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1856.
I.
Quando voi, capo di repubblica nel 1848, e caro a noi tutti pei ricordi della gran difesa e per dignità di condotta negli anni d'esilio, gittaste, rompendo a un tratto il lungo silenzio, la bandiera - non dirò della repubblica - ma della nazione, ai piedi d'un re, io vi compiansi e mi dolsi per l'Italia, tacendo.
Mi dolsi per l'Italia, che perdeva in voi un'altra gemma della sua corona d'illustri, quando appunto la condizione delle cose additava più urgente il bisogno d'averli tutti congiunti in un solo pensiero di azione: compiansi voi, che, abbandonando la logica, piana, diritta via dei principî per frammettervi agli uomini d'opportunità, e accettando concessioni e transazioni colla coscienza, che illudono e indugiano da otto anni l'Italia, smarrireste, per legge fatale, l'intelletto delle circostanze europee, dimezzereste fra le ambagi d'una dubbia politica le253 libere facoltà della mente, e scendereste, dal seggio d'apostolo della causa patria, alla parte di strumento inconscio dei diplomatici, ingannatori sempre, e dei faccendieri di corte: ma tacqui, sperando che l'esame attento dei fatti vi ricondurrebbe sollecito a miglior partito, e che dall'aver detto alla monarchia: Fate, e saremo con voi, trarreste vigore novello per gridare al paese: La nazione salvi la nazione: noi abbiamo offerto alla monarchia di guidarci, e la monarchia, paurosa e impotente, ricusa.
Più dopo, io vi vidi, in onta a fatti che dovevano togliervi ogni speranza, persistere sulla torta via: parlare in nome dei repubblicani, dai quali non avevate avuto mandato, e sopprimere la fede repubblicana: parlare in nome d'un partito nazionale non fondato da voi e i cui martiri muojono, da un quarto di secolo, col grido di viva l'Italia! e sopprimere la coscienza e il diritto della nazione. Vi vidi affaccendato a fondare, in onta della moralità, base necessaria d'ogni progresso, la fusione, l'abdicazione di tutti i partiti in un solo, il peggiore, sopra un equivoco, sulla parola unificazione sostituita alla parola unità, senza avvedervi, senza leggere nella storia delle imprese passate, che uomini i quali si collegano, pur movendo a diversi fini, possono forse insorgere, ma a patto di uccidere, colle liti civili, l'insurrezione il dì dopo. Vi vidi, a fronte di trattati che promettono all'Austria l'interezza dei suoi possedimenti, ostinarvi a seguire inspirazioni straniere; a fronte d'un memorandum254 che insegna ai governi il come si possa con miglioramenti locali indugiare, se non vincere, il proposito degli uomini che cercano la patria comune, dichiarare che la monarchia piemontese moveva guidatrice all'impresa; poi, quasi pentito, gridare al partito: Agitate, agitatevi, come se la parola di O'Connel potesse adattarsi a terra non libera, sulla quale ogni agitazione è delitto severamente punito; e, impaurito dei consiglieri, nuovamente ritrarvi: spettacolo tristissimo a quanti più v'ammiravano e a me primo. E nondimeno avrei, tanto mi pesa l'accarezzar con l'esempio il mal abito delle polemiche, continuato a tacermi. Ma una delle ultime vostre lettere avventa, sotto colore d'insegnamento morale, tale un'accusa al partito, che il non respingerla parrebbe indifferenza o consenso. Però vi scrivo.
In quella lettera voi dichiarate che il partito non riescirà nell'impresa patria, se prima non si separa solennemente dalla teoria del pugnale.
Quella lettera fu stampata all'estero: stampata nel Times, giornale ch'oggi, iniziato al maneggio diplomatico, accenna alla necessità di alcune riforme locali nel centro e nel mezzogiorno d'Italia, ma che fu sempre ed è tuttavia avverso alla nostra causa nazionale, che predicò in ogni tempo l'alleanza dell'Inghilterra coll'Austria, s'avventò sistematicamente rabbioso contro ogni insurrezione italiana, calunniò sfacciatamente gli uomini del partito, inveì feroce contro i nobili tentativi dei popolani lombardi, e ci dichiarò a più riprese corrotti, inetti, incapaci di libertà, accennando soltanto ultimamente, per suggerimento dei suoi padroni, a un indizio di miglioramento innegabile nel Piemonte; come se Roma, Milano, la vostra Venezia e dieci altri punti in Italia, non ci avessero, nel 1848 e nel 1849, dichiarato agli onesti di tutta Europa, razza non inferiore ad alcuna in attitudine a governi liberi non guasti da licenza e anarchia.
In giornale siffatto, voi, per senso di dignità personale e di rispetto alla vostra nazione, non dovreste mai scrivere. Ma come non v'avvedeste a ogni modo che, inserendovi quella lettera, voi, sottraendovi ad ogni accusa e decretando a voi solo una patente di moralità, prestavate al nemico un'arme potente contro il partito, contro il paese?
Quando il turpe maneggio governativo, al quale voi porgete oggi inconscio l'autorità del vostro nome, avrà raggiunto il suo fine, o dispererà di raggiungerlo - quando i padroni del Times, ch'oggi tentano di sviarci, colle illusioni delle riforme locali, dall'unica meta, la libera Unità Nazionale, crederanno giunto il momento di por fine al mal gioco e di mutare linguaggio - essi commenteranno la vostra lettera, e ne dedurranno che noi abbiamo statuito, mezzo alla nostra emancipazione, la teoria del pugnale; che il partito o frazione importante del partito l'accettava, che voi, capo di repubblica un giorno e nome autorevole, v'eravate sentito in obbligo di protestare contro la teoria; ma che il partito - e questo lo dedurranno dal primo fatto isolato d'ira o vendetta individuale che si commetterà in un angolo della penisola - non avendo accettato il vostro consiglio, noi siamo un popolo feroce, irreparabilmente guasto, e indegno delle simpatie dell'Europa.
E quasi a convalidare anzi tratto accusa siffatta e lasciar che altri creda in una potenza segretamente ordinata a uccidere chi dissenta, voi parlate a più riprese di coraggio che v'è necessario per dettar quella lettera. Coraggio! Voi sapevate, scrivendo, che tuonando contro il pugnale raccogliereste, senz'ombra di rischio da anima viva, lode di moralissimo tra gli educatori d'Italia, da quanti, seduti all'ombra della loro bandiera patria e assicurati nell'esercizio dei loro diritti da una ben ordinata giustizia nazionale, giudicano, freddamente severi, i palpiti irregolari, convulsi, d'un popolo oppresso, ineducato, senza speranza fuorchè in una lotta di sangue, senza tribunale che ristabilisca equilibrio tra esso e chi lo perseguita.
Da taluni mi fu detto che, denunziando la teoria del pugnale, voi accennavate obliquamente, senza nominarmi, a me e agli uomini affratellati con me in un pensiero d'azione. Non vi credo d'animo basso; e respingo il sospetto. Pur, come mai gli affetti dovuti a chi combatte da oltre 25 anni per la causa italiana non vi suggerirono che altri potrebbe interpretare le vostre parole a quel modo? Come non ricordaste che i governi e i giornali dei moderati piemontesi e lombardi, e il Times, depositario dei vostri pensieri, tentarono a gara di diffondere contro me la codarda accusa, dopo il 6 febbraio 1853? Come non vi venne in mente che, inalzandovi contro la teoria del pugnale, soccorrevate, scortesemente immemore, alle calunnie delle spie, dei creduli e dei nemici senza coscienza, che m'apposero sentenze di morte, tribunali segreti e tendenze a vendette illegali?
E non di meno, non è in nome mio - a me oggimai poco importa di ciò che l'opinione altrui, quando non mova da coloro che io amo e che m'amano, sentenziò a mio danno o a mio pro - ma in nome di tutto un partito, ch'io vi chiedo solennemente: quand'è che fu sancita in Italia la teorica del pugnale? chi la stese? chi l'appoggia coi fatti, o colla parola?
Se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi grida a una gente schiava, senza patria, senza bandiera che ne ombreggi la culla e la sepoltura: «Sorgete: morite o spegnete: voi non siete uomini, ma arnesi adoprati a beneplacito dello straniero; non siete popolo, ma razza diseredata di servi sprezzati quanto più guaîte; non siete Italiani, ma Israeliti, Paria, Iloti d'Europa; non avete nome, non battesimo di nazione, ma siete numero, vi rappresenta una cifra, e Francesco I descriveva con essa sfrontatamente le migliori anime nostre gementi, tormentate, schiacciate nelle segrete di Spielberg; primo, unico vostro debito è farvi uomini, cittadini; ogni educazione comincia da quello; nessun progresso può iniziarsi se non da chi è: sorgete dunque e siate; sorgete tremendi a quanti v'attraversano, in nome della forza brutale, le vie che la Provvidenza v'insegna: sorgete sublimemente feroci. Se i vostri oppressori vi hanno disarmato, create l'armi a combatterli: vi siano istrumenti di guerra i ferri delle vostre croci, i chiodi delle vostre officine, i ciottoli delle vostre vie, i pugnali che la lima può darvi. Conquistate colle insidie, colle sorprese, l'armi colle quali lo straniero vi toglie onore, sostanze, libertà, diritto e vita. Dalla daga dei Vespri, al sasso di Balilla, al coltello di Palafox, benedetta sia nelle vostre mani ogni cosa che può distruggere il nemico ed emanciparvi.» - Quel linguaggio è il mio, e dovrebbe essere il vostro. L'arme che uccise Marinovich, nel vostro arsenale, iniziò l'insurrezione della quale accettaste la direzione in Venezia; e fu arme di guerra non regolare, come quella che trafisse in Roma, tre mesi prima della Repubblica, il ministro Rossi.
Ma se per teorica del pugnale intendete il linguaggio di chi dicesse ai nostri concittadini: «Perite, non iniziando l'insurrezione, ma pel solo intento di ferire, e perchè non volete, non potete insorgere: ferite nell'ombra: ferite isolatamente individui, la vita o la morte dei quali non è nè salute nè ostacolo alla Patria; sostituite la vendetta, che disonora, alla congiura che emancipa: fatevi tribunale, prima di essere cittadini, prima di poter concedere alla vittima pentimento o discolpe:» - Chi tenne questo linguaggio255? chi stese in Italia l'atroce teorica? È debito vostro il dirlo o ritrattare l'accusa.
Quel linguaggio fu susurrato segretamente una sola volta, nel 1849, da qualche tristo, a pochi traviati in Ancona: e noi, repubblicani, rispondemmo ponendo Ancona in istato d'assedio, e reprimendo con vigore, mentre appunto le fazioni fremevano più che mai concitate intorno a noi per l'invasione francese, quei fatti insensatamente feroci. La repubblica uscì da Roma pura di terrore e vendette, senza aver segnato, tra i pericoli dell'assedio, una sola condanna di morte.
D'allora in poi, ravvolta nuovamente l'Italia nella tenebra della servitù, pochi fatti isolati di ferimenti uscirono, risposta disperata a lunghe inaudite persecuzioni, dall'inspirazione individuale, da furore d'uomini ai quali le commissioni militari torturavano forse o fucilavano un padre o un fratello. E a voi era lecito biasimarli, deplorarli inutili, pericolosi, o indegni d'un partito che tende a creare un Popolo: non addossarli all'intero partito, e additarli all'Europa come applicazioni pratiche d'una teorica che non esiste. Errano tuttavia, tra' vivi, uomini usciti imbecilli dalle prigioni di Modena per infusione di belladonna ministrata nelle bevande a sconvolgere loro la mente e farsi accusatori d'amici: un Cervieri, popolano lombardo. - e cito un solo nome ad esempio - ebbe in Mantova venti colpi di bastone al giorno, per una settimana: sul danaro che i congiunti mandavano al colonnello Calvi, perch'ei prima di morire strangolato pagasse un suo debito a un prigioniero, gli Austriaci, rifiutando pagare il debito, ritennero le spese della fune e del boja: e se un figlio, un fratello di Cervieri, di Calvi o di quegli infelici, avesse, fatto furente, dato di piglio ad un'arme, e trafitto in piazza il primo tra i persecutori in cui si fosse abbattuto, direste voi frutto di teorica quella uccisione?
In questo - nell'insana, incessante, efferata persecuzione contro il pensiero, contro i menomi atti sospetti, contro le sostanze, contro la vita di quanti sono rei o creduti rei d'affetti al paese - nel bastone fatto legge di mezza Italia - nell'insolenza perenne di padroni stranieri - nell'irritazione febbrile generata dai precetti e da uno spionaggio sfrontato - negli odî educati dalle denunzie pagate - nelle prepotenze consumate sotto l'egida d'un governo aborrito come il papale, da tirannucci subalterni, noti a ogni individuo delle nostre non vaste città - nell'assenza d'ogni educazione popolare - nel disprezzo forzato d'ogni instituzione esistente - nell'impossibilità di trovar giustizia contro i sorprusi degli oppressori - nello spregio della vita, conseguenza inevitabile d'ogni incertezza del domani - in una condizione di cose, che non poggia se non sull'arbitrio del potente - nella colpevole indifferenza dell'Europa governativa a un pensiero di Patria comune, ad una immensa aspirazione nudrita e inesorabilmente repressa da mezzo secolo - vive la teorica del pugnale.
Il partito, collettivamente, ha respinto sempre e respinge la tentazione tremenda che i nostri padroni ci porgono: se pochi individui, organi di non altro che della propria inspirazione, soccombono, è fatto e conseguenza delle cagioni che accenno, e che non cesserà se non col cessare di quelle. Bisognava dirlo. Bisognava ricordare all'Europa come, sopra ogni punto d'Italia, il nostro popolo fu sublime - ogni qual volta ebbe un lampo di viver libero - di perdono e di oblio. Bisognava ricordarle, ciò che pur jeri un ministro inglese dichiarava, contradicendosi, a proposito di Roma, davanti ai Comuni256 che le nostre città non furono mai sì bene governate e così pure di delitti e violenze, come quando una bandiera di Patria sventolò sulle loro torri. Bisognava ritessere il quadro delle nostre misere condizioni, e gridare: il governo austriaco, che s'ostina, contro il voto unanime della popolazione, a conservare ciò che non è suo; il governo di Francia, che tolse a Roma ogni via di miglioramento; il protestante governo inglese che dichiarò nei suoi dispacci di volere il ritorno del papa; i governi tutti d'Europa, che vietano all'Italia di essere nazione stanno mallevadori davanti agli uomini e a Dio pei pugnali che lampeggiano, tra l'ombra, sulle nostre terre. Essi cospirano tutti a contrastare il nostro libero sviluppo, a mantenere sul nostro suolo una grande Ingiustizia: incolpino sè stessi s'esce talora, di mezzo a una gente schiava, ineducata, abbandonata da tutti, una protesta anormale, violenta.
Era questa, parmi, la parte vostra. Gridare ad uomini che agonizzano ingiustamente sotto il coltello del boja: «non usate il coltello che vi vien tra le mani» è tutt'uno col gridare a chi muore in una atmosfera appestata: corra regolare il sangue nelle vostre vene; guarite: è lo stesso errore che quello dei valentuomini i quali aspettano per iniziare l'instituzione repubblicana, che i nati e educati sotto il dispotismo monarchico, abbiano virtù di repubblicani.
La teorica del pugnale non ha mai esistito in Italia; il fatto del pugnale sparirà quando l'Italia avrà vita propria, diritti riconosciuti e giustizia.
Oggi io non approvo, deploro, ma non mi dà il core di maledire. Quando un uomo, Vandoni, accerchia d'artificî in Milano il suo vecchio amico, per far ch'egli accetti da lui un biglietto dell'Imprestito Nazionale, poi corre a denunciarlo alla polizia dello straniero - se un popolano si leva il dì dopo e trafigge il Giuda a mezzo il giorno sulla pubblica via - io non mi sento coraggio di gettar la pietra a quel popolano, che s'assume di rappresentare la giustizia sociale aborrita alla tirannide.
Io aborro anche da una sola goccia di sangue, quando non richiesta imperiosamente pel trionfo e per la consecrazione d'un santo principio. Credo colpa la pena di morte applicata dalla Società che può difendersi, e vagheggio, primo decreto della repubblica trionfante l'abolizione del patibolo. Gemo sulle vendette individuali, anche se contro gl'iniqui, anche se manchi, ove si compiono, ogni rappresentanza di giustizia legale. Ricusai, affrontando la taccia di debole, di apporre in Roma la mia firma a una condanna nel capo pronunziata da un tribunale di guerra contro un soldato colpevole. Non temo dunque dagli onesti, interpretazione sinistra alle mie parole, se aggiungo che sono, nella vita e nella storia delle nazioni, momenti eccezionali ai quali il giudicio normale umano non può adattarsi, e che non ammettono inspirazioni fuorchè dalla coscienza e da Dio.
Santa è nelle mani di Giuditta la spada che troncò la vita ad Oloferne; santo il pugnale che Armodio incoronava di rose; santo il pugnale di Bruto; santo lo stile del siciliano che iniziò i vespri; santo il dardo di Tell. Quando, dove ogni giustizia è morta e un tiranno nega e cancella col terrore la coscienza d'una nazione e Dio che la volle libera, un uomo, puro d'odio e d'ogni bassa passione e per sola religione di Patria e dell'eterno diritto incarnato in lui, si leva di faccia al tiranno e gli grida: tu tormenti i milioni dei miei fratelli: tu contendi loro ciò che Dio decretava per essi: tu spegni i corpi e corrompi le anime: per te la mia patria agonizza ogni giorno, in te fa capo tutto un edifizio di servitù, di disonore e di colpe: io rovescio quell'edifizio, spegnendoti - io riconosco, in quella manifestazione di tremenda eguaglianza tra il padrone dei milioni e un solo individuo, il dito di Dio. I più sentono in core come io sento: io lo dico.
Io dunque non gitterei, come voi, Manin, l'anatema su quei feritori: non direi loro, con ingiustizia patente: siete codardi; non direi al Partito, che non incuora quei fatti: fallirete allo scopo se non fate che cessino - ma direi: «perchè ferite, o miseri? che sperate? se mai l'uomo ha diritto sulla vita dell'uomo, io so che la spia, il traditore, l'italiano, che accetta, per danaro, dall'oppressore straniero la infame missione di torturare o consegnare al patibolo i suoi fratelli intolleranti della servitù della Patria, son tristi e degni di morte; ma importa spegnerli? e potete spegnerli tutti? E potete esser giudici voi soli di ciò che s'agiti nella coscienza delle vostre vittime? Sapete voi se non saranno pentiti e migliori domani? e a ogni modo, volete esser tristi come essi sono? A vincere, noi dobbiamo esser migliori; a meritar la vittoria, noi dobbiamo cancellare dal nostro core ira, ferocia, vendetta. Noi siamo gli apostoli della Patria futura: vogliamo fondar la Nazione. In quella sacra idea, e nel dovere di far che trionfi, sta la sorgente dei nostri diritti. Or potete fondar la Nazione, conquistar la Patria a quel modo?
«A voi è mestieri di spegnere, non pochi satelliti dei vostri tiranni, ma la tirannide. E finchè vivrà - finchè avrete corruttori in seggio, bajonette straniere e patiboli, avrete corrotti, schiavi traditori per codardia, e tormentatori e carnefici; e ripulluleranno pur sempre, perchè il vostro pugnale lampeggia raro ed incerto e la bajonetta degli oppressori splende sugli occhî loro continua, inesorabile, onnipotente. Concentrate adunque la vostra energia in un pensiero d'insurrezione collettiva, che liberi a un tratto il vostro suolo dalle cagioni che creano i vili ed i tristi. Volgete, intesi fra voi, contro gl'invasori stranieri quei ferri, che oggi adoprate, assumendovi una tremenda missione di giudici, senza esame e senza difesa, contro uomini, che non sono se non arnesi della tirannide che vi sta sopra. Liberi, non avrete da temere o da punire traditori o giudici iniqui. Il diritto di conquistarvi una Patria è diritto che Dio vi dà: quello che vi date da per voi contro257 gl'individui, agenti ciechi del dispotismo, si libra tra la giustizia e il delitto.»
Se non che, a me, quegli uomini concederebbero il diritto di tener loro questo linguaggio, però che io grido insorgete e addito la via unica, semplice, razionale, e m'adopro, per quanto io so, perchè possano insorgere, e accetto e invoco la cooperazione fraterna di tutti, e chiamo gl'Italiani ad unirsi tutti in opre concordi ed attive intorno a un programma che nessuno, senza intolleranza o tradimento alla Patria comune, può rifiutare: La nazione salvi la nazione: la nazione decida, libera ed una, dei suoi destini. Ma voi?
Ponetevi la mano sul core, e rispondetemi: se un di quegli uomini sui quali voi chiamate l'anatema, sorgesse a dirvi: «Voi ci avete, Daniele Manin, predicato, con altri, l'odio alla dominazione straniera, l'idea nazionale, l'aborrimento agl'Italiani che rinnegano la nostra fede. Voi, con altri, avete messo nell'anima nostra la febbre di Patria. Perchè, cogli altri, non ci guidate alla conquista di quell'ideale? Perchè ci lasciate soli? Perchè, invece di volgervi a noi, fratelli vostri, vi volgete alla diplomazia, alle corti straniere, a una monarchia che non vuole e non può salvarci? Noi siamo milioni; v'abbiamo, nel 1848 e nel 1849, provato che siamo capaci di emancipare il nostro terreno: siamo oggi più forti d'allora, e ve lo provano i fatti stessi che biasimate: perchè non ci ajutate nell'opera del riscatto comune che di certo preferiremmo? perchè voi cogli altri, che salutammo, e siam pronti a salutare oggi ancora nostri capi, non v'unite a chi lavora per noi? Voi non amate i nostri pugnali, perchè non ci date fucili? Voi lo potete: voi e dieci altri nomi cari a tutti, unendovi a dire, palesemente, arditamente: è giunta l'ora! unendovi a chiedere ai facoltosi una parte del loro oro per noi che poniamo il nostro sangue sulla bilancia, riescireste, convincereste, indurreste a sacrificî quei che oggi, nell'anarchia del partito, tentennano irresoluti. Perchè nol fate? Perchè ci trascinate d'illusione in illusione, finchè scenda sull'anime nostre la disperazione? volete che i potenti d'Europa scendano a scannarsi per noi? volete che l'emancipazione d'Italia si compia con forze straniere? No; venite apertamente, francamente con noi. Aggiungete la vostra mente alle nostre braccia. Allora soltanto avrete diritto di consigliarci.» - Che potreste voi rispondere a linguaggio siffatto?
II.
Io non vi rimprovero i subiti amori per casa Savoja. Se a voi, fautore di repubblica jeri, piace il giogo d'un re, sia: meglio è dirlo che tacerlo. Se alle nobili tradizioni, repubblicane tutte, del nostro popolo, voi anteponete le tradizioni d'una famiglia, la cui storia si libra perennemente fra le invasioni di due potenze straniere - se alla libera, logica ed una espressione della coscienza nazionale parvi preferibile il complesso, artificiale viluppo, che chiamano monarchia costituzionale, un popolo imperfettamente rappresentato, una aristocrazia creata - dacchè aristocrazia propriamente detta non esiste in Italia - a incepparne sistematicamente la volontà, un sovrano che non governa, ma oscilla fatalmente fra i due - giudichi il paese il vigore del vostro intelletto: voi avete il diritto di predicare il concetto politico inglese, che volete trapiantare in Italia. Io non parteggio per casa alcuna: la mia casa è il Paese: il mio amore è riposto nella Patria comune; la mia fede vive negli sforzi, nel sangue, nella suprema energia del suo Popolo; la mia nozione del dritto posa sulla vita progressiva della nazione guidata dai migliori per senno e virtù; ma non m'irrito se altri dissente, e non credo che la discussione nuoccia alla mia fede repubblicana. Veglia, arbitro su tutti noi, il Paese. Io fido in esso.
Ciò che io vi rimprovero è il modo e il tempo di quel programma; è il mutare in formula di agitazione politica, prima del moto, un concetto che non può essere se non la conclusione del moto stesso; è l'oblìo assoluto, fatale dell'altra, della prima metà del programma, l'insurrezione; è l'irritare, l'allontanare più sempre dal terreno comune, indicato ripetutamente da noi, la parte repubblicana, comandandole dittatoriamente di gittare, ai piedi della frazione monarchica, la propria bandiera; è il sedurre a speranze addormentatrici in disegni segreti del governo piemontese, la gioventù fremente delle nostre terre, quando non esiste disegno alcuno, se non quello d'accattarsi popolarità e prepararsi le vie per padroneggiare e sviare un moto nazionale possibile; è il dire: la rivoluzione è vicina, come se l'Italia dovesse riceverla compiuta da un motu-proprio di gabinetto, invece di dire: fate la rivoluzione e siate; è il gridare: Roma non mova, invece di gridare: mova ogni angolo del paese; è il dichiarare che l'unificazione nazionale ha progredito d'un passo, perchè un ministro di casa Savoja ha tentato insegnare ai nostri padroni come s'eviti l'insurrezione unificatrice; è il travolgere - concedetemi l'acerba, ma giusta parola - nel ridicolo voi stesso, e, se poteste, il Partito, proclamando dall'esilio, e prima che un sol uomo sia desto a combatter tra noi, unificatore d'Italia un re, che non tenta, nè vuole, nè può unificare, i cui cortigiani rifiutano le vostre parole, e i cui ministri perseguitano, imprigionano e trasportano in America quei che si adoprano a mover guerra allo straniero, dismembratore della nostra Patria.
A chi giova la prematura, incauta proclamazione?
No. La corona d'un popolo che sorge non s'ha in dono; si vince. Volerla, prima di meritarla, è perderla. Se Carlo Alberto, invece d'attendarsi nel quadrilatero, correva, per impedire i rinforzi, ai monti; se, invece d'arrestarsi davanti ai pali della confederazione Germanica accampava in Tirolo; se invece di volere che Venezia, la vostra Venezia, Manin, scontasse la colpa della sua bandiera repubblicana, ei s'affrettava a difenderla e a cingere i passi delle Alpi Friulane e Cadoriche; s'ei non patteggiava col governo inglese la inviolabilità di Trieste; se, invece di rifiutare gli ajuti d'un popolo prode e voglioso, invece di sciogliere i volontarî, ei chiamava la libera guerra dei cittadini a fiancheggiare la battaglia dell'armi regolari; s'ei voleva, insomma o sapeva vincere, nessun partito valeva a contendergli la corona d'Italia.
La malaugurata fusione, affrettata appunto quando l'impresa volgeva in peggio, perdè lui e il paese ad un tempo. Dite al vostro re d'assalire e di vincere; quella è l'unica via per la quale ei possa sperare di cingersi la corona che voi gli decretate, mentr'egli, in virtù dei trattati, siede allato degli stranieri, occupatori di due terzi d'Italia.
Il paese, Manin, vive anch'oggi inerte, immemore dei suoi doveri, tra il capestro e il bastone. Bisogna insegnargli la fede in sè, colla fede in esso, l'unità dei voleri, colla concordia degli uomini, ch'egli a torto o a ragione saluta suoi capi, l'energia delle decisioni, colla insistenza d'una parola vera, ardita, immutabile. Bisogna additargli uno scopo determinato, i mezzi logici che ad esso conducono, i doveri che deve compire a raggiungerlo. Bisogna rapirgli inesorabilmente tutte le illusioni che lo disviano, poi rialzarlo colla conoscenza delle forze onnipotenti ch'esso possiede e dimentica. Bisogna, sopra ogni cosa, dargli coscienza di sè, della propria dignità, del diritto eterno che vive in esso, della tradizione de' suoi padri, dell'alta missione alla quale è chiamato nell'avvenire. Voi gli dite: Agita le tue catene, e scegliti un re.
A fronte di quei che gli dicono: Rompi le tue catene e sii re di te stesso, voi gli fate intravedere, nel nome di Vittorio Emanuele, un'arcana potenza che deve emanciparlo ed unificarlo; gl'insegnate, con un consiglio codardo, a disperare di vincere la gente straniera che occupa la sua Roma; lo dichiarate, da un lato, colla negazione del dogma repubblicano, incapace di guidarsi da sè; dall'altro, avviato già pienamente, mercè le cure del re piemontese e dei gabinetti stranieri, alla meta. Così, o Manin, non si destano: s'addormentano i popoli. L'Italia aspettava ben altro linguaggio da voi.
È tempo di dire all'Italia, e senza riguardi, la verità. Gli uomini i quali sagrificano, e ripetutamente, le loro convinzioni a un calcolo d'opportunità momentanea - gli uomini che, a sciogliere il problema italiano, guardano all'estero e non nelle viscere del paese - gli uomini che, dopo aver maledetto alle delusioni del 1848, chiamano l'Italia a rifar quella via di vergogna e sciagura - gli uomini che, dopo aver veduto il popolo vincere su dieci punti d'Italia, e l'esercito regolare, mal guidato e tradito, soccombere, insegnano al popolo che non può vincere, se non mercè quell'esercito - gli uomini che credono l'opera di alcune dichiarazioni sospette e d'alcune adulazioni mentite, bastevole a conquistare ad un tempo esercito e governo che lo dirige - gli uomini che susurrano possibile, prezzo d'apostasia, l'iniziativa della monarchia piemontese - gli uomini che, dopo tanto millantar di vulcani e ruine presso ad esplodere, non gridano unanimi al paese: vergognati e sorgi - tradiscono, consci o inconsci, per difetto di core o di senno, la causa della Nazione. Qualunque sia il nome che portano, la nazione deve rifiutarne i consigli.
Quell'esercito, pel quale voi siete presti a dimenticar la Nazione intera, lo avremo: è esercito italiano, prode, memore, e sente con noi l'aborrimento dello straniero; ma non lo avremo, fuorchè levandoci e invocandone, armati, l'armi. Quel re, al quale in oggi piaggiate, come piaggiaste, per poi maledirlo, al padre di lui, lo avrete - e piaccia a Dio che non abbiate a pentirvene - purchè vogliate: è giovine, coraggioso; l'onta di Novara e l'insulto austriaco devono da quando a quando balenargli sugli occhî, ed è possibile ch'egli un giorno, commosso a forti pensieri, cacci da sè i codardi uomini di gabinetto, che lo circondano, e si faccia, di piemontese, italiano; ma non prima che voi sorgiate, non prima che voi gli abbiate offerto, in azione, un più potente alleato che non è la diplomazia, non prima che il grido di un popolo sommosso gli abbia tuonato all'orecchio: scendi o inalzati con noi. I re seguono talora, non iniziano mai. Chi tenta indugiar la Nazione dietro al fantasma d'un'iniziativa monarchica, o inganna, o ha smarrito il senno.
Le tradizioni del governo piemontese son regie. La monarchia è vincolata, da vecchî e nuovi trattati, alle altre monarchie, e alle norme generali d'ordine e assetto territoriale europeo, prestabilite da lungo. Può il governo piemontese rompere a un tratto, non provocato, non costretto dalla prepotenza di fatti, spettanti ad un ordine nuovo, quei vincoli e quei trattati? Tutta la politica degli uomini del gabinetto sardo poggia sulla speranza di conquistarsi la simpatia e, occorrendo, l'appoggio dei gabinetti inglese e francese; può il gabinetto sardo provocarsi contro l'ira dei due alleati, i quali, col linguaggio officiale e segreto, gl'intimano una politica di resistenza, e non altro? Ogni idea di mutamenti territoriali fu solennemente, unanimemente respinta, nelle Conferenze di Parigi: il diritto italiano vivente, fremente nei Lombardo-Veneti, non ottenne dai plenipotenziarî sardi neanche una sommessa, indiretta allusione: riconoscendo la legalità dello statu-quo, essi s'accontentano d'accennare a una teorica possibile di non intervento, che vietasse all'Austria d'allargarsi oltre agli attuali confini258; e pretendereste che re Vittorio Emanuele scendesse un giorno subitamente in campo, varcasse spontaneo il Ticino e la Magra, intimasse ai re delle varie parti d'Italia di scendere; intimasse, affrontando scomuniche e l'armi dell'Impero alleato, al Papa di rassegnare la potestà temporale, e, fatto incitatore d'insurrezione, sovvertitore dell'equilibrio territoriale e del diritto comune governativo europeo, cacciasse il guanto a tutta quanta la lega dei re? Voi, re, nol fareste. Io, re, scenderei dal trono, mi rifarei cittadino, e il dì dopo, libero d'ogni vincolo coll'Europa monarchica, griderei a soldati e a cittadini: seguitemi all'impresa. Sperate l'una o l'altra decisione da re Vittorio Emanuele?
Voi dunque, ai quali par fede che una nazione non possa farsi e vivere senza re, non potete avere il re che chiedete, se non aprendogli la via con una insurrezione di popolo. L'Insurrezione è, per voi come per noi, l'unica soluzione possibile del problema italiano. Per voi, come per noi, l'iniziativa dell'impresa spetta al nostro popolo: il monarca unificatore non può che seguire; l'esercito piemontese non può che rispondere alla chiamata de' suoi fratelli. Perchè dunque non vi unite con noi a procacciare, a promovere, a persuadere l'insurrezione? Perchè, invece di decretare, voi esule, a una terra schiava un re alleato in oggi degli alleati dell'Austria, non vi adoprate con noi a scuotere i giacenti, a rinfrancare gl'incerti, a raccogliere gli ajuti per chi vuol movere, a diffondere concordi la parola che suscita, a cominciar contro l'Austria quella guerra, che può sola presentare al re vostro opportunità di snudare la spada e rivelare all'aperto le generose intenzioni, susurrate oggi misteriosamente all'orecchio dei creduli, dai faccendieri di corte?
Invertendo l'ordine logico dei fatti, che devono e possono costituire lo sviluppo della nostra rigenerazione, voi, che pur vi dite pratici e positivi, nuocete al popolo, smembrando il Partito Nazionale che deve guidarlo, disertando l'unico terreno comune, sul quale tutte le forze potevano e possono tuttora raccogliersi; nuocete al re, facendolo apparire davanti all'Europa provocatore segreto d'agitazioni ostili ai governi; aizzandogli contro le ammonizioni e le minaccie di quegli stessi gabinetti che, disposti a salutare un fatto potente compiuto, desiderano pur non di meno impedire che sorga, costringendolo, quand'ei non abbia energia o ipocrisia sovrumana, a legarsi verso i governi europei con nuove promesse di pace, d'ordine, d'immobilità, se non forse di repressione. Siete a un tempo amici imprudenti, tiepidi e malsicuri patrioti.
Perchè dunque ostinarvi su quella via? Perchè, uomini che amano anch'essi sinceramente il paese, non si stringono in un accordo comune di pensieri e d'azioni onde persuadere all'Italia che il momento per levarsi è venuto, e ajutarla ad afferrarlo con celerità di mosse e imponenza di forze?
S'arretrano essi forse impauriti davanti all'esclusivismo repubblicano?
No: voi non proferirete quella parola, Manin; voi men ch'altri potreste proferirla senza arrossire. La storia dei tentativi fatti da me, perchè tutti ci unissimo sopra un terreno, che non è il mio, ad ajutare le tendenze generose d'un popolo, che è migliore di noi letterati, v'è nota. Ma, lasciando la banda gli sforzi inutili d'un individuo, il grido unanime dei repubblicani d'Italia, convalidato da fatti innegabili, sorgerebbe a smentire l'accusa.
La Nazione salvi la Nazione: la Nazione, libera ed una, decida dei suoi propri fati - è programma esclusivo? Può intendersi, senza quella formola, l'esistenza d'un Partito Nazionale? Non possono, non devono, all'ombra di quella bandiera, abbracciarsi quanti cercano la Patria comune, a qualunque frazione appartengano? Non rimane l'avvenire aperto a ciascuno?
Noi, repubblicani oggi siccome jeri, non vogliamo imporre repubblica, e confessiamo arbitro supremo il paese: voi, repubblicani jeri, volete in oggi imporre la monarchia: chi è l'esclusivo tra noi?
Giugno 30.
III.
In una vostra lettera, s'io non erro, del 28 maggio, voi decretavate Vittorio Emanuele re unificatore d'Italia.
Nella vostra del 26 giugno, voi professate d'insegnare, per mezzo della stampa inglese, agl'Italiani di Napoli, il modo d'ottenere che Ferdinando ridiventi monarca costituzionale delle Due Sicilie. Se migliaja, anzi milioni d'uomini, schiavi d'una tirannide illimitata, possano quetamente intendersi a praticare universalmente un rimedio più che difficile e rare volte tentato là dove vivono libertà e diritti custoditi da corpi deliberanti - se, dove potesse raggiungersi armonia di voleri siffattamente miracolosa, non valga meglio scendere in piazza ed emanciparsi a un tratto dall'esoso governo - è questione che gli uomini del regno sciorranno, se giunge ad essi il vostro consiglio. Io scrivo a chiedervi, a chiedere agli amici vostri, come si concilii la unità d'Italia sotto Vittorio Emanuele col ristabilimento d'una monarchia costituzionale in Napoli. L'Italia ha lungamente deplorato, Manin, il vostro silenzio; temo che voi dovrete deplorare tra non molto l'ora, in cui i suggerimenti di falsi o d'incauti amici v'indussero a romperlo.
Che cosa è che volete? In chi credete? qual via pratica di risurrezione additate voi all'Italia? Qual è il principio, il metodo che vi guida? Ogni uomo che s'arroga il diritto di consigliare un Popolo, ha debito di dirlo chiaro. Voi accarezzate il linguaggio reciso, laconico, dittatoriale, dell'uomo che si sente capo, e domanda d'esser seguito; non potreste avere aperto, logico, definito il pensiero? Volete l'unità d'Italia sotto un solo monarca, o volete sette principi che, di fronte a minaccie interne o straniere, giurino oggi e sgiurino domani costituzioni? Volete un'insurrezione nazionale che ci conquisti colla forza delle armi la Patria comune, o volete riforme locali, che ci diano una dose omeopatica di libertà, concessioni che ci addormentino, amnistie che ci disonorino? Quando chiedete al Popolo agitazione, intendete agitazione di petizioni, dimostrazioni pacifiche, come quelle che precedettero nel 1848 le cinque giornate, e che oggi sarebbero accolte dalla mitraglia, o le sommosse parziali, che annunziano e talora affrettano l'insurrezione? Quando dite che la rivoluzione è forse vicina, accennate a un levarsi di moltitudini o ad una mossa spontanea del monarca unificatore? Quando scongiurate che Roma non mova, insegnate codardia all'insurrezione o fidate in arcani disegni dell'uomo del 2 dicembre?
A voi, ai vostri, incombe rispondere; e nol farete. Nol farete, atteggiandovi a sprezzatori di richieste che chiamerete imprudenti, a diplomatici che non possono, senza grave danno, rivelare il loro segreto. Ma il vero è che non potete rispondere. Voi non avete segreto; non avete programma; non avete principio che vi guidi. Voi non vivete di vita italiana, ma d'inspirazioni straniere. Voi cercate l'Italia, non nelle aspirazioni e nella potenza, provata pochi anni addietro, delle sue moltitudini, ma nei suggerimenti, nelle instigazioni di gabinetti, che ci hanno sempre traditi. Io ne conosco gli agenti, e potrei nominarli.
I governi europei tremano dell'Italia. Questa povera Italia, Cristo delle nazioni pei patimenti, ha pure fidata a sè dalla Provvidenza la parola della grande universale risurrezione; e lo sanno. Sanno che il giorno in cui, inspirata da un momento di fede suprema, essa oserà proferirla, la sepoltura, nella quale son posti a giacere i popoli, si aprirà in un subito a dar varco alla nuova vita. Sanno che noi teniamo in pugno la questione delle nazionalità, il nuovo assetto d'Europa. Sanno che un grido potente di redenzione non può sorgere da questa terra, che ha dato due volte la parola d'Unità alle razze europee, senza suscitare Ungheria, Polonia, Germania, Francia, Grecia, e Slavi meridionali. E quando, frutto dei casi europei, delle nuove delusioni, della rinfierita tirannide, ed opera del partito al quale io mi onoro d'appartenere, sorse il fermento confessato dai memorandum, dai discorsi ministeriali e dalla stampa europea, essi, i governi, s'affrettarono impauriti a cercare, poichè non potevano spegnerlo, il come sviarlo, e s'appigliarono al vecchio artificio del 1831 e del 1848, dividere in due correnti la piena che minaccia sommergerli, smembrare in due campi il campo della nazione, incitar gli uni, i più lenti, sì che, non movendo mai, accennino pur sempre di movere, frenar gli altri, i più fervidi, colle speranze di eventi prossimi e d'una unione generale di forze, che non verrà mai, se non da un audace fatto compiuto. A questo concetto, sorgente in oggi di quanto s'opra o si mormora nelle sfere governative, era necessaria una bandiera, un'autorità di nome italiano, noto e caro all'Italia, che impiantasse il dualismo nelle nostre file: e scelsero voi. Voi siete, inconscio, il Gioberti del 1856.
Tornate a noi, Manin; tornate al campo della nazione; tornate agli uomini che difendevano l'onore d'Italia in Roma, mentre voi lo difendevate in Venezia; tornate al Popolo, al Popolo che combatte e muore, al popolo che non tradisce, al Popolo delle cinque giornate, al Popolo dei grandi fatti di Sicilia, di Bologna, di Brescia, della città che v'ha dato vita. Siete in tempo. Lacerate tutte le vostre lettere, e serbate unicamente il se no, no della prima: un anno d'ambagi, di codarde dubbiezze, e d'inadempite speranze, ha ormai cancellato quel se. Vi rassegnaste a un'ultima prova; dichiaratela or consumata, e venite a noi. Dite agli Italiani: accoglietemi: io non ho più fede che in voi. V'accoglieranno plaudenti; e risponderanno, credete a me, all'accordo unanime degli uomini di tutte le frazioni, con fatti, che saranno ai bei fatti del 1848, ciò che l'incendio è alle annunziatrici scintille.
L'Italia versa oggi in uno di quei momenti supremi nei quali il Partito deve decidere tra il fare ed essere domani, o soggiacere a un decennio di schiavitù. Nella guerra delle nazioni oppresse, le circostanze geografico-politiche, in consenso noto degli animi dall'Alpi al mare, e l'opinione europea, hanno decretato che l'iniziativa spetta all'Italia: bisogna accettarla, o abdicare e aspettar salute dalla lentissima, incerta modificazione delle cose europee.
Da un lato, le insurrezioni antivedute, prenunziate inevitabili dall'opinione, sono appoggiate dall'opinione; la nostra proromperebbe come incarnazione, rappresentanza materiale d'una idea, d'un principio, che ha già ricevuto la cittadinanza europea. Le confessioni della diplomazia, l'attenzione rivolta da tutti i governi alle cose nostre l'agitazione seminata dagli uomini della monarchia piemontese, le previsioni della stampa di tutti i paesi, l'ordinamento spontaneo, o provocato dagli uomini di parte nostra tra il popolo delle città tutte quante, dentro e fuori d'Italia, hanno a gara preparato il terreno a chi vorrà impossessarsene. Ogni fatto, splendido d'ardire e di volontà, compito in nome della Nazione e delle Nazioni, apparirà come segnale inaspettato, invocato dagli oppressi di tutti i paesi. Dieci bandiere di popoli risponderanno, sorgendo a guerra, a quel fatto.
Dall'altro, non giova dissimularlo, l'opinione delusa rovescierebbe su noi giudicio severo; il terreno conquistato dalle prove del 1848 e del 1849 sarebbe perduto. Il core dell'Europa batteva, concitato di speranza e di fede, per la Polonia molti anni dopo l'insurrezione del 1830; l'inerzia sistematicamente adottata, per calcoli d'opportunità menzognere, dagli uomini di quella nazione nel 1848 e negli anni che vennero dietro, ha spento quel palpito d'affetto; e l'opinione, ch'io so mal fondata, pure universalmente diffusa, che la Polonia sia morta, russa, impotente, fu una delle principali cagioni che trattennero il popolo inglese dal comandare al proprio governo di mutare le tendenze dell'ultima guerra. Lo stesso avverrebbe di noi, s'or tradissimo le speranze vive per ogni dove. Abbiamo tanto snudato le nostre piaghe all'Europa, abbiamo svelato con tanta insistenza la storia dei nostri dolori e a un tempo stesso del nostro fremito e delle nostre minaccie, che non dovremmo lagnarci fuorchè di noi, se l'Europa, stanca e vedendoci pur sempre fallire al momento opportuno, gittasse su noi la condanna: sono millantatori codardi; meritano pietà, non favore ed ajuto.
Bisogna fare, o scadere.
E fare e riescire si può, se - lasciate da banda le vie oblique, rinunziando, non a giovarsi della diplomazia, ma ad accettarne le inspirazioni, rassegnando alla nazione emancipata i programmi dell'avvenire, accettando, fin dove importa, la cooperazione d'ogni elemento, ma non sottomettendo la propria azione ad alcuno - gli uomini che amano il paese più che sè stessi, vogliano unirsi tutti ad azione incessante, ardita, virile, nelle norme seguenti:
Vogliamo una Patria, vogliamo la Nazione; vogliamo che una Italia sia. Possiamo accettare, a giovarcene, non chiedere, riforme o miglioramenti amministrativi e civili. Sappia l'Europa che venticinque milioni d'uomini, figli d'una terra che ha dato all'Europa incivilimento e unità morale, non chiedono elemosina di condizioni più miti, ma chiedono d'essere ammessi, Nazione, tra le Nazioni.
La libertà e l'unità d'Italia non possono conquistarsi che colle nostre forze, col nostro sangue, colla battaglia di tutti per tutti. I nostri più potenti alleati devono essere i popoli oppressi come noi siamo. Li avremo a seconda dell'energia che riveleremo sorgendo. I forti son certi di essere seguiti.
Qualunque sia l'intenzione, qualunque il disegno della monarchia piemontese, l'iniziativa del moto spetta necessariamente al popolo. L'insurrezione popolare può sola preparare freno e rimedio ai disegni, se tristi; sola porgere opportunità al loro sviluppo, se buoni.
Qualunque sia quindi l'opinione in proposito di ogni italiano che ami davvero l'Italia, egli deve rivolgere tutti i suoi sforzi a promovere l'iniziativa insurrezionale.
L'Italia è matura per sorgere e vincere, più assai che non era nel 1848, quando eravamo incerti del popolo, oggi deliberatamente nostro in tutte provincie, in tutte città. Non bisogna consecrarsi a lavori già fatti. Non bisogna smarrir tempo e cure in vasti preordinati disegni, scoperti, traditi sempre, prima di tradursi in fatti: bisogna chiamare gli audaci all'azione aperta, coll'azione aperta:
Spirar fiducia negli irresoluti, provando ad essi col fatto, che sorgere, trascinarsi dietro le moltitudini e vincere, è cosa possibile; provare, come il filosofo antico, la possibilità del moto, movendo:
Diffondere per ogni dove il fermento, l'aspettazione, l'ansia del segnale; e concentrare il lavoro pratico, definito, sopra un punto dato d'onde abbia a sorgere quel segnale, è questo il segreto della vittoria per noi.
Ogni provincia, ogni città importante d'Italia può essere quel punto; ogni provincia, ogni città d'Italia deve lavorare ed essere quel punto. Ogni terra d'Italia ha in deposito il Diritto e il Dovere della Nazione; ogni terra d'Italia può assumersi l'iniziativa del moto, e formare l'antiguardo del grande esercito nazionale.
La prima che sorge deve sorgere in nome di tutte: tutte devono senza indugio seguirne il segnale:
Fuori gli stranieri; giù le tirannidi quali esse siano: la Nazione è una e sovrana; in essa sola vive eterno, incancellabile, il diritto di prescriver forma ai proprî destini: chi non accetta programma siffatto non appartiene al Partito Nazionale; è uomo di setta o di fazione; chi lo accetta, lo dica, lo diffonda a un nucleo d'uomini intorno a sè, raccolga sollecito danaro e materiale da guerra quanto più può, e comunichi direttamente, o attraverso il nucleo che gli è vicino, col centro della sua provincia o città.
Un Governo d'Insurrezione, uscito e approvato dall'insurrezione stessa, ne regga le parti. Quei che scendono in campo ad appoggiare il moto iniziato, siano accolti, quali essi siano, come alleati e fratelli, non come padroni.
Fatti e non parole; sagrifici e non frasi pompose di retori o discussioni interminabili su programmi; cartuccie e non libri; ogni cosa è concessa a un Popolo schiavo fuorchè il cader nel ridicolo; e noi, schiavi di stranieri, di papi, di preti, di re, di gendarmi, di tutti e di tutto, ciarlando sempre di sorgere, e non sorgendo mai, vi camminiamo a passi veloci.
Venite a noi, Manin; date il nome vostro a norme siffatte; la Nazione dimenticherà le vostre lettere, per non ricordar che Venezia. E se no, no. La Nazione, temo, dimenticherà che foste capo, grande talora, d'un Popolo di prodi, per ricordarsi soltanto dell'uomo, che, acclamato capo d'una Repubblica, sagrificava ripetutamente alla monarchia il principio giurato, vietava alla futura Capitale d'Italia di cacciar lo straniero, e decretava ad un tempo, il Borbone re costituzionale di Napoli, e Vittorio Emanuele monarca unificatore d'Italia.
2 luglio.