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1833.
L'Italie est une seule nation. L'unitè de m[oe]urs, de langage, de litterature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, réunir enfin ses habitans dans un seul gouvernement.
I.
La questione se l'Italia, emancipata dal barbaro, debba ordinarsi in lega di repubbliche confederate, o costituirsi repubblica una e indivisibile, vorrebbe forse più lungo discorso che non concedono i limiti d'un articolo di giornale. Non che per noi si credano egualmente convalidate di forti argomenti le due sentenze. L'opinione che predica il sistema federativo ci sembra generata da una strana confusione d'idee e di vocaboli86, che forse non dura se non perchè pochi la discussero freddamente, e vergini di pregiudizî87; poi da quel senso di sfiduciamento che s'è coi secoli di servaggio inviscerato negli Italiani, e li indugia sui confini del nuovo stato in continue transazioni col vecchio che pur vorrebbero struggere. Ma è questione che vezzeggia e sollecita l'individualismo, potentissimo anch'oggi in Italia: questione che si nutre di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città, di provincie, di municipî, passioncelle abbiette e meschine che brulicano nella Penisola, come vermi nel cadavere d'un generoso che cinquecento anni di debolezza e cinquanta di predicazione non hanno potuto spegnere, e che la grande esplosione rivoluzionaria potrà sola sperdere nella manifestazione solenne dell'unità nazionale. E a deciderla converrebbe scendere coi libri delle nostre storie alla mano in un campo d'ingratissima realtà a tesser gli annali delle mille ambizioni e influenze provinciali, aristocrazia di località più tremenda assai della aristocrazia dell'oro o del sangue, perchè dove queste si rivelano esose e assurde, quella assume aspetto di spirito generosamente patrio - risalire alla sorgente comune, la divisione dell'Italia in più Stati - poi seguirne lo sviluppo inseparabile dalle nostre sciagure - e mostrare come da più secoli la tendenza frazionaria e il decadimento italiano camminino su due parallele - e svolgere le conseguenze favorevoli al commercio, all'industria, all'arti e alle lettere che verrebbero dal concetto unitario - ed esporre intero il piano d'ordinamento sociale per cui la vita e l'impulso allo sviluppo progressivo e la direzione armonica dei lavori hanno a propagarsi dal contro alle menome parti, senza incepparne la libertà, senza violarne l'indipendenza, senza isterilirne le potenze speciali: tesi vasta ed organica che le angustie del tempo ci vietano e che noi non tratteremo che a cenni. Ma a qualunque intenda a fondare, la parte critica, comechè incresciosa e nelle apparenze sterile, riesce pure inevitabile a trascorrersi. Però a questa è volto il presente articolo. Purgato dagli inciampi il terreno e svincolata la questione dai pregiudizî e dalle paure ond'oggi è impedita, sarà facile cacciarvi le basi degli ordini futuri. Lo spirito umano anela libero l'orizzonte davanti a sè. Dove ostacoli frapposti tra il suo volo e la meta lo costringano a combattere e soffermarsi a ogni tanto, infiacchisce e si logora.
Quando nei primi anni della gioventù, irritati delle basse tirannidi che s'esercitavano nelle scuole di tutta Italia a mortificare gl'ingegni o a nudrirli di misantropia, frementi una patria che nessuna contrada Italiana ci offriva, ma senza pur sospettare che il fremito individuale potesse convenirsi in azione, ponemmo il pensiero all'Italia, fummo unitari. Vergini di studiata scienza, liberi d'ogni servitù di sistema, insofferenti delle lunghe disamine e delle applicazioni pazienti, il vero stava per noi nella prima idea che ci balzasse improvvisa davanti, grande, vasta, solenne, raggiante di poesia, di potenza e d'amore - e questa idea ci s'affacciava nell'Italia una, ricinta dall'alpi e dal mare; in una parola di volontà onnipotente uscente da Roma dalla Roma dei Cesari, e valicante l'alpi ed il mare; in una missione di civiltà universale assunta da noi sin dai giorni della potenza romana coll'armi, continuata cogli esempî di libertà dalla prima metà dell'evo medio, colle lettere diffuse all'Europa dalla seconda, e fremente dopo i miracoli dell'impero nell'Italia del XIX secolo. Ma questa idea ci sorrideva come una musica d'anime, come un raggio di sublime poesia che ci mandava il cielo d'Italia, perchè nel nostro cuore s'ergesse un altare al concetto puro, santo, incontaminato, senza meditarlo, senza verificarne la possibilità, senza rintracciarne la verità politica per entro ai costumi, alle abitudini, alle credenze dei nostri concittadini. Era il sogno di Dante, di Petrarca, di Machiavelli - e si venerava da noi, come l'idea della libertà greca e romana dai cospiratori Italiani del XV secolo, per istinto, per entusiasmo, per foga di slancio, non per convinzione ragionata e come frutto di studî severi.
Poi venne la fredda, la calcolatrice, la dotta politica: vennero voci d'uomini gravi, nei quali il dubbio perpetuo riveste aspetto di profonda e arcana dottrina; d'uomini che professando non sottomettersi che all'alta immutabile ragione dei fatti sorridono a quante ipotesi s'appoggiano direttamente su' principî generali, e ci dissero: «L'unità Italiana è brillante utopia, contrastata dai fatti che vi s'affacciano a ogni passo che voi moviate sulla Penisola. Eccovi storie e cronache e documenti dei vostri maggiori. Ognuna di quelle pagine gronda sangue fraterno. Ogni palmo del vostro terreno è infame per risse civili. Le nimicizie di molti secoli hanno lasciato a ognuna delle nostre città un legato d'odio e di vendetta che il servaggio comune cancella nelle apparenze, ma che il grido di libertà farà rivivere più tremendo. Vario il clima, varia la topografia dei luoghi varie le abitudini e le tendenze. Potrete spegnerle con una idea? Potrete confonderle con una formola di legge? Le leggi esprimono, non creano fatti. Le razze non si riconciliano colla violenza. E quando crederete averle fuse per via di decreti, quando v'illuderete ad avere statuita unità, troverete anarchia. Abbiamo elementi eterogenei: affrettiamoci a riconoscere i diritti e i bisogni diversi, perchè non irrompano a rivendicarli coll'armi e colla rivolta. I popoli non si governano a illusioni. Quando un fatto è, non giova il dissimularlo: giova ammetterlo anzi tratto, poi moderarne le conseguenze dannose, e trarre da quel fatto il miglior partito possibile. In Italia, il governo federativo è l'unico compatibile col fatto delle divisioni e delle differenze esistenti. Se vorrete il più, avrete il meno. Il concetto delle federazioni è concetto primitivo in Italia. Afferratelo. Con quella forma avrete libertà dentro, e forza al di fuori. Vedete la Svizzera, e le repubbliche americane. E le autorità d'uomini sommi, Montesquieu, Sismondi e altri, convalidano gli argomenti dei fatti. Poi col sistema unitario avrete presto tirannide, se d'una capitale, d'un consesso, d'un unico centro, o d'un re, poco monta. La centralizzazione uccide la libertà delle membra. Da ultimo, repubblica in una piccola estensione di terreno può stare; ma le vaste proporzioni la fanno impossibile.»
E quelle voci che ci parevano concordi ai fatti, ci stillavano lentamente il dubbio nell'animo. Il pensiero di Dante88 e di Machiavelli ci sfumava di mezzo a un caos di forme, di visioni, di sembianze individuali, diverse di costumanze, d'abitudini, di tendenze, e tutte ostili, rivali, nemiche, che le formole di quei politici evocavano davanti a noi. Il medio evo colle sue mille guerre, dall'urto scambievole delle razze nordiche sino alle fazioni lombarde, dalla battaglia di Monte-aperti fino a quella nella quale suonavano, come l'ultimo gemito dell'Italia, l'estreme parole di Francesco Ferrucci al calabrese: tu vieni ad uccidere un morto, sorgeva gigante a frammettersi tra noi e il concetto unitario, a protestare tremendamente contro quel sogno affacciatosi nello spazio di tre secoli a due grandi anime, che forse morendo, lo rinnegavano. E forse ciò che costituiva il genio, e lo differiva dalle razze umane, era il tormento d'una idea solitaria, inapplicabile, condannata a starsi in perpetuo nei dominî dell'astrazione. La mano scarna della dottrina ci sfrondava l'albero delle illusioni giovanili, e v'innestava sistemi architettati studiosamente e complicatamente sugli antichissimi esempli greci, e su' nuovissimi americani. E quelle difficoltà superate apparentemente, quella intricata discussione intorno al modo di stringere un vincolo d'unione fra più Stati liberi e indipendenti, ci sembrava argomento d'altissima scienza in chi l'assumeva. L'unità, semplicissima fra tutte le idee, s'affaccia istintivamente all'umano intelletto ne' suoi primi sviluppi, e filosoficamente negli ultimi; e v'è fra queste due un'epoca intermedia, comune agli individui e alle nazioni, nella quale l'intelletto, traviando nella folla di sistemi che gli si parano innanzi, si compiace nelle astruse combinazioni, e inorgoglisce nelle oscurità metafisiche. E l'epoca dei governi misti, delle teoriche costituzionali, delle due camere, della bilancia dei poteri, dell'ecclettismo, delle federazioni. Ma il vero è semplice per essenza. Il genio è unitario. Quando i tempi non erano maturi, cercava l'unità nel dispotismo, oggi la cerca nella libertà, e nella creazione di vaste e grandi repubbliche.
Quell'epoca d'incertezza pseudo-scientifica, d'errore rivestito del manto della sapienza, noi la subimmo - e la trapassammo. Fummo federalisti, e lo diciamo francamente, perchè crediamo che molti dei nostri concittadini abbiano corso quello stadio di gradazioni - perchè rivelando i dubbî che ci tennero incerti, intendiamo mostrare come il simbolo unitario, ch'or predichiamo e sosterremo energicamente, sia nostro non per ardore d'utopia giovanile, ma per lento e maturo convincimento - perchè vinto quel periodo di scetticismo, e superate le difficoltà che pareano attraversarsi, noi siam lieti della nostra credenza, e non corriamo oggimai pericolo di mutarla.
Siamo unitarî - e staremo. Troppe cose si contengono in questo simbolo d'unità, troppi vincoli lo connettono alla libertà italiana, che noi cerchiamo, perchè da noi si possa scender più mai al pensiero gretto pauroso e funesto d'una federazione. Certo: noi non infameremo la contraria opinione, com'oggi - e forse a torto89 - gli unitarî di Francia infamano gli uomini della Gironda. La libertà può fondarsi in una federazione come in uno Stato unitario: concepita anzi in siffatto modo, la questione è ridotta al nulla90. Nessun ostacolo vieta alla libertà stabilirsi in un aggregato d'un milione d'uomini, quando è possibile stabilirla in uno di venti. Ma stabilirsi e durare son due termini essenzialmente diversi, e per noi v'è impossibilità nelle presenti condizioni europee, perchè una libertà fondata sull'unione federativa di molti piccoli Stati duri intatta e secura: impossibilità generata da due vizî radicalmente inerenti ad ogni federazione, interno l'uno ed esterno l'altro. Però la questione è vitale per noi, e immedesimata, come la questione repubblicana, con quella della libertà. Tolleranti su tutte le mille questioni che non feriscono al cuore la libertà popolare, noi siamo quindi per questa. Siamo esclusivamente unitarî, perchè senza unità non intendiamo l'Italia, e dove si contende dell'esistenza, l'intolleranza è santa, la tolleranza è menzogna vuota di senso. Siamo esclusivamente unitarî, come siamo esclusivamente repubblicani, perchè dalle basi repubblicane infuori non veggiamo libertà vera possibile, dall'unità in fuori non veggiamo libertà forte e durevole.
Cos'è il governo federativo? - D'onde traggono origine le federazioni? - Qual è l'elemento principale che le costituisce?
Ogni federazione trae evidentemente origine dalla debolezza degli Stati che la compongono. La necessità d'una difesa che più Stati isolati non trovano nelle proprie forze, li determina a collegarsi per reggersi l'un l'altro contro ogni nemico che s'affacciasse.
L'essenza del governo federativo è riposta nel patto che stringe gli Stati confederati a proteggere e tutelare la indipendenza di ciascuno colle forze di tutti, - l'altre son condizioni accessorie, d'importanza secondaria, e sottomesse a modificazioni infinite.
Che cercano gli Stati confederandosi?
La forza?
Nella unione.
E questa unione non la ristringono a ciò ch'è di pura necessità, ma l'ampliano d'ordinario a confini più larghi: non la fondano unicamente sul patto giurato della difesa, ma tentano cacciarne le basi sulla uniformità delle leggi interne, dei bisogni mutui, dell'utile commerciale: non s'acquetano a desumerla dall'istinto che guida gli Stati a crearsi per ogni dove sicurezze d'indipendenza, ma s'adoprano a darle sostegno la fratellanza. A quelle unioni che posano solamente sulla promessa di proteggersi scambievolmente, è serbato il nome di Leghe; ma le federazioni procedono innanzi. I più tra gli Stati cercano confederarsi con chi li somiglia. Son rare le confederazioni di repubbliche e monarchie. Un istinto politico insegna ai popoli che la conformità dei reggimenti interni fa le unioni durevoli. E le antiche e le nuove federazioni statuirono principî dichiarati e immutabili, dai quali non fosse concesso partirsi. Le repubbliche greche spinsero tant'oltre gli obblighi di leggi uniformi che correvano ai confederati, da mutare interamente la natura indipendente delle federazioni; e lo vedremo tra poco. Delle nuovissime, basti l'America. Tutte - tranne la Svizzera ch'oggi intende il suo vizio - hanno cercata l'unione federale durevole nel riavvicinamento graduato all'unità, delle leggi, degli istituti, de' principî fondamentali.
Da questi pensieri che s'affacciano spontanei al primo esame della questione, e sgorgano dalla definizione del sistema federativo, emerge un dubbio: perchè se a più Stati vicini con molti punti di contatto e collocati in simili circostanze, giova l'unirsi, cotesta unione non toccherebbe gli ultimi termini? - Perchè se il bisogno d'essere forti li stringe a confederarsi, la certezza dell'incremento di questa forza ch'essi tentano procacciarsi non li indurrebbe all'unità? - Perchè, se la uniformità di governo e di leggi fondamentali è bisogno sentito da quanti si stringono a federazione, non lo adeguerebbero essi creandosi un solo governo, una sola legislazione?
La questione specialmente in relazione all'Italia, si ridurrebbe dunque a questione di possibilità o d'impossibilità: teoricamente decisa a favore dell'unità scenderebbe ai dominî della pratica, che spesso dicono, cozza colla teorica, rifiutando inappellabilmente ciò che i principî vorrebbero.
Noi crediamo poco a questo dissenso fra la teorica e la pratica che pur s'allega così sovente nelle questioni politiche. Generalmente parlando, i principî stanno per noi sommi sovra tutte cose e le dominano. Teorica e pratica sono indissolubilmente congiunte. La prima è il pensiero, la legge, l'idea: la seconda è il segno che rappresenta il pensiero, la formola scritta attraverso la quale è rivelata la legge, la forma che l'idea assume trapassando nel mondo sensibile. Se un principio è vero, le applicazioni hanno a riescirne più che possibili, inevitabili, perchè nessun principio può rimanersi sterile a lungo e senza conseguenze. E dei dieci casi, nei quali sembra manifestarsi questo dissenso, tre forse spettano a una intelligenza parziale e frazionaria di quel principio che s'è tentato applicare senz'averlo scoperto tutto - sei a un'applicazione falsa, incompiuta, o paurosa - un solo a fatti reali che s'attraversavano, dissonanze cacciate dalla natura, opposizioni inerenti alle umane cose che l'intelletto è certo di vincere, non di vincere a un tratto. Ma la scienza politica che riassume i gradi di progresso e presenta, dopo le religioni e la filosofia, la formola più estesa delle nozioni acquistate dall'intelletto, esce da poco d'infanzia. Le dottrine gesuitiche dei settatori della tirannide assumono quei casi, li moltiplicano e ingigantiscono, e sviano gli animi dall'addentrarvisi: la presuntuosa ignoranza dei pedanti in politica che s'arrogano la dittatura perchè ha raccolto, senza discuterli, una collezione di fatti, avvalora l'arti della tirannide; e la inerzia dei più vi s'acqueta91.
Pur, poi che quell'unico caso potrebbe verificarsi in Italia, giova accettar la questione tratta a quei termini. Bensì l'obbligo di provarlo esistente spetta a chi nega possibile l'Italiana unità.
Or lo provano? e come?
I più nol provano: non allegano argomenti diretti; ma si richiamano alla storia. Mostrano nelle sue pagine alcuni esempî di repubbliche confederate, salite a potenza, e prospere interiormente: di repubblica unitaria su vaste proporzioni, non uno - e ne inducono senz'altro esame la conseguenza che per noi si combatte. Mutano così la questione. Dimostrano non l'impossibilità di costituire quando che sia la repubblica unitaria in Italia, ma la possibilità di costituirla federativa. Pure stabiliscono a ogni modo una presunzione favorevole alla loro credenza, e giova distruggerla. - Ma prima è necessario per noi l'accennare il come vorremmo si procedesse in politica - e inalzarci apertamente contro l'abuso che si fa degli esempî, vera tirannide d'autorità, che ove prevalesse, distruggerebbe ogni indipendenza di raziocinio; vecchio sistema, che non accettiamo momentaneamente se non per combatterlo, ma che noi rifiutiamo, e al quale in tesi generale, non vogliamo sottometterci mai.
Un pregiudizio domina tuttavia la politica: il pregiudizio dell'esempio, l'imitazione servile.
A qualunque dallo spettacolo della patria guasta, corrotta, inceppata da pessime istituzioni, è suggerito il pensiero di porvi e proporvi rimedio, si affaccia innanzi a tutte una via: quella di torlo altrove. I più dagli ordini che reggono la contrada nativa ritraggono lo sguardo all'Europa, finchè trovino una terra dove un principio contrario o diverso domini le istituzioni; trovato, lo afferrano come àncora di salute: non guardano se quel principio spetti esclusivamente, per vigore di cagioni preesistenti, al paese ove ha vita, e se trapiantato possa fruttare conseguenze uniformi; non s'addentrano a vedere se quel principio sia destinato a lunga vita nel futuro o covi la morte; se veramente da quello o da altre ragioni derivino i vantaggi che l'una nazione ha sull'altra; lo adottano e lo scrivono sulla bandiera che inalzano - e la turba vi corre, perchè quando le moltitudini ineducate hanno sete di mutamento, s'affollano al primo stendardo che sventola, non curando se mutino in meglio o peggiorino. Poi, quando i danni d'un sistema accolto precipitosamente, incominciano a sperimentarsi, gl'ingegni più desti s'avvedono della illusione, ma tardi, quando la credenza in quel simbolo s'è radicata, quando il popolo anela riposo, quando quindici anni di delusioni e molte vittime bastano appena a risuscitarlo. La rivoluzione è compita, nè le rivoluzioni si maturano di giorno in giorno.
Quando affermiamo che questa gretta, esclusiva, superficiale, funestissima maniera di trattar le cose politiche ha esercitato dominio su tutti quasi i rivoluzionarî dell'epoche in oggi consunte, e lo esercita tuttavia, malgrado le molte esperienze, sugli scrittori politici, noi diciam cosa che a molti parrà frutto d'audacia giovanile, o d'un'ira mal concetta contro il passato; stolta accusa, che oggimai non è da respingersi se non col sorriso. Noi veneriamo il passato, quando è grande; ma nè il consenso de' secoli può ingigantirlo ai nostri occhi, quando l'intelletto ce lo affaccia meschino. Le nostre teoriche di progresso riabilitano il passato, anzichè gittargli l'anatema; ma noi sappiamo che la terra troppo calpestata diventa fango, e vogliamo prender le mosse del passato, non insister sovr'esso.
La scuola politica del secolo XVIII fu tutta inglese. Montesquieu e Voltaire, il primo, intelletto potente a evocare con venti parole l'imagine fedele d'un secolo di passato, ma cieco dell'avvenire; il secondo, ingegno vasto più che profondo, critico per eccellenza, e nella foga di distruggere, che l'invadea, avido più di trovare che non di creare un tipo a cui attenersi; l'uno e l'altro, tendenti all'aristocrazia, predicarono primi le istituzioni britanniche - e dietro a quei due la turba degli enciclopedisti, i filosofi, i mezzo-politici e gli imitatori servili. Il sistema che reggeva gl'Inglesi sgorgava dalla loro storia diversa affatto dalla francese. La loro aristocrazia era elemento della nazione traente origine dalla conquista. In Francia non v'era aristocrazia se non per abuso; ma un nuovo stato dovea sotterrarla inevitabilmente. Il popolo più che libertà anelava eguaglianza. Ma chi tra' francesi scrittori guardava alla Francia? - Il solo che si ribellasse al torrente fu Rousseau - e Rousseau fu greco: spartano: ideò repubbliche che avevano ad esser nuovissime, e fu trovato che i loro titoli stavano in un angolo dell'Europa, sotto la polvere d'uomini morti da venti secoli. La rivoluzione, convocando il popolo, elemento eterno, sulle rovine della Bastiglia, scrisse il decreto di morte ad ogni privilegio monarchico aristocratico. Ma non valse. Il sistema inglese che s'era fatto pigmeo in Mounier, Tollendal, Malouet, per insinuarsi non visto nell'assemblea nazionale, dileguatosi sotto la mano ferrea dell'uomo del blocco continentale, ricomparve audacissimo a tentare la seconda prova nella Staël, in Beniamin Constant, Royer-Collard, e gli altri, che assisero il fantasma monarchico sul trono di Bonaparte. Ed oggi poichè la seconda tornò in nulla per le tre giornate, ritenta la terza - e speriamo - l'ultima prova. La ritenta, mentre pur quell'unico esempio dell'Inghilterra è sfumato - mentre il sistema rovina nel luogo ov'ebbe la culla - a fronte del ruggito irlandese - a fronte del manifesto popolare lanciato in Lione, in Parigi, per ogni dove - quando i colori della repubblica si mostrano in Francoforte, secondo centro dell'aristocrazia europea - quando le dispute vertono oggimai sulla forma, non sul principio repubblicano. Ma che sperare da gente come quella ch'or regge in Francia, se non l'ultimo disinganno alle moltitudini?
Il sistema inglese agonizza. Il sistema americano sorge collo stendardo repubblicano. L'America fu l'arena che vide prima la lotta fra il principio monarchico-misto e il repubblicano. La repubblica v'ebbe la prima vittoria. Ciò basta alla politica imitatrice per dichiararsi americana esclusivamente. La scuola americana, duce Lafayette, uomo di rara virtù, d'intelletto mediocre, domina in oggi gran parte dei repubblicani: invoca in Francia, nelle colonne del National, le due camere, contradizione patente al principio della sovranità popolare; il senato, asilo aperto all'elemento aristocratico; il governo a buon mercato, senza avvertire che la economia nazionale non dipende dalla quantità del tributo, bensì dall'uso e dal riparto di questo: in Italia, invoca la federazione. - Perchè non invoca anche gli schiavi che nelle repubbliche americane costituiscono il settimo della popolazione?
È tempo che la politica s'emancipi da cotesta tirannide degli esempî. È tempo che il secolo XIX tragga dalle proprie viscere, dai proprî elementi, dai proprî bisogni la politica che deve guidarlo. L'Italia del XIX secolo racchiude nel proprio seno le condizioni della sua futura esistenza, e le forze per raggiungerle. Guardiamo dunque all'Italia, non all'America o a Sparta. Non abbiamo noi intelletto nostro e basi di giudizio e fatti presenti, perchè si debba da noi statuire a criterio, a principio politico un esempio straniero, o spettante al passato? - Un fatto è il prodotto delle mille cagioni, dei mille fenomeni che s'incontrarono in un dato periodo, in un dato paese; e quei fenomeni e quelle cagioni s'incontreranno identici sempre, perchè s'abbia a volerne la conseguenza che ne fu tratta altrove? - I principî prevalgono ai fatti, perchè non dipendono da circostanze fortuite o singolari, ma dalla eterna ragion delle cose. Ogni nazione cova un principio che domina la sua storia, e ch'essa è chiamata a sviluppare o perire. Il principio nazionale tra noi vive occulto, come vogliono i tempi, ma non tanto che l'indole del secolo, degli abitanti, delle passioni, dei fatti concatenati che costituiscono la nostra storia, delle rivelazioni ch'emergono dalle lettere, dai bisogni e dai tentativi operati non lo esprimano a chi vuol rintracciarlo. Dissotterrate quel principio. Poi se gli esempî stranieri verranno a convalidarlo, meglio. - Contemplateli; ma del guardo dell'aquila al sole, libero, indipendente, potente. Contemplateli; ma come termini d'una proporzione, il cui primo termine deve rappresentarvi. Non rifiutate un trovato straniero, se, applicato a voi, frutta incremento alla patria. Ma non lo accettate alla cieca, unicamente perchè già altrove accettato. Così facendo, sarete Italiani, e vi troverete per legge di cose, europei. In altro modo vi rimarrete servi, o meschinamente ribelli al vero.
I primi ci s'affacciano nella Grecia.
Chi disse la varietà nell'unità essere il tipo del mondo greco, disse cosa più vera ch'altri non pensa. La Grecia splende nella storia europea d'una potente unità; ma d'una unità vivente nel genio greco più che negli ordini greci; d'una unità che vegliava nelle religioni, nelle abitudini, nella missione che i destini fidavano alla Grecia, nucleo primitivo del mondo europeo, nella opinione radicata, che tutti stranieri eran barbari, non nelle leggi e negli istituti politici interni. La missione greca di romper guerra in nome dell'Europa futura al genio orientale s'adempieva fatalmente, per legge di razze, senza che fosse necessaria una forte e preordinata unità. E d'onde sarebbe sorta cotesta necessità, quando la Grecia era sola in Europa? - Però nei tempi delle greche repubbliche le confederazioni valsero contro ai Persiani, come leghe formate a tempo, e volute dalla urgenza di combattere una guerra comune a tutela dell'elemento nazionale. Ma quando sorsero le ambizioni e le invidie domestiche, e le leggi varie partorirono le varie tendenze, le federazioni non valsero a quetare la discordia e le guerre intestine, nè a salvar la Grecia dalla dittatura d'un principe o d'una delle repubbliche, nè a proteggerla dall'invasione straniera: quando questa invasione venne d'Europa, la lotta fu varia, ostinata, perpetua. Durò continua fra Sparta e Atene, fra l'elemento dorico e l'elemento ionio. Nè la Lega anfizionica valse a indurre la pace. Fu simulacro, non esempio di lega. Fu, nei tempi più queti, guerra tacita e quasi legale, sostituita all'aperta. E la storia greca ai tempi anfizionici, è storia di contrasti e d'usurpazioni alterne, nella quale ora Sparta, or Tebe, or Atene furono dominatrici nel consiglio supremo. Poi venne la potenza macedone - e quando Filippo e Alessandro sorsero primi, fu lega di servaggio comune, non libera fratellanza di repubbliche confederate a serbare intatto il sacro deposito dell'uguaglianza92. E quando il popolo romano, il popolo Napoleone cacciò sull'arena il guanto della universale dominazione, la lega achea riuscì impotente a sottrarvisi. Le federazioni greche, come tutte federazïoni contro una potenza unitaria, si fransero contro la unità di Roma.
Varchiamo d'un balzo tutto quel periodo nel quale la grande unità romana delineò coll'armi il programma dell'era moderna che la pace dei secoli liberi svolgerà nel futuro. Varchiamo tutto quel lungo periodo di guerre virilmente difese contro il colosso romano, ma inefficacemente ordinate e mal collegate che strappò di bocca a Tacito quella sentenza: che rara è la concordia di due o tre città nel combattere un comune pericolo93. Dalle leghe italiche in fuori, alle quali per domare la potenza romana non mancò che d'essere forti d'un vincolo unitario, nessuna lega apparisce, nessuna confederazione che meriti esser tolta a modello; leghe di schiavi, leghe di colonie e di municipii, che Roma struggeva d'un cenno. L'unico tentativo di lega che meriti l'attenzione dei posteri, è quello ch'escì dal concetto d'un gladiatore tracio: è il grido di Spartaco a' suoi fratelli di servitù. E il grido di Spartaco potente a far tremare la stessa Roma, fu grido d'unione concentrata e universale a quanti gemevano conculcati dalla romana aristocrazia; fu il programma dell'unità popolare, come Roma fu della unità nazionale italiana.
Il primo esempio di federazione che ci s'affaccia nel mondo europeo moderno, è la Svizzera: la Svizzera, federazione di fatto, di necessità, d'aggregazioni successive, che nessuno sceglierà mai a modello d'organizzazione politica; la Svizzera, terreno neutro, che la mutua gelosia delle grandi potenze salva dalle usurpazioni straniere ogniqualvolta l'equilibrio europeo turbato non trascini con sè la invasione: la Svizzera, associazione d'elementi eterogenei, composta di Cantoni d'indole, di religione, di politica, di credenze diverse, complesso di tutte le forme d'istituzioni aristocratiche, popolari, monarchiche94 - che non ebbe se non un secolo bello di pace, il XIV - ch'oggi nel moto d'eventi che incalza l'Europa, sente evidentemente il bisogno di avvicinarsi all'unità, o la condanna a rodersi di anarchia. E so che taluni fra i politici - quelli appunto che gridano alto contro le utopie dei repubblicani unitarî - tennero e forse tengono tuttavia la Svizzera come un soggiorno di beati e pacifici abitatori, e predicano la innocenza e la purità del costume e le abitudini pastorali e patriarcali che regnano sulle balze elvetiche e le proteggono dalle ambizioni, dalle risse e dalle corruttele europee. Dov'essi travedano cotesta Svizzera non è facile risaperlo; forse negli idillî di Gessner. Pur se anche innocenza e semplicità prevalessero tra gli Svizzeri, non sarebbe frutto del reggersi a federazione, bensì di cagioni inerenti ai luoghi, all'educazione, alla povertà naturale. Ma io scorrendo la storia95 veggo la Svizzera campo di guerre e stragi fraterne per intolleranza religiosa in un secolo, per pretese di aristocrazia in un altro, e sempre per raggiri dei gabinetti stranieri influenti nei consigli e nei varî governi. E guardando al suo patto, lo veggo ineguale ai bisogni, impotente a crear la concordia, e violato sempre all'estero ed all'interno - e mentre il patto conteneva solenne divieto ai cantoni di stringere alleanze straniere senza il consenso di tutti, veggo i cantoni ligi sempre delle potenze straniere collegarsi or coll'Austria, or colla Francia, or colla Spagna e or con Venezia senza pur chiedere il consenso voluto - e mentre ogni cantone cercava provvedere unicamente alla propria gloria e al proprio incremento a dispendio della intera confederazione, il timore solo dell'ambizione e della potenza dei principi tenerli uniti, e superato il pericolo, rotta immediatamente la unione - e la Svizzera forte a principio dell'altrui debolezza, la Svizzera repubblicana decadere rapidamente, quando tutte le monarchie ingigantirono nelle armi e nei mezzi - e odo la veneranda voce di Giovanni Muller dichiarare che la intenzione d'occuparsi in un trattato sul mantenimento della libertà nella Svizzera gli sarebbe tornata inutile, dacchè quanto aveva veduto gliene dimostrava l'impossibilità96. - Però l'esercito repubblicano francese, malgrado alcuni fatti di resistenza ostinata, soggiogò in brev'ora la Svizzera. L'onnipotente unità ruppe la mal legata federazione. Poi se Napoleone riconobbe nell'atto di mediazione del 1803 l'indipendenza dei Cantoni, non fu perchè ei riconoscesse una suprema necessità o la eccellenza delle forme federative, ma perchè Napoleone voleva fondare il dominio universale francese sull'altrui debolezza; perchè le confederazioni ch'ei piantava all'intorno porgevano alla Francia occasione di protettorato, e, occorrendo, pur di dominio: perchè pronunciando a Sant'Elena che la Italia sarebbe, rifiutò pur di crearla, paventandola fatale alla Francia. Ma il trarre partito a favore del sistema federativo dal progresso che s'ebbe la Svizzera nei dieci anni durati sotto l'impero dell'atto di mediazione, varrebbe lo stesso che voler desumere un argomento a danno dell'unità dalla condizione infelicissima della Svizzera durante l'unità statuita dalla francese repubblica. L'unità elvetica statuita violentemente coll'armi, e armi straniere, durò brevissimo tempo: e quel tempo fu segnato di oltraggi, di angherie, di dilapidazioni, conseguenze inevitabili d'ogni intervento straniero; poi fu tempo di guerra continua, di guerra atroce che trasse sull'arena svizzera le forme russe e le teutone e le francesi. Ma i beneficî che vennero nei dieci anni alla Svizzera non furono conseguenza dell'atto di mediazione, non dell'indipendenza data ai Cantoni; bensì della libertà data al popolo, dell'emancipazione dei villici costituiti in eguaglianza di diritti coi cittadini, delle leggi proibitive soppresse. Escirono dalla libertà, non perchè libertà dei popoli confederati, ma malgrado gl'inciampi che la federazione frappone allo sviluppo della libertà. Il solo effetto che dalla federazione venne allora alla Svizzera fu la ineguaglianza di quello sviluppo d'incivilimento nei diversi Cantoni, ineguaglianza che perpetuò i semi della discordia, viva or più che mai in quella contrada. Venne infine il patto del 1815; e intorno a questo i fatti parlano in oggi abbastanza chiari, perché s'abbia a parlarne da noi.
Poi, - e questa è secondo noi differenza essenziale - le circostanze che formarono la confederazione Svizzera furono totalmente diverse da quelle che presiederanno alla nostra rigenerazione. Nella Svizzera l'associazione crebbe col tempo e colle cagioni che emersero a distanze considerevoli. Solamente dopo la giornata di Morgarten, trascorsi quindici anni dalla prima lega di Schwitz, Uri ed Unterwald, Lucerna si accostò ai tre cantoni: poi Zurigo, poi Glaris, poi Zug e Berna nel secolo XIV: poi Soletta e Friburgo; e nel XV Sciaffusa e Basilea; e nel XVI, duecento anni dopo quel primo nucleo, Appenzell. Noi sorgeremo, a un tempo, nella fratellanza dei pericoli e dell'intento, nell'entusiasmo comune, nella fusione d'una guerra molteplice, universale. - I fatti creavano la federazione svizzera: tra noi non sarebbe che arbitrio di volontà.
Nel 1579 la lega d'Utrecht cacciò il germe d'un'altra federazione in Europa. Un vincolo strinse l'Olanda, la Zelandia, la Frisia, Utrecht, la Gheldria e Over-Yssel. Groninga e le provincie unite crebbero e fiorirono prospere e potenti nel secolo XVII: nel secolo XVII, quando la politica europea era nell'infanzia, quando unità vera, libera, popolare non era da trovarsi in Europa e lo stringersi a federazione conteneva tanto omaggio al bisogno d'unione quanto oggi ne conterrebbe il concetto unitario: sofferta la dominazione di Carlo V e la tirannide di Filippo II, uomini di potere unico e concentrato all'estremo: dopo una lunga e sanguinosa rivoluzione che dovea per legge di tutte rivoluzioni fomentare l'istinto del popolo a crearsi uno stato contrario in tutto all'antico: in un paese che la configurazione geografica, l'isole, le lagune e le paludi disseminate nella Frisia, in Groninga, nell'Over-Yssel e nell'altre contrade invitavano all'ordinamento federativo: tra popoli che le abitudini frugali, economiche, operose e dedite esclusivamente al commercio, salvavano da molti dei pericoli che ci minacciano, e facevano idonei a qualunque forma di reggimento, tranne alla tirannide. E son ragioni da porsi a calcolo tutte. Pur, quando venne il momento di levarsi contro la Spagna e riconquistare l'Indipendenza, quelle provincie sentirono un bisogno d'unità e si annodarono attorno a un capo. Gli Orange costituivano nella realtà un vero centro. Ma da quello in fuori, l'ordine federativo era l'unico conveniente in allora alle provincie unite, l'unico che non contrastasse all'elemento in quelle predominante, e chi ricerca le cagioni che dan moto alle istituzioni, e ne trova di particolari, non dovrebbe affrettarsi a desumere assiomi o teorie generali politiche. L'aristocrazia era elemento prevalente in Olanda: l'aristocrazia che l'unità logora e annienta, la federazione rispetta e blandisce. Popolo, nel vero senso, non era. Le moltitudini avevano cercata libertà di credenza religiosa, economia nelle amministrazioni, protezione e sviluppo al commercio - e l'ebbero; ma da questo in fuori null'altro. Gli interessi comuni ai governati e ai governanti, procacciarono ai primi buoni magistrati, tribunali equi e incorrotti: vantaggi di fatto, non guarentigie di diritto: beneficî civili, non prerogative politiche. La costituzione, buona in quanto s'adattava a quelli elementi, pessima in sè, non contemplava la massa della nazione: riconosceva un'aristocrazia ereditaria, era essenzialmente oligarchica. Però l'istituzione federativa esciva spontanea dalla necessità di dare sfogo alle diverse aristocrazie, dal pericolo di ridarle alla ribellione volendo pur soffocarle tutte in un solo centro potente. Ma tra noi, l'elemento aristocratico è tale da determinare una forma di reggimento? Le condizioni sociali ammettono oligarchia? I ventisei milioni di cittadini sfumeranno davanti all'influenza ereditaria d'un picciol numero di famiglie? o faticheremo noi a fondare un'aristocrazia - dacchè in Italia aristocrazia, come elemento sociale, non esiste - unicamente per essere tratti da quella alla necessità d'un governo federativo? - Ipotesi assurde tutte, pure a chi volesse dall'esempio delle provincie unite trarre un argomento a favore d'una federazione italiana, sarebbe forza l'ammetterle. Noi vogliamo libertà, libertà di popolo, libertà durevole, libertà eguale per tutti, libertà di fatto e di diritto - e questa sola pretesa caccia l'immenso tra noi, tra l'Italia futura e l'Olanda del secolo XVII. La prosperità dell'Olanda, la potenza a cui salì, non vennero dalla federazione, ma dal commercio: dal commercio, nervo, forza, vita di tutte le Provincie collegate: dal commercio che anche i capi facevano, ed erano quindi costretti a promovere; dal commercio che fioriva e dava predominio europeo a quelle città anche anteriormente alla federazione97: dal commercio che cadde, viva la federazione, quando l'Inghilterra e la Francia accrebbero il loro, quando le guerre durate dalle sette provincie indussero aumento nelle tasse e nel debito pubblico, quando il monopolio prevalse nel commercio dell'Indie. Prosperità e rovina delle Provincie unite derivano da cagioni evidentemente indipendenti dal vincolo speciale che le stringeva. Dalla federazione scesero ben altri effetti che quelli dei quali or parlammo: scesero i germi della disunione, poc'anzi operata: scesero le debolezze dell'Olanda davanti alle potenze straniere: scese insomma, che l'indipendenza delle Provincie Unite, riconosciuta nel 1609, fosse pressochè nulla, e servile all'influenza francese poco più di mezzo secolo dopo, all'epoca della pace di Nimegue.
Scendiamo all'epoca nostra. Scendiamo - poichè i passati non giovano - agli esempî nuovi, o meglio all'unico esempio su cui s'appoggiano i federalisti. Certo: la Confederazione Germanica non ha di che indugiarci per via. Per quel cumulo inordinato di trentasei o più Stati, il vincolo federativo non è solamente un vincolo debole o difettoso; è un'illusione comprata a prezzo di sangue, e che sfumerà nel sangue; è un'opera di stolta perfidia eretta dalla Santa Alleanza a serbarvi, ov'arte umana potesse, il fantasma gotico dell'evo medio; è un regolamento militare, una istituzione di polizia ordinata a profitto di due sole potenze, che forse dovranno un dì o l'altro sbranarsi sul campo medesimo, ov'oggi dividono i frutti della tirannide. Dei governi e dei popoli che si dibattono sotto quel vincolo convertito in catena, i primi cozzano, poichè coll'armi non possono, colle dogane, colle leggi proibitive, cogli ostacoli alla navigazione su fiumi, colla diversità di moneta, di pesi e misure - i secondi s'affratellano tacitamente e cacciano i germi della futura unità in Hambach, e le prime linee del programma repubblicano in Francfort.
Chi desume dalle repubbliche confederate degli Stati Uniti un argomento generale a favore del sistema federativo, non pensa che dei due vizî inerenti, secondo noi, ad ogni federazione, debolezza al di fuori e aristocrazia inevitabile presto o tardi al di dentro, il primo è nullo in America, ricinta com'è dall'Oceano e secura a un dipresso dagli assalti stranieri - l'altro, se pur non comincia a esercitarsi, come noi crediamo, negli Stati Uniti, ha bisogno di tempo lungo per manifestarsi evidente e ostile alla libertà. L'aristocrazia di conquista si forma a un tratto nel riparto delle terre. Ma dove non esce da quella cagione, si forma lenta e a gradi sia coll'oro accumulato di padre in figlio, sia colla trasmissione del suolo entro dati confini e delle influenze locali che si concentrano a poco a poco nelle famiglie potenti. Due generazioni corsero dall'indipendenza dichiarata, e due generazioni non son troppe a fondare un'aristocrazia in un popolo giovine, non guasto da corruttele, lontano dai raggiri d'aristocrazie e tirannidi confinanti, e sorto di mezzo ad una lunga e popolare rivoluzione. Ma noi siamo guasti, invecchiati nelle abitudini del servaggio, circondati da nemici potenti d'odio e d'astuzie, e s'oggi aspiriamo - e riesciremo - a ringiovanirci, le abitudini della vecchiaia veglieranno gran tempo ancora a rinconquistarci, ove per noi si lasciasse un varco schiuso a quelle abitudini. - Così siam noi: così è tutta Europa; nè l'aristocrazia di finanza ha richiesto in Francia due generazioni per sottentrare a quella del sangue.
Ma chi tenta applicare l'esempio desunto dagli Stati Uniti più specialmente all'Italia, viola ogni legge d'analogia, travede condizioni uniformi dove non sono, dimentica storia e topografia. A non guardar che alla carta dei due paesi, a paragonare una superficie di 1,570,000 miglia quadrate ad una di 95,000 al più, sorge naturale l'inchiesta, qual relazione esista tra l'immensa estensione che comprende quasi un intero continente re dell'oceano, e la penisola mediterranea Italiana. Chi direbbe che i due terzi, o quasi, d'Europa potessero formare una sola repubblica? - o chi vorrebbe dalla impossibilità dell'ipotesi dedurre che la ventinovesima parte d'Europa nol può? - proposizione stranissima, e che lo diventa più sempre se il guardo, scorrendo le due superficie, trovi la prima seminata di laghi vastissimi e d'immensi deserti, l'altra di laghi incomparabilmente minori, e popolata non interrottamente di città. Certo; qualunque sia per essere nel futuro il destino delle attuali repubbliche, gli Stati Uniti han terreno per molte repubbliche unitarie equivalenti l'Italia. Ma le ventiquattro che oggi compongono la confederazione dell'America settentrionale sorsero a un tempo? - ebbero condizioni identiche, perchè dove la vastità delle terre non avesse posto un ostacolo, potessero confondersi in una? - In altri termini la scelta del reggimento federativo fu scelta libera, o voluta da prepotenze di cose? Noi vedemmo l'ordinamento federativo trascinato dall'impero dei fatti nella Svizzera e nell'Olanda. Noi vediamo lo stesso impero esercitarsi sulla confederazione degli Stati Uniti. Le colonie che li compongono, sorsero successivamente a tempi diversi, per emigrazioni determinate da varie cagioni. Differirono di credenze religiose. Differirono di governo. Rimasero per molto tempo inegualmente sottoposte all'influenza dell'Inghilterra. Alcune avevano governatore e consiglio da Londra: altre governatore soltanto: d'alcune, all'epoca della rivoluzione, non fu bisogno di mutare che un nome, tanta era la libertà che in virtù di Carte concesse dal governo godevano. Rhode-Island si regge tuttavia colla costituzione accordatale da Carlo II: Connecticut non la mutò che pochi anni addietro, nel 1818. Ma per l'altre fu questione di libertà interna ed esterna ad un tempo. Alle opposizioni derivate dai climi, dalle condizioni del suolo, dalle abitudini, si aggiunsero le importantissime delle origini e delle interne risorse. La popolazione degli Stati del Nord è somministrata nella più gran parte dall'Inghilterra; quella degli Stati meridionali dai nativi della contrada, discendenti dei primi coloni. Le piantagioni del Sud vivono dell'opera degli schiavi: le opinioni religiose tendono invece all'emancipazione nel Nord, e vietano gli schiavi alla Nuova-Inghilterra. E tutte queste differenze durarono nella loro azione anche dopo consumata in comune la grande opera dell'indipendenza - e fu forza piegare davanti alle rivalità degli Stati edificando per le sedute del congresso una città neutra - e durano tuttavia, non aspettando a insorgere pericolose che un'occasione. E udimmo non è molto nella Carolina suonare alto il principio: che la sovranità popolare genera in ogni Stato confederato il diritto di rinunciare ai beneficî ed ai carichi dell'associazione, e ritrarsene, quando il proprio vantaggio lo imponga: principio che basta l'aver gittato perchè fermenti, e si riproduca più tardi: principio che a noi sembra d'una verità incontrastabile, e racchiude perciò il più forte argomento possibile contro il vincolo federativo applicato a paesi che debbono e vorrebbero starsi uniti in perpetuo.
Ma tra noi - ripetiamolo anche una volta - dove sono le differenze che accennammo pur ora? - Travagliati dalla stessa vicenda, educati nei bei secoli a glorie comuni, a libertà uniformi, poi a comune servaggio, oppressi - nessuna provincia eccettuata - da una stessa tirannide, soggiacenti a bisogni eguali, quali tra le cagioni che vietarono all'America l'unità la vietano a noi? - È pur forza dirlo, o ritrarsi. È pur forza scendere, rinunciando alle fallacie degli esempî sul terreno italiano.
Quali sono in Italia gli ostacoli che si allegano insuperabili all'unità?
Tralasciamo l'affermazione gratuita di chi contende non essere possibile una repubblica in esteso terreno. È pregiudizio trapassato per autorità d'uno in altro, senza esame di prove. Come una repubblica non possa ordinarsi dove una monarchia costituzionale lo può - come, serbato il potere legislativo al concilio nazionale, l'autorità esecutiva trasportata da un capo ereditario a uno elettivo e a tempo, induca impossibilità d'esistenza, non è facile intenderlo. Se in oggi per noi si trattasse d'una repubblica foggiata all'antica dove il popolo tutto quanto fosse chiamato a discutere le proprie cose, forse i limiti prescritti da Rousseau ci parrebbero vasti troppo98; ma la repubblica moderna, la repubblica rappresentativa, la repubblica nella quale il popolo opera per mandatarî, non presenta difficoltà che non siano comuni alla monarchia temperata, e meritino di essere combattute.
Tralasciamo egualmente gli argomenti dedotti dal clima vario in alcuni punti. Oggi il termometro non è norma che valga alla scelta delle istituzioni. E so che a taluno - nel XIX secolo - è piaciuto scrivere: le assemblee deliberanti non convenire ai climi meridionali; ma chi badò a quell'uno? La libertà è cittadina di tutte le zone, nè lo sviluppo morale intellettuale dei popoli concede ormai più predominio alle cause fisiche. Le differenze di clima in Italia son poche: non maggiori di quelle che s'incontrano altrove in paesi retti da un potere centrale monarchico; e siffatte diversità, ove valessero, varrebbero contro ad ogni concentramento, se monarchico o repubblicano, non monta99.
La divisione, lo spirito di discordia che si rivela per entro alla Storia come elemento contrario alla Italiana unità, forse affatica tuttavia, più che non vorrebbero i tempi, le menti italiane, è l'unico argomento potente che gli uomini del Federalismo invochino. Forse abbiam detto: perch'è pur necessario, a chi non vuol vivere di passato, intravvedere nel primo fatto italiano la fine di queste discordie. Fremevano fieramente un giorno in Italia attizzate dagli Imperatori e dai Papi, alimentate dalla potenza che fa gelosi e audaci. Garriscono in oggi triviali e impotenti nelle pretese di aristocrazie semispente e nelle invidiuzze d'accademie e pedanti, ai quali la propria città - se non la sala ove si radunano - è troppo vasto universo. Ma la prima voce di generoso che susciterà i fratelli all'opre del braccio - il primo battere di tamburo che chiamerà gl'Italiani all'insurrezione nazionale, sperderà quel garrito; nè la potenza rinata varrà a risuscitare gli sdegni; perchè sarà potenza conquistata col sangue di tutti nelle guerre di tutti, per l'emancipazione di tutti; - potenza non di una o più città; ma d'uomini di tutte terre italiane, armati contro un nemico comune, raccolti sotto una comune bandiera. Manca un vessillo alla divisione. Papi e Imperatori sono spenti. La tirannide lunga e i delitti hanno logorato quella potenza che li costituiva capi di parte, e traeva volontaria dietro alle loro insegne una metà d'Italia. Manca un vessillo alla divisione, e consunta l'efficacia di quei due simboli, chi sorgerà in loro vece?
Chiedetelo al voto che emerse spontaneo, e tu represso dalla sola codardia dei governi, nella insurrezione del 1821 dal moto delle moltitudini.
Chiedetelo al fremito della gioventù che indarno i tirannetti d'Italia tentano spegnere - della gioventù serrata, dall'Alpi al mare, a una lega, diciamolo pure altamente, invincibile - della gioventù che s'oggi ancora si svia talvolta dietro a nomi e simboli varî, non cede che al bisogno prepotente di moto che l'affatica, ma sorgerà forte di concordia e d'unità indissolubile, ove una bandiera Italiana s'inalzi di mezzo a' suoi ranghi.
Chiedetelo alla storia d'Italia, guardata filosoficamente, e dall'alto de' suoi destini. -
Da quel voto, da quel fremito giovanile, dalla storia d'Italia, esce una risposta assoluta:
Il popolo!
Il popolo: terzo principio che s'è lentamente inalzato sulle rovine di quei due, ghibellino e guelfo, nordico e meridionale, rappresentati dall'Imperatore e dal Papa, e condannati a rodersi l'un l'altro, finchè s'estinguessero in una comune maledizione - il popolo che non fu mai guelfo nè ghibellino, ma concedendo il braccio e il sangue ora all'una or all'altra bandiera, dovunque lo chiamava l'istinto che lo sprona allo sviluppo progressivo e all'Eguaglianza, imparava ad abborrir l'una e l'altra - il popolo che come il carroccio, simbolo santo della Patria Italiana, movea lento attraverso le rivoluzioni e le guerre, ma era sicuro di giungere alla vittoria - il popolo è d'ora innanzi solo dominatore in Italia e nella sua grande unità si spegneranno tutte le divisioni che mantennero le frazioni ostili per tanto corso di secoli. -
Certo: noi siamo divisi. Certo: il lievito antico della discordia non s'è consumato tutto coi padri. Ma è divisione che s'agita dentro il recinto d'ogni città; che s'esercita tra le classi, tra gli individui che la compongono, anzichè tra popolo e popolo. Le lunghe risse, le gelosie naturali a tutta l'aristocrazia, le disuguaglianze che vivono enormi tra gli ordini della società, e più di tutto l'arti molteplici e le insidie della tirannide, hanno perpetuata una diffidenza che si mostra ancora nei fatti, e inceppa i nostri progressi. Ma è diffidenza non regolata dalle istituzioni diverse, non determinata dalle delimitazioni dei territorî: diffidenza che cova in petto a ogni uomo, e genera l'isolamento: diffidenza che ajuta l'individualismo, primo come più volte dicemmo, dei nostri vizî. Or chi mai tentò spegnerla? Chi cercò struggerla alle radici?
L'aristocrazia mascherata in diverse guise prevalse sempre nei tentativi rivoluzionarî passati: l'aristocrazia, elemento perpetuo di gare e fazioni. Il popolo in cui solo cova l'elemento Italiano, il popolo che anela per propria natura l'Eguaglianza, e ha quindi solo virtù per fondar l'unità, non fu curato mai nè cercato. Però vedemmo in Bologna sorgere germi d'esclusiva supremazia, e suscitarsi quindi una diffidenza nelle altre città dell'Italia centrale; ma furono quelle pretese di popolo? - no: furono pretese di forensi, e di poca gente che sotto l'assisa della Libertà serbava vive le misere ambizioncelle del vecchio dominio. Il Popolo invocava armi e capi che lo guidassero a soccorrere i fratelli di sventura impotenti a levarsi da sè. - Vedemmo Piemonte e Genova ostili per memoria di antica nimicizia fremere l'un contro l'altra sicchè furono detti nemici irreconciliabili; ma quando? - quando da un lato stava una monarchia rapace e ingiusta, dall'altro una aristocrazia gelosa e tirannica, e il popolo era nullo nei due paesi. Ma quando un grido di libertà, comunque fiacco ed inerte, fu pronunciato in Torino e Genova, Genova e Torino s'affratellarono in un voto, in una speranza di Popolo, e a me che scrivo suona ancor dentro l'anima il plauso che giovanetto raccolsi dal popolo Genovese agli uomini del Piemonte che movevano verso Novara - e quel plauso del 1821 lo raccolsero i Piemontesi come pegno di fratellanza che un sol grido di popolo ridesterà - e a quel pegno l'ultimo gemito di Laneri e Garelli ne aggiunse un più santo e tremendo - e oggi checchè si tenti da un re spergiuro, Genova e Piemonte son uno. Così, fremente la guerra tra il Clero e l'Aristocrazia, tra questa e i popolani, le Città Lombarde si divorarono per due secoli le une coll'altre; ma quando il nome di Repubblica Italiana suonò per quelle contrade, l'incremento dato a Milano non accrebbe, scemò le gelosie locali delle altre città; e quando, sotto il regno d'Italia, confortò gli animi una illusione d'avvenire Italiano, il Veneto, il Romagnolo, il Lombardo, l'Anconitano, vissero nella stessa unità di politica, di leggi, di tributi, di capitale - un terzo d'Italia si confuse in una comune emancipazione, e le relazioni che apparivano prima diverse, emersero a un tratto, e senz'alcun danno, uniformi. Così la politica grida separati per sempre dalla tempra degli uomini, o dalla natura, Piemonte e Napoli - e si mostrarono infatti tiepidi all'unità, quando dodici anni addietro due Principi furono depositarî dei destini italiani; ma date in Napoli una voce di Libertà nazionale - sia voce di popolo, non menzogna di Principe - e udrete quale eco di unità, quai voti di fratellanza rimanderà il Sud agli Stati Sardi. Il popolo ha il segreto dell'unità. Il popolo non guarda a sistemi: non s'illude spontaneo dietro a norme di scuole americane o inglesi: segue il core; va per la via sulla quale lo sprona il soffio di Dio - e il soffio di Dio ha cacciato tale un raggio nella pupilla italiana, il suo dito ha scritto tale una sillaba di fratellanza in ogni fronte italiana, che nè tempi nè risse aizzate nè insidie di Principi stranieri o nostri potranno mai cancellare. - Guardatevi in volto, o Italiani!... Ivi troverete, voi soli, il decreto della futura unità.
Non la realtà degli ostacoli, la sola paura, deità onnipotente ai più tra i politici, crea le difficoltà di ridursi a reggimento unitario.
Pochi anni addietro la repubblica era sogno di pochi che la veneravano nel segreto, e s'ottenevano il nome di utopisti dai molti che la confessavano l'ottima fra le istituzioni a patto di sbandirla dal positivo. Oggi, gli utopisti son gli uomini che s'ostinano a trovare un monarca dove non è materia di monarchia, e rinegano li infiniti elementi repubblicani che vivono potenti in Italia - e se quei pochi non s'arrestassero tremanti davanti a un nome, se il loro voto si aggiungesse al predominante della moltitudine, la repubblica parrebbe transizione naturale agli eredi degli uomini del XII e del XIII secolo, anzichè crisi violenta e pericolosa. L'Italiana Unità apparirebbe opera non solo santa, ma facile, se pel corso di pochi mesi ai vocaboli diversi nelle pagine degli scrittori e nei discorsi dei dotti sottentrasse quell'uno.
Perchè, quali forti cagioni avvalorano in oggi le divisioni tra noi? D'onde deriva la condanna di eterna lite alla quale, secondo i Federalisti, soggiace l'Italia?
Or le razze tra noi dove sono? - Dove si mostrano predominanti? - In qual punto hanno serbato le loro conquiste? - Su quale palmo di terreno italiano può additarsi oggi ancora il trionfo di una razza straniera? - E per qual via dalle razze potrà dedursi una divisione federativa? La mano di Dio le ha disseminate e confuse in ogni provincia italiana; e dov'è l'uomo che presuma risuscitarle, separarle, e dire ad esse: quella frazione di terreno spetta alla razza Germanica, quell'altra alla Illirica?
Noi concediamo molto alle razze: aggregati di milioni che dispersi serbano quasi un segno, una parola segreta per riconoscersi, che hanno l'impronta d'una missione misteriosa e solenne, e lottano ostinatamente colle influenze straniere di luoghi e d'uomini sino al compimento di quella. Ma quando la missione appare evidentemente consumata, perchè ostinarsi a perpetuarla? Quando l'ire sono spente da secoli, perchè volerle rieccitare dalla polvere del sepolcro comune? Quando la traccia distinta delle razze è perduta, perchè logorare le forze a rintracciarla sotto lo strato uniforme che la ricopre? - In Italia fu il convegno di tutte le razze. Qui sulle nostre terre si raccolsero tutte quasi a congresso, come se nella Penisola dovesse cacciarsi il compendio del mondo; come se l'Italia futura avesse a riunire la vivezza e la spontaneità meridionale colla gravità e la profonda costanza delle razze settentrionali. Vennero mute, ignote, senza nome, senza bandiera, fuorchè quella della distruzione; senza missione, fuorchè quella di ritemprare la razza antica ammollita e di portar seco i semi d'incivilimento caduti quasi a caso dall'albero, ch'esse tutte scesero a scuotere senza poterne svellere le radici. Si confusero tutte dopo un urto potente, si cancellarono insensibilmente senza che alcuna valesse a rimanersi dominatrice; senza che alcuna valesse a resistere all'azione dell'elemento italiano primitivo. Noi le vincemmo tutte. Quando anche gl'Italiani parevano materialmente soggiogati, il principio sopravviveva e conquistava tutti gli elementi che l'opprimevano. Eterno come il diritto romano che si mantenne frammezzo al rovesciarsi dei barbari, il principio italiano logorò poco a poco le razze Greche, Germaniche, Illiriche, Saracene. Uno spazio minore di un secolo ci valse ad assorbire la razza Gota: duecento anni a sottomettere i Longobardi. Vinti e vincitori si fusero in un solo popolo. Le risse si quetarono nella tomba. Nella grande unità romana si operò la fusione delle razze greco-latine: nella grande unità del Cattolicesimo, durante il dramma dell'Impero, quella delle razze settentrionali. - Oggi la missione individuale delle razze in Italia è compiuta. Da tre secoli in quella polvere ov'esse giacciono s'elabora la fusione ultima, decisiva, irrevocabile. Una grande pace si stende su quelle reliquie. Non la turbiamo. Possiamo noi dissotterrare l'ossa dei milioni, e dire a qual razza appartengano?
E di questa lenta, ma sicura fusione, di questo segreto lavoro unitario, le tracce appajono più o meno evidenti nella nostra storia, dal secolo IX in cui incominciarono a sorgere i primi germi delle libertà cittadine sino al XII e XIII, nei quali quasi tutte le terre italiane si ressero spontaneamente e senza accordo fra loro a Comune, e da quei secoli in poi nel fermento intellettuale, che si manifestò quasi a un tempo per tutta la penisola, nel riavvicinamento progressivo dei costumi e delle abitudini, ch'oggi non sono più dissimili tra un Marchigiano e un Toscano di quello siano tra le famiglie Basche, Bretone, Normanne di Francia, e in quella continua lotta che fu combattuta ora aperta or celata fra il Papa e l'Impero, lotta il cui segreto è tutto nella ricerca dell'unità, intorno alla quale gli Italiani sentivano il bisogno di concentrarsi, e la travedevano or nell'uno or nell'altro vessillo.
Noi qui non possiamo diffonderci nell'esame delle epoche storiche che additano questo vero. A siffatta indagine manca il tempo e mancano i libri. Scrivo errante di casa in casa, fuggendo la persecuzione della polizia francese federata colle italiane. Ma da qualunque s'addentri con occhio di filosofo nella nostra storia, verrà scoperta una idea generatrice, anima, vita delle nostre vicende, una tendenza continua all'unità, troppo poco osservata finora.
E s'anche alcune reliquie delle antiche divisioni rimasero nell'Italia del XIX secolo, perchè, pur confessando che il tempo le va struggendo, ostinarsi a farne elemento degli ordini futuri italiani? Perchè, quando tutti deplorano funestissime quelle divisioni, sancirle, riconsecrarle con una legge, anzichè spegnerle a un tratto col decreto energico d'Unità? Il vizio d'accettare ogni fatto, qualunque ne sia l'efficacia, e dargli diritto di cittadinanza contemplandolo come legittimo nella costituzione dello stato, è vizio comune pur troppo a molte legislazioni politiche; non però meno fatale, perchè imprimendo un carattere pressochè incancellabile a quei fatti, tende a perpetuarli, e chiude le vie del progresso. Le leggi di Manou hanno trattenuto e trattengono l'India nella disuguaglianza delle caste, nella schiavitù delle femmine, e nella inerzia; perchè, trovati quei fatti, ne introdussero gli elementi, come immutabili, nell'organizzazione dello stato. Or, vorremo noi, figli del mondo progressivo europeo, introdurre nella politica l'immobilità dell'Oriente? - Le buone leggi guardano all'avvenire. I legislatori non registrano i fatti; ma, dove riescono dannosi, tentano modificarli o distruggerli. Il Potere che regge la somma delle cose in una nazione, non deve trascinarsi stentatamente dietro allo spirito d'incivilimento che la governa; bensì deve promoverlo primo, e antiveggendo il pensiero sociale, inalzarne in alto la bandiera, perchè tutti v'accorrano e lo sviluppino rapidamente. Il pensiero sociale in Italia è l'Unità. Le opposizioni son deboli; e non pertanto anche senza oprare tirannicamente, violentandole, v'è mezzo di soddisfare, quanto esigono, ad esse colla libertà di comune e di municipio. Ma se i futuri Legislatori d'Italia confessassero mai invincibile, ordinando le Federazioni, il fatto - se pur è fatto - delle divisioni, avranno preparato nuove risse e sangue e pianto e un secondo medio evo all'Italia, se non prima un nuovo servaggio comune.
Lo scritto che precede non fu compito, nè oggi, s'io guardassi unicamente al presente, importerebbe compirlo. Il fatto m'ha dato ragione e ha confutato in modo da non ammettere discussione i dubbî dei federalisti. La potente unanime voce del popolo d'Italia ha dichiarato ai letterati teorizzatori che la nostra utopia di trenta anni addietro era intuizione profetica de' suoi bisogni, delle sue aspirazioni, della sua vita segreta, del suo avvenire. Libero una volta del proprio voto, il popolo ha sciolto il problema e s'è chiarito unitario a ogni patto: s'è chiarito tale nelle circostanze più sfavorevoli, sagrificando all'intento l'esercizio d'ogni altro suo dritto, vincendo con insistenza mirabile davvero le paure e i tentennamenti della monarchia, resistendo alle seduzioni colle quali l'alleato straniero e gli atterriti o compri sostenitori d'ogni suo consiglio tentarono travolgerlo in disegni di confederazione che lo condannerebbero a debolezza perpetua. Il giudizio del paese dovrebbe dunque esimermi dall'aggiungere oggi pagine a pagine.
Ma davanti allo sgovernar sistematico d'una setta d'uomini che, increduli sino a ieri d'ogni possibile attuazione dell'Unità Nazionale, son oggi chiamati dalla monarchia a governarla; davanti alla inetta pertinacia colla quale quelli uomini tentano sostituire all'espressione invocata della vita Nazionale collettiva l'espressione data più che imperfettamente tredici anni addietro alla vita d'una piccola frazione d'Italia, il giudizio del paese può, non dirò retrocedere alla vecchia condizione di cose, ma vacillare pericolosamente sulla via che l'istinto della missione Italiana gli addita. La Nazione è un fatto nuovo che non può trovare la propria espressione se non in un Patto Nazionale dettato da una Costituente Italiana in Roma, in un ordinamento di armi cittadine da un punto all'altro del paese, in una politica italiana emancipata da tutte protezioni e ingerenze straniere, in una guerra arditamente impresa con un intento Europeo pel Veneto, e in un Governo, non di consorteria, ma di popolo, senza esclusione fuorchè degli avversi all'Unità della Patria. Se chi regge s'ostina a contenderci siffatte cose, avremo crisi e riazioni inevitabili di popolazioni deluse. Importa che in quelle crisi non corra rischio d'andar sommersa l'immensa conquista dell'Unità. Importa che l'idea s'addentri di tanto nel popolo da immedesimarsi colla sua vita ed escire più splendida di potenza e di fede da ogni rivolgimento d'eventi.
L'Unità era ed è nei fati d'Italia. Ad essa, come a intento supremo, accenna - fin da quando il germe della nazionalità Italiana fu cacciato dalle tribù Sabelliche nella regione Abruzzese tra le nevi del Majella, il Gran Sasso d'Italia, umbilicus Italiæ, e l'Aterno - il lento ma continuo e invincibile moto della nostra Civiltà: lento come quello che doveva tra via, prima di giungere a fondar la Nazione, conquistare due volte il Mondo; ma continuo d'epoca in epoca attraverso la lotta dell'elemento popolare contro tutte aristocrazie straniere e domestiche, e invincibile davvero dacchè nè le religioni mutate nè le invasioni di tutte le genti d'Europa nè lunghi periodi di barbarie e rovina valsero ad arrestarlo. La storia del nostro popolo contiene il segreto della storia d'Italia e del nostro avvenire e avrebbe rivelato ai nostri scrittori e agli uomini politici che in Europa s'affaccendarono intorno alle cose nostre il fine ineluttabile, verso il quale tutte le vicende spingevano la gente italica. Ma chi fra gli storici d'Italia tentò rintracciare e descrivere la vita del nostro popolo? Machiavelli stesso fallì, fra i nostri, all'impresa, nè ci verrebbe fatto desumere dalle sue pagine le condizioni relative del popolo ch'ei descrisse paragonate a quelle del periodo anteriore. A Sismondi, unico che meriti nome tra gli storici stranieri di cose nostre, non valsero le tendenze democratiche nè i lunghi pazienti studî: ei tessè più ch'altro la storia delle fazioni, delle ambizioni, delle virtù e dei vizî delle famiglie illustri d'Italia, senza indovinare il lavoro di fusione - intravveduto ma accennato appena a rapidi tocchi da Romagnosi - che si compiva tacito senza interruzione nelle viscere del paese. Però, l'animo profondamente italiano di Machiavelli proruppe in un grido d'Unità, ma senza speranza fuorchè dalla dittatura d'un principe; Sismondi, non italiano, si rassegnò disanimato a una impossibilità che non era se non apparente, e scritta l'ultima pagina della sua storia, dichiarò utopia l'Unità. «Come mai in una contrada dove ogni pubblica discussione è oggi vietata, dov'è chiusa la via a ogni pubblica celebrità, l'elezione popolare sceglierebbe gli uomini ai quali dovrebbe essere affidata la sovranità? Come sperare che i cittadini del più grande numero dei piccoli Stati italiani si rassegnino a sceglierli, se pur deve ottenersi una maggioranza reale, fra i cittadini d'altri piccoli Stati, dov'essi non vedono che stranieri e rivali? Come possono i fautori dell'Unità ideare che le gare e le diffidenze esistenti fra tanti Stati indipendenti siano dimenticate, non solamente da pochi pensatori dominati dall'entusiasmo, ma dalla moltitudine alla quale i proprî ricordi, gli affetti, i pregiudizî parlano più eloquenti che non i loro freddi ragionamenti? E come non prevedono che tutte le antipatie locali riarderebbero irresistibili appena una legislazione generale tenterebbe decidere intorno a questioni giudicate diversamente dalle varie popolazioni italiane?101.» I plebisciti del 1860 e le elezioni che dall'estrema Sicilia rintracciarono, nell'anno in cui scrivo, parecchi tra i rappresentanti nell'estremo nord, hanno sciolto il nodo. Ma nè storici letterati, nè cospiratori da noi in fuori, nè i chiamati a dirigere le insurrezioni, nè i viaggiatori dilettanti scendenti in Italia a contemplarvi dipinti antichi e imbeversi di melodie, nè i poeti ai quali una scintilla di vita in Italia avrebbe rapito la bella imagine d'una Nazione scesa nel sepolcro per sempre, sospettavano trenta o quaranta anni addietro il fatto generatore d'ogni nostro progresso che il popolo d'Italia s'era a poco a poco sostituito a tutti elementi parziali, soggiogando, assorbendo ogni influenza di razza e di casta. Or dove il popolo d'una nazione siede elemento dominatore, l'Unità - purchè la Libertà abbia tempio inviolabile nel Comune - è certa, infallibile. Le aristocrazie sole mantengono lo smembramento, come quelle che più facilmente primeggiano in zone anguste, sulle quali la tradizione avita splende di luce potente e l'autorità dei possedimenti s'esercita diretta e sentita nei buoni siccome nei tristi effetti.
«Sismondi102 - e ne parlo insistendo, perchè ei rappresenta tutto un ordine di scrittori che desunsero l'avvenire da un passato superficialmente inteso - uomo d'ingegno, di dottrina, e d'onesta fede, storico sincero sempre, talora profondo, più spesso scettico e incerto, tentennante fra dottrine diverse e governato dai fatti quali nelle apparenze si mostrano anzichè potente a interpretarli e ordinarli dall'alto della legge che li produce, non indovinò il fatto generatore al quale ho poc'anzi accennato. Le repubbliche italiane, delle quale ei ci narrò con amore la storia, lo incatenarono a sè. Cacciato dal suo soggetto a vivere lungamente tra le sempre rinascenti contese delle città italiane, tra le guerre che per seicento anni si mossero Guelfismo e Ghibellinismo, ei non seppe staccarsene, s'immedesimò con quei vecchi combattenti del medio evo e smarrì con essi la facoltà d'intendere il presente e presentire il futuro. Era mente analitica, incapace di sintesi: diseredato quindi d'una metà degli elementi intellettuali che fanno lo Storico, ei descrisse mirabilmente la parte esterna di quelle contese, ma senza intenderne il significato, senza intendere ciò che esse veramente rappresentavano o le loro inevitabili conseguenze. Non vide che il Papato e l'Impero erano solamente pretesto e simbolo visibile ad esse, ma che la loro vera cagione stava nella crisi segreta di fusione interna dalla quale l'Italia andava procacciandosi una eguaglianza d'elementi avversa al privilegio, alle caste, al federalismo. Una falsa dottrina filosofica spingeva fatalmente Sismondi verso il materialismo storico del secolo XVIII; e quando ei vide spegnersi tutto quel tumulto di fazioni e i due giganti della lotta, il Papa e l'Imperatore, inchinarsi siccome stanchi l'un verso l'altro e segnare sul cadavere di Firenze una pace della quale Cambrai avea stabilito i preliminari, ei mormorò mestamente a sè stesso: questa è la morte d'Italia.
«Era soltanto la morte dell'Italia dell'evo medio, delle sue ineguaglianze di razze e di civiltà, delle sue interne discordie, del suo dualismo; la morte d'un'Epoca che lasciava schiuso il varco ad un'altra; la cui grandezza dovea calcolarsi dalla103 sua lunga e faticosa iniziazione. Il fatto stesso di quell'alleanza tra due poteri fino a quel giorno irreconciliabili avrebbe dovuto insegnare allo storico lo sviluppo d'un terzo principio che li minacciava ambedue e ch'essi non si sentivano, separati, capaci di combattere e vincere.
«E seguendone la vita latente, egli avrebbe veduto quel terzo principio conquistarsi più sempre potenza in quel periodo che gli osservatori superficiali chiamano di degenerazione e d'inerzia. Perita la libertà delle città, il lavoro egualizzatore proseguì più che mai attivo e fecondo, latente perchè dalla superficie era trapassato al core della Nazione, ma rivelato, quasi per getti vulcanici, dai moti di Genova nel 1746, di Napoli nel 1647 e più dopo nel 1799, moti tutti di popolo. E nondimeno, tre secoli della nostra storia rimasero muti e privi di senso a Sismondi. L'assenza d'ogni manifestazione visibile di progresso gli parve a torto negazione di progresso. Colla caduta di Firenze ei vide conchiusa la storia d'Italia; e quando gli vagavano per la mente imagini d'una Italia vivente, ei le giudicava colle norme desunte dallo studio dei Guelfi e dei Ghibellini. Quindi i suoi terrori, simili a quelli coi quali dimenticando Sarpi, Venezia, Leopoldo, tutto il decimo ottavo secolo e il materialismo francese anche di soverchio invadente, ei travedeva ne' suoi ultimi anni, in virtù di ricordi e fatti isolati, onnipotente il Cattolicesimo.
«Agli uomini i quali, come Sismondi, s'atterriscono del riapparire probabile delle razze diverse in Italia, io vorrei chiedere d'indicarmi su questa terra dove le razze non cessarono mai dal primo loro apparire di frammischiarsi, di confondersi e assimilarsi, una sola zona nella quale una sola d'esse in oggi predomini; vorrei m'additassero una sola diversità fra gli Italiani lombardi, romani, napoletani, che non possa additarsi in Francia, omogenea fra tutte le nazioni, fra gli uomini dei Pirinei, della Bretagna, della Normandia e della Provenza. Tra noi le rivalità cessarono colla guerra. Trecento anni di oppressione comune hanno dato a tutti noi condizioni identiche di vita e di morte. Esistono in Italia elementi pel Comune, associazione naturale, non per le aggregazioni artificiali di Stati e Provincie.
«Per una apparente contradizione perfettamente spiegata dalla vanità compagna inseparabile della mediocrità, la diffidenza e le gare rivali, alle quali accenna paurosamente Sismondi, s'agitano talora tuttavia irrequiete fra i semi-pensatori politici e letterarî ai quali l'Italia va debitrice d'influenze e di scuole straniere e che stendono sulla nazione uno strato superficiale oltre il quale pochi s'addentrano: in essi almeno vive una tendenza ad ammettere siccome reali e ingigantir quelle gare. Il popolo le ignora. I sistemi di governi corrotti fondati sul terrore e sullo spionaggio, l'irritazione generata dai lunghi patimenti, l'assenza d'educazione e d'interessi politici collettivi e gli stimoli d'una individualità più che altrove potente, hanno creato e mantengono nelle nostre moltitudini abitudini facilmente sospettose, pronte alle subite riazioni e a diffidenze pericolose. Ma s'altri travedesse nelle piaghe dell'individuo germi di federalismo, convertirebbe in provincie gli uomini. Quei vizî si sfogano tra gli abitanti, tra le classi, tra i quartieri di ciascuna città; di rado s'alimentano di città in città; riescono invisibili tra provincia e provincia. Il bisogno d'una attività indipendente e la sovrabbondanza di vita che caratterizzano in Italia l'individuo e la civica corporazione alla quale egli naturalmente appartiene, daranno al Genio legislatore lo stromento opportuno a proteggere la libertà contro le usurpazioni d'un soverchio concentramento amministrativo, ma non possono creare la necessità di larghe divisioni politiche, nè la crearono mai. Diresti i fautori del federalismo provinciale incapaci d'avvertire a due fatti elementari della nostra storia, che gli Stati nei quali visse per trecento e più anni divisa l'Italia non emersero spontanei da voto o tendenze speciali dei popoli, ma furono creati dalla diplomazia, dall'usurpazione straniera o dalla violenza dell'armi: - che non esce dalla nostra storia quasi mai prova di formale definito antagonismo tra provincie e provincie. Le spade cittadine non segnarono mai i loro confini. Le nostre guerre, quando non furono, come dice Dante,
Fra quei che un muro e una fossa serra
furono tra città e città; tra città d'una stessa provincia: tra Pavia, Como, Milano, tra Pisa, Siena, Arezzo, Firenze, tra Genova e Torino, e così nell'altre zone d'Italia, non tra Lombardia e Piemonte, tra Toscana e Romagna, fra le terre napoletane e quelle del Centro. - Or non composero quelle città tutte gare e discordie sotto reggimenti comuni? Non vissero in lunga pace tra loro sotto un solo padrone? Se le vecchie contese dovessero riardere al soffio della libertà, noi dovremmo tornare alle cento repubblichette dell'evo medio, non agli Stati e alle grandi Provincie. È104 tra noi un solo federalista che spinga la logica fino a quei termini?
«Non esiste fra noi dissenso tra zona e zona, tra provincia e provincia. Gli osservatori superficiali, gli stranieri segnatamente, udirono talora, negli ultimi cento anni, in Italia, lagni di servi che s'agitavano contro altri servi lenti a rispondere all'agitazione; o ricordi orgogliosamente invocati, quasi a inanimarsi, di glorie locali; o rimproveri avventati da una ad altra provincia, tristissimo sollievo di schiavi che tentano addormentare col malignarsi reciproco il dolore e la vergogna delle catene; e ne desunsero pericoli pel futuro, senza intendere che la libertà di tutte cancellerebbe in un subito le cagioni dell'aspreggiarsi e che la campana a stormo della Nazione imporrebbe silenzio, coll'annunzio d'un lieto collettivo avvenire per tutti, ad ogni garrito. Dimenticarono la singolare unità colla quale parecchi anni prima del 1789, furono predicate e tentate riforme simili ovunque, per tutte le parti della Penisola. Dimenticarono l'unità di governo, di legislazione, di commercio che strinse in uno, sul cominciare del secolo e senza che un solo germe d'interna discordia apparisse, quasi otto milioni d'italiani del Veneto, della Lombardia, delle provincie Romane. Dimenticarono l'entusiasmo col quale i popolani di Genova, nemici apparentemente irreconciliabili al Piemonte pochi dì prima, versavano fiori nel 1821 sui militi piemontesi che accennavano movere contro gli Austriaci - il grido potente d'Italia frainteso dieci anni dopo dai miseri Governi provvisori del Centro, ma unanime tra i popoli insorti - l'ardente apostolato Unitario delle nostre associazioni segrete negli anni che seguirono - il sangue versato da martiri di tutte provincie d'Italia in nome della Patria comune - e segnatamente il principio: che un Popolo non more nè s'arresta mai sulla via prima d'avere raggiunto l'intento storico supremo della propria vita, prima d'aver compita la propria missione. Or la Missione Nazionale d'Italia era additata dalla geografia, dalla lingua, dalle aspirazioni profetiche dei nostri Grandi d'intelletto e di core, e da tutta una splendida tradizione storica che potea facilmente disotterrarsi sol che dai fatti delle aristocrazie o dalle azioni degli individui si scendesse a studiare la vita del nostro popolo. La Nazione, dicevano, non ha esistito mai: non può dunque esistere. La Nazione, noi dicevamo dall'alto della sintesi dominatrice, non ha esistito finora, esisterà dunque nell'avvenire. Un popolo chiamato a compiere grandi cose a benefizio dell'umanità deve un dì o l'altro costituirsi in Unità di Nazione.»
E il nostro popolo s'avviò lentamente d'epoca in epoca verso quel fine. Soltanto, la storia del nostro popolo o della nostra Nazionalità ch'è una cosa con esso, non fu, come dissi, scritta finora. A me pesa più assai che non posso esprimere di dover portare inadempito alla sepoltura il desiderio lungamente accarezzato di tentarla a mio modo. Ma chi vorrà e saprà scriverla senza affogare i punti salienti del progresso italiano sotto la moltitudine dei minuti particolari, e sorvolando di periodo in periodo lo sviluppo collettivo dell'elemento italiano, darà base fermissima di tradizione all'Unità della Patria; e sarà la sua ricompensa. Dimostrata cogli antichi ricordi, coi vestigi delle religioni, e colle recenti ricerche etnografiche, l'indipendenza assoluta del nostro incivilimento primitivo dall'Ellènico posteriore d'assai, lo scrittore torrà le mosse, per additare i primordi della nostra Nazionalità, dalle tribù Sabelliche le quali collocate, come più sopra accennai, intorno all'antica Amiterno, assunsero prime, congiunte agli Osci, ai Siculi, agli Umbri, il sacro nome d'Italia, e iniziando la fusione degli elementi diversi sparsi sulla Penisola, mossero a configgere la loro lancia, simbolo d'autorità, nella valle del Tebro, nella Campania e più oltre. Fu la prima guerra d'indipendenza dell'elemento italiano contro l'elemento, d'origine probabilmente semitica, chiamato dagli antichi pelasgico. La seconda fu quella condotta dai Romani Italiani contro l'elemento celtico e Gallo: guerra divisa in due periodi che comunque sovente s'intreccino l'uno coll'altro potranno pur sempre e facilmente scernersi siccome distinti dallo scrittore. Il primo, nel quale diresti che l'Italia segnasse a Roma i termini della sua missione unificatrice dicendole: sarò tua a patto che la tua vita s'immedesimi colla mia, ha il proprio punto culminante nella guerra colla quale le città socie, risuscitato il vecchio nome d'Italia e battezzando di quel nome il centro della Lega, Corfinio, chiesero e ottennero la cittadinanza di Roma che poi s'estese a quanti vivevano tra l'Alpi e il Mare: il secondo, mira colle forze romane convertito in italiche, a promuovere il trionfo dell'elemento indigeno sugli elementi stranieri. Poi venne il grido-programma, che l'epoca successiva dovea raccogliere, di Spartaco. Poi la dittatura di Cesare che conchiuse la prima epoca della fusione italiana. Era fusione, più che sociale, politica; ma italiano a ogni modo era, nelle forme materiali, verso il conchiudersi di quell'epoca, l'incivilimento rappresentato da Roma; italiani di tutte provincie erano gli ingegni che in Roma si concentravano; italiana era la rete di vie che vi mettea capo: italiano il diritto civile: italiano il sistema municipale: italiana l'aspirazione dei popoli. E la seconda epoca che s'iniziò tra le incursioni barbariche incominciò e proseguì con pertinacia mallevadrice di vittoria il lavoro di fusione sociale, ch'oggi ci rende capaci di farci Nazione.
E lo scrittore della Storia invocata mostrerà come, smembrata l'unità politica e spento apparentemente il moto nazionale condotto con rapidità prematura e per via di conquista da Roma, il lavoro di fusione si rifacesse per intima spontaneità e localmente dal popolo, e come le popolazioni, disgiunte com'erano, sembrassero obbedire a una forma identica per ogni dove, tanto le vie seguite da quel lavoro apparvero simili e generatrici di conseguenze uniformi. Due elementi prepararono, in quell'epoca d'apparente dissociazione che ha nome di medio evo, l'unità della Patria Italiana: l'elemento cristiano rappresentato sino al decimoterzo secolo dalla Roma papale, e custode dell'unità morale: e l'elemento municipale che sopravvivendo profondamente italiano alle invasioni, logorò appoggiandosi sul popolo, il predominio successivo delle razze straniere, e le ineguaglianze sociali che la conquista aveva impiantato o radicato in Italia. La storia del primo elemento fu dettata sempre da una cieca superstiziosa adorazione o dagli uomini puramente negativi del materialismo, ed è necessario rifarla. La storia del secondo fu trasandata e sommersa nella storia della individualità prominenti o dei fatti esterni: pochi, se pur taluno, scesero e a balzi, fino alle radici della vita italiana. Il moto fu tutto di popolo e contro le aristocrazie politiche, feudali, territoriali, che avrebbero, perpetuandosi, perpetuato lo smembramento. Al di sotto dei nobili, degli eredi dei conquistatori, sprezzatori, alteri, ignoranti e infangati di passioni sensuali, i lavoratori delle terre, gli uomini di commercio e d'industria, gente di razza nativa, si giovavano della noncuranza dei padroni per l'arti utili e produttive ad arricchirsi con esse: si giovavano financo della triste necessità che, rotte le comunicazioni tra l'Italia e l'altre parti d'Europa, imponeva agli abitatori delle nostre contrade di nutrirsi coi prodotti del suolo, a richiamare in vita l'agricoltura decaduta negli ultimi tempi dell'impero. La piccola coltura sottentrò all'inerzia degli spenti o scacciati proprietarî di latifondi. La vita localizzata, migliorando tacitamente e afforzandosi delle immortali tradizioni romano-italiche e riconquistando inavvertitamente terreno, preparò il moto splendido dei nostri Comuni, e una classe operosa, industriale, avversa a tutte distinzioni arbitrarie, a tutte ineguaglianze non fondate sul lavoro, a tutte supremazie traenti origine dalla conquista o da permanenti influenze straniere. Nella storia di quella classe è il vero criterio col quale devono giudicarsi le nostre vicende. In essa è la norma del progresso italiano e della nostra unificazione: in essa il segreto delle tendenze democratiche onnipotenti checchè si faccia sulla nostra vita e che condurranno quando che sia inevitabilmente l'Italia all'ideale repubblicano. La doppia protesta dell'elemento popolare Italiano contro l'elemento tedesco da un lato, contro l'elemento feudale dall'altro, emerse sempre, attraverso errori, illusioni e contradizioni momentanee inseparabili da ogni storia di popolo, dai tempi d'Ottone I sino a quelli di Carlo V. La guerra dell'elemento italiano contro il predominio straniero comincia visibile tra il X secolo e l'XI nel tentativo di Crescenzio, nell'elezione d'Arduino d'Ivrea, nelle risse continue di Pavia, di Ravenna, di Roma, fra Tedeschi e Italiani, nei moti di Milano contro vescovi e grandi fautori dell'elemento anti-italiano; cova nel gigantesco tentativo frainteso sinora dai nostri di Gregorio VII; scoppia tremendamente eloquente nella Lega Lombarda; s'ordina nei nostri Comuni; vive nei pensieri rimasti a mezzo d'Innocenzo III, e va oltre. La guerra dello stesso elemento contro le aristocrazie feudali e altre si manifesta verso lo stesso periodo di tempo nei tentativi del Mottese Lanzone, nelle ispirazioni della contessa Matilde, negli asili aperti dai Benedettini della valle del Po agli schiavi fuggiaschi, nel moto emancipatore dei servi convertiti in liberi contadini, e procede aperto, innegabile nelle nostre repubbliche. L'una e l'altra preparano la nostra Unità.
E il moto unitario procede anche dopo caduta l'ultima libertà italiana in Firenze e quando, muta ogni vita pubblica, tra dominazioni straniere e principati abbietti vassalli dello straniero, appare spenta per sempre ogni speranza di Patria. La vita locale, compressa dalla violenza, s'estende nella sua base. Poche tra le sue manifestazioni riescono in quel terzo periodo, visibili; ma quelle poche assumono carattere universale, italiano. Lo storico dovrà rintracciarne lo sviluppo negli studî dei nostri giurisprudenti, nell'iniziarsi d'una scuola economica accettata teoricamente, poi che la pratica era allora impossibile dagli ingegni d'ogni parte d'Italia, nel decadimento degli statuti locali, nella tendenza a basi di legislazione uniformi, nel nostro moto filosofico del secolo XVII, nella lenta rovina dell'ultime aristocrazie combattute per sete di potere dalle tirannidi o avvilite per la loro evidente impotenza dal disprezzo dei popoli, e nel tacito accrescersi di quella classe data all'industria, all'agricoltura, al commercio, al lavoro, sorta, come fin da principio accennai, dalle viscere della nazione e imbevuta di tendenze, abitudini, aspirazioni uniformi da un punto all'altro d'Italia. Tu senti, addentrandoti sotto lo strato di servaggio steso su tutto il paese in cerca della vita latente, che l'energia di quella vita potrà essere più o meno indugiata nelle sue rivelazioni, ma che le prime saranno di Nazione, non di Provincie o di Stati. E tali apparirono sul finire del secolo XVIII. D'allora in poi l'Italia, martire o combattente, non ebbe più che una sola bandiera.
Sì, l'Unità fu ed è nei fati d'Italia. Il primato civile Italico che s'esercitò coll'armi e colla parola dai Cesari e dai Pontefici è serbato una terza volta al Popolo d'Italia, alla Nazione. Quei che fin da quaranta anni addietro non vedevano la progressione segnata verso quel fine dai periodi successivi della vita italiana, non erano se non ciechi d'ogni lume di storia; ma quei che davanti alla potente manifestazione del nostro popolo s'attentassero oggi di ricondurci a disegni di confederazioni o d'indipendenti libertà provinciali, meriterebbero di essere infamati traditori della Patria loro. Il federalismo tra noi non solamente impicciolirebbe ad arbitrio la vasta associazione di forze, di lavori, di lumi che l'Unità deve ordinare a servizio di ciascun individuo - non solamente susciterebbe dalla inevitabile disuguaglianza degli Stati quel perenne squilibrio tra le forze e le pretese, che cova i semi dell'anarchia e del dispotismo ed è piaga mortale a tutte federazioni - non solamente ordinerebbe la debolezza del paese, abbandonandolo facile preda all'invidie, alle perfide suggestioni, alle invaditrici influenze di gelosi e potenti vicini - ma cancellerebbe a prò d'una non realtà, ma menzogna di libertà locale, la Missione dell'Italia nel mondo. E so che la Confederazione è disegno e consiglio insistente di tale che molti fra i nostri reputano tuttavia amico e protettore della Causa Italiana; ma so pure ch'egli è straniero, perfido e despota; e se gli Italiani gli prestassero orecchio sarebbero a un tempo colpevoli e stolti. Ch'ei cerchi costituirci deboli per dominarci, è facile intenderlo; ma il fatto stesso del suggerimento sceso da tale sorgente dovrebb'essere per noi uno de' più potenti argomenti a respingerlo. Dopo lungo e severo esame delle interne condizioni d'Italia, il Genio che fu capo alla stirpe proferiva dalla terra d'espiazione la seguente sentenza: L'Italia è circondata dall'Alpi e dal Mare. I suoi limiti naturali sono determinati con tanta esattezza che la diresti un'isola... L'Italia non ha che centocinquanta leghe di frontiera col continente Europeo e quelle centocinquanta leghe sono fortificate dalla più alta barriera che possa opporsi agli uomini... L'Italia isolata fra i suoi limiti naturali... è chiamata a formare una grande e potente nazione... L'Italia è una sola nazione; l'unità di costumi, di lingua, di letteratura deve in un avvenire più o meno lontano riunire i suoi abitanti sotto un solo governo... E Roma è, senz'alcun dubbio, la Capitale che gli Italiani sceglieranno alla patria loro105. Pongano i vostri Ministri, o Italiani, a capo dei loro dispacci al nipote le linee or citate, e gli dicano recisamente di non frapporsi fra l'Italia e la sua missione.
Missione ho detto; e in quella parola sta infatti la decisione suprema della quistione agitata.
È tempo che la scienza politica rompa in Italia il cerchio d'opportunità menzognere, di concessioni codarde agli interessi d'un giorno, e di sommessioni abbiette a calcoli di gente non nostra, che l'iniziativa monarchica imperiale ha segnato d'intorno a noi, e si sollevi all'altezza dei sommi principî morali, senza i quali non è virtù rigeneratrice nè vita gloriosa e durevole di nazione. Io venero quant'altri l'alto intelletto di Machiavelli e più ch'altri forse l'immenso amore all'Italia che solo scaldava di vita quella grande anima stanca, addolorata di sè stessa e d'altrui; ma voler cercare nelle pagine ch'egli dettò sulla bara dove padroni stranieri e papi fornicanti con essi e principi vassalli bastardi di papi o di re avevano inchiodato l'Italia, la legge di vita d'un popolo che sorge è mal vezzo di scimmie e di meschini copisti per impotenza propria, del quale i nostri giovani dovrebbero oggimai vergognare. Noi da Machiavelli possiamo imparare a conoscere i tristi, e quali siano le loro arti e come si sventino e per quali vie, corrotti e inserviliti, muojano i popoli; non come si ribattezzino a nuova vita. E si ribattezzano, calcando risolutamente una via contraria a quella sulla quale s'innestarono ad essi i germi di morte, con un culto severo della Morale, coll'adorazione a una grande Idea, coll'affermazione potente del Diritto e del Vero, col disprezzo degli espedienti, coll'intelletto del vincolo che annoda in un moto religioso, sociale, politico, con un senso profondo del Dovere e d'una alta missione da compiersi: missione che esiste veramente dovunque un popolo è chiamato ad essere Nazione, e l'oblìo della quale trascina inevitabilmente, quasi espiazione dell'egoismo e della sterile vita, decadimento, invasioni e dominazione straniera. Oggi i poveri ingegni che s'intitolano Governo, e non governano nè amministrano, intendono a far l'Italia Nazione chiamandola a risalire la via per la quale lungo tre secoli discese verso l'abisso e vi periva, se non erano i fati e gli istinti generosi dell'inconscio suo popolo.
Ha l'Italia o non ha una missione in Europa? Rappresenta il paese che ha nome Italia un certo numero d'uomini, poco importa se migliaja o milioni, indipendenti naturalmente gli uni dagli altri e soltanto aggruppati a nuclei in virtù di certi interessi materiali comuni il cui soddisfacimento è reso più facile e più securo da un certo grado d'associazione? O rappresenta un elemento di progresso nel consorzio Europeo, una somma di facoltà e tendenze speciali, un pensiero, una aspirazione, un germe di fede comune, una tradizione distinta da quella dell'altre Nazioni e costituente una unità storica tra le generazioni passate, presenti e future della nostra terra?
A ciascuno di questi due termini del problema corrisponde una scuola politica.
Corrisponde al primo, la scuola che si fonda sul diritto individuale: corrisponde al secondo quella che ha per base il dovere sociale.
La scuola del diritto individuale è, illogicamente, federalista. Io dico illogicamente, perchè, per essere logica, essa dovrebbe andare sino all'autonomia d'ogni Comune. Lo Stato non dovrebb'essere per essa che un aggregato, una federazione di molte migliaja di Comuni; la Nazione una forza destinata a proteggere nell'esercizio de' suoi diritti ciascuno di quei Comuni - e non altro. E fu tale infatti la definizione dello Stato data dal federalista Brizzot, ricopiata più dopo da Beniamin Constant e da tutti i politici della Monarchia ristorata Francese e sviluppata recentemente sino nell'ultime deduzioni dal francese Proudhon.
La scuola del dovere sociale è essenzialmente e logicamente Unitaria. La vita non è per essa che un ufficio, una missione. La norma, la definizione di quella missione non può trovarsi che nel termine collettivo superiore a tutte le individualità del paese: nel popolo, nella Nazione. Se esiste una missione collettiva, una comunione di dovere, una solidarietà fra tutti i cittadini d'uno Stato, essa non può essere rappresentata fuorchè dall'Unità Nazionale.
La prima, scuola d'analisi e di materialismo, ci venne dallo straniero. La seconda, scuola di sintesi e d'idealismo, è profondamente italiana. Fummo grandi e potenti, ogni qualvolta credemmo nella nostra missione; soggiacemmo, decaduti, a forze straniere ogniqualvolta ci sviammo da quella fede.
Tra queste due scuole gli Italiani hanno oggimai inappellabilmente deciso. Poco importa che, sul terreno filosofico, l'ingegno intorpidito dal lungo servaggio e l'imitazione tuttavia prevalente106 delle dottrine negative straniere indugino ancora le menti nell'ipotesi materialista: i nostri martiri affermavano, per mezzo secolo, il Dovere Nazionale, quando morivano nel nome d'Italia, non di Toscana o Romagna; e lo affermava il popolo quando, dimenticando ricordi locali, lunghe e meritate diffidenze e orgoglio di metropoli e ogni cosa fuorchè la Madre comune, gridò unanime alla Monarchia promettitrice: Teco nell'Unità. Poco importa, se oggi forse riesca tuttora difficile accertare quale sia la missione - ch'io credo altamente religiosa - d'Italia nel mondo: la tradizione di due Vite iniziatrici e la coscienza del popolo Italiano stanno testimonî d'una missione; e dov'anche la doppia Unità data al mondo non c'insegnasse la nostra, l'istinto d'una missione nazionale da compiersi, d'un concetto collettivo da dissotterrarsi e da svolgersi, additerebbe la necessità d'una sola Patria per tutti ed una forma che la rappresenti. Quella forma è l'Unità. Il federalismo implica molteplicità di fini da raggiungersi e si traduce presto o tardi inevitabilmente in un sistema di caste o aristocrazie. L'Unità è sola mallevadrice d'eguaglianza e, più o meno rapidamente, di vita di Popolo.
L'Italia sarà dunque Una. Condizioni geografiche, tradizione, favella, letteratura, necessità di forza e di difesa politica, voto di popolazioni, istinti democratici innati negli italiani, presentimento d'un Progresso al quale occorrono tutte le facoltà del paese, coscienza d'iniziativa in Europa e di grandi cose da compiersi dall'Italia a prò del mondo si concentrano a questo fine. Nessun ostacolo s'affaccia che non sia superabile; nessuna obbiezione che non possa storicamente o filosoficamente distruggersi. Rimane una sola difficoltà: il come debba ordinarsi.
Non credo occorra spendere tempo a sperdere il pregiudizio volgare che in un ampio Stato l'Unità non possa fondarsi senza inceppare la libertà dovuta alle singole parti. Quel pregiudizio sceso dalle affermazioni di scrittori che non guardavano se non al governo esercitato direttamente dal popolo nelle antiche repubbliche e furono ricopiati alla cieca dalla turba degli impazienti o incapaci di esame, è confutato egualmente dal ragionamento e dai fatti. La maggiore o minore estensione del terreno non entra come elemento nella soluzione del problema: se v'entrasse, la deciderebbe a pro nostro. La tendenza usurpatrice del Governo si manifesta più agevolmente e più duramente in una sfera ristretta che non nella vasta. La vita del potere centrale illanguidisce naturalmente in proporzione inversa delle distanze: la vita locale ha mille vie per sottrarre i proprî moti a una autorità lontana, la cui vigilanza s'esercita da individui poco informati d'uomini e cose. Nessuna tirannide fu più tormentosa di minuzie e insistenza di quella che nel medio evo tenne parecchie delle nostre città: nessuna più di quella che funestò in tempi più vicini a noi il piccolo Ducato di Modena. La libertà può ordinarsi in uno Stato piccolo o vasto: le violazioni della libertà sono innegabilmente più facili nel piccolo. Parlo d'usurpazione cittadina: quella che s'esercita sopra una razza da una razza straniera conquistatrice degenera quasi sempre in tirannide, eguale ovunque, di soldatesca.
Ma la questione, semplice se come ogni altra si richiami ai principî dominatori, fu resa complessa, intricata e ingombra d'apparenti difficoltà da quei che s'adoprarono a scioglierla senza definire prima a sè stessi la missione dello stato e il campo nel quale vive e deve esercitarsi la Libertà. Gli uni, guardando al primo come al Podestà senza ufficio da quello infuori di proteggere i diritti di ciascuno e impedire che il loro esercizio prorompa in guerra reciproca, ridussero la funzione dello Stato a quella di gendarme e fecero della Libertà mezzo e fine ad un tempo: gli altri, guardando sdegnosi alla Libertà come a facoltà sterile e tendente per sè all'anarchia, la sagrificarono all'elemento collettivo e ordinarono lo Stato a una tirannide di concentramento diretta a bene, pur sempre tirannide. Taluno, confondendo appunto concentramento amministrativo e Unità, accusò la Costituente di Francia d'avere colla divisione dipartimentale inaugurato il dispotismo del Centro sulle membra, errore che la semplice lettura della Costituzione sancita da quell'Assemblea avrebbe bastato a correggere. Altri, togliendo norme all'ordinamento d'un periodo anormale, fu sedotto dalle vittorie nazionali della Convenzione a predicarne l'assoluta onnipotenza, come se la Dittatura potesse essere mai modello di regolare legislazione. Poi vennero gli uomini che cercarono sicurezza107 alla Libertà smembrando in minute frazioni il Potere, senza avvedersi che quanto più moltiplicavano i nuclei d'autorità, tanto più li indebolivano e li facevano impotenti a vivere di vita propria. E tutti intolleranti, senza ideale, piaggiatori servili d'una o d'altra Costituzione del passato e ostinati a cercare la soluzione del problema nel trionfo d'un solo dei termini che lo costituiscono.
I due termini che lo costituiscono sono Associazione e Libertà: ambi sacri, inseparabili dall'umana natura; e possono e devono armonizzarsi, non cancellarsi l'un l'altro.
In un buon ordinamento di Stato, la Nazione rappresenta l'associazione; il Comune la libertà.
Nazione e Comune: sono i soli due elementi naturali in un popolo: le sole due manifestazioni della vita generale e locale che abbiano radice nell'essenza delle cose. Gli altri elementi sono, con qualunque norma si chiamino, artificiali, e aventi ad unico ufficio di rendere più agevoli e più giovevoli le relazioni tra la Nazione e il Comune e di proteggere il secondo dall'usurpazione della prima quando è tentata.
E questo ch'è vero generalmente in principio e vero più che altrove nel fatto in Italia. L'esistenza prolungata d'una potente e compatta aristocrazia feudale generò in alcune nazioni un elemento di tradizione storica provinciale destinato a perire, ma lentamente. Tra noi quell'elemento mancò. L'Italia ebbe patrizî, non Patriziato: individui e famiglie signorili potenti, non un Ordine d'uomini rappresentanti per secoli, come in Inghilterra, una comunione d'idee, di politica, di direzione. La nostra storia è storia di comuni e d'una tendenza a formare la Nazione.
E la Nazione è chiamata a rappresentare la Tradizione Italiana che essa sola può conservare e continuare, e il Progresso Italiano ch'essa sola è potente a tradurre in atto. Lo Stato, il Popolo collettivo dall'Alpi al Mare non è, come la scuola materialista vorrebbe, la forza di tutti in appoggio del diritto di ciascuno: è il pensiero d'Italia, il Dovere sociale, come in una epoca determinata gli Italiani lo intendono, dato a norma, a punto di mossa a ciascun individuo. La sua missione è missione educatrice anzi tutto; missione d'incivilimento interno ed esterno, supremo su tutte frazioni.
Ma il compimento della missione, del Dovere Nazionale spetta, non a schiavi, bensì a uomini liberi. È necessario che ciascuno abbia coscienza del Dovere indicatogli; ed è necessario, perchè il grado di Progresso compito in un'epoca e definito dalla Nazione non chiuda, tiranneggiando, il varco ai progressi futuri, che a ciascuno non solamente sia concesso, ma s'agevoli il diritto d'iniziativa nelle idee che possono migliorare l'incivilimento della Nazione e ampliare il concetto del dovere da essa raggiunto. Dalla prima necessità esce la condanna del concentramento amministrativo che torrebbe, costringendo, coscienza, merito e demerito dei loro atti ai cittadini; dalla seconda esce, insieme alle libertà, dovute a tutti, di religione, di stampa, d'associazione, d'insegnamento, l'ordinamento del Comune, mallevadore dell'individuo che vive in esso, ad autonomia di vita spontanea e indipendente sin dove comincia la violazione del Dovere Sociale prescritto dalla Nazione. Oltre quel punto, la libertà degenera in anarchia. La libertà, fraintesa dai materialisti in diritto di fare o non fare tutto ciò che non nuoce direttamente ad altrui, è per noi la facoltà di scegliere, tra i mezzi coi quali si compie il Dovere, quei che più convengono colle nostre tendenze, e di promovere lo sviluppo progressivo del concetto di quel Dovere.
In altri termini, la Nazione raccoglie gli elementi dell'incivilimento già conquistato, ne trae la formola di Dovere ch'è il fine comune, dirige verso quello la vita del paese nelle sue grandi manifestazioni collettive e lo rappresenta fra i Popoli. Il Comune provvede all'applicazione pratica di quella formola, coordina a quel fine gli interessi locali ed educa colla coscienza della libertà il cittadino a cacciare i germi del progresso futuro. L'autorità morale risiede nella Nazione: l'applicazione dei principî alla vita, specialmente economica, spetta al Comune. L'Iniziativa è dovere e diritto dell'una e dell'altro. Il Comune forma cittadini alla Patria: la Patria un Popolo all'Umanità. Come il sangue sospinto al core, è respinto, purificato, alle vene, la Metropoli raccoglie in sè gli indizî e i germi di progresso che le affluiscono dal paese, e v'attempra, dando ad essi sviluppo e definizione, il concetto collettivo che rimanda autorevolmente al paese. Essa non vive per sè, ma per l'intera contrada.
Chi dovrà occuparsi praticamente della questione troverà, s'ei torrà le mosse da questi principî, semplice più che a prima vista non sembri il problema. La missione dell'uno e dell'altro elemento additerà facilmente i limiti della doppia circoscrizione che assegna doveri e diritti alla Nazione e al Comune. Quanto rappresenta l'unità della coscienza Italiana, l'autorità morale della Patria su tutti i suoi figli, la Tradizione Nazionale da conservarsi come deposito sacro, il Progresso da attuarsi per tutti e la vita internazionale, spetta alla Podestà Centrale, allo Stato: quando rappresenta l'applicazione pratica delle norme generali, gli interessi economici locali, la libertà nella scelta dei modi per compire il Dovere Sociale, il diritto d'iniziativa da serbarsi intatto per tutti, spetta, sotto l'invigilamento della Nazione, alle unità secondarie e segnatamente al Comune, nucleo primitivo di quelle unità.
Allo Stato, per mezzo d'una Costituente Italiana raccolta a suffragio universale, il Patto Nazionale, la Dichiarazione dei Principî108 nei quali il Popolo d'Italia oggi crede, la definizione del fine comune, del Dovere sociale, che ne derivano e formano un vincolo di pensieri e d'opere comune a quanti vivono fra l'Alpi e il Mare - e l'ordinamento delle autorità opportune a serbarlo intatto e dominatore, finchè un nuovo grado di Progresso non sia salito dalla Nazione: ai Comuni il diritto d'accettare con una potente maggioranza di voti il quando sia raggiunto quel grado e importi introdurre mutamenti nel Patto.
Allo Stato le norme per rendere universale, obbligatoria, e uniforme nella direzione generale l'Educazione Nazionale109, senza l'unità della quale non esiste Nazione: ai Comuni l'applicazione pratica delle norme, la scelta degli uomini da prefiggersi all'istruzione elementare, il maneggio economico delle scuole, la tutela del diritto che ogni individuo ha d'aprire altri istituti d'insegnamento:
Allo Stato, dacchè tutti i cittadini hanno debito di difendere l'indipendenza del paese e proteggerne la missione, l'unità del sistema militare, l'ordinamento della Nazione armata: ai militi d'ogni Comune, trasformati in legione, il diritto di proporre, dal grado inferiore al superiore progressivamente e sotto certe norme nazionalmente prestabilite, le liste per la scelta degli uffiziali:
Allo Stato, dacchè la Giustizia non può essere se non una per tutti i cittadini, l'unità dell'ordinamento giudiziario, i codici, la scelta dei Giudici Supremi e dei magistrati preposti a dirigere l'amministrazione della Giustizia: ai Comuni l'elezione dei giurati locali e dei membri di tribunali di conciliazione e commercio:
Allo Stato la determinazione dell'ammontare del tributo nazionale e il suo riparto sulle varie zone del territorio: ai Comuni, invigilati dallo Stato, i tributi meramente locali, e il modo di soddisfare alla parte di tributo nazionale assegnato110:
Allo Stato la formazione d'un Capitale Nazionale composto delle proprietà pubbliche, dei beni del clero, delle miniere, delle vie ferrate, d'alcune grandi imprese industriali, destinato in parte ai bisogni straordinarî della Nazione e all'allievamento del tributo, in parte a un Credito aperto alle associazioni volontarie, manifatturiere e agricole, d'operai; ai Comuni, sotto norme generali uniformi e invigilante il Governo Centrale, l'amministrazione di quel Capitale:
Allo Stato, la Sicurezza Pubblica per ciò che concerne i pericoli interni di tutto il paese, le norme generali per le carceri, la direzione d'alcuni stabilimenti Penitenziarî Centrali: ai Comuni la tutela dell'ordine nella loro sfera, l'ordinamento della forza necessaria a ufficio siffatto, l'amministrazione pratica delle prigioni collocate nella loro circoscrizione:
Allo Stato, la direzione dei lavori pubblici rivolti all'utile e all'onore di tutta la Nazione, al mantenimento e al progresso della tradizione nazionale dell'Arte: ai Comuni le cure intorno all'illuminazione, al selciato, all'acque, ai ponti, alle strade delle loro località:
Allo Stato, quanto riguarda le relazioni esterne, guerre, paci, alleanze, trattati: ai Comuni il diritto d'invigilare a che la politica internazionale non si disvii, nel segreto, dalla missione e dal fine della Nazione.
E via così: Dov'è, con riparto siffatto di doveri e diritti, il pericolo d'anarchia o di tirannide? Dove il vizio d'una Nazione impotente a calcare, per gelosia di località quasi sovrane e slegate, una via di progresso e d'onore, o quello d'un Comune servo, come il francese, astretto a ricevere capi e ufficiali d'ogni sorta dal Governo Centrale e a soggiacere al suo intervento in ogni menoma operazione?
Bensì - e qui sta una seconda questione importante alla quale io posso appena accennare - se il Comune deve essere capace di proteggere nei giusti suoi limiti la libertà delle membra dalle usurpazioni dell'Autorità che rappresenta l'Associazione - se in esso deve colla elezione e coll'esercizio frequente, e accessibile ai più, degli uffici, compiersi l'educazione politica del paese - se l'attribuirsi al Comune dei diritti indicati fin qui, deve riuscire verità pratica, non illusione - è necessario che l'Assemblea Nazionale sancisca un nuovo riparto territoriale. Base alla servitù dei Comuni è la loro piccola estensione. Il Comune è una associazione destinata a rappresentare, quasi in miniatura, lo Stato; ed è necessario dargli le forze necessarie a raggiungere il fine. L'impotenza dei piccoli Comuni a raggiungerlo e provvedere coi proprî mezzi al soddisfacimento dei proprî bisogni materiali e morali, li piega a invocare l'intervento governativo e sagrificargli la coscienza e l'abitudine della libera vita locale. Ed è il vizio dal quale origina la tendenza al concentramento amministrativo in Francia, dove su 37,000111 Comuni 30,000 almeno sono, per l'esiguità delle proporzioni, incapaci d'ordinare rimedî alla locale mendicità. La prova del come un Governo di tendenze dispotiche intenda che il segreto della propria potenza sta nella debolezza dei Comuni è da cercarsi nella Costituzione dell'anno VIII. Quella Costituzione, le cui principali disposizioni hanno tuttavia vigore in Francia e incatenano servilmente i Comuni al Potere Centrale, ebbe il favore di Thiers e di tutta la schiera dottrinaria che predominò sul lungo periodo della così detta Ristorazione monarchica.
E se l'ordinamento amministrativo dello Stato deve corrispondere al bisogno principale di progresso sentito oggi in Italia, è necessario che il Comune ampliato affratelli nella stessa circoscrizione la città e parte delle popolazioni rurali. Duolmi di dover dissentire da taluni fra gli uomini di nostra fede ch'esplorarono quel problema; ma, lasciando anche da banda il vantaggio d'associare nella stessa circoscrizione interessi strettamente connessi come sono gli industriali e gli agricoli e riunire in una tutte le manifestazioni di vita che fanno convivenza sociale, se v'è piaga che in Italia minacci l'armonia dello sviluppo collettivo, è senz'altro lo squilibrio di civiltà esistente fra le città e le campagne: foco di vita progressiva e d'associazioni nazionali le prime, campo le seconde, mercè l'assoluta ignoranza, di tutte le influenze che resistono al moto. E solo rimedio ch'io vegga potente a combattere e struggere a poco a poco quella funesta disuguaglianza è il congiungerle possibilmente sì che la luce delle città si diffonda a raggi sulle terre che le ricingono. Serbarle separate com'oggi sono è un mantenerne perenne l'antagonismo: antagonismo di tendenze che il mutuo contatto logorerebbe, e d'interessi che soltanto il reciproco ajutarsi può vincere. Nè v'è pericolo che l'elemento progressivo delle città soggiaccia all'elemento conservatore o retrogrado delle campagne: i fati dell'Epoca, e la potenza di vita e di bene ch'esiste nel primo elemento, assegnano influenza dominatrice, dovunque s'ordini il contatto fra quello e l'altro, al progresso.
Oggi, tra per le origini derivate dai tempi feudali, tra per la soverchia influenza d'uno spirito d'analisi che guarda con favore allo smembramento, è nella vita dello Stato troppo sminuzzamento. E comechè taluni vi travedano un pegno di libertà, solo a giovarsene è appunto quel Potere Centrale ch'essi paventano usurpatore e che, incontrando debolezza per ogni dove e aristocrazie patrizie o borghesi dominatrici su piccole sfere, spezza agevolmente le resistenze o, accarezzandole, le addormenta. Non è vero che ovunque un certo numero d'uomini s'aggruppa intorno a certi interessi materiali pigmei, ivi viva una individualità politica. L'individualità politica non vive dove non ha battesimo di missione speciale da compiere, e dovizia di facoltà e di stromenti per compierla. Io vorrei che, trasformate in sezioni e semplici circoscrizioni territoriali le tante artificiali divisioni esistenti in oggi, non rimanessero che sole tre unità politico-amministrative: il Comune, unità primordiale, la Nazione, fine e missione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno tra i confini assegnati visibilmente da Dio a un Popolo, e la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione e il Comune, additata dai caratteri territoriali secondarî, dai dialetti, e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime. L'Italia sarebbe capace di dodici Regioni incirca, suddivise in Distretti. Ogni Regione conterrebbe cento Comuni a un dipresso, ciascuno dei quali non avrebbe meno di ventimila abitanti. Le suddivisioni parrocchiali o altre da costituirsi in ogni Comune non sarebbero, come dissi, che semplici circoscrizioni territoriali il cui lavoro s'accentrerebbe al capoluogo del Comune; e questa divisione potrebbe forse, come nelle townships del nord degli Stati Uniti Americani, armonizzarsi col riparto delle scuole presso le quali potrebbero accentrarsi i registri civici. Le Autorità Regionali e quelle del Comune escirebbero dall'elezione. Un Commissario del Governo risiederebbe nel Capoluogo della Regione. I Comuni accentrati alla Regione, non ne avrebbero bisogno: i loro magistrati supremi rappresenterebbe a un tempo la missione locale e quella della Nazione. Soltanto il Governo manderebbe di tempo in tempo, a guisa di missi dominici, Ispettori straordinarî a verificare se l'armonia fra i due elementi della vita Nazionale si mantenga o si rompa. Ordinamento siffatto spegnerebbe, parmi, il localismo gretto, darebbe all'unità secondarie forze sufficienti per tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera e farebbe più semplice e spedito d'assai l'andamento, oggi intricatissimo e lento della cosa pubblica. La piccola provincia, nella quale soltanto la libertà può essere praticamente esercitata e sentita, sottentrerebbe alla grande e artificiale Provincia nella quale possono più facilmente educarsi germi di federalismo e d'aristocrazie smembratrici. Nè per questo scadrebbero le città che hanno ereditato dal passato una vita di metropoli secondaria. Lasciando che la divisione in Regioni darebbe ad esse importanza di Capoluoghi, io non vedo perchè le varie manifestazioni della vita Nazionale, oggi accentrate tutte in una sola Metropoli, non si ripartirebbero, con ufficio simile a quello dei ganglî nel corpo umano, tra quelle diverse città. Non vedo perchè non si collocherebbe in una la sede della Magistratura Suprema, in un'altra l'Università Nazionale in una terza l'Ammiragliato e il centro del naviglio Italiano, in una quarta l'Istituto Centrale di Scienze e d'Arti, e via così. Il telegrafo elettrico sarebbe, in tempi normali, vincolo d'unità sufficiente; e in tempi di guerra o pericoli gravi sarebbe facile l'accentramento. A Roma basterebbero la Rappresentanza Nazionale, il sacro nome, e lo svolgersi provvidenziale dall'alto de' suoi colli della sintesi dell'Unità morale Europea.
Qualunque sia, del resto, per essere il successo del mio o d'altro sistema, questo è certo, che se il paese vorrà avere libertà e vita di Nazione ad un tempo, dovrà da un lato ordinare lo Stato a Potestà Educatrice, e ampliare dall'altro il Comune - se vorrà avere progresso d'incivilimento uniforme, dovrà possibilmente affratellare l'elemento rurale e quello della città - se vorrà educare i suoi figli a dignità e coscienza di cittadini, dovrà nell'ordinamento interno de' suoi comuni, moltiplicare gli uffici, far successivamente partecipi dell'autorità i più fra i suoi membri, chiamar sovente il popolo al pubblico sindacato degli uomini e delle cose, diffondere quanto più può l'Associazione industriale e agricola, e far d'ogni uomo un milite della patria. Sperda Iddio la meschina setta ch'oggi pesa com'incubo sul core d'Italia, e possano gli Italiani, ridesti al senso della loro missione nel mondo, scrivere in tempi non tardi sul Panteon dei nostri Martiri in Roma le due parole simbolo dell'avvenire: Dio e il Popolo: Unità e Libertà.
Il capitolo I del libro IX dell'Esprit des lois, dove Montesquieu sembra proporre la federazione come il miglior dei governi, è superficiale come sono pur troppo molti capitoli del suo libro nei quali ei tocca questioni d'ordine generale: alcune asserzioni non convalidate da prove, e un esempio che conclude forse a suo danno, forman quel capitolo: vedi più giù. - È cosa notabile che nè Voltaire, nè Elvezio, nè quanti hanno gremito di note e osservazioni minuziose e talora pur cavillose ogni linea del testo di Montesquieu, abbiano trovato in quel capitolo argomento d'una sola considerazione; e può trarsene come - da Rousseau in fuori - i critici del secolo XVIII s'addentrassero nella politica organica.
Giova notar fin d'ora la confusione che molti fanno di due questioni radicalmente diverse, quella della centralizzazione e quella dell'unità - e ne toccheremo più giù.
Noi torniamo e torneremo sovente a quest'argomento, dovessimo anche esser tacciati di divagazioni, perchè più che discutere le questioni particolari, ci par giovevole d'adoprarci a che si formi dai giovani un criterio politico. - In politica non si sragiona impunemente mai. Tutte le delusioni che pesano sulla Francia del luglio, e le comandano una seconda rivoluzione, non derivano che da un errore di raziocinio politico, che indusse a credere conciliabili due elementi necessariamente discordi, re e istituzioni repubblicane.
E altrove, accennando alle istituzioni abbracciate in comune dai confederati a vantaggio della nazione, soggiunge: capitolo a farsi.