Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME PRIMO PENSIERO ED AZIONE.

SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI

AI GIOVANI. RICORDI

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AI GIOVANI.

 

RICORDI

 

 

La linea retta è la più breve

fra due punti dati. -

Euclide.

 

 

I.

 

Sono nella vita dei popoli, come in quella degli individui, momenti solenni, supremi, nei quali si decidono le sorti di un lungo avvenire, quando tra due vie schiuse al moto, fra due insegnamenti, tra due principî diversi, la nazione oscilla incerta nella scelta e cerca una norma alla propria azione. Allora ogni uomo ha diritto di chiedere all'altro: in che credi? E a ogni uomo corre debito di rispondere: questa è la mia fede; su questa giudicherete l'opera mia. Allora, i pessimi sono i tiepidi: gli uomini che per povertà di core e grettezza di mente tentennano fra le due vie, rifuggono codardamente dall'armonizzare gli atti alla fede e s'illudono o cercano illudere le moltitudini a un concetto d'accordo impossibile fra i due principî. I tristi si giovano di costoro per pascere di speranze protratte i desiderosi di cose nuove: i buoni si ritraggono irritati e disperano: e l'occasione, come il ciuffo della fortuna, sparisce per non tornare se non dopo un lungo volger di ruota, dopo lunghi anni di nuovi dolori, di nuove delusioni e sciagure.

L'Italia è oggi in uno di questi momenti.

Il fermento è universale in Italia; ma senza intento determinato, senza unità di credenza intorno alla via da tenersi, prorompe in sommosse senza nome e senza frutto, non promove di un passo la causa della nazione. L'accordo tra governi e governati è cessato; ma il principio intorno a cui i governati devono raccogliersi non è francamente, apertamente bandito. Il popolo, ove durasse anche per poco in sì fatto stato, cadrebbe rapidamente dall'anarchia morale in una diffidenza profonda di cose e d'uomini, e da quella nel sonno d'inerzia onde esciva poc'anzi. E quel sonno, per un popolo che viaggia in cerca di nuovi destini, è la morte: il sonno del viandante tra le nevi dell'Alpi, al quale è mal fido amico chi non lo scuote e non gli grida all'orecchio: Cammina innanzi o perisci.

 

 

II.

 

Cammina innanzi o perisci! È tempo di dire al popolo, a una gioventù buona ma traviata pur troppo dai faccendieri politici, tutta e nuda la verità. Da due anni s'è speso in Italia oro, entusiasmo, sangue, tanto quanto basterebbe a crear due nazioni, non una; e ci troviamo a un dipresso d'onde partimmo. Il grido di patria, libertà, indipendenza, suonò da un capo all'altro della terra italiana: grido, ruggito di moltitudini potenti, volenti, non di pochi devoti al martirio. In Sicilia, in Bologna, nelle città lombarde, in Venezia, il popolo imparò subitamente, sotto l'impulso d'una grande idea, a combattere, a vincere, a disfare eserciti. Bandita dal popolo la guerra all'Austria, cinque giorni videro ridotti in tre fortezze i dominî dello straniero; videro nostro il Lombardo-Veneto; videro la bandiera tricolore italiana sventolare, acclamata, fin nel Tirolo. Settanta mila soldati agguerriti, se non per battaglie, per lunga disciplina, tennero il campo contro l'austriaco; e intorno ad essi era il fiore della gioventù italiana, era il fremito delle popolazioni ebbre di vittoria e di belle speranze. E tutto questo è sparito; l'Austriaco insolentisce per le vie di Milano: migliaja d'esuli lombardo-veneti ramingano su terre straniere: l'Europa che plaudiva, pochi mesi or sono, attonita al nostro risorgere, ricomincia a schernirci queruli, codardi, impotenti. Come avvenne? Come tornarono a un tratto in nulla le quasi adempite speranze? Gli uni accusano le colpe o gli errori militari dei capi; gli altri i dissidî, le diffidenze, l'ignavia di chi seguiva - i repubblicani, che dopo aver dato il segno delle barricate cittadine, tacquero e si confusero nei ranghi de' combattenti - la forza prepotente d'un esercito che la campana a stormo avea dato alla fuga - i gesuiti, cadavere galvanizzato d'una sêtta che, perduto genio, appoggio di credenza e tesori, affogherebbe sotto il disprezzo se gli uomini d'oggi sapessero disprezzare. E molte di queste cagioni e più altre sono vere; ma tutte secondarie, occasionali, insufficienti a generare la rovina d'un popolo insorto. Superiore a tutte, e sorgente prima di tutte, sta quest'una che molti hanno in core e nessuno s'attenta dir chiaramente: che le Nazioni non si rigenerano colla menzogna; che un popolo schiavo da secoli di poteri guasti, corruttori per indole e necessità, ligi dello straniero, avversi a tutte sublimi credenze, sospettosi d'ogni sviluppo d'intelletto libero, incerti del presente e tremanti dell'avvenire, non sorge a nazione, se non rovesciando quei poteri-fantasmi, traendo dall'ime viscere il segreto della propria vita, levandosi nell'orgoglio delle sue tradizioni e nella potenza d'una grande idea, e dichiarando non volere riconoscere che un solo padrone nel cielo, Dio padre ed educatore, una sola norma d'attività sulla terra, la verità ch'è l'ombra di Dio.

 

 

III.

 

Voi avete, o Italiani, tradito quest'unica norma e sagrificato - poco monta se a tempo o per sempre - la vostra coscienza a una illusione di forza. Ogni linea della vostra storia v'additava, da quando cessaste di reggervi a popolo, una colpa o una imbecillità di regnanti; ogni sillaba de' vostri grandi v'insegnava, santificata dal martirio, una fede che fa interprete il popolo del pensiero di Dio; ogni esperimento vostro ed altrui negli ultimi sessant'anni v'era documento splendido, irrecusabile, che ogni libertà d'individuo o nazione si conquista per virtù propria, non per artificio di diplomazia e concessioni di principi; e nondimeno, non sì tosto il terrore della rivelata vostra potenza ebbe condotto i vostri padroni a balbettare pochi accenti di libertà menzognere e d'ipocrite leghe, voi cancellaste, miseramente affascinati dalla speranza di menomarvi i pericoli della via, ricordi storici, ispirazioni di grandi, giuramenti, e riverenza a chi pativa e moriva per voi: piegaste il ginocchio davanti a tutti poteri, e diceste: non da Dio, ma da voi. E non eravate credenti. Il vostro labbro accattava a lodarli pompa di frasi ne' retori delle età corrotte; la vostra mano scriveva oltraggi e condanna a quei tra vostri concittadini che serbavano intatta la santità del loro proposito e la dignità severa del nome italiano; e nell'anima vostra vigilavano il disprezzo e la diffidenza degli uomini salutati rigeneratori; e mormoravate sommessamente - ma non tanto che essi, quegli uomini, non v'udissero - poi che ci saremo giovati d'essi e dei loro battaglioni e della loro influenza, noi li infrangeremo, come gli Israeliti facevano dei loro idoli: essi hanno infranto voi, e meritamente. Così, rimpicciolita, ringrettita la divina verità per entro le vie tortuose di quella che oggi chiamano politica e non è che parodia di politica, ideaste di cogliere il più alto premio che Dio conceda ad un popolo, l'unità nazionale, senza meritarlo colla dignità dell'animo, colla rettitudine del pensiero, colla serena franchezza degli atti e della parola. Dovevate procedere colla spada in una mano e col vangelo nell'altra, in nome dei vostri diritti e della vostra missione, in nome del lungo vostro martirio e della potenza di vita che freme più che altrove in questa sacra terra d'Italia; e procedeste invece col Machiavelli nella destra, cogli statuti bastardi di re perpetuamente spergiuri nella sinistra. Quelli statuti che voi disegnavate di romper più tardi vi condannavano intanto a subire i raggiri di corti e diplomazie, a servire capi sprezzati e perfidi o inetti, a frenare l'impeto, sospetto ai principi, delle moltitudini, a violare l'indivisibilità della bandiera italiana e inalzare un lembo all'adorazione, a velare in nome dell'indipendenza la statua della libertà ch'è il Labaro della vittoria. E voi subiste ad una ad una, fremendo impotenti, combattendo senza pro, tremanti sempre d'insidie che potevate, e non v'attentavate, vincere con una parola, tutte quelle fatalità, travolgendovi d'errore in errore, di menzogna in menzogna, dietro a faccendieri politici che vi sviavano con una larva di forza ordinata dall'unica vera invincibile forza: l'insurrezione. Però cadeste; e s'anche ora ricomincierete la guerra regia - ricordatevi ciò ch'io, palpitando per ira e dolore, vi dico - cadrete.

 

 

IV.

 

Le Nazioni non si rigenerano colla menzogna. Machiavelli, che i falsi profeti di libertà imitano da lungi e profanandone la sapienza, veniva a tempi nei quali Chiesa, principato e stranieri avevano spento un'epoca di vita italiana, e dopo aver tentato gli estremi pericoli per la patria e subìto prigione e tormenti per vedere se pur fosse modo di trarne scintilla d'azione, procedeva, Dio solo sa con quali fraintesi inconfortati dolori, all'autopsia131 del cadavere, e segnarne le piaghe, a numerare i vermi principeschi, cortigianeschi, preteschi che vi si agitavano dentro, e offeriva quello spettacolo ai posteri migliori ch'ei presentiva, come i padri spartani conducevano i giovanetti davanti all'iloto briaco perchè imparassero a fuggire la vergogna dell'intemperanza. E noi siamo all'alba d'un'epoca, commossi dall'alito della vita novella; e che mai potremo attingere dalle pagine di Machiavelli se non la conoscenza delle tattiche de' malvagi a sfuggirle e deluderle? Io dico che i popoli si ritemprano colla virtù, si rigenerano coll'amore, si fanno grandi e potenti colla religione del vero, quando essi possono guardar securi dentro l'occhio delle nazioni e della propria coscienza e dire: la nostra vita è una santa battaglia, la nostra morte è quella dei martiri; dico che la mortalità è l'anima delle grandi imprese, che l'inganno efficace a corrompere, a smembrare, a inceppare, e buono ai padroni, è impotente a muovere, a produrre, a creare, e riesce fatale ai servi che intendono emanciparsi e rifarsi uomini; dico che per quanto s'esamini studiosamente la tradizione storica della umanità, un popolo ha conquistato indipendenza e unità di nazione, una grande idea s'è incarnata, trionfando, nei fatti, un incremento reale di potenza e di libera vita s'è aggiunto allo sviluppo di una razza mortale per artificî machiavellici o reticenze gesuitiche. E dico che per averlo tentato noi abbiamo sparso inutilmente lagrime e sangue; e che fra tutte le pesti della misera Italia la più funesta e la più vergognosa è questa degli intelletti dalle vie oblique, dei machiavellucci d'anticamera e di consulte, degli uomini di Stato in trentaduesimo ai quali, negli ultimi due anni, è toccato in sorte di reggere la più bella, la più santa, la più grande impresa che fosse dato tentare ad uomini, la liberazione d'un popolo schiavo da secoli, la creazione d'una Italia, cioè d'una nazione che non può sorgere senza che la carta d'Europa si muti, senza che l'umanità s'indirizzi per nuove vie. Taluni fra coloro ai quali la linea retta non par la più breve e che preferiscono il sistema monarchico misto al repubblicano, per questo appunto che l'ultimo s'impianta sul principio semplice e chiaro della sovranità popolare e il primo sulla conciliazione dei tre inconciliabili elementi spettanti a tre epoche diverse, monarchico, aristocratico e democratico, sorrideranno. E sorridano, purch'io li disprezzi. Io so che la potenza di tutta quanta la loro dottrina politica si libra fra un armistizio Salasco e il dissolvimento d'un ministero Pinelli. La questione italiana soggiorna in ben altra sfera: nella sfera de' principî eterni, incancellabili, che assegnano a venticinque milioni d'uomini affratellati da Dio nella gloria, nel dolore, nella speranza, nelle tendenze, nella lingua, nella carezza dei canti materni, nell'alito che vien dal cielo, nell'aspirazione che s'inalza da una terra conterminata dall'Alpi e dal mare, una parte, una missione speciale nel moto progressivo della umanità: nella coscienza d'individui seguaci, a prezzo di vivo sangue del core, della verità e impavidi a sostenerla avvenga che può: negli istinti del popolo che non legge Machiavelli sa di ponderazione di poteri e di siffatte dottissime cose, ma procede, come il genio, per intuizione, sotto gli impulsi rapidi, concitati, impreveduti d'una vita collettiva concentrata ad azione, virtuoso sempre quando opera spontaneo e soddisfatto a scegliere tra il giusto e l'ingiusto, fra la religione del vero e l'ateismo di una falsa scienza inorpellatrice. Se la patria non è per noi una religione, io non intendo che sia.

 

 

V.

 

E il popolo italiano, più grande e più logico dei suoi dottori, ha sempre, lode a Dio, seguito la religione della patria e de' principî, non l'idolatria dell'opportunità o delle finzioni legali. Il nostro popolo cacciava il guanto di sfida all'Austria celebrando co' fuochi delle montagne l'insurrezione genovese del 1746, quando gli omiopatici della politica contendevano doversi vincere l'Austria colle vie ferrate e coi congressi scientifici: cacciava il guanto di sfida ai proprî governi colle sommosse, le manifestazioni di piazza, e le irruzioni nei conventi gesuitici, quando il conte Balbo e compagni insegnavano, nei dovuti limiti, il diritto delle supplici petizioni. Il nostro popolo trapiantava la questione, insorgendo in Sicilia, dall'arena delle riforme amministrative per concessione principesca a quella degli statuti politici, ossia dei patti fra cittadini e monarchi, quando i letterati che s'erano posti a capo dell'impresa italiana rabbrividivano alla sola idea d'una collisione violenta fra governanti e governati. Il nostro popolo inalzava feroce il grido di guerra all'Austriaco di sulle barricate lombarde e dalle lagune del Veneto, mentre gli uomini delle riforme, fatti per forza di cose cospiratori, diplomatizzavano per una iniziativa impossibile con re Carlo Alberto. E il nostro popolo griderà di bel nuovo la santa guerra, quando i cospiratori, rifatti diplomatici per cautela, andranno oltre sofisticando, come i Greci del basso-impero, sui termini della mediazione, su leghe ideali di principi che tremano l'uno dell'altro e tutti dei loro popoli, e sulle intenzioni probabili o possibili d'un governo che maneggia per agenti a Vienna, a Parigi, a Milano, la pace coll'Austria all'Adige e peggio: stolti che ignorano non esservi pace possibile tra l'Italia e l'Austria, dopo una insurrezione come quella del marzo, fuorchè segnata al di dell'Alpi, speranza di conquistarla fuorchè colla guerra, abborrita dall'antiveggenza dei principi, che farà del paese un vulcano, del popolo intero un esercito, della nazione affratellata una coscienza di diritti inviolabili e di potenza.

 

 

VI.

 

L'Italia sembra in oggi ingombra di sêtte e di opinioni diverse, repubblicane, monarchiche, unitarie, federalistiche, ed altre; spettacolo doloroso, non insolito o fatale com'altri vorrebbe. A un popolo che versa in uno di quei momenti supremi che accennai cominciando, le forme del vero appajono sempre molte e distorte. Fra una tomba e una culla sta l'infinito. E noi balziamo a un tratto, come ogni popolo chiamato da Dio a grandi cose, dalla sepoltura d'un'epoca spenta al limitare d'un'altra nascente appena, che aspetta forse la prima parola da noi. Ma a chi ben guarda entro a questo caos foriero di una creazione, due soli partiti esistono: il partito che crede nel moto dall'alto al basso, e quello che intende la vita italiana non poter salire oggi mai che dalle viscere del paese alle sue sommità, dalla base della piramide al vertice: il principesco e il popolare: il partito moderato e il nazionale.

 

 

VII.

 

La fazione protea che s'andò intitolando, a seconda dei casi, dei moderati, dei riformisti, dei pratici, degli uomini dell'opportunità, e che io chiamerei fazione delle torpedini, dopo avere iniziato la propria carriera ajutando, fra il 1814 e il 1815, l'Austria a impadronirsi della Lombardia, e strisciato di tempo in tempo, ad ogni sciagura che feriva il principio d'azione, tra le nostre cospirazioni, sorse, quando appunto morivano i Bandiera per la fede repubblicana dell'unità nazionale, e dichiarò che bisognava conquistare non il governo, ma i governi d'Italia. Era il vecchio programma di federalismo monarchico del 1820 e 21, accresciuto da un ingegno, potente ma traviato, di una formola di filosofia religioso-politica, e peggiorato di tanto quanto il vecchio consecrava implicito nel fatto dell'insurrezione il diritto di sovranità popolare, e la nuova edizione, richiamandosi unicamente alle concessioni dei principi, lo cancellava. Pur nondimeno, dacchè trovò fautori quanti, per fiacchezza d'animo o di principî, disperavano di salvare il paese per altre vie - quanti per mediocrità d'intelletto, si cacciano corrivi dietro ad ogni sistema che trovi un ingegno facile a svilupparlo in molti e grossi volumi - quanti affascinati dalle guerre parlamentarie di quel periodo francese che fu chiamato meritamente la commedia dei quindici anni, erano presti a creder parte d'ingegno raffinato e sottile l'immoralità politica - quanti vagheggiavano opportunità di parere agitatori patrioti senza gravi pericoli - e quanti, per concetto falsato o calcoli d'egoismo o terrore delle stranezze che allignano, come in ogni parte, anche nella democratica, abborrono dal simbolo popolare - crebbe rapidamente in vigore, e, come avviene d'ogni sêtta potente per numero, giovò a suscitare le menti che intorpidivano nel silenzio, e schiuse, con un mezzo gergo di libertà, l'arena alle discussioni politiche confinate fino allora nel cerchio delle associazioni segrete o della stampa clandestina e vietata. Sorse, per disegno di provvidenza non avvertito finora e sul quale or non importa fermarsi, un papa di buone tendenze, di non forte intelletto, tentennante per natura, ma tenero di plauso popolare e voglioso di essere amato anzichè temuto dai sudditi: e i moderati, taluni, ch'io stimo ed amo, stanchi del vuoto e lieti del subito apparente affratellamento della religione colla politica, i più non credenti e ipocriti di cattolicismo com'erano di monarchismo, s'affrettarono a farne lor pro; inalzarono al valore di programma politico e nazionale un atto di clemenza locale reso inevitabile dalla condizione degli Stati romani, praticato quasi ad ogni mutamento di principe e dettato in termini poco onorevoli a chi largiva e a chi riceveva; idearono intenzioni recondite, crearono aneddoti, magnificarono, illusero, e trascinarono, tra il voglioso e l'attonito, il pontefice accarezzato, adulato, assordato d'evviva, sino allo schiudersi d'una via ch'ei non voleva, sapeva, poteva correre intera. Risorgeva dall'altro lato, forse per sospetto o gelosia di quell'uno, ad apparenze di liberalismo, un principe roso dall'ambizione, da terrori di gesuiti e di uomini liberi, da ricordi di sangue e da concetti perpetuamente intravveduti e smarriti, ed essi, a prepararsi un appoggio sul principio ghibellino dove il guelfo mancasse, lo ricinsero alla sua volta di lodi non sentite, di promesse, di seduzioni; lo bandirono iniziatore d'un'êra d'incivilimento italiano, e convertirono sfrontatamente ogni riformuccia strappata non dalle loro adulazioni, ma dal fremito popolare, in un passo gigantesco verso l'adempimento d'una idea ch'egli per debito e pietà di stesso avrebbe dovuto incarnare tre lustri innanzi, che gli era stata affacciata e ch'egli aveva ricacciato lungi da con dispetto e paura. Altri piaggiava al gran duca; altri - Dio perdoni i codardi - al Borbone di Napoli: taluni insinuavano che un po' di opposizione legale e pacifica avrebbe ridotto il padrone a sensi di padre nel Lombardo-Veneto, e che l'Austria avrebbe reso comportabile il dominio usurpato, fino al giorno, vaticinato dal conte Balbo, in cui la cessione di qualche terra ottomana avrebbe quetamente emancipato l'Italia dal teutono. Vergogna eterna d'uomini profanatori del concetto italiano, ed anche di voi, o giovani, che vi lasciaste allettare da quelle vocine d'eunuchi: se non che voi lavaste la colpa nelle battaglie del marzo e laverete, ho fede, i più recenti errori con altre battaglie: essi durarono e durarono incorreggibili. Io non credo s'udisse mai linguaggio stampato di tanta bassezza, di tanta stolida adulazione in bocca di gente che dicevasi libera e pretendeva far libero altrui132. Bastava esser principe per essere battezzato rigeneratore: cinger corona perchè fosse in serbo nel capo che la portava una parte d'iniziativa nei fati dell'Italia redenta; e tutte quelle corone, abbominate pochi prima e grondanti ancora di pianto di madri e sangue di martiri, dovevano congiungersi, ordinarsi a piramide sotto il triregno, splendide di novello incivilimento all'Europa; e leghe, diete anfizioniche, primati intellettuali e civili scaturivano, ogni giorno, come sogni d'infermo, dalle penne dei novellatori della fazione. I buoni si coprivano per rossore la faccia e ringraziavano Iddio perchè la lingua italiana, scaduta colla monarchia, sia in oggi men nota che non nel passato alle nazioni straniere. I tristi, che facean coda al partito e invadevano il giornalismo, incensavano i capi, sistematizzavano in menzogna periodica ciò che in parecchi de' primi non era se non tranquilla utopia, insolentivano con quei che sprezzavan tacendo, e rinegando ogni pudore di cittadini, chiedevano arrogantemente agli uomini che avevano, nelle associazioni segrete, serbata intatta la tradizione del pensiero italiano: che avete voi fatto?

 

 

VIII.

 

Che avete voi fatto? - Ah! se da una di quelle sepolture che gli Italiani cospargevano pochi anni innanzi, benedicendo e sperando, di fiori, avesse potuto sorgere Menotti, Attilio Bandiera, Anacarsi Nardi, un di quei tanti che posero rassegnatamente la vita sotto la mannaja del carnefice per la salute d'Italia, egli avrebbe risposto per tutti: «Ingrati! noi abbiamo, colle fatiche e col sangue, educato la bella pianta intorno alla quale voi strisciate in oggi, come il verme intorno alla rosa. Abbiamo, dopo il 1814 quando voi, moderati, tradivate le speranze dell'esercito italiano fremente di dover cacciar nel fango a' piedi dell'Austria le memorie di venti battaglie, preparato, noi, uomini del partito nazionale nelle nostre vendite e sotto leggi di morte, la protesta solenne del 1820 e 21, che prima rivelò all'Europa il voto italiano e avrebbe più fatto se inframmettendovi nelle nostre file voi non aveste sottoposto l'esito dell'impresa alla diserzione d'un principe. Abbiamo, nel 1831, provato all'Italia e all'Europa che una bandiera nazionale spiegata al vento in Bologna si trascinava dietro colla rapidità dell'annunzio trasmesso a tutte quante le popolazioni del centro della penisola, senza che in una terra, solcata con lungo studio di corruttele sacerdotali e di masnadieri assoldati, una sola voce s'alzasse133 in favore dell'autorità minacciata del vecchio papa. E quando voi, saliti per bontà inesperta de' giovani, al governo dell'insurrezione, la perdeste codardamente, dichiarando che non si doveva si poteva combattere se non coll'armi straniere, noi raccogliemmo devoti nelle nostre congreghe il pensiero abbandonato in Ancona, vincemmo, insistenti, lo sconforto che s'era insignorito degli animi, e lo riconvertimmo operosi in fremito di minaccia. Così, noi col morire e i nostri fratelli per lunga vita affannata di persecuzioni, delusioni e calunnie, pur devota a un'unica o santa idea, conservammo ai giovani, suprema fra tutte virtù, la costanza, facemmo caro e onorato il nome d'Italia, tra gli stranieri, traemmo dai moti locali, legando in uno uomini di tutte le parti del bel paese, l'aspirazione all'unità, il culto della patria comune; confortammo di principî inconcussi gli istinti generosi che affaticavano le moltitudini, sollevando, noi primi, quella bandiera di pubblicità che rivendicate, predicando a tutti che dovessero essere a un tempo cospiratori ed apostoli. Senza noi, senza le nostre agitazioni del 1843, senza il nostro martirio, voi non avreste avuto un papa che intese, comunque per brevi giorni, unica speranza di vita riposata, per lui essere oggimai il dare o promettere soddisfazione a' bisogni dei sudditi. Senza noi, senza la continua nostra minaccia di peggio ai governi, voi non avreste oggi la libertà omiopatica che vi concede insultarci e che non è, voi lo sapete, se non concessione. Voi tacevate quando i nostri morivano. Sorgeste, come pianta parassitica all'albero della libertà, sull'opera nostra. La nostra lotta ha data dal 1814, dal giorno in che l'Austria rimise piede su terra lombarda; e voi v'ordinaste a partito tre anni sono quando appunto il nostro lavoro e i tentativi provocati da noi vi dimostrarono che l'opinione nazionale era, in Italia, giunta sino ad esser potenza e v'illusero a credere che quella opinione potesse - voi direste salire, - io dirò scendere sino al core d'un re

 

 

IX.

 

Queste cose e ben altre noi avremmo potuto rispondere agli accusatori imprudenti: noi potevamo provare ch'essi, non tutti ma pressochè tutti, mentivano egualmente ai principi e ai popoli. Ma che importava a noi della nostra e della loro meschina persona? Profondamente convinti che senza moralità politica non si rigenera un popolo, potevamo forse ingannarci nell'altra nostra credenza che papa re potesse oggimai dar salute all'Italia; e tanto bastava perchè tacessimo. Tacemmo dunque. Il tempo maturava ben altra risposta che quella che avremmo potuto dar noi.

 

 

X.

 

Ogni giorno dava una mentita all'utopia monarchico-costituzionale dei moderati. La repubblica, non desiderata, impossibile, dicevano, nelle presenti condizioni d'Europa, sorgeva in Francia e vinceva. I principi che dovevano, in Italia, rifarci l'età dell'oro, indietreggiavano. Le leghe annunziate come imminenti dai politici d'anticamera non si stringevano. Il papa rigeneratore del mondo non s'attentava di rigenerare la curia di Roma, s'irritava delle esigenze modestissime de' suoi lodatori, dichiarava di non voler detrarre un menomo che dall'autorità irresponsabile degli antecessori, lasciava che corresse nella Svizzera sangue di cittadini per mano di cittadini anzichè proferire il richiamo de' gesuiti. La questione di libertà si scioglieva in Sicilia coll'armi; e poi che rappresentanza italiana non esisteva poteva esistere dove i monarchi erano dichiarati tutti intangibili, l'isola si separava dal regno. La Toscana e il Piemonte inoltravano sulla via; ma a balzi, per virtù di sommosse, per moto popolare dal basso all'alto. E la questione lombarda sorgeva ogni giorno più minacciosa, più urgente a chiedere soluzione non di parole, ma d'armi. Armi regie o di popolo? I moderati, da pochi in fuori che antivedevano e predicavano - anche coll'Austria! - l'opposizione legale, sentirono che a salvare la causa del progresso regio in Italia, era indispensabile che la monarchia si facesse iniziatrice d'emancipazione nazionale, e decretarono Carlo Alberto spada d'Italia e liberatore magnanimo del Lombardo-Veneto. I capi dell'aristocrazia lombarda vecchia e nuova s'unirono co' faccendieri di Piemonte, perchè s'avverasse il decreto, da un lato a impedire che il fremito della gente lombarda non prorompesse in azione, dall'altro a spingere con messi, segretari intimi, offerte e promesse, il re all'invasione. A vederli, a udirli in que' tempi e pensare che agenti e raggiri siffatti provvedevano, nella mente dei più, a fare che una Italia libera fosse, correva il pensiero a uno sciame d'insetti brulicanti fra' velli della criniera del leone.

 

 

XI.

 

Il leone, il popolo, si scosse e ruggì. Ruggì spontaneo, fidando nella propria potenza. E il ruggito fu tale che gli Austriaci impauriti, tremanti, s'appiattarono nelle fortezze. La vittoria era consumata, quando Carlo Alberto, per non balzare dal trono, varcò il Ticino. E dietro a lui, per non perdere l'utopia, lo sciame dei moderati.

Ricordo il dolore ch'io m'ebbi quando, palpitante ancora per entusiasmo e per gioja sui fatti lombardi, lessi in un giornale il proclama all'esercito del re Carlo Alberto. E quel dolore non era, io lo giuro sull'anima mia, dolore di repubblicano tenace o d'uomo che non dimentica: io non pensava in quei giorni che alla questione vitale dell'indipendenza e avrei abbracciato il mio più mortale nemico purchè avesse ajutato l'Italia a ricacciar l'Austriaco oltre l'Alpi: era dolore d'uomo educato dalla sventura che presentiva la delusione, la guerra regia sostituita alla guerra del popolo, l'ambizione irrequieta, impotente d'un individuo all'impeto di sagrificio dei millioni, l'inettezza d'una decrepita aristocrazia ai nobili fecondi impulsi dei giovani popolani, la diffidenza, la briga - tutto, fuorchè il tradimento - alla fratellanza santissima nell'intento, alla semplice diritta logica dell'insurrezione. E quel fiero presentimento non mi lasciò mai; onde io m'ebbi a provare l'estremo e il più forte fra tutti i dolori, quello di sentirmi, dopo diciassette anni d'esilio, esule sulla terra materna. E nondimeno io giurai allora tacermi e mantenermi, finchè vivesse speranza di buona fede, neutro fra la parte regia e quella dei miei fratelli repubblicani, per non meritarmi rimprovero, - non dagli uomini che non curo - ma dalla coscienza, d'aver nociuto per credenze e antiveggenze mie individuali alla concordia e alla patria. Io attenni il mio giuramento, e mi seguirono - forse fu danno - su quella via i più fra i repubblicani.

Oh se Carlo Alberto avesse avuto, se non virtù, l'ingegno almeno dell'ambizione! Se gli inetti che lo seguirono o lo precedevano avessero potuto intendere134 che la miglior via per ottenere una corona era quella - non di carpirla - ma di vincere e meritarla! Se i moderati chiamati a reggere in Milano le sorti dell'insurrezione avessero amato, se non la libertà, merce arcana per l'anime loro, l'indipendenza almeno e la gloria delle terre lombarde, e inteso che la riconoscenza dei generosi si conquista mostrando e ispirando fiducia, e cercato il trionfo del loro signore per le sole vie dell'onore! Mantenendo inviolato sino al finir della guerra quel programma di neutralità politica ch'essi avevano più volte solennemente giurato - stringendosi intorno con vera sentita fede gli uomini di parte diversa - suscitando più sempre, in appoggio e d'ogni intorno all'esercito sardo, la guerra del popolo - trattando il re come alleato e non come arbitro supremo della rivoluzione lombarda - sollecitando l'ajuto, non dei principi, ma dei popoli di tutta Italia - promovendo con tutti i mezzi la formazione di legioni di volontarî scelti - accogliendo, invitando, ad emulazione e pegno di fratellanza, volontarî pur dalla Svizzera, dalla Francia, da tutte parti - chiamando con rapidi messi, e collocando giusta il merito quei molti fra gli esuli nostri che avevano militato con onore del nome italiano nella Spagna, in Grecia, in America - spingendo, sollecitamente armata e guidata da essi, la gioventù fin oltre il Tirolo italiano, a rompere in urto le stolte pretese della Confederazione Germanica, e creare la necessità della presto o tardi inevitabile guerra europea, procacciandosi gli ajuti fraterni di Francia, non al di qua dell'Alpi, ma al di del Reno - essi avrebbero salvato il paese dagli orrori e dalla vergogna d'una seconda invasione, meritato, quand'anche per le intenzioni non la meritassero, fama tra i posteri d'uomini liberi, e fondato sulla cieca immemore riconoscenza del popolo - non dirò la dinastia, perchè a nessuna forza è dato oggimai fondar dinastie, - ma il trono del vagheggiato loro padrone. A noi, se fosse spiaciuto il vivere sotto un governo ineguale ai fati italiani, non sarebbe incresciuto il ripigliar la via dell'esilio, ma non com'ora, col dolore di non aver potuto, parlando, tacendo, giovare alla causa della nazione.

Non eran da tanto; e forse meglio così: il popolo d'Italia dovrà quando che sia la propria salute a stesso. Erette ancora le barricate del marzo, davanti al fremito di tutta Italia, davanti al plauso e all'incitamento di tutta Europa, i moderati inventarono... il regno italico settentrionale e la fusione per via di muti registri!

Il dire come, conseguenza di quel meschino raggiro sostituito al grande, splendido concetto italiano che viveva nell'anima dei giovani in Lombardia, per inettezza dapprima, per tradimento dettato dalla paura dappoi, rovinassero le cose lombardo-venete, non è qui mio istituto. Dirò bensì che per oscena sfrontatezza di piccole mene adoperate a carpire i voti per la fusione, per accanimento di calunnie e vilissime personalità seminate, parlate, stampate pei muri contro chi anche tacendo non assentiva, per incapacità portentosa, per imprevidenza da un lato e raggiro astuto dall'altro, io non so di partito che siasi sceso mai così in fondo. A ritrarne le fattezze in quel breve periodo del maggio, converrebbe allo storico intinger la penna nel fango; se non che la storia tacerà di quelli uomiciattoli. I buoni erano; ma i più sprovveduti di forti credenze e d'energia per combattere: taluni dispettosi per altezza d'animo e spronati dalla natura a ravvolgersi, come Peto Trasea, quando uscì dal corrotto senato colla testa nel manto, anzichè contendere di palmo in palmo il terreno. I repubblicani, anche quei tra loro che s'erano subito dopo l'insurrezione costituiti in associazione, fino al 12 maggio tacevano. Il 13 protestarono dignitosi dichiarando a ogni modo non volersi fare promotori di risse civili; poi disperando per allora d'ogni rimedio e convinti che bisognava lasciare si consumasse l'esperimento, si contentavano di registrare nell'Italia del Popolo le promesse tradite e i vaticinî dell'imminente futuro di linea in linea avverati. La è storia questa che calunnia di giornalisti, altro, potrà cancellare.

E la Lombardia era nuovamente serva. Gli Austriaci passeggiavano le vie di Milano. Il re di Napoli s'era rifatto tiranno; Pio IX, papa non dell'avvenire, ma del passato. Carlo Alberto mendicava alla Francia ajuti che non potevano ottenere, all'Austria armistizî disonorevoli e peggio. Il sogno dei moderati sfumava: il regno dell'alta Italia moriva nella nullità dei portafogli della consulta. Scusate le ciarle.

 

 

XII.

 

Il concettuccio dell'Italia del nord, anti-italiano perchè violando l'indivisibilità della sacra bandiera italiana, e sopprimendo l'ipotesi dell'unità, pregiudicava coi voti d'una frazione questioni che spettano all'intera nazione: - meschino perchè a fronte d'un fermento provvidenzialmente universale dall'Alpi al mar di Sicilia, non mirava che a ordinare una parte e all'impianto d'una specie di Prussia italiana: - impolitico perchè creava sospetti e ripugnanze insormontabili nella Francia senza creare tanta forza che bastasse a non darsene cura: - illiberale perchè fidava lo sviluppo della giovine vita lombarda e d'una civiltà stampata di democrazia all'aristocrazia torinese: - stolto, perchè, mentre si voleva contro l'Austria una guerra di principî, esigeva che tutti ajutassero l'ingrandimento d'un solo e spargessero sangue e tesori per inalzare un trono destinato, come gli uomini del partito dicevano, a dominarli e rovinarli tutti un o l'altro! - riescì funestissimo in questo, che suscitando da un lato l'orgogliuzzo della conquista, costringendo dall'altro i raggiratori politici a giovarsi, per carpire l'intento, d'arti inoneste e di promesse deluse, ha generato ciò che prima non esisteva, un lievito di discordia e di gelosia tra piemontesi e lombardi. Quella tristissima conseguenza della precipitata fusione noi l'avevamo predetta; poi a sovrapporre gare alle gare, venne il tradimento compito in Milano; e fremono tuttavia, altro oggimai potrà spegnerle che il fatto d'una insurrezione nazionale davvero, e la grande voce del popolo di tutta Italia. Le unioni non si fanno a quel modo. Escono spontanee da una fratellanza di popoli che hanno insieme patito e vinto, inviolabili per solenne e liberamente discussa espressione di rappresentanze legali; mal si fondano su calcoli di paure, mal si chiedono come prezzo d'ajuto, mal si votano sotto la spada di Damocle della minaccia d'un abbandono sì che somigli il fatto nefando di quel chirurgo che sospendeva, a mezzo l'operazione, il coltello per pattuire coll'infermo doppia mercede. Bensì a chi allora affacciava siffatte considerazioni e scongiurava in nome d'Italia che si vincesse prima, poi si lasciasse libero il corso alle intenzioni dei popoli, i maneggiatori rispondevano chiamandolo assoldato dell'Austria.

E questo malumore creato tra due popolazioni italiane nate ad amarsi e ajutarsi è l'unico risultato pratico ch'io mi sappia delle trienni agitazioni di quel partito: partito senza radice, senza tradizione, senza genio, senza possibilità di vita nell'avvenire. I partiti moderati s'intendono ne' paesi già fatti nazione e retti da lunghi anni o secoli a sistema costituzionale, dove, illusi spesso ma razionali a ogni modo, s'oppongono a chi tenta rifar di pianta la società, ordinandola al trionfo d'un nuovo elemento non contemplato fino a quel giorno nelle istituzioni, e contendono dovere il meglio escire dallo sviluppo progressivo delle libertà già esistenti; ma in Italia? Dove nazione non è e si tratta di conquistarla? Dove istituzioni libere non sono o furono ottenute per via di sommosse o popolari minacce e sono tuttavia combattute dalle fazioni retrograde sedenti a governo? Dove non si tratta di miglioramenti amministrativi o di riforme parlamentarie, ma di essere o non essere? Copiatori meschini d'un passato che non è nostro, cinguettano d'autonomia e di libero genio italiano per poi dirci - che? La teorica d'equilibrio dei tre poteri, l'istituzione, provata menzognera e fatta cadavere dall'esperienza d'ormai trent'anni, monarchico-costituzionale! Dimentichi che ci accusavano un anno addietro di esortare a repubblica mentre la Francia reggevasi a monarchia, accusano noi, noi che predicammo repubblica or sono diciassette anni, e cominciammo dopo il febbrajo a invocare unicamente la sovranità del paese, d'imitare servilmente la Francia: imitare la Francia qui dove la monarchia straniera, o entrata collo straniero, non ha per vestigio di tradizione nazionale, gloria d'utili imprese, puntello d'elementi inviscerati nella società, amore da' sudditi, credenza sincera da que' medesimi che ne sostengon la causa! qui dove ogni grande memoria, ogni gloria, ogni ricordo di potenza è di popolo! qui d'onde insegnammo la vita democratica di comune e la repubblica senza schiavi all'Europa! e l'accusa move da uomini che ricopiano fin nei vocaboli (democrazia regia, monarchie citoyenne) la Francia di Luigi Filippo; da uomini che nel generale maraviglioso commovimento dei popoli volgenti a democrazia non sanno trovare altra missione all'Italia ridesta che quella di cibarsi degli ultimi rifiuti e ricominciare la prova che l'Europa sta concludendo. E riescissero! Ma come? Non proclamano essi da ormai tre anni federazione di principi che non vogliono collegarsi? Non annunziano ai popoli una dieta, mentre dei tre governi che dovrebbero attuarla un si tace, l'altro avversa, il terzo promove invece la costituente? Non evangelizzano ogni settimana la guerra con un ministero che intima pace? Non hanno essi scritto libri di 500 pagine fondati sull'ipotesi d'una lega liberalissima tra Napoli e Piemonte, e non ha egli il re di Napoli risposto abbandonando il campo italiano e trasmutando i soldati in carnefici de' loro fratelli? I mezzi per verificare anche quel meschino concetto di federalismo monarchico non sono nelle loro mani. Noi possiamo con lunghe fatiche educare il popolo, essi non possono educare, non che cinque, un sol re. Le loro teoriche, le loro speranze posano tutte sopra un forse, sopra un se: dietro un se in forma di papa o di principe essi hanno trascinato per tre anni la povera Italia d'illusione in illusione, d'utopia in utopia, alla condizione di prima: e quando si rassegneranno un giorno a rinsavire e morire, il fatto da loro potrà rappresentarsi mirabilmente da quei due versi che un principe di Toscana rispondeva ai sudditi petizionanti:

 

Talor, qualor, quinci, sovente e guari:

Rifate il ponte co' vostri danari

 

 

XIII.

 

Al popolo toccherà di rifare il ponte co' proprî danari e col proprio sangue. Agli uomini del partito nazionale tocca fin d'ora insistere col popolo perchè impari questa verità troppo spesso dimenticata: che una nazione non si rigenera se non con forze proprie, col sudore della propria fronte, con lunghi sacrificî e coscienza profonda del proprio diritto e del proprio dovere.

Io chiamo uomini del partito nazionale tutti coloro i quali non avendo, per fini privati, venduto l'ingegno e l'anima a un ministero, a una sêtta, a un principe o a una casa regnante - non presumendo che sotto il loro piccolo cranio covi più senno o alberghino più diritti che non nei venticinque milioni d'uomini nati a progredire, ad amare, a sperare, a combattere in questa terra italiana - credono religiosamente anzi tutto nella nazione e nella sua sovranità, e ordinano i loro pensieri, i loro atti, il loro apostolato a far sì che il paese, libero tutto e sottratto ad ogni influenza frazionaria, viziosa, immorale, decida in modo legale e con esame maturo delle proprie sorti. E a questo partito appartengono - m'incresce non aver trovato prima occasione di dirlo - molte anime pure e caldissime d'amor di patria che appartennero ai moderati, sia perchè stimavano necessario al nostro popolo un certo periodo d'educazione politica che lo destasse dal sonno in che si giaceva, sia perchè, soverchiamente tementi del nemico straniero e dei vecchi nostri dissidî, intravedevano in Carlo Alberto l'unificatore di tutta Italia. I primi sentono ora che il popolo è desto ma corre rischio d'esser travolto dall'educazione gesuitica di quel partito in un sonno peggiore del primo; i secondi hanno con amarezza scoperto che la voce unione in bocca a' loro colleghi suonava tutt'altro che avviamento a unità e che ad ogni modo il loro idolo non era da tanto.

Dico che il paese è oggi desto e fuor di tutela; e che, se ciascuno di noi ha non solamente diritto, ma debito di proporgli scrivendo e parlando l'adozione del principio ch'ei crede vero, nessuno ha diritto d'imporgli o di sedurlo con mezzi artificiosi di promesse o terrori ad adottare senza esame deliberato una forma di governo, un sistema, un'idea preconcetta. Quando tutta Italia era schiava, e la libera parola era vietata e il pensiero, che Dio ha messo nelle viscere di questa terra e che un giorno la farà grande, si giaceva per mancanza assoluta di comunione, ignoto al suo popolo, gli uomini che soli nel silenzio comune osavano dire all'Italia: Sorgi e sii grande! avevano diritto di farsene interpreti, di trarre dallo studio della tradizione nazionale e dalla propria coscienza la definizione di quel pensiero e scriverlo risolutamente sulla loro bandiera e dire al popolo: In questo segno tu vincerai - salvo al popolo di consecrarlo o mutarlo, vinto il nemico: oggi no. Il pericolo più grave d'una insurrezione che non poteva iniziarsi se non da pochi era allora quello di non aver bandiera alcuna e di travolgere un popolo, suscitato a un tratto da un sonno di morte alla più alta intensità di vita possibile, in una anarchia senza nome impotente a vincere lo straniero. Oggi il popolo è da qualche anno svegliato: ha potuto guardarsi attorno e scendere a interrogare la propria coscienza: vive in più parti d'Italia di una vita ben più potente di quella che s'elabora nell'aule o nell'anticamere dei potenti: ha conquistato nella Lombardia, in Venezia, in Sicilia, in Bologna, in Livorno, in Genova e altrove, tra le barricate o in quelle manifestazioni che i liberali patrizî chiamano sdegnosamente di piazza e alle quali devono quel tanto di libertà ch'esiste fra noi, il battesimo di sovranità; e saprebbe, cogli istinti suoi logici, col senso diritto che distingue le moltitudini e colla scorta delle sue tradizioni, trovarsi facilmente la buona via, purchè i suoi dottori e gl'inventori delle alte e delle basse Italie volessero lasciarlo in pace. Ei sarebbe forse a quest'ora libero d'ogni peste croata, se i facitori di piani e le strategiche regie non gli avessero fatto tacere la campana a stormo e guasto la sua guerra d'insurrezione.

Gli esuli repubblicani - ed è un altro fatto che la calunnia non potrà cancellare - intesero primi e soli questo diritto inviolabile di sovranità nazionale. Dissero che al paese, ridesto una volta ed in moto, spettava l'iniziativa, a noi tutti studiarne, ajutarne e migliorarne le ispirazioni. La Giovine Italia fu sciolta. L'Associazione nazionale fondata. E dal programma dell'Associazione sino al proclama di Val d'Intelvio il solo grido ch'essi abbiano messo fu: guerra e sovranità del paese.

 

 

XIV.

 

Guerra e sovranità del paese. Ogni altro grido - quando non sia d'individuo che tenti pacificamente persuadere ciò che gli sembra vero ai suoi fratelli di patria - è usurpazione e semenza di danni. Scrivete135 libri di cinquecento pagine e più se v'aggrada, per provare ai vostri concittadini che la missione italiana sta nell'ordinarsi al federalismo della Svizzera e al monarchismo costituzionale della Spagna o dell'Austria; noi scriveremo pagine a ricordar loro che senza unità non v'è missione, forza, concordia durevole; a ricordar loro la tradizione della democrazia repubblicana in Italia, la storia della discorde impotenza svizzera e le cento delusioni della corrotta decrepita monarchia. Ma non fondate circoli o associazioni federative sotto l'egida del monarcato, se non volete che noi fondiamo circoli e associazioni con programmi dichiaratamente repubblicani. Non convocate congressi con programma determinato, quando non avete mandato dal vostro popolo. Non annunziate diete che decidano innanzi tratto, col solo fatto della loro esistenza e per la natura degli elementi che voi chiamereste a comporle, le questioni le più vitali al nostro risorgimento, quelle che s'agitano tra il federalismo e l'unità, tra la monarchia e la repubblica. Noi non conosciamo che un solo padrone nel cielo, Dio; un solo sulla terra, ch'è il popolo: il popolo, che ha sparso e dovrà spargere il proprio sangue a riconquistarsi libera e grande questa terra che Iddio gli diede, ha pur diritto di governarsi a sua posta.

E questo programma, solo legale, solo che possa dirsi non intollerante, non esclusivo, noi lo spiegammo primi e lo manterremo. Noi non tradimmo programmi di neutralità solennemente giurati: la nostra parola è la stessa d'ieri. Noi non capitolammo col nemico: Garibaldi e d'Apice non attraversarono pacificamente la Lombardia con fogli di via segnati di un nome di generale straniero; portarono seco, cedendo alla forza, la bandiera italiana, liberi di ripiantarla sul primo giogo, nella prima valle, dove suonasse il grido di viva Italia!

 

 

XV.

 

Noi scrivevamo in Milano, nel programma dell'Italia del Popolo: «Dov'è l'assemblea costituente, sola legittima interprete del pensiero di un popolo

E il 27 dello stesso mese: «Se chi proferì primo in questa Italia sconvolta la parola di dieta italiana avesse detto Assemblea nazionale costituente italiana, la questione che affatica in oggi per vie diverse le menti, sarebbe stata posta sulla vera e unica via che può condurre a scioglimento pacifico, legale, solenne, il nodo de' nostri futuri destini. Volete tutti che un'Italia sia? Dica l'Italia come vuol essere e sotto quali forme la vita nazionale che Dio le comanda deve emergere rappresentata a tutti i suoi figli e ai popoli dell'Europa.... Sorga e s'accolga in Roma non una dieta, ma l'Assemblea nazionale costituente italiana, eletta, non per divisioni di Stati esistenti, ma con eguaglianza di circoscrizioni, e con una sola legge elettorale, dall'università dei cittadini d'Italia. Preparino gl'ingegni a questa le vie. S'interroghi il paese sui proprî fati. Fino a quel giorno, voi rimarrete, checchè concertiate, nel provvisorio

E il 12 giugno: «Non v'è può esservi che una sola metropoli, Roma. Non v'è può esservi che una sola costituente: L'Assemblea nazionale costituente italiana

Ed io cito queste linee a provare come i repubblicani, rimproverati continuamente d'intolleranza da chi non ricusa combattere coll'arme sleale della calunnia, curvassero primi la fronte, anche quand'altri violava sfrontatamente le sue promesse, davanti la maestà popolare. Ma chi fu giusto mai coi repubblicani? Non affermava il conte Balbo nel suo libro delle Speranze d'Italia che gli unitarî della Giovine Italia volevano le repubblichette del medio evo?

 

 

XVI.

 

Il moto che segretamente dal 1815 in poi, e palesemente da tre anni, agita la nostra contrada, è moto nazionale anzi tutto. E dicendo nazionale io non intendo moto puramente d'indipendenza, riazione cieca e senza nobile intento di razza oppressa contro una razza straniera che opprime. Nel XIX secolo, la voce nazione suona ben altro che una emancipazione di razza. Il grido di Viva Italia! che i Bandiera e i loro fratelli di martirio in Cosenza cacciarono lietamente morendo, era grido di libertà: grido religioso d'unione, di nuova vita, di affratellamento fra quanti popolano questa terra divisa e fatta impotente da tirannidi straniere e domestiche. Quel grido fu raccolto dai milioni, e le agitazioni degli ultimi tre anni ne sono il commento. Il popolo vuol essere una famiglia: famiglia potente di vita collettiva, di bandiera propria, di leggi comuni, di nome, di gloria, di missione riconosciuta in Europa. Idoli suoi, meritamente o no, sono tutti coloro che dovrebbero o potrebbero più facilmente dargli una patria: nemici suoi quanti ei considera, a torto o a ragione, avversi a questo pensiero, a questo suo supremo bisogno. Tutte le parole, tutti i programmi che i falsi profeti gli han messo da tre anni innanzi ebbero il suo plauso perchè gli dissero che dovevano fruttargli136 la patria; poi passarono rapidi come speranze deluse; e la sola parola, il solo eterno programma ch'ei va ripetendo, è quello di Italia; chi non intende questo ch'io dico non intende popolo, storia, provvidenza. L'Italia vuol essere. - Noi siamo in aperta rivoluzione; e questa rivoluzione, che si compirà checchè avvenga, e muterà la carta e le sorti d'Europa, è innanzi tutto una rivoluzione nazionale.

Ogni rivoluzione ha un elemento nuovo, una forza propria, una leva speciale corrispondente allo scopo che deve raggiungersi. Una rivoluzione nazionale può iniziarsi da chicchessia137; ma non può compirsi che da un'Assemblea nazionale.

E quest'Assemblea non può escire legittima ed efficace che dall'elezione popolare: eletta da governi o da Stati, non potrebbe rappresentare che il vecchio principio, più o meno modificato, di smembramento contro il quale il paese s'agita e s'agiterà: - non può aver limite il mandato, perchè ogni mandato chiamerebbe, più o meno, i vecchi poteri, contro i quali il paese è commosso, a decidere le condizioni della nuova vita cercata.

L'Assemblea nazionale non può dunque essere che costituente. Dove nol fosse, l'agitazione non soddisfatta ricomincerebbe il dopo.

Non v'è che una Italia. L'Italia del nord, le tre Italie, le cinque Italie, sono bestemmie di sofisti o trovati di politica cortigianesca condannati dal nascere all'impotenza.

Il popolo d'Italia intende costituirsi in nazione: cerca una forma di nazionalità che più convenga ai suoi futuri destini in Europa; e questa forma non può escire che dal voto di tutti, non può sancirsi accettata da tutti e durevole fuorchè da una Assemblea costituente italiana. La parola proferita, con autorità di potere, da Montanelli e Guerrazzi avrà presto o tardi adesione, non dai principi, ma dai popoli di tutta Italia. La scienza politica d'un popolo che si rigenera è semplice; i sofismi e i trovati cortigianeschi non prevarranno138 lung'ora.

E s'anche la costituente italiana decreterà monarcato e federalismo, noi, repubblicani unitarî, non rinegheremo ciò ch'oggi diciamo. Deploreremo immaturi i tempi e ineguali gl'intelletti al concetto che solo può svolgere la terza Italia, l'Italia del Popolo; rivendicheremo, come s'addice a uomini liberi, diritto di pacifica espressione alle nostre dottrine; ma rispetteremo la monarchia ringiovanita per battesimo popolare e la federazione escita dal libero voto della nazione. Avremo almeno una patria. Oggi non abbiamo che cadaveri di monarchie, governucci inetti o tirannici, e gran parte della nostra terra in mano dell'Austria.

 

 

XVII.

 

In mano dell'Austria! È parola questa, o giovani, che suona insulto a noi tutti, e non dovrebbe lasciar nell'anima vostra campo a pensieri fuorchè di guerra a me conceder parole fuorchè di guerra. La terra lombarda è schiava. Il croato ride stolidamente feroce in Milano dei nostri libri, dei nostri circoli, del nostro cinguettìo di sofisti. Libertà! Noi non possiamo, non che applicare, intendere, proferir degnamente la santa parola col marchio dell'impotenza e della schiavitù sulla fronte. Noi non possiamo avere, non meritiamo costituente, patria, diritti, nome d'uomini, finchè la nostra bandiera non sventoli, terrore ai nemici e pegno di salute pei figli alle nostre madri, sull'Alpi.

Io non so se il lungo esilio testè ricominciato, la vita non confortata fuorchè d'affetti lontani o contesi, e la speranza lungamente protratta e il desiderio che incomincia a farmisi supremo di dormire finalmente in pace, dacchè non ho potuto vivere, in terra mia, m'irritino, e nol credo, l'anima nata ad amare e per lunga prova incapacissima d'odio; ma so che, perchè noi potessimo dirci degni di libertà, questo grido di guerra all'Austria! dovrebbe essere oggimai la giaculatoria del credente nella patria, la voce per la quale, dentro e fuori del paese, l'italiano si riconoscesse d'una terra coll'italiano, il motto di comunione che corresse da un capo all'altro della penisola ed oltre, potente e rapido come il fluido che alimenta sotterraneo i nostri vulcani, sì che ne escisse tremoto, e le passioni sobbollissero come lava, e l'Etna in eruzione rimanesse simbolo convenevole agli sdegni e al levarsi d'Italia. Vorrei che come i leggendarî dei secoli cristiani cominciavano e finivano tutti colla formola: «Nel nome del Padre, del Figlio e del santo Spirito,» così nessun scrittore toccasse la penna in Italia se non cominciando e finendo colla formola: In nome della patria e dei nostri martiri, sia guerra all'Austria. Vorrei che le fanciulle italiane, comprese dell'onta sofferta per mano dei barbari dalla donna italiana, rammentassero col bacio di fidanzata ai loro promessi: ricordate e vendicate le fanciulle di Monza. Vorrei che, come i romiti della Trappa non s'incontrano senza dirsi l'un l'altro: fratello, bisogna morire, i giovani d'Italia non s'incontrassero per le vie, nei teatri, nei circoli, senza dirsi: fratello, bisogna combattere; tu ed io viviamo disonorati.

Perchè, è forza il dirlo, noi viviamo disonorati: disonorati, o giovani, in faccia a noi stessi, in faccia all'Austria, in faccia all'Europa. Nessun popolo in Europa, dalla Polonia in fuori, soffre gli oltraggi che noi soffriamo; nessun popolo sopporta che una gente straniera, inferiore di numero, d'intelletto, di civiltà, rubi, saccheggi, arda, manometta ferocemente a capriccio un terreno non suo; trascini altrove, colla coscrizione, a farsi complici di delitti e stromenti di tirannide, giovani non suoi; contamini di violenze, di battiture donne non sue: uccida per sospetto o disonori col bastone cittadini di patria non sua. E nessun popolo - io lo dirò comechè suoni ingratissimo a me che scrivo e a quanti mi leggono - nessun popolo ha più di noi millantato odio al barbaro, valore italiano, potenza di desiderio, e furore d'indipendenza. Da noi uscirono bandi grandiloqui, discorsi pomposi di memorie del Campidoglio, d'aquile romane e di conquiste mondiali, tanti da incendiarne gli accampamenti nemici, e centinaja di gazzette, libri e libercoli a tritare lo stesso tema di minaccia impotente, e migliaja d'inni di guerra e milioni d'urli e grida di Viva Italia e di morte agli Austriaci, nei banchetti, su pe' teatri, in convegni di piazza. Tra noi escì, acclamata, commentata, messa in cima ai giornali, come guanto cacciato solennemente all'Austria in faccia all'Europa, la parola: l'Italia farà da : parola santa fin dove si tratti d'indipendenza, perchè ogni popolo deve conquistare con forze proprie il proprio nome, il proprio titolo a rappresentare una parte pel bene comune nella grande associazione delle nazioni; ma volgente al ridicolo quando quei che l'hanno proferita non fanno, per conto d'Italia, che armistizî, capitolazioni e raggiri di mediazione. E la Polonia, ch'io citai dianzi, affranta da lunghe battaglie e da sagrificî senza esempio, priva d'ogni libertà di parola, di convegni, di stampa, vuota d'armi e senza un palmo di terreno sul quale essa possa riprepararsi a combattere, non può finora che ordinar congiure e lo fa; ma noi fummo in armi: siamo in armi; e la nostra parola, accetta o invisa ai governi, guizza da un capo all'altro d'Italia, il nostro pensiero s'esprime con nessuno o con poco pericolo in piazze gremite di popolo, tumultua alle porte di parlamenti dove si parla - tranne da qualche ministro - la nostra favella, splende a programma sulle coccarde dei nostri cappelli. E nondimeno quel programma, programma d'indipendenza e di guerra all'Austria, si consuma in suoni vuoti di senso, e giace, lettera morta, alle porte di quei parlamenti, al limitare delle anticamere ministeriali; nondimeno, quella parola l'Italia farà da sé suona parola meritamente schernitrice sulla bocca dei ministri di Francia nei loro colloquî cogli inviati italiani: meritamente, dico, perchè tra quegli inviati che chieser ajuto fraterno e si rassegnano umiliati alla mediazione sono gli inviati di quel governo, or rimpicciolito a consulta, che ricusò, sprezzando, le profferte dei volontari francesi dicendo non averne bisogno; sono gli inviati del re che primo proferiva l'orgogliosa parola. Intanto, a ogni lagno, a ogni annunzio di protocolli futuri, ci giunge dal suolo lombardo, risposta dell'Austria, l'eco di qualche fucilazione!

«I Francesi fucilano in Madrid i nostri fratelli.» Io ricordo che queste parole, firmate e diffuse dall'alcade di Mosteles furono, nel 1808, il segnale di quella guerra di popolo che consunse il fiore degli eserciti di Napoleone, emancipò la Spagna e segnò la curva discendente all'impero.

 

 

XVIII.

 

Noi vorremmo; ma i nostri governi non vogliono. In nome di Dio sorgete e rovesciate i governi. Non avete oggimai esaurito ogni via per indurli? Non vi siete voi trascinati per essi, con sommessione e inudita credulità, d'illusione in illusione, di sogno in sogno? Non avete bevuto il calice d'umiliazione sino alla feccia? Il governo che rifiuta oggi far guerra all'invasore straniero è governo straniero. Trattatelo come tale. Intendo che tolleriate, se non vi sentite maturi per darvi leggi, un governo tirannico; non uno che sia tirannico e vile. Voi potete sagrificare per alcuni anni la libertà, la vittoria d'un'idea; ma non per un giorno l'onore. Un popolo non deve, non può rassegnarsi ad esser creduto dagli stranieri millantatore e codardo.

Ma se la forza delle abitudini è tanta in voi che, anche sprezzandoli, voi non sapete rovesciare i governi che vi disonorano: - se la funesta addormentatrice parola escita dall'aristocrazia liberale dei vostri maestri, la causa della libertà doversi disgiungere139 da quella dell'indipendenza, ha solcato l'anima vostra di solco così profondo che tre anni di tradimenti e sciagure non bastino a cancellarlo: lasciate da banda i governi e fate da voi. Redimete, perdio, la vostra bandiera. Riunitevi, associatevi, operate. Traducete in fatti il pensiero. Fate della penisola un arsenale, una cassa, un campo di militi per la crociata. Fondate in ognuna delle vostre città una Giunta d'insurrezione. In ognuna delle vostre città, in ognuna delle località importanti che ne dipendono, aprite un registro che accolga i nomi di quanti opinano per la liberazione della terra ove nacquero dallo straniero che la contrista; e ad ognuno di quei nomi corrisponda una offerta mensile, una promessa di danaro e di sangue; se il nome è di donna, un numero di coccarde e cartucce; le donne sono gli angioli di questa terra e il tocco delle loro mani le benedirà. Dovunque molti fra voi si raccolgono a mensa d'amici, sia promossa una colletta per la cassa della nazione. Ogni viaggio, impreso per diporto o per altro, diventi una missione d'apostolato per la santa causa. Movete da tutti i punti a ricordare alle vostre milizie come siano schernite, inerti e ingloriose ne' paesi stranieri, a ricordare alle milizie lombarde di qual gemito geme la loro contrada, e qual debito d'iniziativa spetti ai loro drappelli. Chiedete a voi stessi - lasciate ch'io vi ripeta la parola che or mesi sono vi dissi - chiedete a voi stessi ogni giorno al sorgere: Che farò oggi io per la mia patria? ogni notte apprestandovi al sonno: Che ho io fatto oggi per la mia patria? E sia per voi giornata perduta, notte inquieta di rimorsi e nuove promesse d'attività quella in che voi non troverete da segnare un servizio anche menomo reso al paese. L'insistenza è il genio d'un popolo: abbiatela e siate grandi. Il vostro servaggio dura da più di tre secoli: insistete in vita operosa per tre mesi e sarete grandi.

 

 

XIX.

 

E quando sarete pronti - quando il fremito suscitato per magnetismo di comunione tra molti nell'anima vostra v'insegnerà, o giovani, che il lieto momento è venuto, che siete degni di prostrarvi un istante al padre dei liberi e iniziare la bella impresa - ricordate allora, io vi prego in nome dei molti dolori che quella scienza ha costato a me e a molti assai migliori di me, le poche parole ch'io sottosegnai nelle prime pagine di questo scritto: Le nazioni non si rigenerano colla menzogna: senza moralità politica non trionfa una causa di popolo. Ricordate, o miei fratelli, i trecento anni di muto corrotto servaggio che pesarono sulla vostra razza per aver fornicato coi principi o coi falsi leviti. Adorate, il vero: Dio e il Popolo sia l'unica formola che splenda sulle vostre bandiere. Dio e il popolo, taluni bestemmiano, non valgono a far la guerra; valgono battaglioni e cannoni. Meschini e irreligiosi beffardi! Voi li aveste i battaglioni invocati; e perchè servivano non a Dio, ma ad un uomo, perchè trattavano la causa non del popolo, ma d'un re, voi sapete a quali termini condussero la povera Lombardia e la nazione con essa.

 

Novembre, 1848.

 

 

 

Fine pel primo volume.


 

 

 





131 Nell'originale "autonomia". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



132 «Pio nono, angelo deputato dal cielo... novello e dell'antico più sapiente e glorioso fondatore di Roma; restauratore immortale della civiltà cristiana, cui i popoli diffidenti volgono maravigliando lo sguardo vedendo che per lui il pontificato riassume, con non più saputa potenza, la tutela degli oppressi, e l'idea cattolica si svolge fautrice di ben ordinato civile consorzio, di equità, di giudizio, di nazionalità, di emancipazione e di riconoscimento dell'umana dignità ecc.» - Dragonetti.

«Egli s'è fatto profeta del popol suo non solo, ma dell'intera civiltà cristiana: egli ci dice quali saranno le sue sorti future: non son io degno d'unire l'umile mia voce alla potente parola del gran pontefice... che si sparge per l'intero mondo nunzia di giustizia... questa parola che ha in maggior potenza che non si ebber tutte insieme le antiche legioni, ha compito in brevi giorni la grand'impresa che costò tanti secoli all'armi romane, la conquista del mondo.» - Azeglio.

E basti per saggio. L'Azeglio è lo stesso che un anno innanzi scriveva: «Se anche salisse al pontificato un uomo dotato d'alta sapienza nell'arte dello Stato e d'ugual virtù per usarla ad utile pubblico e senza pensiero di stesso, se questo pontefice volesse risolutamente riformare gli abusi, che sono il profitto di tanti..... costoro non glielo consentirebbero.... ed il minor danno a cotal pontefice sarebbe il non poter far frutto nessuno.»



133 Nell'originale "s'alsasse". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



134 Nell'originale "intentere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



135 Nell'originale "Srivete". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



136 Nell'originale "frustargli"



137 Nell'originale "chicchesia"



138 Nell'originale "prevaranno"



139 Nell'originale "disgungere"



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