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VOLUME PRIMO PENSIERO ED AZIONE. SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI D'ALCUNE CAUSE CHE IMPEDIRONO FINORA LO SVILUPPO DELLA LIBERTÀ IN ITALIA |
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D'ALCUNE CAUSE
CHE IMPEDIRONO FINORA
LO SVILUPPO DELLA LIBERTÀ IN ITALIA
Un principe - et des consèquences - voilà tout. -
Ma gli uomini pigliano certe vie del mezzo che sono dannosissime, perchè non sanno essere nè tutti buoni, nè tutti cattivi. -
Machiavelli. - Discorsi. -
I.
Trattando delle cagioni, che tornavano in nulla i tentativi di libertà nell'Italia - dei vizî che contrastarono al concetto rigeneratore di farsi via tra gli ostacoli, noi siamo ad un bivio tremendo.
O noi parliamo parole alte, libere, franche - parliamo coll'occhio all'Italia, la mano sul core, e la mente al futuro - parliamo, come detta la carità della patria, senza por mente ad uomini o pregiudizî, snudando l'anima agli oppressori, ai vili, agli inetti, flagellando le colpe e gli errori ovunque si manifestino - e un grido si leva dagli uomini del passato contro ai giovani, che s'inoltrano nella carriera, ignoti alle genti, senza prestigio di fama, senza potenza di clientela, soli con Dio, e la coscienza d'una missione: voi violate l'eredità dei padri, perdete la sapienza degli avi; voi usurpate un mandato, che il popolo non v'affida esclusivamente; voi cacciate l'ambizione di novatore frammezzo ai vostri fratelli!
O noi rinneghiamo ispirazioni, studii ed affetti per una illusione di universale concordia - ci soffermiamo nella predicazione di principii nudi, teorici, astratti, senza discendere all'applicazione, senza mostrare nella storia dei tempi trascorsi le violazioni di questi principii - erriamo intorno all'albero della scienza, senz'attentarci di appressarvi una mano, lamentiamo una malattia esistente nel corpo sociale senza ardire di rimovere il velo che la nasconde e dire: là è la piaga! - e gl'Italiani indurano nell'abitudine degli errori; e gli elementi non mutano, i tentativi insistono sulla stessa tendenza, le generazioni agitano, non frangono le loro catene; e lo straniero ci rampogna inerti nel progresso comune, c'insulta colla pietà del potente al fiacco, si curva sulle sepolture dei nostri grandi, e esclama: ecco la polvere dell'Italia! -
O sospetti, o colpevoli - condannati al silenzio o alla guerra - esosi agli uomini che parteggiano per le vecchie dottrine, o traditori alla patria che le provava fino ad oggi inefficaci e funeste. -
la Patria anzi tutto. - Noi parliamo tra i sepolcri dei padri e le fôsse dei nostri martiri - e le nostre parole hanno ad essere forti, pure, incontaminate da lusinga e da odio, solenni come i ricordi dei padri, come la protesta che i nostri fratelli fecero dal palco ai loro concittadini. -
la Patria anzi tutto. - E chi siam noi perchè abbiamo a calcolare i nostri discorsi dalle conseguenze personali? L'epoca degli individui è sfumata. Siamo all'era dei principii: siamo all'era che pose quel grido in bocca ai lancieri Polacchi: Periscano i lancieri, e la Polonia si salvi! - e che monta alla patria se le nostre parole avessero anche a fruttarci una guerra che il nostro core vorrebbe fuggire? Gli uomini passano. La posterità sperde il garrito delle fazioni; ma i principii rimangono: - e guai all'uomo, che tenta una impresa generosa e s'arresta davanti alle conseguenze quali esse siano!
Una idea - e l'esecuzione: ecco la vita, la vera vita per noi: una idea generosa, spirata dalla potenza che creava l'uomo ad essere grande, lampo della primitiva ragione, quando l'anima giovine, vergine di pregiudizî, di vanità e di meschine paure, s'affaccia ai campi dell'avvenire che l'angiolo dell'entusiasmo illumina d'un raggio immortale - ed una esecuzione costante, assidua, ostinata, sviluppata in tutte le fasi dell'esistenza, nelle menome azioni, come nei rari momenti che vagliono un'epoca, in un'epistola famigliare come in un volume di meditazioni, nei segreti della cospirazione come nella pubblica testimonianza del palco. A questi patti s'è grande - a questi patti si promuove la causa santa - e del resto avvenga che può, perchè l'uomo il quale si slancia nella crociata dell'umanità senz'aver dato un addio ai calcoli, ai conforti, a tutte quante le gioje della vita, non ha missione. Chi scrive codeste linee ha disperato - tranne un affetto - della vita contemplata individualmente - e per questo ei si sente più forte nella predicazione del pensiero rigeneratore. In politica non v'è che un sistema d'azione stabilmente efficace: il sistema che matura i principî, sceglie l'intento, medita i mezzi, poi si pone in moto senza deviare a dritta o a sinistra, facendo gradino degli ostacoli, non rifiutando le conseguenze logiche dei principî, e guardando innanzi. - La verità è una sola. L'eclettismo70 applicato alla scienza d'ordinamento sociale ha prodotta una dottrina che l'Europa dei popoli infama, e rinega; e la stolta pretesa di voler conciliare elementi che cozzano per natura, ha rovinate a quest'ora più sorti di popoli, che non l'armi aperte, o le insidie della tirannide. Oggimai, s'è giunti a tanta incertezza di sistemi e di vie, che le moltitudini, affaticate pur sempre dal desiderio del meglio, si stanno inerti, aspettando che i loro istitutori s'intendano fra di loro.
Applichiamo queste idee all'Italia.
Le opinioni, le dottrine, i partiti sono in Italia ed altrove. Noi non li creammo: guardammo e la esistenza loro ci balzò davanti, come un fatto incontrastabile, e prepotente sui fati della nostra rigenerazione.
Ora, che vie ci s'affacciano a superarne gli ostacoli?
Noi abbiamo lungamente pensato al modo; abbiamo cercato una via di fusione, un mezzo d'accordo tra chi insiste sulle antiche idee e chi sente fremersi dentro le nuove. - Questa via non v'era: i popoli s'erano illusi di averla trovata, ed hanno scontato quella illusione con tanto pianto e con tanto sangue, che oggimai il volere ricrearla può dimostrare forse bontà di cuore, non senno politico; nè le illusioni, sfumate una volta, si ricreano mai. Il moto è in noi, sovra noi, intorno a noi; e dove gli uni s'abbandonano al moto, e gli altri s'industriano a costringerlo in un cerchio determinato, non v'ha transazione possibile. O innanzi, o addietro! L'anello intermedio fra la inerzia e il moto, fra la vita e la morte, è il segreto di Dio.
Oggi, i popoli hanno sete di logica; e tra molte opinioni inconciliabilmente discordi, io non veggo che una via sola: consecrarsi alla migliore - inalzarne la bandiera - e spingersi innanzi. Là è il progresso! Là è la vittoria!
Così abbiamo detto - e faremo.
Pace e fratellanza a chiunque saluta la bandiera del secolo; a chiunque adotta i principî del secolo. - Gli altri ripeteranno per qualche tempo ancora la insulsa accusa che ci chiama seminatori di discordia: accusa simile a quella che i tiranni infliggono ai buoni, rampognandoli violatori dell'ordine - come se l'ordine potesse esser mai il riposo nell'errore: come se a fondare una concordia potente fosse altra via dal trionfo del vero in fuori. I vizî e le colpe della gente che beve con noi un raggio dello stesso sole, hanno a circondarsi, dicono, di silenzio: paventano l'insulto dello straniero. Lo straniero? - Rammenti che noi fummo grandi e temuti, quando il mondo era barbaro, rammenti che la sua civiltà è opera nostra, la nostra abbiezione opera sua - e arrossisca - però che lo scherno gli ripiomberebbe sul core amaro come un rimorso! - Ma a noi la carità della patria non acciechi il lume della mente. Le vanità puerili, le adulazioni accademiche, le cantilene de' letterati di corte, e il pazzo entusiasmo di quei tanti amatori della patria, che s'inginocchiano davanti ai simulacri dei nostri grandi, senza oprare a farsi grandi com'essi, hanno partorito lunghi sonni e codardi all'Italia - e non altro. L'adorazione al genio dei trapassati, e a quello che spande il suo raggio sulla faccia della terra patria, è bella veramente, quando chi si prostra è tale da potere posarsi eretto davanti alla generazione che gli brulica intorno. Ma i nomi, le memorie, le grande imagini, se non sono applicate alla vita, e migliorate, ed emulate, sono come quell'armi che stanno attaccate alle pareti delle sale: arrugginiscono se non le adopri. Noi non parliamo certo a chi siede tra le rovine e inalza l'inno di disperazione; però che si tratta di confortar gli uomini a osare, anzichè travolgerli nella inerzia. La patria, come la donna amata, può non essere talora stimata: vilipesa non mai! E noi, questa patria caduta, questa bella giacente, noi la circondiamo di tanto affetto, che la vita intera e la morte non varranno a svelarne la menoma parte. Forse, s'essa fosse fiorente di bellezza e di gloria, noi l'ameremmo d'un affetto men caldo e santo: ma non si torna a vita lo scheletro, incoronandolo di rose - nè quelle dive anime incontaminate di Catone e di Tacito adonestavano le colpe de' loro concittadini, ma le flagellavano a sangue. Che se l'orgoglio insuperbisse a taluno nel petto, è grande, ben più che illudersi sulla patria il dire: la patria è caduta e noi la faremo risorgere.
Noi insistiamo sovente sul nostro simbolo di progresso e d'indipendenza, anche a rischio di vederci accusati d'audacia, perchè l'uomo senza credenza non è veramente uomo, e colui che l'ha e non s'attenta bandirla, è men ch'uomo - perchè pur troppo v'è una gente che alla menoma reticenza sospetta prave intenzioni, una gente il cui studio è quello di introdurre un lembo della loro veste macchiata, sotto la toga candida, incontaminata dell'apostolo della verità - perchè infine noi esponiamo le nostre credenze come il programma delle azioni future. Siamo ai tempi nei quali le opinioni hanno ad essere decise ed aperte, nei quali ad ogni uno che si presenti per ottenere la cittadinanza dell'uomo libero corre debito di portare in fronte una dichiarazione de' suoi principii, perchè giovino alla condanna se mai i fatti della vita contrastassero un giorno ai principî enunciati. Noi facciamo questa dichiarazione. Noi la facciamo fidenti, perchè siam giovani e vergini di passato, abbiamo il core puro, le mani pure, la mente pura, e non abbiamo speranza di meglio, di gloria, di trionfo, di lode che nell'avvenire. - Gl'Italiani giudicheranno i nostri atti.
II.
I tentativi di rivoluzione italiana tornarono fino a quest'oggi in nulla. Perchè? - Siam noi codardi tutti? Mancano elementi rivoluzionari? O veramente il mal esito de' moti italiani era dipendente dalla direzione che le fazioni diedero a questi moti?
Lo straniero scelga, se vuole, la prima causa. Noi, Italiani, adopriamoci a rintracciar la seconda.
Noi non siamo codardi. I popoli non sono codardi mai, quando l'impulso che li move è potente - noi men ch'altri - e l'Europa lo sa.
Gli elementi di rivoluzione non mancano all'Italia. Quando un popolo diviso in mille frazioni, guasto dalle abitudini del servaggio, ricinto di spie, oppresso dalle bajonette straniere, divorato per secoli dall'ire municipali, stretto fra la cieca forza del principato e le insidie sacerdotali, senza insegnamento, senza stampa, senz'armi, senza vincoli di fratellanza fuorchè nell'odio e in un pensiero di vendetta, trova pur modo di sorgere tre volte in dieci anni - e il nemico interno sfuma davanti alla potenza di un voto espresso, senza un colpo di fucile, senza un grido d'opposizione, senza una voce che sorga a difendere la causa della tirannide: quando in dieci giorni la bandiera italiana sventola sopra venti città, e gli uomini della libertà invocano confidenti i comizî popolari per concertare le opportune riforme: quando nè persecuzioni, nè sventure, nè delusioni, nè morti possono spegnere il pensiero rivoluzionario - e le prigioni sono piene - e i cannoni s'appuntano contro al popolo - e i dominatori tremano d'una congiura ad ogni romore notturno - compiangete quel popolo che le circostanze condannano ancora all'inerzia, ma non lo calunniate: v'è una scintilla di vita in quel popolo, che un dì o l'altro porrà moto a un incendio: v'è una potenza in quel pensiero intimo di libertà, educato con tanto amore e tanta energia di costanza, in quel voto che cinquecento anni di silenzio non hanno potuto sperdere - che il Genio potrebbe trarne miracoli - ma il Genio solo; - e dov'è il Genio che abbia governati fin qui i tentativi italiani? Dov'è tra quei che stettero al maneggio delle cose nostre, l'ingegno che abbia indovinato il segreto di quei tentativi?
Le moltitudini non mancano alla libertà in Italia, nè altrove. Nei due terzi dell'Europa, le moltitudini han fin d'ora un istinto del bene che può bastare a rigenerarle; soltanto esse non possono esserne interpreti ancora, e abbisognano d'uomini che s'assumano di ridurre i loro sentimenti a sistema politico, che concentrino in una giusta direzione quanti elementi s'agitano incerti e indefiniti negli animi non educati. - Quand'altro non fosse, le moltitudini soffrono, le moltitudini sono oppresse, conculcate dall'aristocrazia, immiserite dai dazî, dalle imposte e dalle dogane, dissanguate dai frati ai quali l'altre classi son già sottratte. Le moltitudini hanno dunque bisogno di mutamento: v'anelano, e lo accetteranno qualunque volta sia loro proposto. Tutto sta nel guidarle; nel convincerle che i mutamenti torneranno loro efficaci; nel persuaderle, che in esse è potenza sufficiente per ottenerli.
Intanto le rivoluzioni italiane hanno presentato finora un aspetto singolare all'osservatore. Nei loro principî furono brillanti, unanimi, confidenti, audacemente intraprese, prosperamente operate: poi, dati i primi passi, languirono, si mostrarono incerte, paurose; e le moltitudini si stettero inerti, indifferenti, sfiduciate dell'avvenire - sorsero come stelle: svanirono come fuochi di cimitero. Simili a quelle creature che nascono bellissime di forme e d'espressioni, ma col germe della distruzione già sviluppato, colla condanna del destino sulla fronte, e delle quali tu diresti ammirandole: morranno prima d'avere raggiunto il fiore della giovinezza - le rivoluzioni italiane ti s'affacciano belle e pure nel concetto primo, ma inceppate, sviate, o soffermate a mezzo il cammino da un ostacolo prepotente che tutti indovinano, pochi hanno espresso liberamente.
Noi lo diremo francamente: mancarono i capi; mancarono i pochi a dirigere i molti; mancarono gli uomini forti di fede e di sagrificio, che afferrassero intero il concetto fremente nelle moltitudini, che intendessero a un tratto le conseguenze; che, bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero tutte in una sola, quella della vittoria; che calcolassero tutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e d'ordine per tutti; che guardassero innanzi, non addietro; che si cacciassero tra il popolo e gli ostacoli, colla rassegnazione di uomini condannati ad essere vittime dell'uno o degli altri; che scrivessero sulla loro bandiera: riuscire o morire, - e attenessero la promessa. Siffatti uomini mancarono ai tentativi: nè giova indagarne la causa - ma quando sorgeranno e Dio li caccierà fra le turbe, l'Italia rinata darà solenne mentita a quanti l'accusano di codardia, o la vilipendono ineguale al disegno.
E badate, o Italiani, che la questione è decisiva per voi. Però che se non mancarono i capi, mancarono le moltitudini: mancarono e mancano gli elementi di rigenerazione. A questo bivio siam tratti: abbiamo a scegliere tra l'errore dei pochi e l'impotenza de' molti: abbiamo a rinegare le speranze in un vicino avvenire o la venerazione nei capi che ci guidarono. Per noi, la scelta non è dubbia: gli altri che ripongono l'onore del nome italiano nell'adonestare le colpe italiane, vedano se giovi meglio alla patria il sagrificio dei pochi colpevoli, o l'anatema gittato a un'intera nazione.
Mancarono i capi. Mancarono prima d'animo, poi di scienza politica: prima di fede in sè, nelle moltitudini che reggevano, nella santa bandiera che inalberavano; poi di consiglio rivoluzionario, di spirito logico e del segreto che suscita i milioni di difensori a una causa. - E noi accenneremo successivamente dove e perchè mancassero; e come non s'intendessero nè i mezzi, nè l'intento d'una rivoluzione. Ai popoli si parla efficacemente in due modi: colla virtù dell'esempio, e colla utilità del fine proposto; trascinandoli coll'entusiasmo, o seducendoli coll'avvenire. - E parleremo in principio della mancanza di animo negli uomini che tennero il freno delle cose nostre, perchè l'animo è prima condizione del fare - perchè dove quello manchi o non sia deliberato abbastanza, è follia mettersi a grandi imprese - perchè il vero beneficio d'una rivoluzione deve affacciarsi al popolo con certezza fin dai primi giorni del moto, ma non può, generalmente parlando, svilupparsi che al secondo stadio della rivoluzione, quando essa è già santificata dalla vittoria. - A fare, conviene prima d'ogni altra cosa esser forti.
III.
Del difetto d'energia nei guidatori delle nostre rivoluzioni, degli errori che s'accumularono, della incertezza, delle contraddizioni ch'emergono ad ogni passo dalla storia dei fatti trascorsi, fu detto da molti. Un fremito d'ira generosa si levò nell'anime veramente Italiane al vedere, come per colpa dei pochi l'Italia cadde nel gemito della paura anzichè nel ruggito del lione ferito. Come accadesse, come avvenisse ch'uomini puri nelle intenzioni, amatori del nome italiano e consecrati fin dai primi anni alla carriera politica, si lasciassero travolgere a tanta debolezza da commettere i destini della loro patria a una illusione di tutela straniera anzichè all'armi e al consiglio de' forti, non fu detto mai, ch'io mi sappia. Forse, quando i buoni fremevano la parola del dispetto e della rampogna, le piaghe erano troppo recenti, perchè il raziocinio potesse frammettersi alla passione, e perchè riuscisse di risalire per mezzo agli errori alla sorgente d'onde partivano. Fu guerra di particolarità, di minuzie, di fatti isolati; fu grido d'uomini ai quali la prepotenza degli eventi struggeva l'ultima delle speranze che fan bella la vita, e non lasciava che l'ultimo appello della creatura al cielo, la maledizione agli uomini ed alle cose. - Esce a ogni modo da quelle accuse un senso di sconforto, una disperazione dell'avvenire, che può ridurre l'anime nuove e incerte alla inerzia e le forti e deliberate a vivere d'una vita propria, intima, individuale, a ricoverarsi nella solitudine e nel concentramento dalla fallacia dei progetti e dal sorriso dei tristi. Oggi, è urgente di ritrarre quell'anime dall'isolamento in cui giacciono, di rinfiammarle alla costanza dell'opere, di riconfortarle ad osare, mostrando come nessuna fatalità pesi sopra di noi, ma il solo errore degli uomini, e non invincibile, non inevitabile da chi riassuma in poche massime le vicende passate a trarne insegnamento al futuro. Ora - e per somma ventura - quegli uomini, ch'ebbero un istante le sorti italiane nelle mani, son fatti uomini del passato; quei nomi son retaggio dei posteri, e noi possiamo favellarne senz'ira ed amore; possiamo esaminare più sedatamente qual violazione di principio trascinasse la rovina dei tentativi italiani. Un tentativo fallito si riduce quasi sempre ad un principio violato.
Nelle rivoluzioni più che in ogni altra cosa l'armonia è condizione essenziale del moto. Quando esiste disparità, sconnessione, disarmonia tra gli elementi e la tendenza che ad essi s'imprime, tra chi dirige e chi segue, non v'è speranza.
Gli uomini nati a governare e compiere le rivoluzioni son quei che stanno interpreti delle generazioni contemporanee, miniatura del loro secolo; che riassumono in sè i voti segreti, le passioni, le tendenze, i bisogni delle moltitudini; che si collocano innanzi d'un passo alle genti che seguono, ma come centro in cui vanno a metter capo tutti gli elementi esistenti, tutte le fila ordinate all'intento. Indovinare il pensiero generatore della rivoluzione, e assumerlo proprio, fecondarlo, svilupparlo, e guidarlo al trionfo - tale è il primo ufficio di chi dirige le rivoluzioni. Senza quello si cade tra via scherniti o infami, per impotenza o per tradimento.
Ora, furono essi tali i capi delle nostre rivoluzioni?
No; non furono.
Vediamo l'ultima rivoluzione dell'Italia centrale.
Noi lo dichiariamo: noi la togliamo ad esempio, non perchè gli errori notati v'appajano più manifesti che altrove; nè perchè a noi piaccia diffondere un biasimo non meritato sui nostri fratelli delle Romagne. Noi li amiamo come Italiani: noi li veneriamo come quei che sorsero mentre noi giacevamo; come quei che diedero all'Italia e alla Europa un esempio d'opinione popolare e concorde; come quei che pajono incaricati di affacciare ai popoli una continua protesta in nome nostro contro la tirannide che ci conculca. - I moti del 1820, e 21, furono predominati dagli stessi errori, errori, come dicemmo, più dell'epoca che degli uomini. Vero è che l'epoca ora è mutata, e gli stessi moti dell'Italia centrale lo provano; però l'anacronismo politico, commesso da chi resse que' moti, sgorga più evidente dall'ultime vicende che dalle prime. Poi le piaghe sanguinano tuttavia - e noi scriviamo coll'ultimo gemito di Ciro Menotti, e coll'eco dei fucili di Rimini nell'orecchio.
La rivoluzione dell'Italia centrale presenta distinte due classi d'uomini: i molti insorti, e i pochi moderatori dell'insurrezione.
Che volevano gl'insorti?
Chiedetelo al pensiero che ordinava quei moti - chiedetelo al grido levato dai primi a insorgere in tutte le terre che afferravano spontanee il concetto di vita - chiedetelo al palpito di tutti i cori, al fremito generoso che invase la intera Penisola, quando narrarono i colpi di fucile tratti dalla casa Menotti, all'ardore che fece correre all'armi la gioventù di Bologna quando il vento recò ad essa l'eco del cannone di Modena - all'entusiasmo della gioventù parmigiana non avvertita, non coordinata, non commossa dalle congiure - alle stampe, ai bandi, ai colori adottati, ai viaggiatori che corsero da un punto all'altro per affratellare le varie contrade, alla bandiera che sventolò tra quei moti. Quella bandiera fu la bandiera italiana - quei colori erano i nazionali italiani - quelle prime voci erano voci di patria, di fratellanza, di lega italiana - quel fremito, quel tumulto, quel moto era il voto dei forti, serbato intatto per quaranta anni di sciagure e di persecuzioni; concentrato allora intorno ad un nome - al vecchio nome d'Italia, a quel nome immenso di memorie, di gloria, di solenne sventura, che i secoli di muto servaggio non avevano potuto spegnere, e che mormorato all'orecchio era trapassato di padre in figlio, come il nome del temuto nella lunga cattività degli Ebrei. Volevano l'unità, l'indipendenza, la libertà della Italia; volevano una patria; volevano un nome, col quale potessero presentarsi al congresso futuro de' popoli liberi, e che cacciato sulla bilancia Europea promovesse d'un passo la civiltà. Però la gioventù insorta non s'arretrava davanti a ostacoli di lunga guerra, o di disagi d'ogni genere; chiedeva la gioventù Bolognese fin dal secondo giorno del movimento d'invader la Toscana; chiedevano i nazionali di Reggio e Modena di conquistare Massa e Carrara alla libertà; chiedevano più tardi le guardie civiche condotte dal Zucchi di movere per la strada del Furlo al regno di Napoli; però che ogni uomo a' quei giorni - tranne chi reggeva - sentiva profondamente che si trattava d'una causa italiana, non Bolognese, o Modenese: ogni uomo - tranne quei del governo - sentiva ch'era venuto tempo per gl'Italiani di manifestare alla nazione e all'Europa con qualche atto solenne il loro concetto, il principio che li guidava, la intenzione in che s'erano mossi - del reato non curavano. Quel primo momento di rivoluzione, di manifestazione generosa è sì bello, bello di sacrificio individuale, di speranza infinita e d'audacia Titanica, che può scontarsi colla morte in campo, o sul palco: nè gl'insorti pensavano allora doverlo, per la inerzia di pochi, scontar col ludibrio.
Con siffatti elementi, con questa tendenza del popolo insorto, quali erano i doveri degli uomini che il voto dei più, il caso e le circostanze elessero a capi?
I doveri de' capi - noi lo dicemmo - emergono dal voto, dalla71 tendenza predominante le moltitudini; stanno scritti nella bandiera adottata dalle moltitudini. Ogni rivoluzione è la manifestazione, la espressione pubblica d'un bisogno, d'un sentimento, d'una idea; e quando un popolo insorge, la scelta dei capi costituisce un contratto tacito fra quel popolo ed essi. Il primo, eleggendo, dice ai secondi: noi ci levammo per rivendicare un diritto usurpato o violato; ci levammo per ottenere un miglioramento di condizione che i governi ci vietano; ci levammo perchè noi, maturi per salire d'un passo nella carriera del progresso, eravamo pure inceppati e costretti alla inerzia da una prepotenza d'ostacoli materiali. Ora, insegnateci la via; noi la ignoriamo; ma eccovi braccia e mezzi; traetene il maggior partito a guidarci dove noi vogliamo: vi seguiremo attraverso i pericoli. - I secondi, accettando, rispondono: noi sacrificheremo ogni cosa allo sviluppo di cotesta idea; noi poniamo vita, senno, consiglio dove voi ponete le sostanze e la vita. Seguiteci con fiducia, però che dovunque, tra i pericoli inevitabili, vedrete ondeggiare la nostra insegna, voi sarete certi, ch'ivi è la via che avete trascelta. - Queste condizioni a noi pajono intervenire più solennemente tra la nazione e i suoi capi, che non se fossero proferite a parole; perchè dove il mandato sgorga dalle circostanze e dal voto pubblico è più santo che non sarebbe uscendo da formole; nè i popoli manifestano mai così solenni i loro voti, come quando li manifestano colle azioni. Non giova illudersi; chi fraintende quel voto può meritare compianto - ma qual nome serba la patria a chi, intendendolo, lo delude, e inganna deliberatamente le migliaja che glie ne fidano lo sviluppo?
IV.
A quei che stettero primi nella rivoluzione dell'Italia centrale - a quei che convalidarono col silenzio e colla inerzia le loro dottrine - a quei che in oggi si assumono le difese dei loro atti, e maledicono alla gioventù perchè non li venera muta, noi abbiamo il diritto di chiedere:
Volevate voi dirigere la rivoluzione all'intento voluto dalle moltitudini, che la operavano?
Allora - dovevate costituirvi rivoluzionarî davvero: cacciare un grido all'Italia, e lanciarvi innanzi. Dovevate prefiggere ad ogni atto della vostra esistenza politica il pensiero d'indipendenza, d'unità, e di libertà che fremeva nel petto ai vostri concittadini; dovevate procedere con franchezza, e con energia alle conseguenze dei principî rigeneratori. Allora - v'era mestieri calcolare le difficoltà della vostra situazione, e affrontarle anche a rischio di soccombere davanti ad esse; v'era mestieri meditare le leggi fondamentali d'ogni rivoluzione, e subirne le conseguenze e l'azione; v'era mestieri, se fatti non potevate, cacciar principî sull'arena italiana; lasciare un alto insegnamento ai posteri, se le sorti ci contendevano un miglioramento materiale, positivo: educarli, se liberarli non v'era dato. Allora - vi correva debito sacro di definire davanti all'Europa la tendenza, il carattere dei moti Italiani; debito di tentare tutte le vie per le quali una rivoluzione può conquistar la vittoria; debito di ritemprare con forti esempli l'anime incodardite negli anni lunghi di servitù, di cacciare un guanto ai nostri nemici, ch'essi dovessero tremare di raccogliere, di lasciare almeno alla crescente generazione - s'altro non era concesso - il programma della rivoluzione avvenire. Gli elementi stavano dinanzi a voi; Dio, padre della libertà, li aveva creati per voi, se sapevate o volevate usarne. L'entusiasmo, il coraggio, ed il genio - tre angioli di vita a un popolo decaduto: tre scintille di potenza immortale: tre raggi che brillarono di bellissima luce mentre il bujo della paura vi si stendeva intorno all'anima sconfortata - erano con voi e per voi, purchè aveste cercato suscitarli col sacrificio e coll'audacia dei generosi; purchè aveste saputo evocarli colla fede e col martirio, purchè non aveste isterilita ogni vostra potenza colla funesta parola: l'Italia è morta. L'Italia morta? Oh! v'è una vita in questa Italia caduta, che non conosce la morte! - L'Italia morta? Oh! se di mezzo a voi un uomo si fosse levato; se quest'uomo, trascorrendo con occhio d'aquila tutti gli elementi di lotta esistenti in Italia, avesse inteso il partito che potea trarsene; s'egli avesse sentito la vastità del ministero che le circostanze gli davano; s'egli avesse detto a sè stesso: a questo punto, non vi hanno riguardi, non v'è autorità, non v'è legalità, non v'è che un dovere: tentare la salute della patria; il mandato a fare non emana in siffatti momenti da un congresso, o da una commissione provvisoriamente governativa, ma dalla legge suprema della necessità, dal suffragio dei proprî fratelli, dalla coscienza delle proprie forze e della propria virtù; se quest'uomo avesse fatto un appello alla nazione, avesse diffuso una gioventù bollente sulle terre vicine, sui monti, nelle campagne, avesse detto ai giovani: siate grandi! alle moltitudini: siate con noi, però che noi veniamo a togliervi allo stento ed alla miseria; ai giacenti: sorgete! levatevi in arme! noi veniamo a vincere o morire con voi! - che non avrebbe egli fatto della gioventù? di quella gioventù, che sfiduciata da mille delusioni, abbandonata e tradita, resa inerte dalla diffidenza, dai sospetti, dal difetto di ordini, trovò pur modo di salvare l'onore italiano, e di protestare a Firenzuola, a Novi, a Rimini, che dove fosse stata unione, confidenza, ed energia di condottieri sapienti, la potenza del nome italiano sarebbe stata? - Forse, se un linguaggio e un contegno decisivo s'assumevano dagli uomini ai quali erano fidate le sorti della patria; se una parola solenne bandiva che l'Italia Centrale era sorta per tutti, ch'essa avrebbe combattuto per tutti, o sarebbe caduta vittima per tutti; se un fatto - un fatto solo, ma grande, ma potente, ma tremendo d'una volontà disperata, e compiuto al cominciar della lotta dai rappresentanti il pensiero italiano, avesse scosso le menti, forse strappavamo alla mano del tempo l'ora della risurrezione, forse il grido di guerra a morte sorto di mezzo alle barricate cittadine, o la maledizione al barbaro cacciata dai canuti morenti tra le rovine d'una città, rompeva il letargo dei secoli, suscitava alla vendetta i milioni incerti fra la speranza e la tema; però che la virtù d'un esempio è infinita, e dai rottami di Missolungi sorse la Grecia. - O fors'anche, quei primi forti perivano, e soli; ma si salvava l'onore, si struggevano le insulse accuse che ci vengono dallo straniero, le infamie che suonarono dall'alto della tribuna francese sulla bocca di Thiers e Guizot non erano proferite; e si gittava tra le rovine italiane un principio che avrebbe fruttato miracoli nell'avvenire, un principio essenziale, inevitabile, - perchè, davvero, o Italiani, senza simili fatti, senza quei sagrifici, non sarete liberi mai.
E voi, condottieri delle rivoluzioni passate, che avete voi fatto? Che avete voi fatto del popolo, della gioventù, dell'idea rivoluzionaria, de' principii che ne dominano lo sviluppo, dell'Italia e della missione, ch'essa v'aveva fidata?
Nulla! Avete sprecate o neglette lo forze che vi s'accumulavano intorno; avete scavato un sepolcro a tutte le più belle speranze; avete creato la morte. Ora l'adorate divinità prepotente!
Avevate una parola, che proferita al popolo, potea suscitarlo all'opre del braccio. Era la parola onnipotente; la parola della quale si valsero per legge di cose tutti i grandi che vollero dominare o trascinare all'azione le moltitudini; la parola che creava i quattordici eserciti della Convenzione, e più tardi, benchè convertita in delusione, la potenza di Napoleone; la parola che Dio scrisse nella prima pagina del libro della creazione, il core. - L'avete voi detta? Avete voi gittato in mezzo alle turbe quel nome magico, che annunciando all'uomo la propria dignità, crea dallo schiavo l'eroe, quella parola d'eguaglianza, che Cristo aveva pronunciata diciannove secoli addietro, e che in un mondo corrotto, anarchico, egoista, incredulo, lacerato dai barbari aveva pur bastato a fondare una religione? Avete voi detto al popolo: noi veniamo ad emanciparvi; veniamo a stringere il patto d'amore; veniamo a porre un termine alle vostre miserie? - No, avete tremato del popolo; del popolo senza del quale non farete mai nulla; del popolo, primo elemento delle rivoluzioni. Perchè, noi lo abbiam detto e lo diremo finchè prevalga, le rivoluzioni hanno ad esser fatte pel popolo e dal popolo; nè finattantochè le rivoluzioni saranno, come ai nostri giorni, retaggio e monopolio d'una sola classe sociale e si ridurranno alla sostituzione d'un'aristocrazia ad un'altra, avremo salute mai. Ma voi, dimenticando che una riforma sociale è viziata ne' suoi principî, se non comprenda e non rappresenti gl'interessi e i bisogni di tutte le classi; dimenticando che a trionfare avevate bisogno di braccia, e che ad averle è necessario animarle d'una idea di potenza, di fratellanza, e d'ammiglioramento, poneste mente a comprimere il popolo, e frenarlo nell'istinto del bene che lo agitava, e vietargli la lotta. Però il popolo vi lasciò soli; stette inerte a contemplare lo spettacolo d'una contesa, alla quale non era chiamato. - Un grado di progresso nella grande fusione sociale, nell'equilibrio possibile, ecco l'intento delle moltitudini. L'idea è nulla per esse, dove non sia scesa all'applicazione; e d'onde trapelò nei vostri atti, nella vostra carriera questo desiderio d'applicazione? - Io scorro i vostri mille decreti; dov'è un decreto, che proclami solennemente il principio della sovranità del popolo, sorgente di tutti i poteri? Dov'è un decreto che ordini l'esercizio del principio d'elezione, vastamente inteso e applicato? Dove un decreto, che dica al popolo: armatevi, e che provveda ad armarlo? Dov'è un atto solo in cui il popolo abbia schiusa, col suo intervento, davanti a sè la carriera della insurrezione?
Avevate una gioventù calda, ardita, impaziente d'azione, dalla quale potevate, sapendo, trarre una potenza invincibile; però che la gioventù è santa; la gioventù anela al sagrificio puro, e per premio, una speranza che le conforti il sospiro ultimo, una parola di lode. - Che avete voi fatto per essa? Quali sorgenti d'entusiasmo avete schiuso a quell'anime giovenili, che volano al grande collo slancio? Quali generose passioni avete tentato dirigere all'intento sociale? - Nessuna. L'anime giovanili s'erano infiammate al sole della novella Civiltà, s'erano levate sublimi alle idee di patria comune, di fratellanza italiana, di gloria europea, d'emulazione coi loro fratelli di Francia, di Brusselle, di Varsavia - e voi sfrondaste quelle idee fin dalle prime mosse, impiccoliste quell'anime nelle angustie d'una sommessione cieca ed inerte; le intorpidiste colla diplomazia; le fiaccaste colla diffidenza e colla paura. La gioventù fremea guerra, - e voi non che attentarvi pur di bandirla, non osaste intravvederne la necessità; non osaste mirarla in faccia un solo momento senza tremare; cacciaste nei vostri primi discorsi, ad agghiacciarle il sangue bollente, una parola di pace, di pace obbrobriosa, e impossibile. E mentre le grida dei giovani; commossi al pericolo dei loro fratelli di Modena e Reggio, vi richiedevano d'armi, di capi, e d'un cenno per volare a soccorrerli, voi mandavate la infame parola: le circostanze dei modenesi non sono le nostre72; rinnegavate l'Italia e i vostri fratelli decretando si togliessero l'armi, e si rinviasse nell'interno qualunque estero s'introducesse nello stato, però che nessuno de' vostri dovea prender parte alle querele dei vicini; e queste parole uscivano da labbra italiane, si parlavano ad Italiani, e gli esteri erano Italiani, favellavano un linguaggio italiano, e la bandiera che l'Austriaco calpestava coi piedi era italiana!!! - Sperda il tempo quella parola, e verrà giorno in cui le nostre generazioni ricuseranno di crederla. Ma in oggi, a chi non prepone all'utile della patria una illusione di meschino amor proprio, giova farla suonare alto, sì che l'Italia arrossisca d'averla intesa e sofferta! Giova ripeterla a snudare la piaga che dannava a morte una rivoluzione nata sotto bellissimi auspicî; giova dirla, perchè lo straniero impari a conoscere come furono tradite da pochi capi le più care speranze d'un popolo condannato finora a starsi errante tra la infamia dei gabinetti e la codardia de' suoi condottieri! Furono visti i settecento Modenesi di Zucchi attraversare Bologna disarmati e dimessi, in sembianza di prigionieri. I cittadini piangevano a tanta viltà; il ministro della guerra era Armandi, e dava quest'ordine mentre gli Austriaci avevano già oltrepassato il confine Bolognese; rotto il non-intervento a Modena, a Reggio, a Parma, a Ferrara; e tutto quel giorno (20 marzo), non fu dato un ordine ai cittadini armati raccolti ai quartieri; e fu pubblicato solamente un manifesto, in cui s'esortavano i cittadini non a preparare le barricate, ma a starsene tranquilli nelle proprie case; e s'affermava la guardia nazionale essere istituita a mantenere non la indipendenza della nazione, ma il buon ordine, e non altro; e fu sussurrato ai padri, ai capi di famiglia o di negozio, ai giovani stessi di non abbandonar la città per raccogliersi in Ancona; e chi facea queste cose, prometteva sarebbe stato l'ultimo a partirsi, poi si partiva primo, la sera, e secretamente! - Nè gli estremi pericoli sono scusa a siffatto procedere, però che nessun pericolo scusa dalla viltà, nè d'altra parte quelle codardie furono generate dalle incertezze degli ultimi momenti d'una rivoluzione caduta, ma furono effetto d'un sistema; del sistema che noi combattiamo; del sistema che parve adottato a infiacchire e sperdere la potenza d'ogni elemento rivoluzionario. - Nove dì prima di quel giorno, invasa Ferrara dagli Austriaci, e sostituita al Comitato Governativo una reggenza a nome del Papa per opera di Flaminio Baratelli, infamissimo tra gli uomini, usciva un bando del Governo Provvisorio bolognese, che parrebbe dettato dall'Austria, se le firme non fossero, a difendere e giustificare quella infrazione al patto del non-intervento; a coonestare per via di sofismi e d'arguzie forensi quell'atto di guerra aperta; a frenare l'impeto dei cittadini, che correvano all'armi, colle allegazioni del trattato di Vienna, colle esortazioni alla inerzia, colle promesse di pace73. E Ferrara aveva sette deputati a Bologna, e la unione e la libertà s'erano decretate solennemente! - Or credevano essi gli uomini del governo alle proprie parole o fingevano? Certo i posteri male potranno discernere se in quelli atti predominasse la viltà, o la ignoranza. - E nei primi giorni della insurrezione, quando urgeva dilatare l'incendio per ogni dove, e fomentare lo slancio, le prime voci che gli uomini influenti predicavano ai giovani armati erano voci di moderazione; e il primo giuramento che fu fatto prestare in pubblica piazza fu quello di: SIATE MODERATI; come se vi fosse moderazione possibile prima della vittoria; come se vi fosse altro giuramento in rivoluzione da quello in fuori d'essere, e farsi forti!
Con siffatti modi si voleva animare la gioventù! Con siffatti modi si pretendeva giovare alla rivoluzione italiana nascente!
Ed oggi v'è chi assume la difesa di quei ciechi decreti! V'è chi dimanda quasi schernendo PERCHÈ, se la gioventù fremeva avversa a siffatte cose, non si levò nello sdegno a ricacciar nella polvere i pochi che ne tradivano il voto!
Oh! io la so, io la so quella storia di sensazioni amarissime per le quali il giovine del secolo XIX trapassò sì veloce dall'entusiasmo alla indifferenza, dai conforti della speranza alle angoscie della delusione, dal grido di guerra al destino, alla fredda bestemmia del disperato! - Da prima uno slancio indefinibile, senza limiti, un delirio di gioja, un anelito alla lotta, una fiducia nella vittoria - e quando la prima voce di libertà si diffonde per le città, quando il primo stendardo patrio sventola sulle torri, un'adorazione a quella voce, a quello stendardo, un rinegamento, un oblìo totale di tutto ciò ch'è individuale, per impalmare le destre, e correre alle armi! Allora i primi che si mostrano rivestiti d'una missione sono venerati e seguiti colla stessa fede che meriterebbero dopo averla compiuta. La gioventù s'annoda, si stringe intorno ad essi, ad attendere il cenno, le norme per moversi. Poi, quando la lentezza, o la incapacità incominciano a mostrarsi nell'opere di quei duci, quando la espressione del voto pubblico esce travisata, indebolita, o velata, una incertezza di giudicio, una esitazione funesta, una speranza che gli arcani della profonda politica imperino quelle mosse timide, e inadequate all'intento. Poi, il sospetto, il freddo mortale sospetto insorge; la gioventù intende confusamente, che non v'è il potente alla testa; la gioventù freme ma tacitamente, però che il ribellarsi, il tumultuare, il cacciarsi innanzi da sè le frutterebbe taccia d'ambiziosa, d'irrequieta, d'incontentabile. La libertà s'affaccia ad essa così pura, così santa, che il grido della rivolta pare contaminarla. Intanto lo spirito pubblico si deprime; la diffidenza si stende; le voci di tradimento serpeggiano nelle moltitudini; i partiti si formano; e il nemico innoltra, profittando d'ogni cosa. - Poi, quando il momento della crisi è giunto, l'anatema ai capi s'innalza potente, ma è tardi; il precipizio è aperto, la rovina è inevitabile. Spento il coraggio, che dà la vittoria, rimarrebbe ai giovani il sagrifizio. Ma il sagrifizio per chi? Per nulla? Per quei che hanno minato, distrutto l'opera generosa? E senza speranza d'esito favorevole? - Allora un freddo s'apprende al core; allora un senso di stanchezza, di sconforto, di misantropia, s'insignorisce della facoltà; allora vien la bestemmia, la sterile, disperata bestemmia. Ecco anime perdute! Maledizione a chi le ha perdute! Maledizione a chi non seppe trarne cosa alcuna a pro della umanità!
Io lo chiedo ai giovani italiani. Quanti fra loro non hanno subìto la progressione di questi pensieri? Quanti fra loro non sentirono un palpito nell'anima, non balzarono di gioja generosa all'idea del pericolo? Chi è tra loro che non salutasse colla fede dell'avvenire il mattino, il fresco mattino, vegliato al sorgere sovra una rupe, colla bandiera al vento, la vedetta in distanza, un pensiero alla donna del suo core, e una palla pel primo soldato austriaco? Chi non ha inebbriato l'anima di questa poesia - poesia d'azione, di vita, di moto in tutte le facoltà, libera, piena, potente - poesia del secolo - poesia i cui primi raggi incoronano la zolla che ricopre l'ossa di Koerner, i secondi strisciarono sul fucile del Klefta e posano sul sepolcro di Botzaris, i terzi scherzeranno, io lo spero, intorno al berretto del giovine italiano sui gioghi dell'Apennino? - Ma come oprare, come tradurre in azione questa poesia dell'anima, dove tutto è paura, dove si combatte colla diplomazia non coll'armi, dove ogni pensiero virile è maledetto col nome d'audacia, dove mancano ordini, norme, esempli, materiali di guerra, incoraggiamenti; dove finalmente gl'individui che rappresentano quel voto d'una nazione che aspira a ringiovanirsi lo rinegano al primo apparire d'una bajonetta nemica?
VI.
Uomini delle rivoluzioni passate! Che volevate voi dunque quando assumeste l'ufficio di guidare le moltitudini, di dirigere l'insurrezione a un intento? - Noi torniamo a questa dimanda perchè è la sola che ponga la questione nel vero aspetto; la sola, che stabilisca un criterio per giudicare del passato utilmente per l'avvenire. - Se il voto nazionale, popolare, imponeva una condotta interamente diversa da quella che voi teneste; se non avete fatto cosa alcuna per verificare, per condurre ad effetto quel voto - che volevate voi dunque? Qual era l'intento che v'animava? il simbolo che dirigeva i vostri atti? la credenza politica che recavate sul seggio rivoluzionario?
Odo dire da taluni: le cose Italiane vanno trattate con maturità: nessuno è da più dei proprî destini, e i destini italiani non sono finora quei della Francia o degli altri popoli Europei che si costituiscono a nazione. Leggo scritto da un uomo che tenne nell'ultime vicende un ministero, anima della rivoluzione: la riunione d'Italia non sarà mai che una brillante utopia (e queste parole noi le registriamo quaddentro, perchè in esse sta il segreto delle passate sciagure, e perchè i giovani, che sentono come noi sentiamo, si rinfiammino a smentirle): dobbiamo adunque limitare i nostri sforzi al miglioramento delle nostre istituzioni... nei diversi stati che la compongono. Il solo voto, il cui compimento possa sperarsi in questo momento, è quello di vedere sparire la divisione assurda e meschina della parte centrale, e d'ottenere la riunione di queste frazioni in un solo stato valente a sostenersi da sè74. - Così scrive in Parigi, coll'idioma francese, e davanti all'Europa il ministro della guerra delle provincie insorte nel 1831, perchè l'Europa esclami: con siffatti uomini poteva aver esito prospero la rivoluzione italiana? - E nè egli, nè quanti giudicano com'egli giudica, intendono l'Italia, e come tra noi il bisogno di unità sia oggimai più fortemente sentito che non quello di libertà, dacchè per esser libera una gente ha necessità d'esistere come nazione. Ma a lui, e a quanti in criterio politico gli somigliano, la gioventù italiana insorta nel 1831 ha diritto di dire: «Perchè avete accettato l'ufficio a che noi vi ponemmo? Perchè con un pensiero diametralmente opposto a quello di cui noi chiedevamo lo sviluppo, avete pure assunto la nostra assisa, inframmettendovi alle cose nostre? Se non avevate energia o concetto rivoluzionario, dovevate almeno serbare intatta la buona fede. E quando noi vi fidammo l'incarico di condurre la impresa italiana, perchè non rivelaste il vostro sospetto? Perchè le parole che oggi scrivete a giustificarvi anche a spese dell'utile nazionale, non le avete proferite allora, che potevano fruttare utilmente alla patria? O avevate allora sagrificata la vostra opinione alla universale, avevate determinato di tentare le sorti italiane e vedere se mai quella ch'oggi dite utopia fosse una verità - e perchè opraste vilmente? Perchè rifiutaste i mezzi che vi s'offrivano? Perchè chiudeste la via di Roma a quei che il buon senso politico aveva spinto a quella volta? Perchè vietaste l'organizzazione delle milizie che il figlio del conte di San-Leu progettava, e ve ne vantate? Perchè diceste al barone di Stoelting, che non chiedevate se non pace ed amicizia all'Austria, e ve ne vantate? Perchè impediste alla gioventù di promovere una rivoluzione nella Toscana, e ve ne vantate? - O avete falsato il giuramento tacito che prendeste, assumendovi la direzione del moto; avete sostituito il concetto proprio al concetto della nazione; avete tradito il mandato che vi s'era imposto - e allora tacete; non aumentate i vostri torti, scrivendo; non vi paragonate a Kosciusko, e ricordatevi che Kosciusko fu trovato sul campo delle patrie battaglie trafitto dalle palle nemiche!»
Altri furono di buona fede. Amavano la patria, amavano l'unità italiana, senza la quale non v'è libertà, ma tremarono - e il tremare in rivoluzione è delitto. Come gli antichi, deificarono la paura; ma gli antichi rivolgevano la faccia del simulacro al nemico, essi gli ergevano un altare nel proprio core. Travolta la mente dalle vecchie norme, non intravvidero salute che nelle diplomazie - lo dissero almeno. - Senz'attentarsi di fare la più piccola prova delle forze italiane, disperarono d'esse, e disperano. Furono incerti, esitanti dai primi passi; non ebbero virtù d'animo forte e sprezzatore d'ogni pericolo per lanciarsi a corpo morto nella carriera del sacrificio, nè logica di spirito rivoluzionario per intendere come l'efficacia d'ogni diplomazia posi sulla forza e sull'armi. Pregarono e piansero: fu questa diplomazia? Gli Austriaci invadeano il Modenese - ed essi rinegavano i Modenesi. Gli Austriaci s'impossessavano di Ferrara - ed essi mandavano bandi a giustificare gli Austriaci. Gli Austriaci violavano il confine bolognese - ed essi fuggivano. Era questa diplomazia? Credevano essi che l'Austria si fermasse alle porte della loro città? Ideavano che una scintilla di libertà potesse sorgere e mantenersi in qualunque parte d'Italia, senza che l'Austria accorresse a spegnerla? Insurrezione e guerra coll'Austriaco sono una cosa per noi, perchè la libertà trapassa muri e ripari, e l'Austria, consapevole della potenza dell'esempio, non può nè deve appagarsi della promessa di non estendere la rivoluzione oltre certi confini. O fidavano nella Francia? Fidavano sul principio del non-intervento? Nelle parole di Lafayette? - Ma la Francia non poteva scender nel campo che a guerra incominciata, ed essi non volevano romperla, non raunavan forze e materiali per sostenerla un sol giorno - ma il non-intervento (parola infame in bocca degl'insorti, però che la idea del non-intervento valendo soltanto tra paesi stranieri, riconosceva, applicata a noi, la legittimità dei governi, che ci dividono) violato già dalla Francia nelle cose del Belgio, non poteva allegarsi efficacemente davvero se non in quanto l'intervento austriaco s'opponesse alla volontà nazionale; ed essi comprimendo qualunque manifestazione di questa volontà si tentasse dai nostri, non movendo un passo per dichiararla coi fatti, ajutavano i sofisti dottrinari a rivocarla in dubbio - ma Lafayette aveva detto: italiani, meritate la libertà, e la francia vi assisterà; ed essi a meritarla, decretavano toghe, facevano editti sul bollo delle carte da gioco, mutavano professori d'università, col barbaro a venti passi. Era questa diplomazia?
Ma se un uomo fra quei che reggevano fosse sorto e avesse parlato agl'Italiani queste parole:
«Non fidate nello straniero; la libertà non è veramente ottenuta, se non la conquistano i cittadini col proprio sangue; nè lo straniero scenderà a versare il suo sangue sulle vostre campagne, se non quando paventerà in voi un nemico potente o vedrà in voi un potente ausiliario. La libertà isterilisce rapidamente quando è commessa a mani d'esteri. Se volete essere ajutati, mostratevi forti; cominciate per cancellare la macchia di viltà che v'appongono; invocate il rispetto de' dritti o la simpatia de' popoli coll'arme al braccio. La diplomazia s'appoggia sulla minaccia: non v'è diplomazia per chi fugge: ma uomini e Dei soccorrono al forte. - In rivoluzione, l'arrestarsi prima d'aver toccato lo scopo, è colpa gravissima. Proclamate l'intento sociale della rivoluzione; enunciatelo al popolo; chiamate le moltitudini all'opra. L'onnipotenza sta nelle moltitudini: convincetele che voi non oprate se non a migliorare il loro destino; scrivete sulla vostra bandiera: eguaglianza e libertà da un lato, dall'altro: Dio è con voi; fate della rivoluzione una religione; una idea generale che affratelli gli uomini nella coscienza d'un destino comune e il martirio: ecco i due elementi eterni d'ogni religione. Predicate la prima, slanciatevi sublimi verso il secondo; cacciate la gioventù alla testa delle moltitudini insorte: voi non sapete gli arcani di potenza nascosti in quei cori giovanili; non sapete la influenza magica che la voce dei giovani esercita sulle turbe: voi troverete nella gioventù una folla d'apostoli alla nuova religione. Ma la gioventù vive di moto, ingigantisce nell'entusiasmo e nella fede. Consecratela coll'altezza d'una missione; rinfiammatela colla emulazione e colla lode; diffondete ne' suoi ranghi la parola di foco; la parola dell'ispirazione; parlate ad essi di patria, di gloria, di potenza, di grandi memorie - poi rovesciate moltitudini e gioventù sull'Austriaco; bandite la crociata addosso al barbaro che divora l'oro italiano, che beve il sangue italiano, che profana le memorie italiane, che sfronda colla sua sciabola i cedri dei nostri terreni, che contamina l'aure del nostro cielo, che ci toglie vita, patria, nome, gloria, intelletto e sostanze - e assalite primi. le rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo. Insurrezione e guerra sono sinonimi e poichè non potete sfuggirla, rompetela primi: rompetela in modo che non lasci via di pace o di tregua; snudate la spada e cacciate via la guaina; ma badate se non è guerra d'eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi che la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e vilmente! Badate che dove il tamburo non s'accompagni del suono delle campane a stormo, dove il fatto campale non alterni colla barricata, cadrete! Badate che dove non calcoliate esattamente le vostre forze, dove non adottiate un metodo di guerra speciale, dove presumiate troppo o troppo poco di voi, cadrete! volgetevi ai monti: là sono le speranze della libertà; là stanno le vostre difese insuperabili eterne, sol che vogliate; di là scendete, dilagatevi nelle varie contrade italiane; gittate in mezzo ai vostri fratelli un brano di bandiera Italiana, un grido di risurrezione: avrete un eco per ogni dove, perchè dapertutto è dolore, oppressione, anelito alla libertà santa. - Fate questo; poi, se il secolo vi contrasta il passo, se la prepotenza degli umani destini v'affoga, allora... allora libate a giove liberatore e morite. Avrete almeno morendo il conforto di non aver tradito voi stessi, d'aver lasciato una scuola che i posteri imiteranno, d'aver versato un sangue che frutterà un giorno o l'altro - ma inevitabilmente - il vendicatore.»
L'uomo che avesse parlato queste parole, sarebbe stato l'eletto del popolo; quell'uomo avrebbe mutato forse le sorti italiane.
Perchè chi può calcolare l'influenza d'un fatto generoso, d'una mossa rapida, d'un esempio virile davvero? Chi può calcolare le conseguenze d'una incursione nella Toscana? Chi può prevedere i risultati d'un assalto dato a Massa di Carrara, invocato - e il Governo Provvisorio modenese lo sa - da inviati della Liguria? - Forse il Piemonte sorgeva; forse gli Abruzzi tornavano alle prove antiche; forse, sedotto dalle nuove d'una resistenza ostinata ed eroica, il popolo francese trascinava i suoi governanti a partito più leale e più nobile. Ma dove nessuno ordinava la resistenza; dove il terrore sedeva nel consiglio, accanto ai ministri, sul seggio del Presidente; dove i governi rivoluzionarî capitolavano prima d'aver tratto un colpo solo di cannone; quali speranze potevano concepire le moltitudini e che slancio esigere nell'Italia? Quella capitolazione fu l'ultimo atto d'una carriera di codardie; pose il suggello alle colpe. Fu fatta quando la nuova del fatto di Rimini non era giunta ancora all'orecchio di chi segnava e tutte le forze - quali pur fossero - erano, nell'opinione del governo, intatte. Fu fatta, quando i poteri di chi segnava erano nulli, e la somma delle cose era rimessa nelle mani di tre uomini, atti a reggere l'impresa senza viltà. Fu fatta dietro un'esposizione incompleta e inesatta dei generali Armandi e Busi: e i componenti il governo tremavano della non accettazione e mandavano agli inviati «d'adoperarsi possibilmente affinchè fossero stipulate le convenzioni di salvezza che ognuno conosce: lasciando però al loro prudente arbitrio di adottare quelle deliberazioni che nella somma urgenza delle cose credessero all'uopo opportune75» cioè, a chi ben vede d'arrendersi a discrezione, ove le condizioni proposte fossero rifiutate. Importava agli uomini del governo d'arrendersi, non il come. E se a chi magnifica in oggi la sapienza e il patriottismo di quella Capitolazione si mostrassero le lettere scritte pochi dì dopo da taluno ai Cardinali, a implorare dalla sacra Porpora il perdono e l'oblìo delle colpe asterse (dal Benvenuti) non gli rimarrebbe che un fremito d'ira per la immensa paura de' pochi preposti. Colpe! Oh sì! ve ne hanno; ma non v'è amnistia, o bacio di Porpora che possa astergerle; nè l'Italia dimenticherà facilmente.
VII.
Leviamoci da cotesto fango. Parliamo all'Italia, parliamo alla gioventù che fremeva e freme e nella quale stanno riposte le più care speranze italiane. Confortiamo nei pensieri dell'avvenire, e nella coscienza d'aver parlato utilmente alla patria, l'anima stanca d'errare tra le rovine d'un passato doloroso, con un ufficio che non concede di scrivere una sillaba senza gemito. Ora il nostro ufficio è compiuto. Stendiamo una pagina di dimenticanza tra il passato e noi. Noi l'avremmo stesa assai prima, se non corresse debito incancellabile a ogni uomo che ama la patria anzi ogni altra cosa, di segnare i precipizî ove caddero i primi, perchè non vi rovinino i secondi; e di esercitare tutta la severità del giudicio sovra gli uomini che assumono la direzione della cosa pubblica, onde astringerli a dritto sentiero.
Giovani miei concittadini! Se in voi è proposito deliberato e tenace di risurrezione, la voce del giovine come voi, che si sente acceso delle stesse vostre passioni, che v'ama come la speranza del secolo, che intravvede un avvenire di gloria per voi, che veglia questo vostro avvenire, quest'aurora della vostra emancipazione, coll'affetto d'una madre all'infante, che sente balzarsi il core d'una gioja insolita ogni qual volta intende un bel fatto vostro, che non vive se non in un concetto vostro tutto, che darebbe la vita per accrescervi lode, che la darà quando sorgerà il gran momento - la sua parola nulla per sè, fiacca, debole e impotente ad esprimere le passioni generose che gli fremono dentro, dovrebbe pure infiammarvi ad oprare! Non vi avvilite, perchè i primi tentativi fallirono: nulla è perduto, se il coraggio non è perduto. Ponete una mano sul cuore: lo sentirete battere di potenza. Siate dunque potenti. - Vogliate, e farete. Rannodatevi a noi; riconcentratevi alla bandiera che noi inalziamo: essa è vostra questa bandiera; e se noi l'inalziamo primi, non è che un beneficio - il solo beneficio - che ci concede l'esilio. Rannodatevi a noi, finchè il caso ci dà di bandire l'espressione del concetto, che vi si agita nel petto: poi quando voi saluterete il momento che vi schiuderà la via delle azioni, allora sorgete e calpestatela: inalzatene una più bella e più vasta e calpestate la nostra - calpestatela, perchè avete un grado di progresso a salire; perchè noi non siamo tristi, ma voi avete ad essere migliori; perchè infine ne abbiam bisogno a smentire le accuse che forse ci movono, a provare che noi non aspiravamo a cosa alcuna individuale. - Ora i nostri ammaestramenti possono esservi utili: l'unità di principî e di direzione può esservi necessaria. Allora, l'unità sarà ben altrimenti potente: allora dovrete farla sorgere voi. Guarderete d'intorno a voi e nei nostri ranghi: gli eletti di Dio alla rigenerazione vi si riveleranno nell'attrito delle circostanze e dei casi. Dove scorgerete religione di pochi ma fecondi principî - esattezza di conseguenze logicamente dedotte e intrepidamente applicate - potenza di sagrificio illimitato - intelletto ed entusiasmo - e tanta solennità di manifestazione di opinioni da non poter retrocedere senza infamia e rovina totale, là sceglierete. Là stanno i vostri capi: là nella scelta accurata, sta la salute dell'Italia e la vostra.
Qu'il n'ait qu'un seul amour, l'amour du peuple; qu'un source de poésie, la souffrance du peuple; qu'une ambition, la délivrance du peuple!
Que tout privilège excite sa haine comme un vice. Que la vue de toute misère et de toute dégradation le trouble comme un remords.
Que pendant son sommeil, ces seuls mots soient murmurés par ses lèvres: l'avenir du peuple! Et que pendant le jour ces mêmes mots ne puissent être prononcés devant lui sans que sa poitrine frissonne, et que des larmes brulantes étincellent à ses regards.
I.
Dalla meditazione severa sulle vicende dei quaranta anni trascorsi e sulle cagioni per le quali molti dei tentativi operati con animo generoso a pro della emancipazione de' popoli tornarono in nulla, emerge parmi, un fatto singolarissimo che giova anzi ogni altra cosa distruggere, perchè frappone un ostacolo grave ai disegni degli uomini liberi, ed è questo: che i più fra quanti combattono la tirannide politica, intellettuale e civile o non hanno o non manifestano un simbolo intero, una credenza coordinata. Distruggere, rovesciare il vecchio edifizio sociale; sperdere le reliquie del feudalismo; rompere i ceppi agli uomini d'una nazione - in questo concordano. Più oltre s'arrestano incerti, come se a quel termine avesse fine la loro missione. Procedono animosi com'Attila, nell'opera devastatrice: com'egli, davanti a Roma, s'arretrano paurosi davanti a ciò che dev'essere intento all'impresa, davanti alla parola che deve ridurre a formola le loro dottrine, a definizione i loro progetti. Non parlano di fondare, o se lo fanno, è linguaggio timido, misterioso, indeterminato per siffatto modo che varrebbe meglio tacersi. Scrivono libertà sulla loro bandiera. Libertà di che sorta? Come ordinata? Da quali principî dedotta? - I senatori Veneti facevano suonare alto quel nome; ma la loro libertà si stava confinata tra: a palace and a prison76, tra i piombi e la bocca del leone. - I Genovesi l'aveano scritta sulle loro prigioni; e v'è tal contrada in Europa che ricorda in oggi la prigione dei Genovesi. - Bentinek l'affacciava agli Italiani del 1814 sullo stendardo Britannico, e gli Italiani sanno come il congresso di Vienna interpretasse quella parola. Non v'è usurpatore, tiranno o invasore straniero che non abbia cacciato innanzi a sè quel vocabolo a spianarsi la via del trono o della rapina. - È dunque necessario determinarne il senso e le applicazioni; e nol fanno. Paventano le divisioni, come se un dì o l'altro, compita l'opera di distruzione, queste non dovessero insorgere, e più tremende perchè non calcolate. Paventano l'accusa di dittatura, come se tra l'esprimere un'opinione e imporla colla forza non corresse un divario infinito. Paventano d'errare come se l'errare fosse delitto, come se non rimanesse sempre aperta una via d'ammenda all'errore, morendo in un angolo della patria per la volontà nazionale manifestata.
Noi non paventiamo l'accusa di fautori di divisioni, però che il nostro franco discorso può, come sovente dicemmo, chiarirle, ma non crearle, e d'altra parte, se noi a proporre un simbolo del futuro, vogliamo attendere che tutti consentano, meglio è ristarsi; dacchè i buoni ad affratellarsi con noi hanno bisogno di conoscerci quali siamo, i tristi non consentiranno mai; nè d'essi curiamo. - Non paventiamo d'errare, perchè, o il popolo sarà con noi, e la verità sta col popolo, o i nostri principj verranno respinti dal voto dei più, e noi curveremo riverenti la testa davanti alla maestà del voto nazionale. - All'accusa d'ambizione noi sdegneremmo rispondere. E però noi diremo il nostro simbolo liberamente, come liberamente lo concepimmo. Cercare la verità con animo spassionato e tranquillo; bandirla con entusiasmo e fiducia; e morire per essa, quando il sagrificio frutti utilmente: questo è il debito del cittadino alla patria, e non altro. Questo faremo. Apriamo un campo e vi convochiamo i nostri fratelli. Spieghiamo primi la nostra bandiera, però ch'essa è pura, incontaminata. Ognuno sollevi lealmente e generosamente la sua. - L'Italia darà giudicio, e al giudicio italiano nessuno vorrà o potrà ribellarsi.
Nelle circostanze presenti, la missione dell'uomo è doppia: abbattere uno stendardo e inalzarne un altro; spegnere un errore e rivelare una verità; struggere ed edificare. Chi dimezza l'opera, non intende la chiamata del secolo. Noi siamo in sul finire d'un'epoca critica, e sul cominciare d'una organica; al tramonto d'un ordinamento sociale, all'alba d'un altro, e dobbiamo rifletterne i primi raggi. Stiamo fra il passato e l'avvenire e a voler promuovere lo sviluppo della civiltà, ci conviene dalle rovine del primo cacciare le prime linee del secondo. Ci corre debito inviolabile, sciogliendo i ceppi all'umanità e restituendola al moto, illuminarle la via, e farle almeno intravvedere un intento politico al viaggio. Ci corre debito inviolabile, emancipando una razza, condurla almeno, come Mosè, in faccia alle terre promesse - quand'anche come Mosè, noi dovessimo salutarla da lungi e morire. -
Quella smania di struggere senza fondare, quel grido di morte lanciato al presente senza una voce che annunzi la vita dell'avvenire, quella incostanza di dottrine e di norme, che bene spesso ha meritato ai tentativi dei liberi la taccia di preparatori dell'anarchia, è contrassegno profondo ancora del secolo - secolo di transizione, di lotta, di guerra fra gli elementi che costituiscono la società. Nelle lettere, nella filosofia, nell'altre discipline, lontane dalla politica, ma che pure sono raggi dello stesso foco, espressioni varie d'un solo pensiero, noi vediamo riprodursi la stessa tendenza, o meglio la stessa assenza di tendenza distinta, quindi di concentramento agli sforzi individualmente tentati. - Il romanticismo in letteratura, lo scetticismo in filosofia hanno eretta una bandiera nera, senza nome, senza motto, senza carattere determinato che possa farne bandiera di moltitudine. Il primo ha rotto le porte della religione che i trattatisti, i professori, le accademie, e i pedanti avevano imposta agli ingegni, e schiudendo uno spazio infinito all'intelletto inceppato da secoli, ha gridato: sei libero, va come vuoi e fin dove puoi; - ed oggi, che l'intelletto lanciato a corsa sfrenata, s'è perduto nel misticismo o s'è cacciato nelle rovine de' bassi tempi, esclamano: l'intelletto ha bisogno di trattatisti, e accademie. - L'altro, sfrondando a un tempo superstizioni e credenze, confondendo le forme mutabili delle cose colla sostanza, struggendo - o tentandolo almeno - simbolo e idea, ha snudato i vizî delle credenze, e creduto abolirle; ha rovinato l'altare senza por mente al pensiero che fece di quell'altare un sacrario all'umanità: ha creato il vuoto intorno all'uomo, stimando costituirlo libero; poi, quando s'è avveduto che l'uomo brancolava in quel vuoto, e cercando un appoggio, e non trovandolo, ricadeva alle antiche credenze o a peggiori, lo scetticismo ha sorriso, crollando la testa ed esclamando: l'uomo è un ente debole; non v'è progresso, ma una vicenda eterna di generazioni progressive e di retrograde.
Il progresso esiste, esisteva esisterà, perchè è legge di Dio - nè tirannide civile o sacerdotale può romperla. La vicenda eterna è interpretazione meschina alla gran pagina della storia del mondo data da chi sostituisce nei suoi giudizî, la propria vita, la propria epoca, la propria nazione alla umanità: tronca il nodo, non lo discioglie. L'uomo individuo è debole: l'uomo collettivo è onnipotente sulla terra ch'ei calca, e l'Associazione moltiplica le sue forze a termine indefinito. Bensì la libertà è altra cosa che una protesta o una negazione contro ciò ch'esiste. La libertà è un ordinamento della facoltà umana all'intento voluto dalla natura; la libertà è una rivelazione di verità alle moltitudini; la libertà è il trionfo d'un principio passato dalle dottrine dei saggi all'approvazione, alla sanzione di tutti; nè senza un principio che vivifichi le forze motrici della società, senza una unità potente che le colleghi, le coordini e le concentri tutte a un sol fine, le rivoluzioni, ossia le conquiste d'un grado di sviluppo e di perfezionamento, riusciranno durevoli mai. - Ora, non è certamente nello scetticismo o nel materialismo del secolo XVIII, teorica fredda, negativa ed essenzialmente individuale, che noi rinverremo questa unità. Non si fonda, negando; e noi dal core, dagli studî storici, dalla osservazione dell'umana natura, dall'andamento delle società, abbiamo desunto, che siamo al limitare d'un'epoca, cioè al tempo in cui la crisi morale spinta agli ultimi termini annuncia una operazione radicale da compiersi nella società, la scoperta d'una nuova relazione fra gli esseri che la compongono, la rivelazione d'una legge organica: - che il carattere di differenza tra l'epoca della quale noi siamo le prime scolte, e l'epoca ora consunta, è che questa nuova dev'essere altamente sociale, laddove l'antica era individuale; l'opera dei grandi popoli laddove quella era dei grandi uomini, l'epoca d'ordinamento ai materiali e non altro: - che l'epoca dovendo somministrare un grado di sviluppo maggiore all'associazione civile, è necessaria l'esistenza e l'ammessione d'un principio, nella cui fede gli uomini possano riconoscersi, affratellarsi, associarsi: - che questo principio dovendo porsi a base della riforma sociale, dev'essere necessariamente ridotto ad assioma: e dimostrato una volta, sottrarsi all'incertezza e all'esame individuale che potrebbe, rivocandolo in dubbio ad ogni ora distruggere ogni stabilità di riforme: - che a rimanere inconcusso, è d'uopo rivesta aspetto di verità d'un ordine superiore, indistruttibile indipendente dai fatti, e immedesimato col sistema morale dell'universo: - che, da esso in fuori, tutto è mutabile e progressivo, perchè tutto è applicazione di questo principio; e il tempo svolgendo via via nuove relazioni tra gli esseri, amplia la sfera delle applicazioni: - e finalmente che questo principio, avendo a stabilire un vincolo d'associazione tra gli uomini, deve costituire per tutti un'eguaglianza di natura, di missione, d'intento. Altri vedrà qual sia questo principio ridotto ad espressione astratta nelle regioni filosofiche. Noi per ora, rintracciamone l'applicazione politica.
II.
Il popolo - ecco il nostro principio; il principio sul quale deve poggiare tutto l'edificio politico; il popolo; grande unità che abbraccia ogni cosa, complesso di tutti i diritti di tutte le potenze, di tutte le volontà; arbitro, centro, legge viva del mondo.
Il popolo! il popolo! - E quando noi ci stringemmo alla sua bandiera, e dicemmo, fin dalle prime linee del nostro giornale: le rivoluzioni hanno da farsi dal popolo e pel popolo, non era affettazione di calcolo politico, o detto gittato a caso: era la nostra parola, tutta la nostra dottrina ridotta a formola, tutta la nostra scienza, tutta la nostra religione stretta in un solo principio: era l'affetto delle nostre anime, il segreto dei nostri pensieri e della nostra costanza, l'intento delle nostre veglie, il sogno delle nostre notti; perché noi siamo popolo, e la natura ci temprava a sentire tutte le gioje e i dolori del popolo. E quando noi guardiamo il popolo, com'è in oggi, passarci davanti nella divisa della miseria e dell'ilotismo politico, lacero, affamato, stentando a raccogliere dal sudore della sua fronte un pane che la opulenza gli getta innanzi insultandolo; o ravvolgersi immemore nei tumulti e nell'ebbrezza d'una gioja stupida, rissosa, feroce, e pensiamo: là su quei volti abbrutiti, sta pure la impronta di Dio, il segno d'una stessa missione - quando, alzandoci dalla realtà al concetto che vede il futuro, intravvediamo il popolo levarsi sublime, affratellato in una sola fede, in un solo patto d'eguaglianza e di amore, in un solo concetto di sviluppo progressivo, grande, forte, potente, bello di virtù patrie, non guasto dal lusso, non eccitato dalla miseria, solenne per la coscienza dei propri diritti e dei proprî doveri - il popolo della lega Lombarda, della Svizzera ai tempi di Tell, della federazione del 14 luglio, delle tre giornate - noi sentiamo battere il core d'un palpito che geme sul presente e superbisce sull'avvenire, e compiangiamo quegli uomini che avendo un popolo a ricreare, traviano dietro a un principe a una famiglia, a una classe sola. Quelli uomini ignorano il loro secolo, le rivoluzioni e il segreto che le perpetua. L'epoca degli individui s'è consumata con Napoleone. Dopo Napoleone e Lafayette non v'è regno di nomi possibile; forse Lafayette s'è inoltrato troppo nel secolo, per avere sul suo sepolcro la corona popolare com'ei l'ebbe vivendo. Oggi il culto s'è trasportato dagli uomini ai principî e i principî soli hanno potenza per sommovere le nazioni. Ai nomi il popolo è muto, nè una rivoluzione può sottrarsi al popolo senza fallire all'intento. Dove tutti gli elementi politici che stanno in una nazione non son calcolati e rappresentati in un mutamento, il tentativo morrà tra le mani77 di chi cerca compierlo; ed oggi l'elemento popolare è comparso; il popolo ha inalzato la sua bandiera.
Un tempo, il popolo non vivea d'una vita propria, ma dell'altrui. Era elemento di civiltà, quindi di rivoluzione, ma come stromento che aspettava chi l'adoperasse; materia nella quale il genio spirava l'anima sua. Spento il genio ricadea nell'inerzia. Le moltitudini conculcate fremevano talora d'un fremito, che annunziava il bisogno di un miglioramento; ma quel fremito si consumava nell'impotenza dei moti isolati e non governati dalla mente che crea la vittoria. Bensì, perchè la legge del progresso insisteva, sorgeva a tempo l'iniziatore: sorgeva un nome, Gracco, Mario, Spartaco, o altri - e il popolo si stringeva a quel nome, si cacciava sull'orme di quel rivelatore d'un dolore, d'un bisogno sociale; ma non durava attivo oltre l'interprete del suo pensiero e il pugnale patrizio uccideva Gracco e le pretese del popolo a un tempo: nè da quei rivolgimenti usciva forse vantaggio da uno in fuori, che il popolo s'esercitava all'azione. Mancava al popolo la coscienza de' suoi diritti. Il paganesimo, religione che affogava l'idea nel simbolo, riducendo ogni cosa al fisico, materializzava in certo modo anche l'io umano, confinandolo nel sentimento unico della patria: il suolo creava diritti e doveri: diritti e doveri di cittadino, non d'uomo, spirito d'indipendenza e d'onore, non di libertà, e di perfezionamento morale. Perchè la religione di patria è santissima, ma dove il sentimento della dignità individuale e la coscienza di diritti inerenti alla natura d'uomo non la governino, dove il cittadino non si convinca ch'egli deve dar lustro alla patria, non ritrarlo da essa - è religione che può far la patria potente non felice; bella di gloria davanti allo straniero, non libera. E però il popolo romano non progrediva con Roma: era venerato da lungi, e servo del patriziato, o dei tiranni al di dentro, e più negli ultimi tempi che non nei primi - più dopo, poi che una parola di rivelatore ebbe mormorato agli uomini: siete fratelli! e una religione spirituale manifestò all'uomo una parte di sè diversa, indipendente, indomabile dalla materia e dalla forza. Distrutta in principio la ineguaglianza delle caste, abolita la servitù, il primo passo verso l'associazione fu dato, la prima coscienza de' suoi diritti svelata al popolo - e allora dopo un lungo soggiorno nel cielo, quasi a far riconoscere i suoi diritti da Dio, il pensiero del popolo scese in cerca d'uno sviluppo nella società e la lotta incominciò. Allora l'altare fu santo, perchè il popolo conculcato vi ricercava un rifugio e una forza; il papato fu santo perché s'appoggiava al popolo, proteggendolo dall'aristocrazia signorile; perchè somministrava al popolo una potenza morale contro la potenza materiale della conquista e del feudalismo; perchè costituiva il centro visibile d'una associazione universale e il popolo contemplava con gioja il servo cinto della tiara, calcare col piede la testa d'un imperatore. Poi, quando il papato, compita la sua missione e rinnegata la propria origine, fornicò coi tiranni, il popolo fu ghibellino, cercò gli antipapi, plaudì ai tentativi delle riforme. In tutta quell'epoca che si stende dalla parola di Cristo alla grande riforma nella quale ruppe l'antica unità, e alla rivoluzione francese nella quale creò la propria, il popolo visse d'una vita composta della sua e dell'altrui - ma visse. Troppo debole ancora per inoltrarsi da sè s'appoggiò ora ad una, ora ad un'altra forza speciale. Si strinse in Francia alla monarchia per distruggere l'elemento aristocratico ch'esso aveva già combattuto all'ombra delle abbazie e della stola sacerdotale. Si raccolse intorno ai baroni nell'Inghilterra, dove l'elemento signorile feudale preponderava, per restringere il principio monarchico. S'ordinò a comune in Italia; guerreggiò nelle Spagne sotto la bandiera degli Stati; si valse del commercio a costituirsi in associazione di città libere nella Germania. Sorse, giacque, risorse; ma sempre conquistandosi qualche frazione d'esistenza politica, sempre invadendo ad una ad una le molle sociali, sempre ampliando la propria sfera d'azione e minando la potenza di casta, sia lanciando una minaccia di distruzione colla jacquerie, e l'altre insurrezioni delle campagne, sia transigendo col potere a fortificarsi d'una carta, d'un diploma di borghese, d'un privilegio d'elezione nelle città. La storia dello sviluppo progressivo dell'elemento popolare attraverso diciotto secoli di vicende e di guerre, manca tuttavia e chi la imprendesse farebbe salire d'un altro grado la umanità, riducendo alla espressione più semplice l'enigma europeo e rivelando il segreto della lotta che tenne fino ad oggi divise le generazioni, e le terrà finchè gli uomini della libertà s'ostineranno a traviare, per sistemi di transazione e per conciliazioni impossibili dalla vera linea politica. La guerra tra gl'individui e l'universale tra il sistema frazionario e l'unitario, tra il privilegio ed il popolo, ecco l'anima di tutte le rivoluzioni, la formola della storia di diciotto secoli. Dominio e servaggio, patriziato e plebeismo, aristocrazia e popolo, feudalismo e cattolicismo nei primi tempi della Chiesa, cattolicismo e protestantismo negli ultimi, dispotismo e liberalismo, torna tutt'uno. Sono aspetti diversi della grande contesa, espressioni variate dei due principî che si contendono ancora il dominio dell'universo: popolo e privilegio. Ma il privilegio è agli ultimi aneliti nell'Europa; il popolo ha seguito sempre il suo movimento ascendente, finchè trovato un simbolo nella Convenzione, si posò eretto davanti al suo Creatore, e riconoscendone solennemente l'esistenza, ne78 derivò come Mosè, la tavola de' suoi diritti e della sua legge e ridusse l'universo a due termini: Dio e il popolo.
Dio - e il popolo; ecco il programma dell'avvenire.
Dio - e il popolo; questo è pure il nostro, e lo sosterremo con quanto ardore un convincimento radicato può dare.
È tempo di scendere nelle viscere della questione sociale. È tempo di predicare agli uomini che tentano la libertà della patria, che i loro sforzi hanno non solamente ad essere rivolti all'utile del popolo - in questo tutti concordano, - ma che devono proclamarlo altamente e dirigersi francamente all'intento; che il tempo delle paure è passato; che il popolo è sorto, e che senz'esso non avranno vittoria. È tempo di dire e ripetere a tutti: in Lione, in Parigi, in Bristol, in Londra, il popolo ha parlato; di mezzo alle barricate, e tra gl'incendî il suo grido v'ha rivelato la sua potenza a fare e distruggere: non dimenticate quel grido. Se non avete anima per affratellarvi alle moltitudini, nè intelletto per indovinarne il segreto, nè scienza per adoprarle utilmente; se non vi sentite potenti ad eccitarle e a dirigerle, ritraetevi; quando le sorti saranno mature per una rivoluzione, sorgerà il popolo e la compierà. Ma se vi sentite ispirati alla santa missione; se volete iniziarlo a un grado di progresso; se sperate diminuire la somma de' guai che accompagnano una rivoluzione, e trarlo all'intento senza gravi perturbazioni, senza spogliazioni, senza inutili carnificine, non dimenticate quel grido; non condannate all'inerzia le moltitudini frementi; non v'illudete ad oprare per esse; non fidate a una classe sola la grand'opera d'una rigenerazione nazionale. Se convertite una rivoluzione in guerra di classi, rovinerete; o non durerete senza violenze inaudite, senza fama d'usurpatori, senza accuse di novella tirannide. Le moltitudini sole possono sottrarvi alle necessità del terrore, delle proscrizioni, dell'arbitrario. Le moltitudini sole possono santificare col loro intervento i vostri atti; perchè sospetti ed accuse sfumano davanti al loro solenne consenso. Ma badate a non chiamarle nell'arena, quando, esaurite le forze, non vi rimane speranza che in esse, perchè allora non avrete più via di dirigerle; badate che il vostro appello ad esse sia la chiamata del forte, non il gemito della paura: badate che il vostro grido percota il loro intelletto, come un richiamo, la loro memoria, come una promessa d'avvenire infallibile, come una parola d'alta fiducia in voi, in esse, e nella vittoria. Così vincerete. - In altro modo non avrete che la tristissima soddisfazione d'aver durato per alcun tempo una lotta, senza efficacia d'intento - la maledizione di tutti coloro che sperando nei vostri sforzi vedranno ricadere le cose a eguali sorti, o peggiori - poi, gli onori del patibolo, la vergogna della disfatta, e una parola di diffidenza mormorata dai vostri, sul vostro sepolcro.
Noi italiani, più ch'altri, abbiamo bisogno d'avere le moltitudini con noi, perchè nessun popolo forse ha più ostacoli da superare - nè giova il dissimularli. - Abbiamo nemici al di dentro, pochi a dir vero, ma potenti di ordinamento, d'oro, e d'insidie. Abbiamo un esercito straniero, padrone di posizioni munite, di città primarie, di molte delle nostre fortezze, e superbo delle passate vittorie. Abbiamo le divisioni provinciali, che i molti secoli di sciagura comune hanno potuto logorare, ma non distruggere. Abbiamo, e questa è piaga mortale, la mancanza di fede in noi e nelle forze nostre, sicchè molti tra gl'italiani si stimano impotenti a fare e guardano oggi ancora allo straniero, come se dallo straniero potessero aver altro mai che nuove delusioni, nuovi ceppi, e nuovi tormenti. Abbiamo la inesperienza nell'arti di guerra, la innata diffidenza dei capi, e il perenne sospetto dei tradimenti, cresciuto in noi dagli eventi. E non pertanto a tutto questo porremo rimedio, se noi vorremo davvero. Non v'è ostacolo vero per ventisei milioni d'uomini che vogliano insorgere e combattere per la patria. I pochi nemici dell'interno, potenti all'astuzie, ma vili - e abbiamo fatti - al pericolo, o sfumeranno davanti al nostro primo grido di guerra, o li conterremo col terrore. Vinceremo lo straniero colla unità del moto, e con un genere di guerra insolita, forte di tutti i mezzi, diffusa su tutti i punti, varia, inesauribile, e tale che nè venti disfatte possono spegnerla, nè stagione od altro può imporle tregua, nè truppa disciplinata e avvezza alla battaglia campale può sostenerla gran tempo senza disordinarsi, senza sfiduciarsi, e perire. La scelta avveduta scemerà la diffidenza nei capi; e quanto ai tradimenti, è tradito chi vuole. Quando i capi sapranno d'avere la morte a fianco, e l'infamia alle spalle; quando la viltà sarà punita come la perfidia; e il libero linguaggio ch'or taluni riprovano, avrà tolto a' codardi e agl'infami la speranza di divorare il prezzo del tradimento nel silenzio comune, non tradiranno - o pochissimi. Ma per questo ci è forza avere le moltitudini; è forza, che il nostro vessillo sia vessillo di popolo; è forza presentarsi in campo colla maggiore potenza possibile; perchè abbiamo a compiere grandi cose, e soli tra i popoli, dalla Germania in fuori, abbiamo a conquistarci l'unità, l'indipendenza, la libertà. Ora, noi dobbiamo vincere, e rapidamente. - Prima legge d'ogni rivoluzione è quella di non creare la necessità d'una seconda rivoluzione.
III.
Ma per avere compagno all'opera le moltitudini, per suscitarle dalla inerzia che le occupa, quali vie s'affacciano al forte che tenti l'emancipazione della sua contrada? - Il popolo ha fatto il callo al suo giogo; il servaggio ha stampato profondo il suo solco sulla fronte del popolo, e la polvere di cinque secoli posa sulla sua bandiera. Dov'è la voce così potente che valga a rompere il sonno ai giacenti da secoli, e dire efficacemente: levatevi? - Dov'è il soffio che possa sperdere quella polvere, e restituire la vivezza degli antichi colori al vecchio stendardo del popolo?
Il popolo? - Ah! Se voi non lo aveste chiamato mille volte a risorgere, e mille deluso; se egli fosse vergine di passato; se una santa parola non gli fosse troppo sovente suonata parola di derisione; se la libertà ch'egli vedeva scritta sulle vostre insegne, ch'egli udiva con ansia d'aspettazione suonare alto da' vostri seggi, nei vostri consessi, non fosse stata per lui come il frutto del lago Asfaltide, bei colori al di fuori, cenere dentro; se quando egli fidava salire d'un grado nella scala sociale, non avesse trovato una nuova aristocrazia al luogo della rovesciata, il privilegio dell'oro sottentrato a quello del sangue; se, quando egli sperava migliorare di condizione e togliersi di dosso i cenci della miseria, egli non avesse trovato i nomi soli mutati, non già le cose; s'egli non vi avesse udito teorici di pretesa, legislatori meschini, contendere d'una interpretazione di legge, d'una formalità politica, mentr'egli, il popolo, chiedeva pane e un diritto di rappresentanza; se finalmente egli avesse trovato in voi una scintilla dei grandi riformatori, la virtù del martirio per la fede che annunciavate, io vi direi: chiamatelo! Mormorate alle generazioni la parola di libertà, la parola dell'avvenire; e le generazioni verranno alla vostra chiamata; e voi vedrete il popolo levarsi, rompere il sonno e le abitudini della inerzia, scuotere i cinque secoli di servaggio come il lione la sua criniera, e innoltrarsi gigante: però che il popolo, come il Nettuno Omerico, ha potenza per correre in tre passi la carriera rivoluzionaria; e i popoli si rinnovano alla parola di libertà, come gl'individui all'amore. Io vi direi: nessun popolo, chiamato a sorgere pei suoi diritti, ha rifiutato: nessun popolo - tranne forse il Portoghese oggidì, e la chiamata è di re, nè ispira fiducia. - Ma in oggi, conviene pur dirlo, la esperienza di tante rivoluzioni che non hanno fruttato miglioramenti alle moltitudini, ha insegnato al popolo la diffidenza. E però, dove dieci anni addietro bastava chiamarlo, in oggi è necessario convincerlo; dove un nome, una idea bastavano a creargli speranze, in oggi è d'uopo esporgli apertamente l'utile materiale che deve indurlo all'azione. Questi frutti escivano dai sistemi praticati dalla fazione dottrinaria francese. Vegliamo almeno a sottrarre i tentativi futuri italiani alla influenza della fazione dottrinaria italiana.
Una opinione generata dal desiderio non calcolato di raccogliere tutti i voti, tutte le sentenze intorno a un sol punto, vorrebbe levare il grido di Giulio II, gridar guerra al barbaro!..... e tacer dell'altro. - Nessuno rifiuterà, dicono, di sorgere alla chiamata contro l'Austriaco. Gli uomini s'affratellano volentieri nell'odio. Non inalzate bandiera speciale. Lasciate al futuro le questioni intorno alla forma del reggimento che avremo a scegliere. Non usurpate i diritti del popolo. Il popolo, liberata la terra patria, deciderà.
Il consiglio move da gente ch'ama veramente l'Italia, e si slancerebbe forse tra' primi alla santa crociata. Però, noi lo esponemmo, e lo combatteremo, rispettandolo.
Dapprima, - e i nostri lettori oggimai lo sanno, ma giova ripeterlo, - la unione di tutti i pareri, di tutte le opinioni, di tutte le credenze in un solo intento, sta per noi, come utopia seducente, ma pericolosa. Se la impresa che noi tentiamo fosse impresa di distruzione e non altro, la concordia non riescirebbe difficile: ma l'epoca, la missione di fondazione si concentra così strettamente alla prima, che noi non possiamo disgiungerle. Le antiche rivoluzioni fallirono in questo, che ordite a raunare i voti, comunque discordi, in un solo concetto generale e non abbastanza determinato, riescono potenti alla prima operazione, inette a compiere la seconda. I cospiratori raccolsero in un voto di rovina ogni sorta d'uomini; non interrogarono che volessero, ma soltanto che non volessero; commisero il resto al tempo. - Insorsero, e facilmente, però che vincevano in numero; ma il dì dopo, quand'era più urgente lo stringersi, gl'insorti apparivano divisi in più campi. - Le forze imponenti a principio, si smembravano in mille simboli, in mille sistemi d'ordinamento civile; perchè l'insurrezione avea, struggendo il nemico comune, restituito ad ognuno la indipendenza; e ogni uomo si sentiva forte a inalzare la bandiera, che gli studî, le passioni e il calcolo gli suggerivano. Però riescivano inefficaci a resistere, e cadevano: con quanta vergogna d'Italia noi possiamo sentirlo nel core, o leggerlo sulla fronte dello straniero! Ma noi v'abbiamo imparato a non calcolare di troppo la importanza delle unioni che aggregano elementi eterogenei per via di programmi insignificanti o d'un breve entusiasmo. V'abbiamo imparato che non v'è bacio Lamourette pei partiti che dividono una nazione; e che potenti, possono spegnersi, non confondersi; deboli, si confondono, ma facendosi, e mostrandosi forti, - e in politica, quel partito è più forte che rappresenta non la più alta cifra, ma la più alta e intera concordia di volontà. Però noi vogliamo non unire, ma unirci; non consumare gli sforzi e il tempo a conciliare cose di diversa natura, ma stringere a falange serrata gli uomini che professano le nostre credenze. A questi, diffusi e isolati fin qui, abbiamo detto e diciamo: giovani o canuti, forti di braccio o di senno, siate con noi; rannodatevi alla nostra bandiera. Agli altri: rimanetevi: voi non potete essere con noi; ma concentratevi, e non ci accusate d'usurpazione: perchè o i più risponderanno alla nostra chiamata, e il diritto sarà con noi: o rimarremo minorità, e noi non attireremo sulle teste dei nostri concittadini la maledizione delle risse civili.
Ma quando avremo cacciato in Italia il grido di: guerra al barbaro; quando l'altra faccia del nostro stendardo non presenterà una parola di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale alle moltitudini, le moltitudini saranno con noi? - Non posiamo le basi dell'avvenire sopra illusioni. Le nazioni in oggi non si levano per una bandiera di guerra. Le nazioni non sorgono che per un principio. Gemono oppresse, immiserite, conculcate dalla tirannide, e contro alla tirannide si leveranno: ma la tirannide è tremenda, cittadina o straniera. A noi, potenti d'odio e d'amore, educati dagli studî, dai monumenti e dalle pagine storiche all'orgoglio della sventura, può stringere l'anima di più vergogna, e commoverla del fremito italiano, il sapere che chi ci opprime parla una parola non nostra, e che la sciabola, suonante oggi sulle tombe dei nostri padri è sciabola di straniero - ma le moltitudini intendono il grido di libertà più che quello d'indipendenza. Poi, l'assisa Austriaca splende abborrita agli occhi dell'Italiano di Lombardia, perchè le messi, gli uomini, l'oro lombardo trapassano nei granai, negli eserciti, nelle casse dell'Austria: ma gl'Italiani del Piemonte, del Genovesato, di Napoli, della Toscana, non sentono direttamente questo giogo sul collo. Il bastone di Metternich governa i tirannetti italiani; ma è segreto di gabinetto, e le moltitudini non s'addentrano nei gabinetti. Il pensiero del popolo erra fremente sulle piazze delle città, per le vie, nei tugurî, lungo i solchi delle campagne; non varca, - o di rado - oltre alle frontiere. Il barbaro per l'uomo del popolo è l'esattore, che gl'impone un tributo sulla luce ch'egli saluta, sull'aura ch'egli respira; il barbaro è il doganiere che gl'inceppa il traffico; il barbaro è l'uomo che viola, insultando, la sua libertà individuale; il barbaro è la spia, che lo veglia nei luoghi dov'ei tende obliare l'alta miseria che lo circonda! Là, nelle mille angherie, nelle vessazioni infinite, nell'insulto perenne d'un insolente potere, d'una esosa aristocrazia, stanno i guai delle moltitudini: di là avete a trarre quel grido che può farle sorgere. Gridate all'orecchio del popolo: la tassa prediale v'assorbe la sesta parte o la quinta dell'entrata - le gabelle imposte alle polveri, ai tabacchi, allo zucchero, ed altri generi coloniali, agguagliano la metà del valore - il prezzo del sale, genere di prima necessità, v'è rincarito di tanto che nè potete distribuirne al bestiame, nè talora potete usarne pur voi medesimi - la necessità d'adoprare pei menomi atti, per le menome contrattazioni, la carta soggetta al bollo v'è sorgente continua di spesa - i vostri figli sono strappati alle madri, e cacciati nei ranghi di soldati, che v'appunteranno al petto le bajonette, sol che il vostro gemito si faccia potente per salire al trono del tiranno che vi sta sopra; nè v'è speranza per essi di promoversi nelle patrie battaglie a condizione onorevole. Dite al popolo, per te non v'è dritto, - non rappresentanza, - non ufficio - non magistrato speciale - non amore, - non simpatia: v'è pianto, e miseria: v'è oppressione civile, politica, sacerdotale: v'è tirannide del principe, scherno dei subalterni, insulto di soldatesca, prepotenza di privilegio, d'opulenza - perpetuità di servaggio, palco e scure se t'attenti di romperlo senza vincere! - Poi mormorategli le grandi memorie de' Vespri, di Masaniello, di Legnano, del 1746: narrategli le battaglie di Parigi, di Bruxelles, di Varsavia: narrategli le barricate, le picche, le falci. - Ditegli: sta in te l'imitare quelli atti; sorgi gigante nella tua potenza: Dio è con te: Dio sta cogli oppressi! Quando vedrete passare sopra quei volti un pensiero di vita, quando udrete levarsi, come un vento sul mare, il fremito popolare - allora - ma allora soltanto, slanciatevi alla sua testa, stendete la mano alla terra Lombarda: là stanno gli uomini, che perpetuano il vostro servaggio: stendetela all'Alpi: là stanno i vostri confini: - e mandate il grido di fuori il Barbaro: guerra all'Austriaco! - Il popolo vi seguirà.
IV.
E v'è una parola che il popolo intende dovunque, e più in Italia che altrove, una parola che suona alle moltitudini una definizione dei loro diritti, una scienza politica intera in compendio, un programma di libere istituzioni. Il popolo ha fede in essa, perchè egli in quella parola intravvede un pegno di miglioramento e d'influenza - perchè il suono stesso della parola parla di lui, perchè egli rammenta confusamente che s'ebbe mai potenza e prosperità, le dovette a quella parola scritta sulla bandiera che lo guidava. I secoli hanno potuto rapirgli la coscienza delle sue forze, il sentimento de' suoi dritti, tutto; non l'affetto a quella parola, unica forse che possa trarlo dal fango d'inerzia ov'ei giace per sollevarlo a prodigi d'azione.
Quella parola è - repubblica. -
Repubblica - ossia cosa pubblica: governo della nazione tenuto dalla nazione stessa: governo sociale: governo retto dalle leggi, che siano veramente la espressione della volontà generale.
Repubblica - ossia quel governo, in cui la sovranità della nazione è principio riconosciuto, predominante ogni atto, centro e sorgente di tutti i poteri, unità dello stato - in cui tutti gli interessi son rappresentati secondo la loro potenza numerica - in cui il privilegio è rinnegato dalla legge e l'unica norma delle pene e de' premî sta nelle azioni - in cui non esiste una classe, un individuo che manchi del necessario - in cui le tasse, i tributi, i gravami, gl'inceppamenti alle arti, all'industria, al commercio son ridotti al minimo termine possibile; perchè le spese, le esigenze e il numero dei governanti e dell'amministrazione sono ridotti al maggior grado possibile d'economia - in cui la tendenza delle istituzioni è volta principalmente al meglio della classe più numerosa e più povera - in cui il principio d'associazione è più sviluppato - in cui una nuova via indefinita è schiusa al progresso colla diffusione generale dell'insegnamento e colla distruzione d'ogni elemento stazionario, d'ogni genere di immobilità - in cui finalmente, la società intera, forte, tranquilla, felice, pacifica e solennemente concorde, sta sulla terra come in un tempio eretto alla virtù, alla libertà, alla civiltà progressiva, alle leggi che governano il mondo morale, sulla cui faccia possa scolpirsi a Dio, il popolo!
Questo nome di repubblica, che noi pronunciamo con tanta franchezza, è terrore a molti, i quali non s'attenterebbero di proferirlo, se prima non avessero esaurito tutte l'arti di perifrasi e circonlocuzioni, che il linguaggio somministra a chi scrive. Perchè? Nol sappiamo. Si stanno tremanti del nome, non della cosa. Se a ognuno d'essi s'affacciassero, senza tradurle in un solo vocabolo, le condizioni di reggimento, che noi abbiamo pur ora accennate, pochissimi rifiuterebbero consentire: ma s'arretrano paurosi davanti alle imagini d'un terrore, che accompagnò negli anni addietro non la repubblica, ma un tentativo di repubblica, una guerra repubblicana - davanti ai simboli d'un tempo che non è più, che per noi non fu mai, nè sarà - davanti a rimedî di leggi agrarie, di proscrizioni, di rapine di proprietà famigliari, d'usurpazioni subìte e di violenze, che se nell'anarchia delle prime crisi, alcuni affacciarono al popolo, son oggi provate inefficaci, crudeli ed ingiuste. E a noi, se il pregiudizio che s'adopera ad annettere a quella parola un significato non suo, sembrasse non che impossibile a togliersi, radicato almeno negli animi e diffuso ai più, non s'affaccerebbe un solo momento l'idea d'insistere su quella parola, di far battaglia per nomi: e sagrificheremmo alla concordia dei nostri quel grido, benchè l'anima ci sorrida dentro all'udirlo soltanto, benchè quello fosse il grido dei nostri padri, benchè quella bandiera ci splenda innanzi come la bandiera dei secoli avvenire, incoronata d'una grandezza antica che non morrà, e bella d'un pensiero d'emancipazione per tutti, d'amore e di fratellanza, che ci è vita, anima, conforto, religione. Ma quelle false interpretazioni non pajono potenti e diffuse, se non perchè la paura le esagera e la insidia de' nostri oppressori le ingigantisce. Guardando alla Francia, un gran fatto ci balza innanzi, un popolo levato in armi che, rovinata la tirannide d'un solo, non s'induce ad accettare un nuovo signore se non veggendo l'uomo stimato simbolo di repubblica, affratellarsi col nuovo dominatore, se non ascoltando una promessa solenne, che il trono sarebbe stato circondato d'istituzioni repubblicane. Or crederemo quella fosse concessione fatta dal popolo ai pochi trafficatori della sua vittoria, o non piuttosto dagli uomini della dottrina a un popolo fremente repubblica nel suo segreto e non bisognoso d'altro che d'una opposizione imprudente e d'un Mirabeau repubblicano per correre a quella forma di reggimento? E in Francia son pur vive le immagini del terrore, vivi i figli dei proscritti del 93, vive le memorie atroci di Lione, d'Arras, di Nantes - e tutte quelle ferocie tornate in nulla, suggeriscono la diffidenza nell'efficacia del simbolo, nel cui nome si commettevano - e da oltre a trent'anni, i nemici delle pubbliche libertà e la genìa de' giornalisti venduti e i rinnegati - che pur son tanti - per cupidigia d'imperio, s'adoprano a ingigantire quei fatti al popolo, a convincerlo che carneficine, usurpazioni e repubblica sono una cosa; a falsare la verità della storia, che insegna a discernere gli eccessi dei subalterni dai rimedî dolorosi, ma necessarî, adottati dalla Convenzione a salvaguardare79 la indipendenza del territorio, e liberarsi dalle interne congiure80, dalle insidie coperte, che preti e nobili ordivano coll'oro inglese, dagli assalti dell'emigrazione insistente sulle frontiere, e dagli eserciti stranieri impossessati di piazze forti, e inoltrati sul suolo di Francia. - Ma in Italia, dov'è il terrore che abbia accompagnato i pochi anni di moto repubblicano? Dove sono le stragi o le devastazioni che abbiano contaminato le idee di reggimento popolare? Le poche grida che potevano racchiudere la minaccia, isolate e non seguite da effetto, stanno raccolte e poste in tutta luce, ampliate a fantasmi nelle pagine di taluni, che hanno prostituito la loro potenza a calunniare le moltitudini, a fraudare i più santi concetti, a piangere sulle rovine d'un'aristocrazia, che fondava il suo potere sulle delazioni, sulla corruttela e sui piombi, e che giunta l'ora della prova non seppe nè cedere da saggia, nè morire da forte. Il popolo non sa quelle pagine: il popolo sa che la sua condizione migliorava progressivamente colle istituzioni repubblicane: che il suo nome non era allora nome di scherno; che la sua bandiera era potente e temuta. Il popolo sa che, l'Italia non conosce proscrizioni se non regali, le antiche di Napoli, le moderne di Piemonte e di Lombardia, le novissime dell'Italia centrale, ordinate dal Canosa e dal Duca, e le atrocissime di Cesena e Forlì, commesse nel nome del Papa, dagli sgherri del Papa, colla benedizione del Papa. - Noi intanto abbiamo bisogno del popolo - e il tempo stringe, più forse ch'altri non crede - e al popolo non basta un grido di distruzione, o una parola indeterminata, però che i popoli non si fanno nomadi in politica, non mutano governo, come gli Arabi del deserto mutan di tende. Or, chiamandolo all'armi, perchè, se abbiamo un grido che gli è famigliare, un grido che gl'ispira fiducia che lo commove a un'idea di potenza, che gli dimostra direttamente l'intento del moto, perchè rinnegheremo quel grido santo che Genova, Firenze, le città Toscane, le città Lombarde conoscono, che consacra Roma, malgrado le infamie de' Papi, che Bologna, e le città della Romagna hanno nell'ultima insurrezione inalzato?
Il popolo, il popolo! - E quando noi cacceremo quel grido - quando agitandogli sugli occhi il suo vecchio stendardo repubblicano, noi ci slanceremo alla sua testa, e incontreremo le prime palle austriache, credete voi che il popolo non affronterà le seconde? Quando spiegheremo dinanzi a lui, come un programma dell'avvenire, la dichiarazione dei suoi diritti, la tavola dei vantaggi che le libere istituzioni gli frutteranno: quando gli diremo i primi, i più urgenti miglioramenti, e per sicurezza degli altri porremo le nostre teste, dicendogli: «tu devi esser libero, non tiranno: là è l'austriaco, l'unico ostacolo allo sviluppo ordinato e progressivo delle tue facoltà: per te e pe' tuoi figli libera il suolo de' padri tuoi; nel nome di Dio e della patria, sorgi e sii grande, terribile nella battaglia, moderato dopo la vittoria:» credete voi che il popolo contaminerà col delitto la sua solenne risurrezione, che il sangue fraterno consacrerà all'infamia i primi suoi passi, ch'egli vorrà far retrocedere, divorandola in germe, la rivoluzione? - Date al popolo il moto, e abbandonatelo a sè; le suggestioni de' suoi nemici, le abitudini del servaggio, gli eccitamenti della lunga miseria lo trarranno in braccio alla prima fazione che vorrà impadronirsene. Ma siate voi quella: non vi ritraete, non lo sfiduciate colla freddezza, non rifiutate guidarla per codarde paure, o vanità di virtù inoperose: mescolatevi con esso, assumetevi una influenza, una potenza di direzione, che, senza questo, cadrà in mani perverse: morite con esso, e il popolo vi seguirà come voi vorrete. Ricordate Parigi, ricordate Lione, ricordate le moltitudini di Londra poi che il ministero Gray cesse il governo dello stato a Wellington. Quale eccesso contaminò la sua causa? - Ah! la gemma della sua corona splende d'una luce più pura che non la vostra, uomini che chiamaste a insorgere il popolo, per chiamarlo barbaro tre giorni dopo!
Ma a tutti gli uomini, i quali sospettassero, nel simbolo che noi predichiamo, prave intenzioni: a tutti gli uomini che ci attribuissero passioni di sangue o anelito di guerre civili, noi qui diciamo solennemente, ed ogni sillaba che noi scriviamo giovi a condannarci nell'avvenire, se i fatti non converranno colle parole: «noi non siamo feroci: uscimmo da una madre, ed amiamo. Ma non siamo deboli: vogliamo la libertà della patria; morremo, se farà d'uopo, per essa e guai ai traditori, e ai fautori aperti della tirannide! Chi porrà la sua vita nella bilancia, chi commetterà l'anima a Dio per la patria, avrà diritto di proferire queste parole; avrà diritto che il suo sagrificio non rimanga sterile, inefficace; avrà diritto che dal suo sangue germogli un fiore di libertà, che il sorriso schernitore de' tristi non passi sulle sue ossa, che la speranza d'una bandiera italiana piantata sulla sua zolla scenda sotterra con lui. I vili e gl'inerti vadano colla maledizione della loro viltà, non si commettano ai pericoli, che non sanno reggere: vivono di paura, e nella paura. - Noi non siamo feroci; ma dovremo sempre temere d'essere feriti da tergo? Dovremo sempre, per difetto d'energia e d'antiveggenza, dar lo spettacolo al mondo della nostra caduta? Ah! v'è un peso di delitti e d'infamie su questo suolo d'Italia, accumulato dalla tirannide e dalla81 viltà; v'è un tal suono di pianto dietro noi, un tal grido di vittime sotterrate per noi, che s'anche un pensiero di vendetta di sangue ci strisciasse sull'anima, amara per la perdita d'ogni cosa diletta, e per vedere il fiore de' giorni giovenili consunto nel tormento d'un'unica idea, o solcasse la fronte d'uomini, sulla cui testa canuta pesano undici anni d'esilio di patimenti non meritati, nessuno avrebbe diritto di rimproverarlo come delitto! Ma noi non siamo nè crudeli, nè tristi. Non cacceremo le nostre sciagure sulla bilancia: non sommoveremo alle proscrizioni le moltitudini: non abuseremo del diritto di reazione: sommetteremo i tradimenti ed i traditori alla giustizia della nazione, e ci getteremo tra il popolo e le vittime de' suoi sospetti. Non avremo forse per noi, per tutto il passato, per compenso alle persecuzioni e all'esilio, l'abbraccio delle nostre madri, la gioja sublime di contemplare sulle nostre torri la bandiera italiana, il momento, il momento divino di stringerci alla donna del nostro core, e dirle: ora tu sei libera, e d'un libero? - Abborriamo dal sangue fraterno; non vogliamo il terrore eretto a sistema: non vogliamo sovversioni di diritti legittimamente acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà. Vogliamo un nome, una esistenza riconosciuta, una via schiusa al progresso, una rappresentanza, e un miglioramento di condizione per un povero popolo, che geme da secoli nella miseria. Non cacceremo il guanto della guerra civile, noi primi: la sosterremo e la spegneremo virilmente, se una minorità, una frazione di venduti al potere o di fabbri di superstizioni, s'attenteranno di suscitarla colle insidie o colle congiure, perchè noi non vogliamo farci persecutori; ma nè essere delusi, trafficati, scherniti. Questo è il nostro simbolo - ed è strano dover dichiararlo, quando gridiamo: repubblica. Gli uomini, che meditano sulla politica, sanno che il terrore non è elemento inerente a governo alcuno; bensì rare volte necessità per ogni governo che vuol durare: per l'iniquo Miguele, per Francesco IV, come per la Convenzione di Francia. Sanno, che le cagioni del 93 nella Francia82 erano, più che nella volontà di pochi individui, negli infiniti elementi di discordia interna, nelle insurrezioni della Vandea e dei dipartimenti, nelle trame segrete degli alleati, nelle ostilità aperte del patriziato o del sacerdozio: e che queste ragioni non saranno, dalle trame straniere in fuori, nè potenti, nè attive in Italia. Sanno che il reggimento repubblicano è il solo inteso dal popolo, che le moltitudini furono e saranno incerte davanti ai termini di bilancia politica, equilibrio dei tre poteri, lotta ordinata d'elementi legali, reggimento misto parlamentare, ecc., che la forma monarchico-costituzionale è forma transitoria, consunta - e che la repubblica sola può esistere in Italia, e conciliarsi colla unità.»
VI.
Perchè - parliamo a quei che non intendono diritti, ma fatti soltanto - a chi fidare, nella ipotesi monarchico-costituzionale, la somma dei destini italiani, lo scettro unico, il volume unico delle costituzioni italiane, però che italiane vogliono essere? Chi riunirà i voti di ventisei milioni d'uomini, divisi per secoli, per gare, per ambizioni, per corruttela di favella, per usi, per leggi, per re? Chi spegnerà il vecchio lievito di spirito provinciale, che un mezzo secolo di predicazione ha sopito e logorato, ma non tanto che non appaja talora, e che, risuscitato, non potesse farsi tremendo? - Un re tra gli attuali? Vergogna e scherno! Qual è fra i tirannetti italiani, che non abbia col sangue dei sudditi segnato il patto coll'Austria? Qual è quei, che il passato non separi violentemente e inesorabilmente dal suo popolo e dall'avvenire? - Un solo forse poteva assumer l'impresa. Era macchiato d'uno spergiuro; ma l'Italia s'offriva a dimenticarlo. Fu un punto solo. Nol volle; e fu meglio per noi! Ma chi è oggi fra i nostri principi che presuma stender la mano a quella corona, ch'egli non seppe raccogliere? Oh! la mano gli arderebbe, però che su quella mano, qualunque essa siasi, sta rappreso sangue d'Italia e di liberi! Chi è che dimostri, non dirò amore di patria o di libertà, ma ambizione deliberata nelle vie da scegliersi, ambizione d'uomo che sa - se tra lui e la cosa voluta sta la morte - affrontarla senza esitare? Ambizioni inette, meschine; uomini deboli per paura, e stolidamente feroci. Poi, la questione si riduce a due soli dei nostri principi, perchè, dove non sono eserciti, chi vorrebbe formare un pensiero di conquista italiana? Tra quei due, la questione è rapidamente decisa, o meglio, non v'è questione possibile. Nessuno dei due, al punto in cui siamo, riescirebbe a mettersi in capo la corona dell'altro, senza guerra lunga e decisa: nessuno dei due ha diritto d'affetti, di simpatia, di virtù, d'ingegno o di fama per contendere all'uno i sudditi dell'altro. Tra lo spergiuro del 1821, e l'assassino di De Marchi, chi vincerà la questione? - I due eserciti saranno fratelli, non cederanno all'armi reciproche mai. Accendete la guerra: ecco risse civili, e stragi, e per anni: odj, offese d'onore, invidie potenti rinate per secoli: e il pensiero di libertà e di patria sfumato nell'infame contesa. O sceglierete un re nuovo, e non di dinastia regnante in Italia? - Cittadino o straniero? - Di razza regale, o plebeo? - Sceglietelo cittadino. Dopo la difficoltà della scelta sottentra più forte l'altra della conquista, della occupazione di tutta Italia: avete guerra civile; e chi dovrebbe sostenerla, incomincerebbe privo anche dell'ajuto che il primo aspetto della questione somministrava: uno stato, e un esercito suo. Ma - giova ripeterlo mille volte - il napoletano non accorrà mai un re piemontese; e reciprocamente. L'ire di provincia e di municipio non piegheranno mai che davanti a un principio: riarderanno tremende ogni qual volta si moverà parola d'un uomo. Il principio è comune a tutti: il suo trionfo è trionfo di tutti, il consesso che lo rappresenta è consesso di tutti, nè può suscitar gelosie: ma l'uomo nasce d'una terra, rivendicato dalla vanità d'una terra, abborrito dall'orgoglio dell'altra. O saluterete l'eletto della vittoria? Inalzerete sullo scudo il soldato fortunato? - Fatelo: avrete così una rivoluzione sociale sfumata in un uomo: avrete un Bonaparte che vi prometterà libertà, poi avrà bisogno d'una Sant'Elena per riconoscerla valida e prepotente: avrete un'aristocrazia militare, una gloria forse a prezzo della prosperità e dei vostri diritti: una tirannide di pretoriani. Poi, i grandi geni militari non si manifestano onnipotenti a conciliare i partiti più discordi, in un'ora, s'allevano fra le battaglie: vincono nelle campagne gli sproni di cavaliere. Dall'assedio di Tolone all'impero trascorsero parecchi anni, due campagne in Italia, ed una in Egitto. E intanto? Vi rimarrete, attendendo il genio, e le circostanze che lo fecondino? A non cacciare nella nazione un principio che distrugga le vostre future speranze, soggiornerete sempre83 nel provvisorio? - Sceglietevi un principe straniero. Dalla Svezia alla Francia, dal Brasile all'Africa, i coronati che invocano uno stato sono tanti! - Oh! è essa sì bassa cosa questa corona d'Italia, che abbiate ad offrirla all'incanto ai raminghi stranieri, colla certezza di trarvi in patria gli eserciti e le battaglie, e, peggio, i protocolli dello straniero - dacchè la Italia non è stato tale, che un germe di casa regale possa esserne scelto a dominatore, senza concitare l'invidia e le paure e le gelosie delle corti d'Europa? - Ora, qual è il modo di conciliare codesti elementi? Di spegnere la tirannide, di non vendersi a un tiranno soldato, di non ricommovere gli animi alle stragi civili, di non crearvi nemici potenti in tutti i gabinetti stranieri? Io vi chiedo: datemi un re ma un re italiano, potente d'intelletto e di core, grande nell'arti della vittoria e della giustizia civile, che non mi ponga a fronte del mio fratello - avanza una federazione di re, e dei re viventi in Italia! avanza il Papa!! - avanza l'Austriaco!!! - 84.
VII.
Oggimai, a chi guarda all'Europa, i governi monarchico-costituzionali appajono forma spenta, senza vita, senza elementi di vita, senz'armonia coll'andamento della civiltà. Costituivano una forma di transizione tra il servaggio assoluto e la libertà, un genere di reggimento che somministrava, a tutti quanti gli elementi che s'agitano nelle società, un campo per esperimentare le loro forze, esercitarsi a fare, svilupparsi in una guerra ordinata, sotto tutti gli aspetti possibili, finchè s'intravedesse a qual d'essi spetta il dominio sugli altri. I governi misti valgono nella scala del progresso come una educazione politica, una prova all'intelletto d'un popolo, perch'ei salga maturamente e non di balzo all'ordinamento sociale, una transazione dell'elemento popolare debole ancora cogli elementi che lo circondano, ma provvisoria, a tempo, e non omogenea. L'Inghilterra pose in favore la teorica costituzionale; e ad essa ragioni di fatto e positive prescrissero quella forma di reggimento. L'aristocrazia signorile, risultato della conquista normanna, proprietaria delle terre, ed accetta alla nazione per la magna Carta strappata a Giovanni, era elemento predominante. Gran parte della lotta rivoluzionaria si consumava tra essa, e il potere del re; e poich'ebbe ottenuta vittoria, il patriziato rimase dominatore. Ma poichè due elementi non possono in un governo trovarsi a fronte soli senza che l'urto duri perenne, il re si rimase potere fra i due elementi aristocratico e popolare, termine intermedio, vincolo d'accordo se l'uno cozzasse coll'altro. - Seguì la Francia; ma gli uomini nel secolo XVIII quando posero mano alla grand'opera della rigenerazione sociale, si diedero, noi lo dicemmo, a distruggere quanto pareva avverso all'intento. Era la loro missione, ed era così gigantesca, il terreno era così ingombro di pregiudizî, di superstizioni, di codici barbari, e d'altro, che una generazione bastava appena a purgarlo. Ridussero il loro simbolo alla negazione, e trasandarono la parte organica positiva. E non pertanto urgeva affacciare qualche forma che potesse sostituirsi alle vecchie: urgeva, più ch'altro, vincere il presente; e poichè i popoli procedono più facilmente per termini di comparazione ed opposizione, fu forza trascegliere. I filosofi, non avendo il tempo di creare un sistema governativo, ne andarono in traccia nella vecchia Europa, e stimarono averlo trovato nell'Inghilterra. L'Inghilterra, nella quale l'elemento popolare non s'era peranco sviluppato, presentava un'apparenza di riposo, di tranquillità, d'equilibrio che innamorò la scuola filosofica. Il suo governo fu scelto a modello, in opposizione alla Francia di Luigi XIV e XV. Montesquieu, così mal giudicato finora, Montesquieu che i molti s'ostinano a intendere legislatore, mentr'egli non fu che narratore filosofo di ciò ch'ei vedeva, e degli elementi che gli era dato scoprire nell'antichità e nei tempi moderni, incominciò ad accreditar quella forma. Pure, egli tradiva tutto il segreto dell'esistenza di quel governo, quando deduceva che monarchia non poteva concepirsi senza le classi privilegiate. Voltaire, genio d'azione, di distruzione, creato per la guerra, non per l'ordinamento che segue la vittoria, estremamente superficiale nel contemplare le cose, ma facile ad appassionarsi, e ingegnoso abbastanza per puntellare ogni suo paradosso, si diede non a studiare quella forma, ma a predicarla per ispirito di contrasto, parendogli singolare di combattere il sistema francese con armi d'un vecchio nemico; e ingigantì la perfezione di quell'edificio sociale, come a combattere la religione di Cristo, afferrò Confucio, e intese a far dei Cinesi un popolo di filosofi. Pure le massime di Voltaire trascinavano all'eguaglianza. - L'autorità di quei nomi prevalse intanto e prevale tuttavia in molti a farsi ammiratori fanatici d'un governo, che il tarlo popolare ha minato per ogni dove.
In oggi, la prova è fatta. La lotta s'è guerreggiata in tutte le guise possibili. L'Europa ha tentato le forme, quante erano, della monarchia, senza potersi riposare in alcuna: monarchia assoluta, per diritto divino, monarchia per diritto di forza, monarchia per diritto, come dicono, di popolo. Luigi XVI ha conchiusa la prima, e Carlo X, che volle risuscitare il cadavere, non ebbe la testa mozza sul palco, perchè i costumi erano fatti più miti e la nazione più sicura della propria potenza. Napoleone chiuse la seconda, e certo dopo lui, nessun mortale oserà ritentarla. La terza sta ora chiudendosi e rapidamente. E se l'ultima prova, e il risultato morale riescì fatale alla forma monarchico-costituzionale, impotente a inoltrare o retrocedere in Francia, essa è assalita al core nell'Inghilterra, dacchè l'elemento popolare s'è mostrato nel dramma politico.
Napoleone ha riassunto l'epoca, allorquando pronunciò: che l'Europa nello spazio di quaranta anni sarebbe stata cosacca o repubblicana.
L'Europa sarà repubblicana - Napoleone era la forza, nè poteva rinunciare a porre un certo equilibrio tra quella e il diritto. Il mondo per lui era un oggetto di guerra e di conquista per due genî di natura opposti, come i due principî persiani. Ma ciò ch'egli vide fu l'impossibilità d'un sistema permanente di transizione, fu che la guerra tra due principî incominciava disperata, decisiva, finale! O innanzi - o addietro: la umanità era impaziente d'affacciarsi a un'epoca positiva ed organica. Questo egli vide, e gli anni avverano la predizione.
VIII.
Il Popolo! Il Popolo! - Torniamo al nostro grido. È il grido del secolo: il grido dei milioni, che fremono moto: il grido d'un'epoca che s'inoltra veloce. Salutate la bandiera del popolo, però ch'egli è l'eletto di Dio a compiere la sua legge: legge d'amore, d'associazione, d'eguaglianza, d'emancipazione universale. Spianate il sentiero al popolo, però che, dove voi nol facciate, egli lo farà, e volontariamente. Annunciate a tutti la sua manifestazione, i suoi bisogni, e i suoi diritti, perchè, dove un tale elemento s'è rivelato, fu tolta all'individuo, qualunque pur siasi, la potenza di fare contr'esso o senz'esso.
O Italiani, giovani miei fratelli! Se volete imprendere imprese generose, se avete in anima tentare il risorgimento davvero: associatevi le moltitudini. Non v'illudete. Siete pochi, e morrete. È bello il morire per la propria contrada, ma la vostra contrada vi grida: morite lasciandomi libera, perch'io possa onorare almeno i vostri cadaveri. Non v'illudete: santificatevi nell'entusiasmo e nella fede d'una missione, ma badate a non isolarvi nell'entusiasmo: badate a non pensare che tutto è fatto, quando i giovani, che si sono ispirati alle sciagure della patria, si sono stretti la mano, dicendo l'uno all'altro: a domani il banchetto di Leonida. - Siete pochi all'impresa: tanti da ergere un mucchio di spenti su cui si levi visibile all'Europa la vostra bandiera dell'Italia ringiovanita; ma chi la sosterrà quella bandiera, perchè sventoli per sempre sui vostri sepolcri? - Associatevi le moltitudini. Non temete il loro silenzio: quel riposo apparente cova un vulcano, che divorerà colla sua lava il barbaro e i fautori del barbaro. Ma stringetele colla famigliarità: destate in esse la fiducia: amatele, e mostratelo. Il tempo stringe - ed io guardo, e non veggo, che voi operiate abbastanza a meritarvi l'aiuto delle moltitudini nell'ora della lotta. - Perchè giacete? Io v'ho detta tanta parola di lode e di conforto, che posso mormorarvi un rimprovero, senza che voi m'incolpiate di poco amore. Perchè scrivete inezie e canzoni d'amore invece di rivolgere la letteratura al popolo, all'utile suo? Perchè non promovete con sacrificî d'ogni genere l'istruzione elementare, la diffusione dell'insegnamento popolare? Perchè non vi fate voi nelle vostre campagne maestri di lettura ad alcuni degli uomini di montagna? Perchè non rappresentate al popolo i suoi fatti antichi nei quadri, nei libercoletti, negli almanacchi, in tutti i modi che possono illudere la tirannide? Perchè non viaggiate a portare di paese in paese e di villaggio in villaggio la croce di foco? - V'arde il furore di patria che vi ha consecrati a una idea? I vostri passi siano tra le moltitudini. Salite i monti: assidetevi alla mensa del coltivatore: visitate l'officine, e quegli artigiani che voi non curate. Parlate ad essi delle loro franchigie, delle loro antiche memorie, della gloria, del commercio passato: narrate le mille oppressioni ch'essi ignorano, perchè nessuno s'assume di rivelarle. Quei volti che la fame e l'avvilimento hanno sformati, lampeggeranno d'un lampo italiano: quelle mani negre, abbronzite, incallite all'aratro e alla vanga, tremeranno forse brancolando quasi in cerca d'un fucile, d'un'arme - allora dite, o Italiani, avete voi armi? - Per voi, e per essi? -
Moltitudini, ed armi - Eccovi il segreto delle rivoluzioni future. - 1832.