S'erano tentati, e in parte con esito buono, gli Ungaresi che facevano parte del presidio: un ex-ufficiale inviato da Kossuth, allora in pieno accordo con me, avea secondato il lavoro e conquistato a noi un ufficiale di cavalleria; e molti bassi ufficiali, degli acquartierati in San Francesco, avevano dato solenne promessa d'unirsi ai nostri nell'azione, non sì tosto avessero ottenuto un primo successo. Klapka s'era recato, sui primi del febbrajo, da Ginevra a Lugano per entrare e assumere il comando de' suoi compatrioti il secondo giorno.
Costretti dall'assoluta necessità del segreto sulla natura del disegno che doveva tentarsi e certi di non poter evitare, in un vasto lavoro, inchieste e inquisizioni pericolose, ci eravamo, coll'altre città lombarde, limitati a far presentire, in un tempo non remoto, eventi supremi e a raccomandare si preparassero a profittarne. Soltanto61 coi giovani universitarî della vicina Pavia eravamo andati più oltre e si era stretto accordo perchè, a segnali di fiamma che si sarebbero inalzati dalla punta del Duomo, movessero rapidi alla volta di Milano; e, a intento siffatto, io aveva apprestato fucili sul Po, affidando la direzione d'ogni cosa riguardante quel punto all'Acerbi, prode e devoto esule mantovano. Per l'altre città tenevamo pronti corrieri a cavallo, che avrebbero recato l'annunzio del fatto e chiamato i più prossimi ad affrettarsi in ajuto a noi, tanto da avere, per la fine del 7, un forte nerbo d'armati, capace di resistere a ogni tentativo d'Austriaci, che volessero dalle vicinanze operare contro Milano. Noncurante del mortale pericolo, Aurelio Saffi, uomo d'indole nobilissima per intelletto e per cuore e rimasto, dal 1849 in poi, amico mio e non della ventura, s'era recato, fra gli Austriaci, in Bologna, per animare a preparativi quella valente città e le Romagne.
Perchè fallì il tentativo? Perchè da tanti apprestamenti non escì se non una breve sommossa?
Non mancò il popolo dei congiurati; mancarono al popolo i capi. Il segreto, cosa mirabile davvero se si pensi ai tanti che ne erano più o meno partecipi, era stato gelosamente serbato. Il Governo ignorava ogni cosa: avvertito da taluni di pericoli che sovrastavano, ma avvezzi a cercarli nelle classi agiate e a sprezzare il popolo come incapace d'iniziativa, aveva spiato attentamente le prime e, non vedendovi indizio d'ostili disegni, s'era rassicurato. Il 6 febbrajo, distribuite le paghe, i soldati s'erano, come al solito, dispersi per la città, lasciando presso che vuoti ed indifesi i luoghi contro i quali dovevano operarsi le sorprese. Ma il Fanfulla partì subitamente, nè s'arrestò se non a Stradella: l'Assi sparì; più altri capi lo imitarono: le squadre, non convocate e lasciate senza nuovi capi da chi non sapeva la diserzione dei primi, non si recarono ai luoghi di convegno: altre che si tenevano preste, non udendo d'assalto alcuno al Castello, assalto al quale - e fu nostro errore - s'erano subordinate parecchie sorprese, idearono tradimento o cangiamento di disegno e si sciolsero. Un solo fatto importante, l'occupazione della Grande Guardia, trovò capo e popolani esecutori fedeli, e riescì; se non che, immemori delle istruzioni che statuivano quel punto a punto di concentramento, gli occupatori, lieti di trovarsi armati e ansiosi d'azione, abbandonarono, dopo breve tempo, il luogo per correre le vie. Ed essi e i giovani armati di solo pugnale, scelti a operare indipendenti contro il nemico, bastarono a versare sugli austriaci un terrore, che non cessò se non sulla sera. Contro tutte le forze, spiegate allora dal Comando generale, quel pugno di popolani, abbandonati da tutti, tentò difendersi asseragliandosi, presso Porta Romana, nelle case e facendo fuoco dalle finestre; ma, e sopratutto, per difetto di munizioni, fu costretto, dopo un'ora di combattimento, a disperdersi. Perirono nel conflitto da cento cinquanta soldati nemici e due ufficiali superiori assaliti nel caffè della Scala62.
Perchè, audaci e costanti nei lunghi pericoli dei preparativi, quei capi-popolo s'arretrassero, giunta l'ora, davanti all'azione, mi pesa il dirlo, ma può tornare utile insegnamento in imprese future. Essi, i più almeno, retrocessero davanti all'isolamento in cui furono lasciati dalla classe media. Avevano lavorato soli, senza sconfortarsi dell'inerte indifferenza d'uomini, che i ricordi del 1848 e l'intelletto educato additavano ad essi capi naturali del moto, sperando che, compito il lavoro, dimostrata innegabilmente la propria tenacità di proposito e conquistata potenza di numero e d'ordinamento, li avrebbero compagni alla prova. Ma quando, sull'avvicinarsi dell'ora suprema, mentre pensavano che il sacrificio di sangue, al quale, per la salute e per l'onore del paese, s'apprestavano lietamente, li avrebbe fatti cari e fratelli a quelli uomini, si videro freddamente accolti, guardati con sospetto e rimproverati di commettere a un tentativo imprudente le sorti della città - quando s'udirono a dire: combattete dacchè lo volete: dopo la prima giornata saremo con voi - vacillarono e non osarono assumersi, essi poveri popolani, l'immensa responsabilità d'una iniziativa, non divisa da alcuno di quei, ch'essi s'erano avvezzi a chiamare i loro migliori. Non un abito - non una marsina - ripetevano dolorosamente gli insorti che cercavano ispirazione sul come si potesse più utilmente morir per l'Italia.
Non una marsina, infatti, si vide tra i combattenti del 6 febbrajo a incuorarli, a dirigerli. I portoni, le finestre delle case si chiusero. Milano prese aspetto di città deserta. Unico, o quasi, delle classi medie che si mostrasse in quelle ore fu un Bianchi Piolti, eccellente giovane, allora in contatto con me, oggi, se non erro, deputato, pur sempre onesto e liberale nelle tendenze.
Fin da quando il lavoro dei popolani accennò a tradursi in azione, io presentii quel pericolo; e parevami inoltre che, dov'anche le forze dell'Associazione fossero state sufficienti a vincere la prova in Milano, avremmo pur dovuto desiderare che in una lotta da iniziarsi a pro di tutti, tutti fossero rappresentati. M'era dunque rivolto a quelli fra i giovani intellettualmente educati, che nel 1848 erano stati uniti con me intorno alla bandiera sollevata dall'Italia del Popolo: prominenti fra questi, l'Allievi e Emilio Visconti Venosta. Ma li trovai mutati, scettici, riluttanti a ogni pensiero d'azione. Cominciarono per dichiarare impossibile l'esistenza d'una vasta associazione di popolani; poi, quand'ebbero prove irrecusabili, si ricacciarono sulla impossibilità del segreto, e confutato il timore della rivelazione di quella parte del disegno che riguardava la scelta dell'ora, la paga ai soldati e gli indizî che escirebbero dalle loro mosse, cominciarono ad argomentare sulla poca disposizione delle provincie lombarde a seguire: temevano i pericoli del moto, la possibilità della disfatta e, credo, egualmente le conseguenze d'una vittoria preparata esclusivamente dal popolo. L'anima loro, impicciolita tra la vanità pedantesca della mezza-scienza, il materialismo delle scuole francesi, che allora seguivano, e il meschino freddo sussiego di letterati borghesi, s'arretrava sospettosa davanti a quel ridestarsi di popolo, che avrebbe dovuto inorgoglirli di gioja italiana.
Così titubavano paurosi, svogliati, inerti sino alla fine: non diedero un uomo, nè una moneta, nè un'arme: avevano non so quanti fucili e li rifiutarono, dicendo che se ne gioverebbero per la seconda giornata. Il Venosta accettò d'entrare, come loro delegato, in una direzione formata di Bianchi Piolti, d'un Fronti, del capo militare e di lui; ma non intervenne se non due volte ai convegni, ascoltando, nè mai proponendo cosa che potesse tornar utile al moto; poi si dileguò. Finalmente, richiesti, spronati, rimproverati, dichiararono che consulterebbero, prima di decidersi a cooperare, una competente autorità militare.
L'autorità militare competente fu per essi Giacomo Medici, allora volontario garibaldino, oggi generale nell'esercito regio, il quale da Genova, ov'ei soggiornava, era fuori d'ogni lavoro e ignaro delle forze nostre, del disegno e d'ogni cosa. Gli spedirono l'ingegnere Cadolini, oggi deputato. Medici rispose: impedite il moto con ogni mezzo: se non riuscite a impedirlo, cercate afforzarlo. E i richiedenti fecero, sconfortando, sviando taluni fra i capi, annunziando a tutti il loro dissenso, quanto era in essi per impedire. Fu questa principale cagione di disfatta al disegno. Era, in seno alla borghesia, il cominciamento d'una scuola analoga, comunque inferiore d'ingegno, a quella dei dottrinarî francesi ai tempi di Luigi Filippo, e della quale l'Italia vede oggi in quei che la reggono lo scandalo e i frutti.
E nondimeno ho certezza, che nel prepararsi generale degli animi, nello sviluppo storico del risorgimento italiano, quel tentativo giovò. Lasciando dello stolto e feroce spirito di repressione, che la paura spirò allora più che mai nei consigli dell'Austria, delle contribuzioni arbitrarie sui beni degli inoffensivi patrizî lombardi e degli esuli, e dell'irritazione che ne nacque in essi, il popolo, il vero popolo, salutò come sua l'impresa tentata, inorgoglì dell'ardito concetto, e cominciò a credere nella propria forza e nella parte che sarebbe un giorno chiamata a compiere. I segni d'una trasformazione morale nelle classi operaje apparvero poco dopo più frequenti e visibili nelle associazioni, fondate pubblicamente in Piemonte e nella Liguria, tra gli uomini del lavoro, nella parte presa altrove dai popolani nei tentativi che seguirono, e, a me segnatamente, negli indirizzi, nelle proposte, nelle dichiarazioni d'affetto, che da essi mi vennero quando appunto il volgo letterato e gli ingannati da esso mi rovesciavano quasi universalmente sul capo una tempesta d'accuse, di rimproveri e di villane calunnie63. Da Genova, da Parma, dalle città romagnuole i popolani mi dicevano: voi avete creduto in noi, stimati da tutti incapaci di fare: vi rendiamo grazie, e vi proveremo quando che sia che non v'illudete sul conto nostro. Il 6 febbrajo strinse fra gli operai d'Italia e me quel patto d'amore e di comunione educatrice, che fruttò e frutterà, e che conforta di serenità e di speranze italiane i miei ultimi anni, abbeverati d'amara e profonda mestizia, per le delusioni e per l'abbandono di molti fra quei che m'eran più cari.
A quel tempestoso periodo appartiene lo scritto che segue. Io l'aveva, fin dal 22 febbrajo, promesso con queste poche linee indirizzate all'Eco delle Provincie:
Al Direttore dell'Eco delle Provincie.
Il fatto recente di Milano che, comunque strozzato ne' suoi principî da incidenti sottratti a ogni calcolo umano, e rimasto isolato per virtù di prudenza, che non guarda a biasimo o lode, ma all'intento da conquistarsi, avrebbe pur dovuto sollevare d'orgoglio italiano ogni anima buona e rivelare ai più incerti le vere tendenze del nostro popolo, frainteso, traviato da pregiudizî funesti e da codarde paure, ha suscitato un biasimo pressochè universale.
Sento tutta quanta la responsabilità che trascina con sè l'ultimo proclama del Comitato Nazionale, scritto da me e firmato da uno solo de' miei colleghi - e non la rifiuto.
Scriverò con tutta quella sollecitudine che consentono le condizioni in ch'io verso, le cagioni per le quali io l'assumo, volenteroso ed altero. Scenderò, poichè amici tiepidi e irreconciliabili nemici lo esigono, a parlare di me.
Chiedo - non agli uomini che hanno per tutta dottrina il vae victis! - non ai gazzettieri che vendono per trecento franchi mensili la coscienza e la penna a un'aristocrazia prima morta che nata - non ai consci o inconsci colpevoli che diseredano l'Italia d'una potenza d'iniziativa, fatto oggimai evidente dai martirî eroici e dalle eroiche audacie degli ultimi quattro anni - ma agli Italiani che amano davvero la loro patria e sentono altamente de' suoi fati e fremono e combattono per compirli, pochi giorni d'indugio nei loro giudizî.
Ho l'anima amara, ma di dolore, non di rimorso. La fede che scaldava, ventiquattr'anni addietro, di un sorriso d'entusiasmo la mia giovinezza, splende or più che mai, stella eterna dell'anima, davanti a' miei occhi. Non la rinneghino i giovani. Non la rinnegherà un popolo che, fatto superiore ai mezzi intelletti d'una classe che dovrebbe guidare e dissolve, assale nell'inerzia comune, colla sola arme che l'Austria non può rapire al cittadino, cannoni e Castello in Milano.
22 febbrajo.
Vostro
E da esilio venne a questa pace.
Paradiso X.
La dedica a Duncombe diceva: A. T. S. Duncombe, membro di parlamento, perchè onorò di generose parole nell'aula la memoria dei loro fratelli caduti per la fede italiana in Cosenza nel 1844; perchè sostenne virilmente i diritti degli esuli codardamente e con tristissimo intento violati nella loro corrispondenza privata dal governo inglese; perchè respinse la calunnia avventata, a palliare l'ospitalità tradita, a un loro concittadino - molti italiani raccolti a convegno hanno votato questo lieve ma carissimo pegno di riconoscenza e di plauso, 23 maggio 1845.
Tra i membri della deputazione che presentò le medaglie era, ricordo, il Gallenga.
Perirono per mano del carnefice, condannati da una Commissione militare, poco dopo il tentativo:
Perirono intrepidi: degni seguaci di quell'Antonio Sciesa, popolano egli pure, che tratto a morte dagli austriaci il 2 agosto 1851 per affissione di scritti rivoluzionarî, avea risposto a chi gli offriva, a due passi dal luogo del supplizio, la vita, purchè rivelasse: tiremm'innanz. Quelle parole dovrebbero essere adottate, come formola della loro vita collettiva, dalle Associazioni operaje d'Italia.
Prima assai d'ogni ricominciato lavoro in Milano, e quando Luigi Kossuth si preparava a un viaggio, che poteva prolungarsi indefinitamente, negli Stati Uniti, avevamo statuito ch'egli mi lascerebbe un proclama firmato da lui ai soldati ungheresi in Italia, per eccitarli a seguire qualunque moto nazionale avesse luogo tra noi, e ch'io porrei in mano sua, collo stesso intento, un mio proclama agli Italiani che militerebbero, al tempo d'un moto, in Ungheria. E così facemmo. Potevamo, in circostanze decisive e imprevedibili anzi tratto, trovarci lontani; e rimanemmo quindi arbitri l'uno e l'altro d'usar del proclama e d'apporvi data a seconda del nostro giudizio. Io mi giovai del diritto datomi, e ordinai che sul cominciare del moto s'affliggesse, insieme a un mio, il proclama di Kossuth. Il primo cenno dell'insurrezionescoppiata giunse in Londra senza altri particolari e Kossuth, che v'era tornato, s'infervorò di tanto che recatosi all'amico mio, James Stansfeld, lo richiese d'ajuto pecuniario per raggiungermi, e l'ebbe. Ma quando il dì dopo recò la nuova della disfatta, Kossuth, tenero più assai della propria fama che non del vero e dell'amicizia che tra noi correva, s'affrettò a dichiarare sui giornali inglesi, che il proclama agli ungheresi era pura e pretta invenzione mia. Avvertito da' miei amici, mandai al Daily News due linee che dicevano semplicemente, come l'originale del proclama fosse rimasto in mia mano, visibile a ogni uomo che desiderasse di sincerarsi. E bastò agli inglesi; ma la stampa governativa italiana continuò per lunga pezza a invocare il nome di Kossuth per dichiararmi falsario.
Quando io mi ridussi in Londra, non cercai di Kossuth, ma egli venne a vedermi, m'abbracciò con sembiante d'uomo profondamente commosso e non fiatò del proclama. La lega, s'anche mal ferma, tra lui e me poteva giovare alla causa nostra. Mi strinsi nelle spalle e mi tacqui.]