Giuseppe Mazzini
Scritti: politica ed economia
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VOLUME SECONDO PENSIERO ED AZIONE.

CENNI E DOCUMENTI INTORNO ALL'INSURREZIONE LOMBARDA E ALLA GUERRA REGIA DEL 1848

ATTI DELLA REPUBBLICA ROMANA

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ATTI

DELLA REPUBBLICA ROMANA

 

I.

 

(La repubblica romana fu proclamata dall'Assemblea eletta dal suffragio universale il 9 febbrajo 1849. Il 24, i membri detti della Montagna nella Costituente Francese scrissero un indirizzo di congratulazione fraterna e promessa d'ajuto alla Costituente romana. A quell'indirizzo io, per mandato dell'Assemblea, risposi col seguente.)

 

Cittadini!

 

Il vostro indirizzo ci è giunto in un momento solenne, alla vigilia della battaglia236. E noi v'attingeremo nuove forze, nuovi incoraggiamenti per la santa lotta che sta per aprirsi. La Francia ha fatto grandi cose nel mondo: voi avete patito, sperato, combattuto per la umanità, e ogni voce che venga da voi ci impone doveri che, coll'ajuto di Dio, noi sapremo compiere.

Voi intendeste, cittadini, quanto ha di nobile, di grande, di provvidenziale questa bandiera di rinnovamento ondeggiante sulla città che racchiude il Campidoglio e il Vaticano: il Diritto eterno fatto forte d'una nuova consecrazione: un terzo mondo sorgente, nel nome di Dio e del Popolo, sulle rovine di due mondi spenti: un'Italia, che sarà sorella alla Francia, rompente il coperchio della sua sepoltura per chiedere, in nome d'una missione da compirsi, il diritto di cittadinanza nella federazione dei popoli. Voi intendeste che i nostri cuori sono puri d'odio e d'intolleranza, che noi stiamo compiendo un'opera d'amore e di miglioramento umano; e che, rivendicando i nostri diritti senza violar la credenza, separando, come noi lo abbiam fatto, il papa dal principe, abbiamo assunto l'obbligo di non contaminare quest'opera col contatto delle basse passioni e delle codarde vendette che una stampa corrotta o ingannata s'ostina a rimproverarci. Quest'obbligo, noi lo atterremo: parole come le vostre ci compensano di molte calunnie, ci rassicurano contro molte insidie coperte. Noi sappiamo che voi illuminerete i vostri concittadini sul carattere della nostra rivoluzione, e che manterrete per noi quel diritto alla vita nazionale che voi primi avete proclamato e conquistato.

Non v'è che un sole in cielo per tutta la terra: non v'è che uno scopo, una legge, una sola credenza, associazione, progresso, per tutti quei che la popolano. Come voi, noi combattiamo pel mondo intero, noi siamo tutti fratelli, noi rimarremo tali checchè si faccia.

Fidate in noi: noi fidiamo in voi. Se mai nella crisi che stiamo per attraversare, le forze ci mancassero, noi ricorderemo le vostre promesse; vi grideremo: Fratelli, l'ora è giunta, sorgete, e vedremo i vostri volontarî ad accorrere. Insieme combattemmo sotto l'Impero: insieme combatteremo un'altra volta a pro di quanto v'ha di più sacro per gli uomini: Dio, Patria, Libertà, Repubblica, Santa Alleanza dei Popoli.

 

 

 

II.

 

(Il 29 marzo ebbe luogo l'elezione del Triumvirato, del quale io feci parte e che pubblicò il seguente programma.)

 

Cittadini!

 

Da cinque giorni noi siamo rivestiti d'un sacro mandato dall'Assemblea. Abbiamo maturamente interrogato le condizioni del paese, quelle della patria comune, l'Italia, i desiderî dei buoni, e la nostra coscienza; ed è tempo che il popolo oda una voce da noi; è tempo che per noi si dica con quali norme generali noi intendiamo soddisfare al mandato.

Provvedere alla salute della repubblica; tutelarla dai pericoli interni ed esterni; rappresentarla degnamente nella guerra dell'indipendenza: questo è il mandato affidatoci.

E questo mandato significa per noi non solamente venerazione a una forma, a un nome, ma al principio rappresentato da quel nome, da quella forma governativa; e quel principio è per noi un principio d'amore, di maggiore incivilimento, di progresso fraterno con tutti e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per la universalità dei cittadini. La bandiera repubblicana inalzata in Roma dai rappresentanti del popolo non esprime il trionfo d'una frazione di cittadini sopra un'altra; esprime un trionfo comune, una vittoria riportata da molti, consentita dalla immensa maggiorità, del principio del bene su quello del male, del diritto comune sull'arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che Dio decretava a tutte le anime, sul privilegio e sul dispotismo. Noi non possiamo essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori dei poteri rovesciati per sempre.

Libertà e Virtù, Repubblica e Fratellanza devono essere inseparabilmente congiunte. E noi dobbiamo darne l'esempio all'Europa. La repubblica in Roma è un programma italiano: una speranza, un avvenire pei ventisei milioni d'uomini fratelli nostri. Si tratta di provare all'Italia e all'Europa che il nostro grido Dio e il Popolo non è una menzogna - che l'opera nostra è in sommo grado religiosa, educatrice, morale - che false sono le accuse d'intolleranza, d'anarchia, di sommovimento avventate alla santa bandiera, e che noi procediamo, mercè il principio repubblicano, concordi come una famiglia di buoni, sotto il guardo di Dio e dietro alle inspirazioni dei migliori per Genio e Virtù, alla conquista dell'ordine vero, Legge e Forza associate.

Così intendiamo il nostro mandato. Così speriamo che tutti i cittadini lo intenderanno a poco a poco con noi. Noi non siamo governo di un partito; ma governo della nazione. La nazione è repubblicana. La nazione abbraccia quanti in oggi professano sinceri la fede repubblicana, compiange ed educa quanti non ne intendono la santità; schiaccia nella sua onnipotenza di sovranità quanti tentassero violarla con ribellione aperta o mene segrete provocatrici di risse civili.

intolleranza, debolezza. La repubblica è conciliatrice ed energica. Il governo della repubblica è forte; quindi non teme; ha missione di conservare intatti i diritti e libero il compimento dei doveri d'ognuno: quindi non s'inebria di una vana e colpevole securità. La nazione ha vinto; vinto per sempre. Il suo governo deve avere la calma generosa e serena e non deve conoscere gli abusi della vittoria. Inesorabile quanto al principio, tollerante e imparziale cogli individui: codardo provocatore: tale dev'essere un governo per esser degno dell'instituzione repubblicana.

Economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati; capacità, accertata dovunque si può per concorso, messa a capo di ogni ufficio, nella sfera amministrativa.

Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità, attribuzione d'ogni denaro del paese all'utile del paese, esigenza inviolabile d'ogni sacrificio ovunque le necessità del paese la impongano.

Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio, d'artificio, o di resistenza passiva, dissolvente o procacciante alterarlo.

Poche e caute leggi; ma vigilanza decisa sull'esecuzione.

Forza e disciplina d'esercito regolare sacro alla difesa del paese, sacro alla guerra della nazione per l'indipendenza e per la libertà dell'Italia.

Sono queste le basi generali del nostro programma: programma che riceverà da noi sviluppo più o meno rapido a seconda dei casi, ma che, intenzionalmente, noi non violeremo giammai.

Recenti nel potere, circondati d'abusi spettanti al governo caduto, arrestati a ogni passo dagli effetti dell'inerzia e delle incertezze altrui, noi abbiamo bisogno di tolleranza da tutti; bisogno sovra ogni cosa che nessuno ci giudichi fuorchè sulle opere nostre. Amici a quanti vogliono il bene della patria comune, puri di core se non potenti di mente, collocati nelle circostanze più gravi che sieno mai toccate ad un popolo e al suo governo, noi abbiamo bisogno del concorso attivo di tutti, del lavoro concorde, pacifico, fraterno di tutti. E speriamo d'averlo. Il paese non deve può retrocedere: non deve vuole cadere nell'anarchia. Ci secondino i buoni; Dio, che ha decretato Roma risorta e l'Italia nazione, ci seconderà.

 

5 aprile 1849.

 

 

 

III.

 

Considerando che dovere e tutela di una bene ordinata repubblica è il provvedere al progressivo miglioramento delle classi più disagiate;

Considerando che tra i primi miglioramenti è quello di emancipare molte famiglie dai danni di abitazioni troppo ristrette e insalubri;

Considerando che mentre la repubblica studierà modo di destinare locali, tanto in Roma, che nelle provincie, ad uso delle famiglie indigenti, è opera intanto di moralità repubblicana cancellare le vestigia dell'iniquità, consacrando a beneficenza quanto la passata tirannide destinava a tormento, l'Assemblea Costituente, proponenti i Triumviri, decreta:

1.° L'edificio, che già serviva al Santo Ufficio, resta fin d'ora destinato ad abitazione di famiglie o individui che vi saranno alloggiati contro tenui pigioni mensili e posticipate.

2.° È instituita una commissione, composta di tre rappresentanti del popolo e due ingegneri civili, per provvedere sollecitamente alla esecuzione del presente decreto:

a) Ricevendo le instanze delle famiglie e degli individui di Roma, che chiedessero alloggio nel suddetto locale, e secondando di preferenza le domande di chi saprà comprovare maggiori bisogni.

b) Facendo eseguire nel locale quei lavori d'innovazione, che troverà necessarî per renderlo adatto alla nuova destinazione.

c) Fissando mano mano a coloro, di cui saranno secondate le instanze, i locali di abitazione, determinando la pigione che dovranno pagare gli alloggiati, e mettendoli in fatti nel possesso del rispettivo alloggio.

d) Formulando un regolamento per l'interna disciplina del locale, per la regolare gestione amministrativa, e per la conservazione del medesimo.

3.° Non potranno aver luogo in nessun tempo e in nessun modo i subaffitti delle accennate abitazioni.

4.° La commissione, incominciando dal giorno 9 corrente, siederà nel locale suddetto per dare immediato adempimento al proprio mandato.

 

14 aprile 1849.

 

 

 

IV.

 

Considerando che a rendere più prezioso il lavoro agricolo, sollevare una classe numerosa benemerita e mal retribuita, affezionarla alla patria ed al buono ordinamento della grande riforma, promoverne la moralità e il benessere materiale, migliorare in una parola ugualmente il suolo e gli uomini colla emancipazione dell'uno e degli altri, non v'è spediente più congruo e urgente di quello di ripartire una grande porzione della vasta possidenza rustica, posta o da porsi sotto amministrazione demaniale, dividendola in piccole porzioni enfiteutiche da assegnarsi ciascuna, sotto un discreto censo annuo a favore dello Stato, in ogni tempo redimibile, a una o a poche famiglie dei più poveri coltivatori, con quelle regole e condizioni che si stabiliranno per la più pronta, ed insieme più giusta e stabile esecuzione d'un disegno così salutare, è decretato:

Art. 1.° Una grande quantità de' beni rustici provenienti dalle corporazioni religiose, o altre mani-morte di qualsivoglia specie, che in tutto il territorio della repubblica sono o saranno posti sotto amministrazione del Demanio, verranno nel più breve termine ripartiti in tante porzioni sufficienti alla coltivazione di una o più famiglie del popolo sfornite d'altri mezzi, che le riceveranno in enfiteusi libera e perpetua col solo peso di un discreto canone verso l'amministrazione suddetta, il quale sarà essenzialmente e in ogni tempo redimibile dall'enfiteuta.

Art. 2.° Un regolamento particolare specificherà distintamente il modo di procedere all'attuazione di questa salutare provvidenza.

Art. 3.° Sui fondi urbani altresì, della stessa provenienza e qualità, verranno prese analoghe misure ad oggetto di rendere più comodo e meno dispendioso l'alloggio del povero.

Art. 4.° Rimangono ferme le disposizioni annunciate sulla congrua dotazione del culto, del ministero pastorale dei parrochi e degli stabilimenti di pubblico interesse, sia coi beni in natura, sia col prodotto delle corrisponsioni enfiteutiche, sia con altri mezzi del pubblico, del provinciale e del municipale patrimonio.

I ministri delle finanze e dell'interno sono incaricati, ciascuno rispettivamente, della esecuzione della presente legge.

 

15 aprile 1849.

 

 

 

V.

 

Considerando:

Che intento continuo delle instituzioni repubblicane dev'essere un miglioramento progressivo nelle condizioni economiche dei più;

Che il prezzo alto del sale reca offesa all'agricoltura, alla pastorizia, alla pesca, alla mezzana e piccola industria, ai commerci e alla salute del povero;

Che il modo attuale di percezione dell'imposta sul sale concentra ingiustamente nelle mani di un solo affittuario tutti i beneficî che il libero commercio di quella derrata procaccierebbe alla mezzana e piccola industria;

Che ogni affitto delle rendite pubbliche, costituendo uno Stato nello Stato, equivale ad uno smembramento della sovranità, e accenna a una incapacità del governo d'amministrare da per stesso gli interessi sociali;

Il Triumvirato decreta:

Art. 1.° È abolito l'appalto dei sali noto col nome di Amministrazione cointeressata.

Art. 2.° La tassa sul sale di ogni genere è fissata ad un bajocco per ogni libbra romana.

Art. 3.° Il Triumvirato provvederà, all'uopo mediante requisizione del materiale e delle scorte, ad assicurare che non venga interrotto il servizio pubblico.

Art. 4.° Il Triumvirato provvederà pure a che l'esazione del dazio non sia d'impedimento alla libera produzione ed al libero commercio del sale.

Le ragioni dell'attuale amministrazione saranno prese in considerazione pei compensi che fossero riconosciuti di diritto dietro regolare e generale liquidazione, da operarsi da una commissione nominata dai rappresentanti del popolo.

Il presente decreto avrà esecuzione dopo 24 ore dalla sua pubblicazione in ogni punto della repubblica.

I ministri dell'interno e delle finanze sono incaricati, per ciò che li riguarda, dell'esecuzione del presente decreto.

 

15 aprile 1849.

 

 

 

VI.

 

Romani!

 

Un intervento straniero minaccia il territorio della repubblica. Un nucleo di soldati francesi s'è presentato davanti a Civitavecchia.

Qualunque ne sia l'intenzione, la salvezza del principio liberamente consentito dal popolo, il diritto delle nazioni, l'onore del nome romano, comandano alla repubblica di resistere.

La repubblica resisterà. È necessario che il popolo provi alla Francia e al mondo che non è popolo di fanciulli, ma popolo d'uomini e d'uomini che un tempo diedero leggi e incivilimento all'Europa. È necessario che nessuno possa dire: i Romani vollero, ma non seppero essere liberi. È necessario che la nazione francese impari, dalla nostra resistenza, dalle nostre dichiarazioni, dal nostro contegno, la ferma nostra decisione di non soggiacere più mai al governo aborrito che rovesciammo.

Il popolo lo proverà. Chi pensa altrimenti disonora il popolo e tradisce la patria.

L'Assemblea è in permanenza. Il Triumvirato adempirà, checchè avvenga, al proprio mandato.

Ordine, calma solenne, energia concentrata. Il governo vigila inesorabile su qualunque tentasse di travolgere il paese nell'anarchia o d'operare a danno della repubblica.

Cittadini, ordinatevi, stringetevi intorno a noi; Dio e il Popolo, la legge e la forza trionferanno.

 

25 aprile 1849.

 

(Stesi a un tempo la protesta che l'Assemblea costituente mandò lo stesso giorno al generale Oudinot.)

L'Assemblea romana, commossa dalla minaccia d'invasione del territorio della repubblica, conscia che questa invasione, non provocata dalla condotta della repubblica verso l'estero, non preceduta da comunicazione alcuna da parte del governo francese, eccitatrice di anarchia in un paese che tranquillo e ordinato riposa nella coscienza dei proprî diritti e nella concordia dei cittadini, viola a un tempo il diritto delle genti, gli obblighi assunti dalla nazione francese nella sua costituzione e i vincoli di fratellanza che dovrebbero naturalmente annodare le due repubbliche, protesta in nome di Dio e del Popolo contro l'inattesa invasione, dichiara il suo fermo proposito di resistere e rende mallevadrice la Francia di tutte le conseguenze.

 

 

 

VII.

 

Considerando che i voti religiosi non costituiscono se non una relazione morale tra la coscienza e Dio;

Considerando che la società civile non può, quanto a stessa, intervenire coi suoi mezzi d'azione estrinseci e materiali nella sfera dei doveri spirituali;

Considerando che la vita e le facoltà dell'uomo appartengono di diritto alla società e al paese in cui la provvidenza lo ha posto;

Considerando che la società non può riconoscere promesse irrevocabili che le involano e restringono in certi limiti la volontà e l'azione dell'uomo;

Il Triumvirato decreta:

La società non riconosce perpetuità di voti particolari ai differenti ordini religiosi così detti regolari.

È in facoltà d'ogni individuo, facente parte di un ordine religioso regolare qualunque, di sciogliersi da quelle regole all'osservanza delle quali s'era obbligato con voto entrando in religione.

Lo Stato protegge contro ogni opposizione o violenza le persone che intendessero profittare del presente decreto.

Lo Stato accoglierà con gratitudine tra le file delle sue milizie quei religiosi che vorranno colle armi difendere la patria, per la quale finora hanno inalzato preghiere a Dio.

Il presente decreto verrà letto da un commissario governativo a tutti i religiosi riuniti in piena comunità nei rispettivi conventi.

 

27 aprile 1849.

 

 

 

VIII.

 

(Il decreto del 15 aprile aveva promesso di ripartire gran parte delle terre incolte appartenenti a corporazioni religiose od a manimorte e divenute, per decisione dell'Assemblea del 21 febbrajo, proprietà della Repubblica. Il decreto seguente provvedeva alla esecuzione.)

Il Triumvirato decreta:

Art. 1.° Ogni famiglia povera, composta almeno di tre individui, avrà a coltivazione una quantità di terra capace del lavoro di un pajo di buoi, corrispondente ad un buon rubbio romano, cioè due quadrati censuarî, pari a metri quadrati ventimila.

Art. 2.° I vigneti saranno dati a coltura all'individuo senza che sia richiesta la famiglia, e verranno divisi in ragione della metà della indicata misura.

 

27 aprile 1849.

 

 

 

IX.

 

Credendo nelle generose virtù dei Romani come nel loro valore;

Conscî che, sebbene deciso a difendere fino agli estremi contro ogni invasione l'indipendenza della sua terra, il popolo di Roma non rende mallevadore il popolo di Francia degli errori e delle colpe del suo governo;

Fidando illimitatamente nel popolo e nella santità del principio repubblicano;

Il Triumvirato decreta:

Gli stranieri, e segnatamente i Francesi dimoranti pacificamente in Roma, sono posti sotto la salvaguardia della nazione.

Sarà considerato come reo di leso onore romano qualunque proponesse far loro oltraggio o molestia.

Il governo invigilerà a che nessun d'essi trasgredisca i doveri dell'ospitalità.

 

28 aprile 1849

 

 

 

X.

 

Romani!

 

Un corpo d'esercito napoletano, trapassate le frontiere, accenna muovere alla volta di Roma.

Suo intento è ristabilire il papa padrone assoluto nel temporale. Sue armi sono la persecuzione, la ferocia, il saccheggio. S'asconde tra le sue file il re, al quale l'Europa ha decretato il nome di Bombardatore dei proprî sudditi. E gli stanno intorno i più inesorabili fra i cospiratori di Gaeta.

Romani! Noi abbiamo vinto i primi assalitori; noi vinceremo i secondi.

Il sangue dei migliori tra i patrioti napoletani, il sangue dei nostri fratelli della Sicilia, pesano sulla testa del re traditore. Dio, che accieca i perversi, e forza ai difensori del diritto, vi sceglie, o Romani, a vendicatori.

Sia fatta la volontà della patria e di Dio!

In nome dei diritti che spettano ad ogni paese, in nome dei doveri che spettano a Roma verso l'Italia e l'Europa - in nome delle madri italiane che hanno maledetto a quel re, e delle madri romane che benediranno ai difensori dei loro figli - in nome della nostra libertà, del nostro onore, della nostra coscienza - in nome di Dio e del Popolo - resisteremo. Resisteremo, milizia e popolo, capitale e provincia. Sia Roma inviolabile come l'eterna giustizia. Noi abbiamo imparato che basta per vincere il non temer di morire. Viva la Repubblica!

 

2 maggio 1849.

 

 

 

XI.

 

Popoli della Repubblica!

 

Le truppe napoletane hanno invaso il vostro terreno, e marciano su Roma.

Cominci la guerra del popolo.

Roma farà il suo dovere. Le provincie facciano il loro.

Il momento è giunto per uno sforzo supremo. Per quanti credono nella dignità dell'anima loro immortale, nell'inviolabilità dei loro diritti, nella santità dei giuramenti, nella giustizia della repubblica, nell'indipendenza dei popoli, nell'onore italiano, è debito in oggi l'agire. Per quanti hanno a cuore la propria libertà, le proprie case, la famiglia, la donna dell'amor suo, la terra nativa, la vita, l'agire è necessità. Vita, libertà, averi, diritti, ogni cosa, cittadini, v'è minacciata, ogni cosa vi sarà tolta.

Il re di Napoli inalza per noi la bandiera del dispotismo, della tirannide illimitata. I primi suoi passi sono segnati di sangue.

A caratteri di sangue sono scritte le liste di proscrizione.

Voi avete per troppo lungo tempo parlato, mentre gli altri spiavano e registravano. Non v'illudete. Oggi la scelta sia per voi tra il patibolo, la miseria, l'esilio o il combattere e vincere. Popoli della repubblica, ogni incertezza, ogni esitazione sarebbe viltà, e viltà senza frutto.

Sorgete dunque e operate; l'ora che decide è suonata. Schiavitù, quale non l'aveste giammai, o libertà degna delle antiche glorie, lunga securità, ammirazione di tutta l'Europa. Sorgete ed armatevi. Sia guerra universale, inesorabile, rabbiosa, poich'essi la vogliono. E sarà breve.

Mentre Roma assalirà il nemico di fronte, recingetelo, molestatelo ai fianchi, alle spalle.

Roma sia il nucleo dell'esercito nazionale del quale voi formerete le squadre.

Resistete dovunque potete. Dovunque la difesa locale non è concessa, i buoni escano in armi: ogni cinquanta uomini formino una banda; ogni dieci una squadra nazionale; ogni uomo di non dubbia fede, che raccoglie i dieci, i cinquanta, sia capo. La repubblica darà premio e riconoscenza. Ogni preside diriga i centri d'insurrezione, inciti, ordini, rilasci brevetti di capibanda o di capisquadra. La repubblica terrà conto dei nomi, e retribuirà in danari, terreni ed onori. Il brevetto serva come foglio di via, che i comuni, soccorrendo, vidimeranno.

E tutte le bande, tutte le squadre, tormentino, fuggendone l'urto, il nemico; gli rapiscano i sonni, i viveri, gli sbandati, la fiducia; gli stendano intorno una rete di ferro che si restringa, lo comprima ne' suoi moti e lo spenga.

L'insurrezione diventi per poco la vita normale, il palpito, il respiro d'ogni patriota. I tiepidi siano puniti d'infamia, i traditori di morte.

Come fu grande in pace, sorga la repubblica terribile in guerra. Impari l'Europa che vogliamo e possiamo vivere. Dio e il Popolo benedicano l'armi nostre.

 

3 maggio 1849.

 

 

 

XII.

 

Romani!

 

Disordini rari ma gravi, cominciamenti di devastazione, atti offensivi alla proprietà, minacciano la calma maestosa, colla quale Roma ha santificato la sua vittoria. Per l'onore di Roma, pel trionfo del santo principio che noi difendiamo, bisogna che questi disordini cessino.

Ogni cosa dev'essere grande in Roma: l'energia del combattimento, e il contegno del popolo dopo la vittoria.

Le armi degli uomini che vivono, ricordevoli dei padri, fra queste eterne memorie, non possono appuntarsi a petti inermi o proteggere atti arbitrarî. Il riposo di Roma dev'essere come quello del leone: riposo solenne com'è terribile il suo ruggito.

Romani! I vostri Triumviri hanno preso solenne impegno di mostrare all'Europa che voi siete migliori di quei che vi assalgono: - che ogni accusa scagliatavi contro è calunnia: - che il principio repubblicano ha qui spento quei semi d'anarchia fomentati dal governo passato, e che il ripristinamento del passato potrebbe solo rieducare: - che voi siete non solamente prodi, ma buoni: - che forza e legge sono tra voi l'anima della repubblica.

A questi patti i vostri Triumviri rimarranno orgogliosi alla vostra testa; a questi patti combatteranno, occorrendo, tra le barricate cittadine con voi. Rimangano inviolabili come l'amore che lega governo e popolo, irrevocabili come il proposito comune a governo e popolo di mantenere illesa e pura d'ogni benchè menoma macchia la bandiera della repubblica.

Le persone sono inviolabili. Il governo solo ha diritto e dovere di punizione.

Le proprietà sono inviolabili. Ogni pietra di Roma è sacra. Il governo solo ha diritto e dovere di modificare l'inviolabilità delle proprietà quando il bene del paese lo esiga.

A nessuno è concesso procedere ad arresti o perquisizioni domiciliari senza la direzione o assistenza d'un capo-posto militare.

Gli stranieri sono specialmente protetti dalla repubblica. Tutti i cittadini sono moralmente mallevadori della verità della protezione.

La commissione militare instituita giudica rapidamente, come i casi eccezionali e la salute del popolo esigono, tutti i fatti di sedizione di riazione, d'anarchia, di violazione di leggi.

La guardia nazionale, come ha provato esser pronta a combattere valorosamente per la salvezza della repubblica, proverà esser pronta a mantenerne intatto, in faccia all'Europa, l'onore. Ad essa segnatamente è fidata la custodia dell'ordine, e l'esecuzione delle norme qui sopra esposte.

 

4 maggio 1849.

 

 

 

XIII.

 

Considerando che tra il popolo francese e Roma, non è, può essere stato di guerra;

Che Roma difende per diritto e dovere la propria inviolabilità; ma deprecando, siccome colpa contro la comune credenza, ogni offesa fra le due repubbliche;

Che il popolo romano non rende mallevadore dei fatti d'un governo ingannato i soldati che, combattendo, ubbidirono;

Il Triumvirato decreta:

Art. 1.° I Francesi, fatti prigionieri nella giornata del 30 aprile, sono liberi, e verranno inviati al campo francese.

Art. 2.° Il popolo romano saluterà di plauso e dimostrazione fraterna, a mezzo giorno, i prodi soldati della repubblica sorella.

 

7 maggio 1849.

 

 

 

XIV.

 

Soldati della repubblica francese!

 

Per la seconda volta voi siete spinti, come nemici, sotto le mura di Roma, della città repubblicana che fu culla un tempo di libertà e di valore nell'armi.

È fratricidio quello che vi comandano i vostri capi.

E quel fratricidio, se potesse mai consumarsi, sarebbe colpa mortale alla libertà della Francia. I popoli sono mallevadori l'uno per l'altro. La repubblica, spenta fra noi, porrebbe una macchia incancellabile sulla vostra bandiera, rapirebbe alla Francia un alleato in Europa, sarebbe un nuovo passo inoltrato sulla via della ristorazione monarchica, verso la quale un governo ingannatore o ingannato spinge la bella e grande vostra patria.

Roma dunque combatterà come ha combattuto. Essa sa di combattere per la sua libertà e per la vostra.

Soldati della repubblica francese, mentre voi movete ad assalto contro la nostra bandiera tricolore, i Russi, gli uomini del 1815, movono contro l'Ungheria e sognano di Francia.

Poche miglia da voi, un corpo napoletano, vinto pochi giorni addietro da noi, tiene sollevata una bandiera di dispotismo e d'intolleranza. Poche leghe da voi, sulla vostra sinistra, una città repubblicana, Livorno, resiste, mentre noi vi parliamo, all'invasione austriaca. è il vostro posto.

Dite ai vostri capi d'attenervi ciò che vi dissero. Ricordate loro che vi promisero, in Marsiglia e in Tolone, di farvi combattere contro i Croati. Ricordate loro che il soldato francese porta sulla punta della bajonetta l'onore e la libertà della Francia. Soldati francesi! Soldati della libertà! Non movete contro uomini che vi sono fratelli. Le nostre battaglie sono le vostre. Possano le due bandiere tricolori intrecciarsi e movere unite all'emancipazione dei popoli e alla distruzione della tirannide! Dio, la Francia e l'Italia benediranno all'armi vostre.

Viva la repubblica francese! Viva la repubblica romana!

 

10 maggio 1849.

 

 

 

XV.

 

Lettera al signor Lesseps

inviato plenipotenziario della repubblica francese.

 

Signore,

 

Voi ci chiedete alcune note sulle condizioni presenti della repubblica romana. Le avrete da me, dettato con quella sincerità che fu, in venti anni di vita politica, mia norma inviolabile. Noi non abbiamo bisogno di nascondere o mascherar cosa alcuna. Fummo, in questi ultimi tempi, segno di strane calunnie in Europa: ma noi dicemmo sempre agli uomini che udivano le calunnie: Venite e osservate. Voi siete ora, signore, fra noi; siete mandato a verificare la realtà delle accuse: fatelo. La vostra missione può compirsi con libertà illimitata. La salutammo noi tutti con gioja, perchè essa non può che giustificarci.

La Francia non intende, senza dubbio, contenderci il diritto di governarci come a noi piace, il diritto di trarre, per così dire, dalle viscere del paese il pensiero regolatore della sua vita e porlo a base delle nostre instituzioni. La Francia non può che dirci: «Riconoscendo la vostra indipendenza, io debbo accertare ch'essa esce dal voto libero e spontaneo della maggioranza. Collegata coi governi d'Europa e desiderosa di pace, se fosse vero che una minoranza soggioga tra voi le tendenze nazionali - se fosse vero che la forma attuale del vostro governo non è se non il pensiero capriccioso d'una fazione sostituito al pensiero comune, io non potrei vedere con indifferenza la pace d'Europa messa continuamente a rischio dalle passioni e dall'anarchia inseparabili ad ogni governo di fazione».

Noi concediamo questo diritto alla Francia, perchè crediamo alla solidarietà delle nazioni pel bene. Ma affermiamo a un tempo che se fu mai governo escito dal voto della maggioranza, quel governo è il nostro.

La repubblica s'impiantò fra noi per volontà d'un'Assemblea escita dal suffragio universale; fu accettata con entusiasmo per ogni dove; in nessun luogo fu combattuta. E notate, signore, che rare volte l'opposizione fu così facile e poco pericolosa; direi anzi così provocata, non dagli atti, ma dalle circostanze singolarmente sfavorevoli nelle quali la repubblica si trovò collocata nei primi suoi giorni.

Il paese esciva da una lunga anarchia di poteri inseparabile dall'interno ordinamento del governo caduto. Le agitazioni inevitabili in ogni grande trasformazione e a un tempo fomentate dalla crisi della questione italiana e dagli sforzi di parte retrograda, lo avevano cacciato in un eccitamento febbrile che apriva il campo ad ogni ardito tentativo, ad ogni cosa che suscitasse interessi e passioni. Non avevamo esercito, non forza capace di reprimere; e in conseguenza degli abusi anteriori, le nostre finanze erano impoverite, esaurite. La questione religiosa, maneggiata da uomini capaci e interessati a trarne tutto il partito possibile, era facile pretesto a torbidi con un popolo dotato di splendidi istinti e di aspirazioni generose, ma intellettualmente poco educato. E nondimeno, proclamato appena il principio repubblicano, un primo fatto innegabile sottentrò a quelle condizioni pericolose: l'ordine. La storia del governo papale offre sommosse frequenti, periodiche: la storia della repubblica non ne ha una sola. L'uccisione di Rossi, fatto deplorabile ma isolato, eccesso individuale rifiutato, condannato universalmente, provocato forse da una condotta imprudente, d'origine a ogni modo ignota, fu seguito dall'ordine più mirabile237.

La crisi finanziaria intanto saliva. Raggiri colpevoli riuscirono a far cadere di tanto il credito della carta della repubblica, da non potersi scontare se non al 41 o al 42 per %. Il contegno dei governi d'Italia e d'Europa si fece sempre più ostile. Difficoltà materiali e isolamento politico non valsero a turbare la calma di questo popolo. Era in esso una fede incrollabile nel futuro che doveva escire dal nuovo principio.

Ed oggi, di mezzo alla crisi, di fronte all'invasione francese, austriaca, napoletana, il nostro credito si rafforza; la nostra carta non soggiace che allo sconto del 12 per %; il nostro esercito ingrossa di giorno in giorno; e le popolazioni s'apprestano a farci riserva. Voi vedete Roma, signore, e sapete l'eroica lotta or sostenuta da Bologna. Io scrivo solo, di notte, in seno a una città profondamente tranquilla. Le milizie che custodivano Roma l'abbandonarono jersera per compire una impresa; e innanzi all'arrivo d'altre milizie, che non ebbe luogo se non a mezzanotte, le nostre porte, le nostre mura, le nostre barricate erano, in conseguenza d'un semplice avviso trasmesso, guardate, senza romore o millanteria, dal popolo in armi. Vive in core a questo popolo una profonda determinazione: il decadimento della potestà temporale attribuita al papa; l'odio del governo pretesco sotto qualunque forma, anche temperatissima, esso tenti di riproporsi; l'odio, io dico, non agli uomini, ma al governo. Verso gli individui il nostro popolo, dall'impianto della repubblica fino ad oggi, s'è mostrato, la Dio mercè, generoso; ma la sola idea del governo clericale del re pontefice lo fa fremere. Combatterà energicamente ogni disegno di ristorazione: si travolgerà nello scisma anzichè subirlo.

In conseguenza d'oscure minaccie, ma segnatamente del difetto d'abitudini politiche, un certo numero di elettori non avea contribuito alla formazione dell'Assemblea. E quel fatto sembrava indebolire l'espressione del voto generale. Un secondo fatto decisivo, vitale, rispose poc'anzi ai dubbi possibili. Poco tempo innanzi alla costituzione del Triumvirato, si rieleggevano i municipî. L'universalità degli elettori si accostò all'urne. Dovunque e sempre l'elemento municipale rappresentò l'elemento conservatore dello Stato. Taluni paventavano che tra noi s'insinuasse in esso uno spirito di retrogressione. Or bene, sotto il rugghio della tempesta, iniziato già l'intervento, mentre le apparenze accennavano a una vita di giorni per la repubblica, esciva dai municipî l'adesione più spontanea, più unanime alla forma scelta. Agli indirizzi dei Circoli e dei Comandi della guardia nazionale s'unirono nella prima metà di questo mese i municipî tutti, da due o tre infuori. Io ebbi l'onore di trasmettervene la lista, o signore.

Essi dichiararono devozione esplicita alla repubblica e convincimento che i due poteri sono incompatibili in un solo individuo. È questo, concedetemi di ripeterlo, un fatto decisivo; una seconda prova legale confermante la prima e fondamento irrecusabile al nostro diritto.

Quando le due questioni - repubblica e abolizione della potestà temporale - furono poste all'Assemblea, alcuni fra i membri, più timidi dei loro colleghi, stimarono che l'inaugurazione della forma repubblicana fosse prematura e di fronte agli ordini attuali d'Europa pericolosa: non un solo votò contro il decadimento del papa re, destra e sinistra si confusero in un solo pensiero.

A popolo siffatto oserebbe un governo libero comandare, senza delitto e contradizione, il ritorno al passato? Quel ritorno, pensateci bene, signore, equivarrebbe a un ripristinamento dell'antico disordine, delle società segrete consacrate alla lotta, dell'anarchia nel core d'Italia, della vendetta innestata in un popolo che oggi non chiede se non d'obliare. Quel ritorno sarebbe una fiamma di guerra permanente in Europa, un programma di partiti estremi sostituito al governo repubblicano ordinato ch'oggi rappresentiamo. Può voler questo la Francia? Lo può il suo governo? Lo può un nipote di Napoleone? La persistenza in un disegno ostile di fronte alla doppia invasione napoletana ed austriaca ricorderebbe lo smembramento della Polonia. E pensate inoltre, signore, che disegno siffatto non potrebbe compirsi fuorchè risollevando la bandiera238 che il popolo rovesciò sopra un cumulo di cadaveri e sulle rovine delle nostre città.

Riceverete fra poco, signore, una seconda mia lettera sulla questione...

 

16 maggio 1849.

 

 

 

XVI.

 

(Lettera che accompagnava il rifiuto delle tre proposte di Lesseps:

 

I. Gli Stati romani chiedono protezione fraterna dalla repubblica francese:

II. Le popolazioni romane hanno diritto di pronunziarsi liberamente sulla forma del loro governo:

III. Roma accoglierà l'esercito francese come esercito di fratelli, ecc.)

 

Signore,

 

Abbiamo l'onore di trasmettervi la decisione dell'Assemblea concernente il progetto da voi comunicato alla sua commissione. L'Assemblea non ha creduto di poter accettarlo. Essa c'incarica d'esprimervi a un tempo le ragioni dell'unanime suo voto e il rincrescimento ch'essa ne prova.

Ed è pure con profonda mestizia, naturale a uomini che amano la Francia e pongono tuttavia fede in essa, che noi compiamo con voi, signore, la missione affidataci.

Quando dopo la decisione della vostra Assemblea che invitava il governo a far sì, senza indugio, che la spedizione d'Italia non si sviasse più oltre dal fine assegnatole, noi sapemmo del vostro arrivo, ci balzò il core per gioja. Credemmo nella immediata riconciliazione, in un solo principio proclamato da voi e da noi, tra due popoli, ai quali tendenze naturalmente amichevoli, ricordi, interessi comuni e condizione politica comandano stima e amore. Pensammo che, scelto a verificare la condizione delle cose e colpito dall'accordo assoluto che annoda in un solo pensiero quasi tutti gli elementi del nostro Stato, voi avreste coi vostri ragguagli distrutto il solo ostacolo possibile ai nostri voti, il solo dubbio che potesse ancora indugiare la Francia nel compimento del nobile pensiero espresso dalla decisione della vostra Assemblea.

Concordia, pace interna, determinazione ponderata, entusiasmo, generosità di condotta, voto spontaneo e formale dei municipî, della guardia nazionale, delle truppe, del popolo, del governo e dell'Assemblea sovrana in favore del sistema d'instituzioni esistente, tutto questo v'è riuscito evidente; voi lo diceste, non ne dubitiamo, alla Francia; e speravamo quindi a buon dritto che, parlando in nome della Francia, voi avreste con noi proferite parole diverse da quelle che formano il vostro progetto.

L'Assemblea ha notato il modo col quale la parola repubblica romana è studiosamente evitata nel primo vostro articolo; e ha indovinato in quel silenzio una intenzione sfavorevole ad essa.

Parve all'Assemblea che, dalla maggiore importanza in fuori data dal vostro nome e dalla vostra autorità al progetto, non fosse quasi in esso più che non in alcuni atti del generale prima della giornata del 30 aprile. Accertata una volta in modo innegabile l'opinione del popolo, perchè insistere ad affrontarla coll'occupazione di Roma? Roma non ha bisogno di protezione: nessuno combatte nella sua cerchia; e se un nemico si presentasse appiè delle mura, Roma saprebbe resistergli con forze proprie. Roma può in oggi proteggersi sulla frontiera toscana e in Bologna! L'Assemblea ha dunque intravveduto egualmente nel vostro terzo articolo un pensiero politico, inaccettabile da essa oggi, tanto più che il decreto dell'Assemblea francese sembra risolutamente avverso a una occupazione non provocata, non richiesta dalle circostanze.

Noi non vi nasconderemo, signore, come la funesta coincidenza di una relazione risguardante la cinta di difesa contribuisse alla decisione dell'Assemblea. Un nucleo di soldati francesi varcava, in questo stesso giorno e violando lo spirito della tregua, il Tevere presso a San Paolo, stringendo sempre più in tal modo il cerchio delle operazioni militari intorno alla capitale. E non è questo, signore, un atto isolato. La diffidenza del popolo, già suscitata dal pensiero di veder la propria città occupata da truppe straniere, s'è intanto accresciuta, e sarebbe difficile, forse impossibile, una transazione su cose che l'Assemblea considera da canto suo come pegno vitale d'indipendenza e di dignità.

Per queste e altre ragioni, il progetto fu, comunque a malincuore, giudicato inammissibile dall'Assemblea. Noi avremo l'onore di trasmettervi domani, signore, conformemente alle sue intenzioni, una proposta inferiore di certo alle nostre giuste speranze, ma che avrebbe non foss'altro il vantaggio d'allontanare ogni pericolo di collisione tra due repubbliche fondate su diritti identici e congiunte da simili aspirazioni.

Accettate, signore, ecc.

 

19 maggio 1849.

 

 

 

XVII.

 

Romani!

 

Parecchî fra voi, in un moto di zelo irriflessivo, promosso da sentori di nuovi pericoli, hanno jeri posto mano, disegnando farne arnesi di barricate, sopra alcuni confessionali appartenenti alle chiese.

L'atto sarebbe grave e punibile, se noi non conoscessimo le vostre intenzioni.

Voi avete creduto, con quella dimostrazione, dar nuova testimonianza che ogni cosa è oggimai possibile in Roma, fuorchè il ripristinamento del governo sacerdotale caduto. Avete voluto esprimere il pensiero che non è, può essere vera religione, dove non è patria libera; e che oggi la causa della religione vera, la causa dell'anime nostre libere, immortali, si concentra tutta sulle barricate cittadine.

Ma i nemici della nostra santa repubblica vegliano in ogni parte dell'Europa a interpretar male i vostri atti, e ad accusare il popolo d'irreverenza e d'irreligione. Tradirebbe la patria chi fornisse motivo a siffatte accuse.

Romani! La città vostra è grande e inviolabile fra tutte le città d'Europa, perchè fu culla e conservatrice di religione. Dio protegge e proteggerà la repubblica, perchè il santo suo nome non è mai scompagnato dalla parola popolo, e perchè da noi si combatte per la sua legge d'amore e di libertà, mentre altrove si combatte per interessi e ambizioni, che profanano e ruinano ogni credenza. In quelle chiese, santuario della religione dei nostri padri, s'inalzeranno, mentre combatteremo, preghiere al Dio dei redenti.

Da quei confessionali, d'onde pur troppo uscirono talvolta, violazioni del mandato di Cristo, insinuazioni di corruttela e di servitù, esce pure, non lo dimenticate, la parola consolatrice alle vecchie madri dei combattenti per la repubblica.

Fratelli nostri nella causa benedetta da Dio e dal Popolo! I vostri triumviri esigono da voi una prova di fiducia che risponda alle accuse, conseguenza d'un atto imprudente. Riconsegnate voi stessi alle chiese i confessionali che jeri toglieste. Le barricate cittadine avranno difesa dai nostri petti239.

 

20 maggio 1849.

 

 

 

XVIII.

 

Popoli della repubblica!

 

L'austriaco inoltra - Bologna è caduta: caduta dopo otto giorni sublimi di battaglia e di sagrificî: caduta com'altri trionfa. Sia l'ultimo suo grido di guerra e vendetta per tutti noi: chi ha core italiano lo raccolga come un santo legato. Roma vi chiede, cittadini, uno sforzo supremo; e lo chiede certa d'ottenerlo, perchè il sangue versato dai suoi nella giornata del 30 gliene concede il diritto.

Colle adesioni al nostro programma, mandate quando cominciavano i del pericolo, voi avete dato bella e solenne testimonianza di fede concorde all'Italia e all'Europa. Noi vi chiamiamo a un'altra testimonianza, quella dei fatti. Sia pronto ogni uomo a segnare col proprio sangue la fede. Sorga ogni città, ogni borgo, ogni luogo, vindice di Bologna! Suoni ogni campana, il tocco dell'agonia che il popolo intima all'invasore straniero! Accendete sui vostri monti, di giogo in giogo, simbolo della fratellanza nell'ira, i fuochi che diedero, nel dicembre 1847, il programma della nostra rivoluzione! Sventoli per ogni dove, sulle torri, sui campanili, la rossa bandiera! Di terra in terra, di casolare in casolare, corra un fremito di battaglia! Sappiano il nemico, l'Italia, l'Europa, che qui, nel core della penisola, stanno tre milioni d'uomini legati in sacramento di tremenda difesa, decisi irrevocabilmente a combattere sin all'estremo, a sotterrarsi, anzichè cedere, sotto le rovine della patria! E, viva Dio, nessuna potenza umana potrà vietarci di vincere. Tre milioni di popolo sono onnipotenti quando dicono: Noi vogliamo.

Italiani figli di Roma! Militi della repubblica! Questa è un'ora solenne preparata da secoli; uno di quei momenti storici che decretano la vita o la morte d'un popolo.

Grandi e potenti per sempre o segnati per sempre del marchio di servitù; riconosciuti liberi e fratelli dalle nazioni o condannati alla nullità degli obbedienti al capriccio altrui: padroni di voi medesimi, delle vostre case, dei vostri altari, delle vostre tombe, o cosa e ludibrio d'ogni tiranno: raccomandati alla immortalità della gloria o della vergogna: sarete ciò che vorrete. Il giudizio di Dio e dell'Umanità pende dalla vostra scelta.

Siate grandi. Decretate la vittoria. Il popolo la conquistava agli Spagnuoli, ai Greci, agli Svizzeri: la conquisti all'Italia. I presidi, i commissarî straordinari organizzino l'insurrezione: si colleghino di provincia in provincia: traducano l'inspirazione di Roma: assumano dagli estremi pericoli poteri eccezionali, rimedî estremi. Il capo che cede, che s'allontana prima d'aver combattuto, che capitola, che tentenna, sia reo dichiarato. La terra, che accoglie il nemico senza resistenza, sia politicamente cancellata dal novero delle terre della repubblica. Chi non combatte in un modo o nell'altro l'invasore straniero, s'abbia l'infamia; chi, non fosse che per un istante, parteggia per esso, perda la patria per sempre o la vita. Sia punito chi abbandona al nemico materiali da guerra: punito chi non s'adopera a togliergli viveri, alloggio, quiete: punito chi, potendo, non s'allontana dal terreno ch'esso calpesta. Si stenda intorno all'esercito, che inalza bandiera non nostra, un cerchio di fuoco o il deserto. La repubblica, mite e generosa finora, sorga terribile nella minaccia.

Roma starà.

 

21 maggio 1849.

 

 

 

XIX.

 

Al signor Lesseps.

 

Signore,

 

Ebbi l'onore di trasmettervi, nella nota del 16, alcuni dati sull'accordo unanime che accompagnò l'instaurazione della nostra repubblica. Oggi, è necessario parlarvi della questione attuale com'è posta nel fatto, se non nel diritto, tra il governo francese e il nostro. Vorrete, speriamo, concederci il franco discorso richiesto egualmente dall'urgenza della situazione e dalle simpatie internazionali che devono animare tutte le relazioni tra la Francia e l'Italia. Tutta la nostra diplomazia sta nel vero; e nel carattere dato, o signore, alla vostra missione abbiamo pegno che quanto diremo sarà interpretato nel miglior modo possibile. Permettetemi di risalire per pochi istanti alla sorgente della situazione attuale.

Dopo conferenze e accordi ch'ebbero luogo, senza che il governo della repubblica romana fosse chiamato a prendervi parte, fu, qualche tempo addietro, deciso dalle potenze cattoliche europee: 1.° Che una modificazione politica era necessaria nel governo e nelle instituzioni dello Stato romano; 2.° che questa modificazione avrebbe a base il ritorno di Pio IX, non solo come papa - a questo non porremmo ostacolo alcuno - ma come principe e sovrano temporale; 3.° che se per raggiungere intento siffatto, un intervento concertato fosse giudicato indispensabile, l'intervento avrebbe luogo.

Ci è caro ammettere che, mentre solo e unico fine d'alcuni tra i contraenti era un sogno di ripristinamento generale, un ritorno assoluto ai trattati del 1815, il governo francese non fosse trascinato a quei patti se non in conseguenza d'informazioni erronee che gli dipingevano lo Stato romano in preda all'anarchia e signoreggiato col terrore da una minoranza audace.

Sappiamo inoltre che, nella modificazione proposta, il governo francese intendeva farsi rappresentante di una più o meno liberale influenza opposta al programma dispotico dell'Austria e di Napoli. Pur nondimeno, sotto forma tirannica o costituzionale, senza o con pegni d'una libertà qualunque alle popolazioni romane, il pensiero predominante su tutti i negoziati ai quali alludiamo, fu sempre un ritorno verso il passato, una transazione tra il popolo romano e Pio IX, considerato come sovrano temporale. Sotto l'inspirazione di quel pensiero fu, sarebbe inutile dissimularlo, ideata, eseguita l'invasione francese. Fu suo doppio intento cacciare, da un lato, la spada della Francia sulla bilancia dei negoziati che dovevano iniziarsi in Roma e assicurare, dall'altro, la popolazione romana contro ogni eccesso retrogrado, ma ponendo pur sempre a condizione fondamentale la ricostituzione d'una monarchia costituzionale in favore del papa. Intento siffatto è provato per noi, non solamente da ragguagli esatti che abbiamo sui negoziati anteriori, ma dai bandi del generale Oudinot, dalle formali dichiarazioni d'inviati che vennero l'un dopo l'altro al Triumvirato, dal silenzio ostinatamente serbato quando tentammo più volte trattare la questione politica e cercammo ottenere una dichiarazione formale del fatto accertato nella nostra nota del 16, che cioè le instituzioni colle quali oggi si regge il popolo romano sono libera e spontanea espressione del voto inviolabile delle popolazioni legalmente interrogate. E il voto stesso dell'Assemblea francese convalida implicitamente il fatto che noi affermiamo. Di fronte a condizione siffatta, di fronte alla minaccia d'una transazione inaccettabile e di negoziati che non hanno ragione alcuna nello stato delle nostre popolazioni, la parte che ci spettava non era dubbia. Resistere; era per noi un dovere verso il nostro paese, verso la Francia, verso l'Europa.

Noi dovevamo, per adempiere a un mandato lealmente dato e lealmente accettato, mantenere, per quanto era in noi, l'inviolabilità del nostro paese, del suo territorio e delle sue instituzioni unanimemente acclamate da tutti i poteri, da tutti gli elementi dello Stato.

Dovevamo conquistare il tempo necessario per richiamarci dalla Francia ingannata alla Francia meglio informata, ed evitare alla repubblica sorella il rimorso d'essersi fatta, cedendo senza esami a suggerimenti stranieri, complice d'una violenza che non ha paragone se non nel primo smembramento della Polonia.

E dovevamo all'Europa una testimonianza, quale almeno poteva escire da noi, a pro del principio fondamentale d'ogni vita internazionale, l'indipendenza di ciascun popolo in ciò che riguarda la sua interna amministrazione. Resistendo con entusiasmo ai tentativi della monarchia napoletana e dell'eterna nostra nemica l'Austria, resistendo con profondo dolore alle armi francesi, noi andiamo alteri di poter dire a noi stessi che abbiamo benemeritato non solamente di voi, ma dei popoli europei.

Voi sapete, signore, gli eventi che tennero dietro all'intervento francese. Il nostro territorio fu invaso dalle truppe del re di Napoli; e quattromila soldati spagnuoli salparono, probabilmente il 17, per assalire le nostre coste. Gli Austriaci, superata la resistenza eroica di Bologna, inoltrarono nella Romagna e minacciano Ancona. Noi abbiamo respinto dal nostro territorio le forze del re di Napoli. Faremmo lo stesso - è fede nostra - delle forze austriache, se il contegno delle forze francesi non c'impedisse d'agire.

Noi parliamo dolenti. Ma è necessario che la Francia sappia finalmente le vere conseguenze della spedizione di Civitavecchia, ideata, se stiamo a ciò che s'afferma, a proteggerci.

Noi diciamo, signore, che fra tutti gli interventi promossi a danno nostro, l'intervento francese è quello che ci riescì più fatale. Possiamo batterci contro i soldati del re di Napoli e contro gli Austriaci: vorremmo non batterci contro i Francesi. Noi siamo a riguardo loro in condizioni non di guerra, ma di semplice difesa. Sarà tale il nostro contegno ovunque ci troveremo innanzi la Francia. Ma quel contegno, non giova dissimularlo, ha per noi tutti i danni d'una guerra senza alcuno de' suoi vantaggi possibili.

La spedizione francese ha reso indispensabile per noi un concentramento di forze che lasciò la nostra frontiera aperta all'invasione austriaca, e disarmate Bologna e le città della Romagna. Gli Austriaci ne profittarono. Dopo otto giorni di lotta sostenuta eroicamente dalla popolazione, fu forza a Bologna di cedere.

Avevamo comprato in Francia armi per nostra difesa; queste armi, 10 000 fucili almeno, furono sequestrate fra Civitavecchia e Marsiglia: esse sono in mano vostra. Togliendoci quell'armi, ci avete tolti 10 000 soldati, perchè ogni uomo armato sarebbe un soldato contro gli Austriaci.

Le vostre forze stanno sotto le nostre mura, a un tiro di fucile, disposte come per un assedio. Esse rimangono ostinate, minacciose a quel modo, senza fine dichiarato, senza programma, costringendoci a mantenere la città in uno stato di difesa che aggrava le nostre finanze, e togliendo alle nostre truppe ogni possibilità di movere a salvare le nostre terre dall'occupazione e dalla devastazione austriaca. Circolazione, approvvigionamenti, corrieri, ogni cosa è inceppata. Gli animi concitati potrebbero, se il nostro popolo fosse men buono e meno devoto, trascendere ad atti funesti. Quell'attitudine dei vostri soldati non genera anarchia o riazione, perchè l'una cosa l'altra è possibile in Roma; ma produce irritazione contro la Francia; ed è grave sciagura per noi che ponevamo finora amore e speranza in essa.

Noi siamo assediati, signore, assediati dalla Francia in nome d'una missione di protezione, mentre, a distanza di poche leghe, il re di Napoli trascina con i nostri ostaggi, mentre gli Austriaci scannano i nostri fratelli.

Voi avete, signore, presentato proposte. Quelle proposte furono dichiarate inaccettabili dall'Assemblea, e sarebbe inutile per noi il discuterle. Voi ne aggiungete oggi una. La Francia, voi dite, proteggerà contro ogni invasione straniera tutte le parti del territorio romano occupate dalle sue truppe. Or quella quarta proposta non muta menomamente le nostre condizioni. La parte di territorio occupato da voi è già protetta, nel fatto, contro ogni altra invasione; ma se guardiamo al presente, quella parte è di men che lieve importanza, e se guardiamo al futuro, non abbiamo noi dunque modo di proteggere il nostro suolo fuorchè abbandonandolo tutto a voi?

Non è quello il nodo della questione: la questione sta tutta nell'occupazione di Roma. Ed è condizione da voi posta a capo di tutte le vostre proposte.

Or noi abbiamo l'onore di dirvi, signore, che quella condizione è impossibile: il popolo non vi consentirebbe giammai. Se l'occupazione di Roma non ha per fine che di proteggerla, il popolo vi si mostrerà riconoscente, ma vi dirà che, capace di proteggere Roma con forze proprie, si terrebbe disonorato davanti a voi se dichiarasse stesso impotente e indispensabile alla difesa l'ajuto d'alcuni reggimenti francesi. Se l'occupazione di Roma ha invece, Dio nol voglia, un pensiero politico, il popolo che ha liberamente scelto le proprie instituzioni, non può rassegnarsi a subirla. Roma è la sua capitale, il suo Palladio, la sua città sacra. Esso intende che, oltre il principio violato e l'onore tradito, ogni occupazione trascinerebbe una guerra civile. E ogni insistenza gli aumenta i sospetti e l'antiveggenza, ammesse una volta che fossero le truppe straniere, di mutamenti inevitabili funesti alla sua libertà, negli uomini e nelle instituzioni.

Il popolo ha innanzi l'esempio di Civitavecchia; e sa che di mezzo alle bajonette straniere, l'indipendenza dell'Assemblea e del governo non sarebbe più che una vana parola.

Su quel punto, signore, credetelo a noi, la sua volontà è irrevocabile. Non soggiacerà se non dopo aver seminato de' suoi cadaveri le barricate. Vogliono, possono i soldati di Francia trucidare un popolo di fratelli che affermano voler proteggere, perch'esso rifiuta di cedere all'armi loro la sua capitale?

La Francia non ha, negli Stati romani, che tre parti da scegliere:

Dichiararsi per noi, contro noi o neutrale.

Dichiararsi per noi significa riconoscere formalmente la nostra repubblica e combattere a fianco nostro, colle nostre truppe, gli Austriaci.

Dichiararsi contro noi, cioè schiacciare senza cagione la libertà, la vita nazionale d'un popolo d'amici e combattere a fianco degli Austriaci.

La Francia non può far questo. Essa non vuole avventurarsi a una guerra europea per difenderci come alleata. Rimanga dunque neutrale nella lotta che noi sosterremo. Noi avevamo, poco tempo addietro, ben altre speranze; oggi non le domandiamo che questo.

L'occupazione di Civitavecchia è fatto compiuto; sia. La Francia crede che, nella condizione di cose presenti, non le conviene di tenersi lontana dal campo della battaglia, e pensa che, vincitori o vinti, noi possiamo aver bisogno della sua protezione o della sua azione moderatrice. Noi nol crediamo, ma non intendiamo di ribellarci per questo contr'essa. Serbi dunque Civitavecchia. Estenda, se il numero delle sue truppe lo esiga, i proprî accantonamenti ai luoghi salubri che stanno sul raggio da Civitavecchia a Viterbo. E aspetti immobile l'esito finale della nostra guerra. Noi offriremo ad essa tutte le agevolezze possibili, tutte testimonianze di leale amicizia. I suoi ufficiali entreranno in Roma visitatori; i suoi soldati avranno, occorrendo, ajuto e conforti da noi, ma sia la sua neutralità sincera e senza mistero; dichiarata in termini espliciti. Lasci a noi libertà di giovarci senza tema di tutte quante le nostre forze. Ci renda l'armi da noi comprate. Non chiuda co' suoi legni i nostri porti agli uomini che dall'altre parti d'Italia volessero accorrere a dividere i nostri pericoli. S'allontani anzi tutto dalle nostre mura. Cessi anche l'apparenza d'ostilità fra due popoli chiamati, noi non possiamo dubitarne, negli anni avvenire a congiungersi in una stessa fede internazionale come sono oggi congiunti nell'adozione d'una stessa forma governativa.

Accettate, signore, ecc.

 

25 maggio 1849.

 

 

 

XX.

 

Considerando che debito di Roma, per la sua tradizione nel passato e per la sua missione nell'avvenire, è ampliare possibilmente la propria vita e la propria libertà a quanti soffrono, combattono e sperano per la causa delle nazioni e dell'umanità;

Considerando che per patimenti, energia di sacrificî e immortalità di speranze, la Polonia è sorella all'Italia e sacra fra tutte le nazioni;

Considerando che gli esuli polacchi rappresentano in oggi la Polonia futura;

Il Triumvirato decreta:

1.° È formata sul territorio della repubblica una legione polacca, che combatterà sotto i segni di Roma per l'indipendenza italiana.

2.° La legione inalzerà il vessillo nazionale polacco colla sciarpa tricolore italiana. Il comando si farà in lingua polacca. L'uniforme dei legionari sarà di colore blu scuro, collare e mostre di rosso amaranto e colle parti metalliche bianche.

3.° La legione ascenderà a duemila uomini o più.

Il governo della repubblica somministrerà, occorrendo, i mezzi pel trasporto degli arrolati. Gli Slavi, che militassero sotto la repubblica, saranno incorporati nella legione.

4.° La legione elegge i proprî ufficiali. Il capo militare della legione presenterà le nomine fatte. Il governo sceglie tra quelli. Il capo militare non può essere che Polacco, scelto con suffragio universale dai suoi.

5.° Il soldo della legione sarà eguale a quello dell'esercito romano. I feriti o mutilati difendendo la repubblica hanno tutti i diritti che spettano ai feriti e mutilati cittadini dello Stato.

6.° La legione si obbliga per un anno, prolungando a sua posta di anno in anno sino a sei il suo esercizio militare.

Dove la guerra dell'indipendenza polacca ricominciasse, e la legione potesse consacrarsi utilmente alla salute della propria patria, sarà libera, e potrà lasciare, annunziandolo prima al governo, il territorio della repubblica.

 

29 maggio 1849.

 

 

 

XXI.

 

(Risposta alla dichiarazione di Lesseps che il 29 maggio riproduceva con lievi varianti le proposte accennate nel documento, n. XVI.)

 

 

Signore,

 

Ricevemmo la dichiarazione che indirizzaste a noi il 29 maggio. Avendo l'Assemblea, alla quale copia della dichiarazione fu pure trasmessa, riconfermata l'autorità già accordataci per ogni negoziato, è debito nostro rispondervi; e lo facciamo solleciti. Se indugiammo a rispondere alla vostra nota del 26, vogliate considerare ch'essa non conteneva proposte in nome della Francia, discuteva le nostre.

Abbiamo esaminato accuratamente il vostro progetto; ed ecco quali modificazioni vi proponiamo. Esse riguardano più assai la forma che non la sostanza.

Noi potremmo svolgere lungamente le cagioni dei mutamenti che proponiamo; mutamenti, vogliate crederlo, signore, richiesti, non solamente dal mandato trasmessoci dall'Assemblea, ma dal voto esplicito del nostro popolo contro il quale nessuna convenzione sarebbe possibile; ma il tempo stringe e ci è forza rinunziare ai particolari. E preferiamo inoltre affidarci, per supplire a questa omissione, alla vostra lealtà e al favore con cui sovente guardaste alla nostra causa e a' suoi fati. La nostra, signore, non è può essere diplomazia; è una chiamata di popolo a popolo, libera e cordiale, senza minaccia come senza pensiero segreto. Più d'ogni altra nazione, la Francia è capace d'ascoltarla e d'intenderla.

La condizione anormale di cose esistente fra la repubblica francese e noi riescirebbe, prolungandosi, segnatamente dopo la dichiarazione della vostra Assemblea e le recenti manifestazioni del popolo francese a nostro riguardo, inconcepibile. E la proposta che tende a far sì che cessi v'è inviata da noi, signore, con tutta la potenza di convincimento e di desiderio che vive in noi. Abbiatela sacra, però che essa compendia la fede incrollabile ai fervidi desiderî d'un popolo, piccolo per numero ma prode e leale, che ricorda i suoi padri e ciò che compirono sulla terra e che, combattendo oggi per una causa sacra, quella dell'indipendenza e della libertà, è irrevocabilmente deciso a imitarli. Questo popolo, signore, ha diritto d'essere compreso dalla Francia e di trovare in essa un appoggio, non una potenza ostile; ha diritto di aver dalla Francia non protezione, ma fratellanza. Ogni domanda di protezione proferita da esso sarebbe interpretata dall'Europa come un grido di disperazione, come una dichiarazione d'impotenza e lo farebbe indegno di quell'amistà della Francia sulla quale ei facea calcolo prima dei fatti recenti. Quel grido di disperazione non può suonargli sul labbro. Non esiste impotenza per un popolo che sa morire; e mal s'addirebbe a generoso sentire da parte d'una grande e altera nazione di sconoscere il nobile impulso che muove il popolo di Roma.

Bisogna, signore, che questa condizione di cose cessi. La fratellanza non è oggi fra noi se non parola vuota di senso pratico: diventi una realtà. Sia lecito ai nostri corrieri, alle nostre armi, alle nostre truppe di circolare liberamente a nostra difesa su tutte quante le nostre terre. Non sian i Romani condannati come oggi sono a guardare con sospetto uomini ch'erano avvezzi a considerare siccome amici. Ci sia schiusa la via di difenderci con tutti i nostri mezzi dagli Austriaci che bombardano le nostre città. Non rimangano più dubbie le buone e leali intenzioni della Francia. Non sia più possibile all'Europa di dire ch'essa, la Francia, ci sottrae le difese per imporci poi una protezione, mercè la quale si serberebbe inviolato da altri il nostro territorio, ma colla perdita di quanto abbiamo più caro, del nostro onore e della nostra libertà.

Fate questo, signore. Svaniranno le difficoltà che or ci separano: gli affetti, oggi illanguiditi, potranno rivivere; e la Francia riconquisterà il diritto di consigliarci che l'attitudine ostile assunta le toglie.

Gli accantonamenti che ci sembrano più opportuni per ora si stenderebbero sulla linea da Frascati a Velletri.

Accettate, signore, ecc.

 

30 maggio 1849.

 

Ecco ora le proposte:

I. I Romani, fidenti oggi come sempre nell'appoggio fraterno della repubblica francese, reclamano la cessazione d'ogni ostilità reale o apparente e lo stabilimento delle relazioni che devono esprimere quell'appoggio fraterno.

II. I Romani hanno pegno di libero esercizio dei loro diritti politici nell'art. 5 della costituzione francese.

III. L'esercito francese sarà considerato dai Romani come un esercito amico e accolto siccome tale. In accordo col governo della repubblica romana, esso stanzierà in accantonamenti convenevoli così per la difesa del paese come per la salubrità. L'esercito francese rimarrà estraneo all'amministrazione del paese.

Roma è sacra pe' suoi amici come pe' suoi nemici. Essa non fa parte degli accantonamenti scelti dalle truppe francesi. Il prode suo popolo è la sua migliore difesa.

IV. La repubblica francese difenderà da ogni invasione straniera il territorio occupato dalle sue truppe.

 

 

 

XXII.

 

(Accettata, con mutamenti di forma, la proposta contenuta nel documento che precede dal plenipotenziario Lesseps, il generale Oudinot, allegando istruzioni segrete, ricusò di ratificare gli accordi, ruppe la tregua, intimò gli assalti, dichiarando che non assalirebbe prima del lunedì; poi assalì nella notte dal sabato alla domenica.)

 

 

Romani!

 

Al delitto d'assalire con truppe repubblicane una repubblica amica, il generale Oudinot aggiunge l'infamia del tradimento. Egli viola la promessa scritta, ch'è in mano nostra, di non assalire prima di lunedì.

Levatevi, Romani! Alle mura, alle porte, alle barricate! Proviamo al nemico che neppure col tradimento si vince Roma.

Sorga l'intera città nell'energia di un solo pensiero. Combatta ogni uomo; abbia ogni uomo fede nella vittoria. Ricordatevi tutti dei vostri padri e siate grandi.

Trionfi il diritto e una eterna vergogna s'aggravi sull'alleato dell'Austria.

Viva la repubblica!

 

3 giugno 1849.

 

 

 

XXIII.

 

Romani!

 

Voi avete oggi sostenuto l'onore di Roma, l'onore d'Italia240. Per oltre a quattordici ore avete combattuto come vecchî soldati. Sorpresi a un tratto dal tradimento, dalla violazione d'una formale e segnata promessa, voi avete conteso palmo a palmo il terreno, riconquistato posizioni un istante perdute, respinto le più valorose truppe d'Europa e salutato d'un sorriso la morte. Dio vi benedica, custodi della gloria dei vostri padri, come noi, alteri d'aver indovinato l'elemento di grandezza ch'è in voi, vi benediciamo in nome d'Italia.

Romani, questa giornata è giornata d'eroi, una pagina storica.

Vi dicevamo jeri: siate grandi; oggi diciamo: voi siete grandi. Durate; siate costanti. Al popolo di Roma possono dimandarsi miracoli. E noi diciamo con piena fiducia ad esso, alle guardie nazionali, alla gioventù di tutte le classi: Roma è inviolabile; custodite questa notte le sue mura: esse racchiudono l'avvenire della nazione. Vigilate, mentre quei che hanno combattuto quattordici ore riposano, alle porte, alle barricate. L'angelo della patria vigila con voi, e l'angelo della patria è l'angelo della nazione.

Viva la repubblica!

 

3 giugno 1849.

 

 

 

XXIV.

 

Romane! Figlie del popolo!

 

I vostri mariti, i vostri figli, i vostri fratelli combattono il nemico della patria alle mura: voi avete diritto all'amore e alla protezione del paese. Il nemico, che si ritrasse l'altro jeri atterrito davanti agli uomini vostri, ha minacciato oggi colle bombe le vostre case. Voi siete donne romane, non potete impaurirvi ad una minaccia impotente, perchè le nostre truppe terranno il nemico lontano; combatteranno, occorrendo, coi vostri cari alle barricate; ma Roma deve protezione alle vecchie madri, ai fanciulli dei suoi difensori. Il Triumvirato decreta in conseguenza:

Che le famiglie popolane, le cui case fossero minacciate dalle bombe o dal cannone, durante l'assedio a cominciar da domani, e occorrendo anche prima, avranno alloggio per cura del governo in case, palazzi o conventi fuori d'ogni pericolo:

Che i rappresentanti del popolo in ogni rione riceveranno le domande, ne verificheranno la giustizia, e rilasceranno una carta d'ammissione ai locali, la lista dei quali verrà consegnata ad essi, colle dovute istruzioni, dal ministero dell'interno.

I Triumviri affidano alla virtù e al patriotismo delle popolane romane la custodia vigilante e l'ordine necessario a preservare da ogni guasto le abitazioni assegnate ad esse da Roma.

 

5 giugno 1849.

 

 

 

XXV.

 

(Le linee seguenti rispondevano a un'ultima intimazione del generala Oudinot, quando i Francesi erano già sul primo bastione a sinistra della porta San Pancrazio.)

 

Abbiamo l'onore di rimettervi la risposta dell'Assemblea alla vostra comunicazione del 12.

Noi non tradiamo mai le nostre promesse. Abbiamo promesso difendere, in esecuzione degli ordini dell'Assemblea e del popolo romano, la bandiera della repubblica, l'onore del paese e la santità della capitale del mondo cristiano, e manterremo la nostra promessa.

Gradite, generale, l'assicurazione della nostra distinta considerazione.

 

13 giugno 1849.

 

 

 

XXVI.

 

(Risposta a una lettera indirizzata dal signor de Corcelles, inviato straordinario della repubblica francese, al signor de Gerando, cancelliere dell'ambasciata francese in Roma. La lettera tentava scusare la contraddizione patente fra gli accordi di Lesseps e l'assalto dato a Roma dal generale Oudinot.)

 

Signore,

 

La lettera che il signor de Corcelles vi scrive con data del 13, e che m'è da voi cortesemente comunicata, non invalida affatto, dovete ammetterlo, la risposta data dall'Assemblea costituente romana alla intimazione del generale Oudinot. Poco monta la data di uno o di altro dispaccio francese; poco monta che il signor Lesseps fosse o no richiamato al momento della firma apposta da lui alla convenzione del 31 maggio.

Una sola parola risponde a ogni cosa: l'Assemblea ignorava; essa non ebbe mai comunicazione officiale di quei dispacci.

La questione diplomatica è dunque, per noi, posta in questi termini:

Il signor Lesseps era ministro plenipotenziario della Francia in Roma. Egli era tale per noi il 31 maggio come prima d'allora. Nulla ci aveva avvertiti d'una modificazione o d'un annullamento de' suoi poteri. Trattavamo noi dunque con lui in piena buona fede come se trattassimo colla Francia: e questa nostra buona fede ci valse, nella notte dal 28 al 29 maggio, l'occupazione di Monte Mario. Addentrati in una discussione assolutamente pacifica col signor Lesseps, ansiosi d'evitare quanto avrebbe potuto trascinare gli spiriti su direzione avversa ai nostri voti e non sapendo indurci a credere che la missione protettrice della Francia comincerebbe coll'assedio di Roma, guardavamo ogni incidenza senza commoverci. A ogni movimento delle vostre truppe, a ogni operazione tendente a restringere la cinta militare e a ravvicinarsi gradatamente a posizioni che noi avremmo potuto difendere, il signor Lesseps s'affrettava a dirci che i Francesi non operavano a quel modo se non per quetare la concitazione febbrile delle truppe affaticate dalla lunga inerzia; in nome dei due paesi, in nome dell'umanità, ei ci supplicava d'evitare ogni conflitto, d'aver fede in lui, di non paventare conseguenza alcuna da quei fatti anormali. E noi cedevamo volonterosi. Oggi, io sono costretto, per quanto a me spetta, a pentirmi di quella arrendevolezza; non già ch'io tema per Roma, ma perchè petti di prodi difendono ciò che buone posizioni avrebbero potuto difendere. Il 31 maggio, alle otto di sera, furono firmati gli accordi tra il signor Lesseps e noi. Ei li portò seco al campo affermandoci ch'ei considerava la firma del generale Oudinot come semplice formalità intorno alla quale non poteva esistere dubbio. Eravamo tutti coll'animo lieto. Le cose stavano per ripigliare, tra la Francia e noi, la loro naturale tendenza.

La notte, parmi, ci giunse il dispaccio del generale Oudinot contenente rifiuto d'adesione agli accordi e l'affermazione che il signor Lesseps, firmandoli, aveva oltrepassati i poteri affidatigli.

Un secondo dispaccio, con data del 1.° giugno, a tre ore e mezzo dopo mezzodì, e firmato dal generale, ci dichiarava «che i fatti avevano giustificato la sua determinazione e che in due dispacci del ministro di guerra e degli affari esteri, in data 28 e 29 maggio, il governo francese gli annunziava il termine della missione del signor Lesseps

Ventiquattro ore ci erano concesse per accettare l'ultimatum del 29 maggio.

V'è noto come lo stesso giorno il signor Lesseps c'indirizzasse una comunicazione nella quale è detto: «Mantengo l'accordo firmato jeri. Parto per Parigi onde ottenergli ratifica. Quell'accordo fu conchiuso in virtù d'istruzioni che mi davano facoltà di consacrarmi esclusivamente ai negoziati e alle relazioni da stabilirsi colle autorità e le popolazioni romane

Lo stesso giorno, in ora più inoltrata, il generale Oudinot ci dichiarava che ricomincerebbe le ostilità, ma che «su richiesta del cancelliere dell'ambasciata francese... l'assalto sarebbe differito fino a lunedì mattina, almeno».

Fummo assaliti la domenica, e la conseguenza di questa violazione di fede era per noi l'occupazione di Villa Panfili e la sorpresa operata su due compagnie, la cui cifra entra senza dubbio nel bollettino della giornata del 3. Quei duecento uomini, còlti nel sonno, sono ora, insieme ai 24 prigionieri fatti nella giornata, in Bastia nella Corsica.

Dopo ciò, che importa a noi, vogliate dirmelo, signore, il dispaccio del 26 maggio citato la prima volta nella lettera del signor de Corcelles? Che importano al governo romano i dispacci citati dal generale Oudinot? Noi non vedemmo mai quei dispacci; ci è ignoto ciò che contengono; nessuna comunicazione officiale c'informò della loro esistenza. Da un lato abbiamo le informazioni del generale Oudinot; dall'altro quelle del ministro plenipotenziario; le une contradicono le altre. Esca la Francia da viluppo siffatto e salvi l'onore se può. Posta fra un ministro plenipotenziario e il generale d'una divisione d'esercito, la nostra Assemblea ha stimato di conformarsi alla tradizione dei fatti stabiliti dal plenipotenziario. Io consento in ciò ch'essa fece e vi ricordo, signore, che oggi soltanto, decimo giorno dell'assedio, la presenza del signor de Corcelles nel campo, con attribuzioni di ministro straordinario, ci è fatta indirettamente nota.

Meditate, signore, le date delle note ufficiali, paragonatele colla data dell'occupazione di Monte Mario o d'altre operazioni dell'esercito francese; poi diteci se, esaminando freddamente la questione diplomatica, l'Europa non dovrà dire: «Il governo francese non ha voluto se non deludere il governo romano. Il generale Oudinot s'è giovato della buona fede degli uomini che lo compongono per restringere il cerchio dell'assedio, per occupare posizioni favorevoli, per agevolarsi la possibilità d'impossessarsi della città. O il dispaccio del 26 non esiste o non fu comunicato in tempo al signor Lesseps

Il dispaccio del 29 maggio era difatti noto nel campo francese nella mattina del 1.° giugno; quello del 26 poteva dunque essere in mano al generalo Oudinot fin dal 29 maggio. Se il generale non lo esibì fin d'allora per sospendere negoziati e poteri del negoziatore, sorge il pensiero ch'ei volesse trarre partito da quei negoziati, che inceppavano la vigilanza e le forze del popolo romano, per impadronirsi a poco a poco, senza incontrare resistenza, dalle posizioni migliori; certo com'egli era di porre fine quando giovasse, rivelando il dispaccio del 26, agli accordi e di rompere, pronta ogni cosa per assalire, la tregua.

Concedete, signore, ch'io vi dica colla libertà che si addice a un uomo leale e d'indole non servile: la condotta del governo romano non s'allontanò mai d'una linea, nelle trattative ch'ebbero luogo, dalle vie dell'onore. Il governo francese potrebbe difficilmente affermarlo di . Ciò non tocca, la Dio mercè, menomamente la Francia; prode e generosa nazione, essa è, come noi, vittima d'un basso indegno raggiro.

Oggi, i vostri cannoni tuonano contro le nostre mura, le vostre bombe scendono sulla città sacra; la Francia ebbe questa notte la gloria d'uccidere una povera fanciulla del Trastevere che dormiva a fianco della sorella.

I nostri giovani ufficiali, i nostri militari improvvisati, i nostri popolani, cadono sotto i vostri projettili gridando: Viva la repubblica! I prodi soldati di Francia cadono, senza grido, senza mormorare accento, come uomini disonorati. Io son certo che non havvi un solo cuore tra voi che non dica internamente a stesso ciò che uno dei vostri disertori ci diceva oggi: Non so qual voce segreta ci dice che combattiamo de' fratelli.

E perchè questo conflitto fraterno? Io nol so; voi nol sapete. La Francia non ha qui bandiera; essa combatte uomini che l'amano e che, pochi giorni addietro, fidavano in essa. Essa cerca l'incendio di una città che non l'ha menomamente offesa, senza programma politico, senza fine determinato, senza diritto da esercitare, senza dovere da compiere. Essa gioca, per mezzo de' suoi generali, la partita dell'Austria e senza il tristo coraggio di confessarlo. Essa trascina il suo stendardo nel fango dei conciliaboli di Gaeta e retrocedendo davanti a una schietta dichiarazione di ripristinamento sacerdotale. Il signor de Corcelles non s'avventura più a parlare d'anarchia, di fazioni; ma scrive, come chi è turbato nell'anima, queste parole, senza senso: «La Francia ha per fine la libertà del capo riverito della Chiesa, la libertà degli Stati romani e la pace del mondo

Noi sappiamo almeno perchè combattiamo, e perchè lo sappiamo, siam forti. Se la Francia rappresentasse qui tra noi un principio, una di quelle idee che fanno grandi le nazioni e la fecero grande in passato, il valore de' suoi figli non si romperebbe contro il petto dei nostri giovani militi.

È trista pagina davvero, signore, quella che sta ora scrivendosi dai vostri generali nella storia di Francia; è un colpo mortale vibrato al Papato che voi pretendete proteggere e che affogate nel sangue; è un abisso incolmabile scavato fra due nazioni chiamate a movere insieme pel bene di tutti e che si stendevano, vogliose d'intendersi, la mano da secoli; è una violazione profonda della morale che dovrebbe governare le relazioni tra popolo e popolo, della comune credenza che dovrebbe guidarli, della santa causa della libertà che vive in quella credenza, dell'avvenire non dell'Italia - i patimenti sono per essa un battesimo di progresso - ma della Francia, che non può serbarsi in prima fila tra le nazioni se non colle maschie virtù della fede e dell'intelletto della libertà.

 

15 giugno 1849.

 

 

 

XXVII.

 

(Dopo il decreto dell'Assemblea che ingiungeva cessasse la resistenza.)

 

Romani!

 

Il Triumvirato s'è volontariamente disciolto. L'Assemblea costituente vi comunicherà i nomi dei nostri successori.

L'Assemblea, commossa, dopo il successo ottenuto jeri dal nemico, dal desiderio di sottrarre Roma agli estremi pericoli, e d'impedire che si mietessero senza frutto per la difesa altre vite preziose, decretava la cessazione della resistenza. Gli uomini, che avevano retto mentre durava la lotta, mal potevano seguire a reggere nei nuovi tempi che si preparano. Il mandato ad essi affidato cessava di fatto, ed essi si affrettarono a rassegnarlo nelle mani dell'Assemblea.

Romani! Fratelli! Voi avete segnata una pagina che rimarrà nella storia documento della potenza d'energia che dormiva in voi e dei vostri fati futuri, che nessuna forza potrà rapirvi. Voi avete dato battesimo di gloria e consacrazione di sangue generoso alla nuova vita che albeggia all'Italia, vita collettiva, vita di popolo che vuole essere e che sarà. Voi avete, raccolti sotto il vessillo repubblicano, redento l'onore della patria comune contaminata altrove dagli atti dei tristi, e scaduta per impotenza monarchica. I vostri Triumviri, tornando semplici cittadini fra voi, traggono con conforto supremo nella coscienza di pure intenzioni, e l'onore d'avere il loro nome associato ai vostri fortissimi fatti.

Una nube sorge oggi tra il vostro avvenire e voi. È nube d'un'ora. Durate costanti nella coscienza del vostro diritto e nella fede per la quale morirono apostoli armati, molti dei migliori fra voi. Dio, che ha raccolto il loro sangue, sta mallevadore per voi. Dio vuole che Roma sia libera e grande; e sarà. La vostra non è disfatta: è vittoria dei martiri ai quali il sepolcro è scala di cielo. Quando il cielo splenderà raggiante di resurrezione per voi; quando, tra brev'ora, il prezzo del sacrificio, che incontraste lietamente per l'onore, vi sarà pagato; possiate allora ricordarvi degli uomini che vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori, e combatteranno, occorrendo, domani, misti nei vostri ranghi, le nuove vostre battaglie. Viva la repubblica romana!

 

30 giugno 1849.

 

 

 

XXVIII.

 

Romani!

 

La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La repubblica romana vive eterna, inviolabile, nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nell'adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostra mura per essa. Tradiscano a posta loro gl'invasori le loro solenni promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell'anima vostra nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiaciate; e non diffidate dell'avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d'un popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia o per la santissima Libertà.

Voi daste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile.

Per quanto avete di sacro, cittadini, serbatevi incontaminati di stolte paure e di basso egoismo. Duri visibile agli occhî del mondo la separazione tra voi e gl'invasori. Sia Roma il loro campo, non la loro città. E segnate del nome di traditore di Roma chi trapassa, transigendo colla propria coscienza, nel campo nemico. Le necessità europee non consentono che Roma sia conquista di Francesi o d'altri. Mantenete all'occupazione il suo carattere di conquista; isolate il nemico; l'Europa leverà una voce potente per voi. E intanto nessuno può contendervi la pacifica espressione del vostro voto. Organizzate pubblicamente espressione siffatta. Dai municipî esca ripetuta con fermezza tranquilla d'accento la dichiarazione ch'essi aderiscono volontarî alla forma repubblicana e all'abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s'impianti senza l'approvazione liberamente data dal popolo; poi, occorrendo, si sciolgano. Da ogni rione, da ogni città di provincia escano liste segnate da migliaja di nomi che attestino la stessa fede e invochino lo stesso diritto. Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti! Libero voto! e dopo quell'unico grido, ritraetevi. All'inalzare dello stemma pontificio governativo, quanti giurarono alla repubblica s'allontanino dai loro ufficî. Non si imprigionano le migliaja; non si costringono gli uomini ad avvilirsi. E voi v'avvilireste, o Romani, v'avvilireste per sempre, se dopo aver gridato una volta all'Europa che volevate esser liberi e combattuto e perduto i migliori fra i vostri per esser tali, assumeste condizione di schiavi e pattuiste fin dal primo giorno colla disfatta.

I vostri padri, o Romani, furon grandi, non tanto perchè sapevano vincere, quanto perchè non disperavano nei rovesci.

In nome di Dio e del Popolo, siate grandi come i vostri padri. Oggi, come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano, in custodia.

La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere, a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.

 

5 luglio 1849.

 

Giuseppe Mazzini.


 

 

 





236 Le ostilità rinnovate fra l'Austria e il Piemonte.



237 L'uccisione di Rossi ebbe luogo il 15 novembre, negli ultimi tempi del dominio papale, più di tre mesi innanzi all'impianto della repubblica. Fu commesso tra grida acclamanti al ministero Mamiani e seguito da un gabinetto ch'ei presiedeva. È debito di giustizia ricordare com'esso ripudiasse ogni vizio d'origine da quel fatto. Mazzini era a quel tempo in Isvizzera e non giunse in Roma che quattro mesi dopo.



238 Nell'originale "bandiere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



239 Furono riconsegnati - Monitore del 20 maggio.



240 Nell'originale "Italla". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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