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Io onoro il vostro passato; non intendo il vostro presente. Ammiro e ammirerò sempre in voi uno di quei nostri martiri che primi, mentre la patria dormiva e l'idea Nazionale era sogno di pochi, rappresentaste nobilmente allo Spielberg l'antica protesta del Diritto Italiano contro la forza brutale; ma mi geme l'animo in vedervi, or che la Patria si è desta, or che l'Idea Nazionale è fremito di tutto un popolo, trascinarvi miseramente dietro a un fantasma di forza, rinegare, pur balbettandone il nome, la coscienza della Nazione, e protestare, con una ostinazione che non ha scusa, il Dritto Italiano a' piedi d'un re tentennante che guarda altrove e di pochi ministri inetti, diseredati di ogni grande concetto, che si giovano di voi a logorare d'illusione in illusione la fede operosa di quei che vorrebbero far salva davvero l'Italia.
Ricordo gli anni nei quali noi, giovanotti allora, tendevamo, palpipanti di riverenza e d'amore, l'orecchio a ogni voce che movea dal luogo ove sorgevano le vostre prigioni, come s'essa dovesse recarci un messaggio di fede. Lo Spielberg era per noi il Golgota dell'Italia e voi eravate gli apostoli perseguitati, confessori d'una religione nazionale nascente, destinata a ritemprare una gente caduta in fondo per idolatria d'interessi, e risollevarla all'adorazione dei principî, del Vero eterno, del Dritto immortale. Ah! dovea tanta espansione d'affetti, tanto entusiasmo d'anime pure e fidenti, condurci a vedere il nostro Pellico morire della morte dell'anima prima che di quella del corpo, e a udir voi, Giorgio Pallavicino, gridare all'Italia l'atea parola: prostrati a un re, adora l'idolo dell'interesse dinastico, o rimanti schiava!
Io non so chi suoni quel noi frequente nelle vostre pagine del 15 ottobre259. Parlate, accettate, in nome degli uomini che si dicono di parte regia? È il vostro ultimatum una risposta collettiva alle nostre conciliatrici proposte? Sale dell'anonimo ex-prigioniero di Stato, al quale io accennava pochi dì innanzi, fino all'aule nelle quali, in nome d'Italia, si patteggia coll'impianto d'una dinastia straniera nel Sud? Veggo, in cima allo scritto vostro, le parole: Partito Nazionale Italiano. Quelle parole, usurpate a noi, come s'usurpa una parola d'ordine a cacciare scompiglio in un campo, e poste oggi in capo a scritti, che sembra abbiano assunto di travolgere nel ridicolo la causa italiana, furono usate nel senso regio, prima che da altri, da Daniele Manin. Assente egli al vostro dilemma? l'altero se no no, che suonava naturalmente: liberi con voi o senza voi, si tramuterebbe oggi dunque nella formola servile: liberi per opera vostra o schiavi? Gioverebbe saperlo. Gioverebbe sapere se, mentre gli stranieri s'agitano per noi col grido l'Italia per gl'Italiani, gli uomini della Monarchia piemontese hanno core di presentare ai loro fratelli il programma: o nostri o dell'Austria. Se mai ciò fosse - se mai le imprudenti parole: noi respingiamo la bandiera neutra, giudicando la conciliazione impossibile, fossero le parole, non d'uno o di pochi individui, ma d'un intero Partito - quel Partito diventerebbe immediatamente setta, fazione. Chiunque ha core in Italia e senso di dignità si leverebbe per dirgli: «O non sorgeremo o sorgeremo per essere liberi e padroni di noi; possiamo donarci, non soggiacere a condizioni prescritte.» E a noi, uomini non di re ma della Nazione, non rimarrebbe che spiegare esclusivamente la vecchia nostra bandiera, e dirvi: Noi accettiamo l'arbitrio del paese, non quello d'una frazione: se respingete ogni conciliazione, se rovesciate l'altare della sovranità nazionale, noi ci riconcentreremo alla nostra fede individuale e grideremo Repubblica.
No; non è. Voi non siete interprete d'un partito. Le aspirazioni degli uomini di parte monarchica non vanno tant'oltre. Essi non si arretrerebbero di certo davanti a una violazione della libertà nazionale; taluno fra i vostri lo diceva, ingenuamente immorale, poc'anzi: «vinciamo; poi imporremo»260. Ma non osano. Il pensiero della unità nazionale è troppo grande per essi: sanno che la corona d'Italia schiaccerebbe le auguste fronti dei nostri principi. Gli illusi patrioti li tentarono tutti, ad uno ad uno, nell'ultimo mezzo secolo, respinti da tutti; il più tristo rispose alla proposta col patibolo di Ciro Menotti: il più debole, Carlo Alberto, colla diserzione al campo nemico. Non si crea una nazione se non da chi l'ama: bisogna venerarne il concetto, incarnarlo in sè, consecrargli la vita, fremere, vegliar le notti, affrontar l'insulto, patire, fare per esso: i re non amano; hanno talora un'ambizione volgare, un interesse - voi stesso lo dite - a guida; e non possono levarsi all'ideale della creazione d'un Popolo. Poveri d'intelletto, corrotti dai godimenti del presente, immiseriti dall'adulazione servile che li circonda, non hanno nè possono avere intuizione dell'avvenire. Legati da vincoli di trattati, di parentela, di tradizioni dinastiche, tra la minaccia della diplomazia collettiva e quella dei popoli, ai quali ogni passo salito rivela un nuovo orizzonte di verità fatale alla monarchia, tremanti dell'una e degli altri, essi non porranno mai a rischio la loro piccola corona dell'oggi per la speranza di conquistarne una maggiore domani. E gli uomini di parte monarchica conoscono i loro padroni, nè s'attentano, nei loro disegni, di là dai confini voluti. Quei disegni non hanno varcato mai, non varcano in oggi, una timida, lontana, incerta speranza di un limitato ingrandimento territoriale, e non da conquistarsi coll'audace iniziativa dell'armi, ma da procacciarsi, quando noi popolo sorgessimo, dalle potenze occidentali, in ricompensa di pericoli più gravi rimossi, e patteggiando con Murat, coll'uomo del 2 dicembre, con qualunque possa ajutarli all'intento.
La parola Unità è bandita, nei conciliaboli, come sovvertitrice dell'ordine europeo, derisa come utopia ineseguibile d'uomini insani e pericolosi. Lo avversarla è patto giurato di gabinetto, e prezzo d'una promessa di protezione straniera all'inviolabilità dei dominî attuali. Il grido che voi proponete apparirebbe suggerimento, provocazione piemontese ai gabinetti proteggitori: essi minaccerebbero ritrarsi; però, i vostri, che non osano, nè sanno, nè possono combattere senza quell'ajuto, rifiutano l'intento, l'una Italia che voi proponete. Essi - da alcuni individui in fuori - parlano dell'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato non abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto: i loro progetti, se mai potessero verificarsi, sommano a sprecare onore, sostanze, vite italiane, per fondar quattro Italie, una francese, una austriaca, una papale, una sarda; e le quattro ne trascinano inevitabilmente una quinta, la siciliana, dacchè l'Inghilterra non consentirà mai la Sicilia a un prefetto di Francia. O voi ignorate queste intenzioni e siete cieco, passeggiate coi bambini nel limbo: o voi lo sapete - e allora, perchè illudete i vostri concittadini? perchè li persuadete a sperare in intenzioni che il governo liberatore non ha? perchè v'intitolate Partito Nazionale? perchè dite noi?
Voi non lo ignorate. Voi sapete che l'Idea dell'Unità Italiana, senza la quale la Patria è nome vuoto di senso, non entra nei disegni della monarchia piemontese. Voi volete - sono vostre parole - allettare, sforzare all'uopo il monarca. Possibile! È la causa d'Italia caduta così in fondo, che noi dobbiamo, non accogliere, ma mendicare un padrone? Che? far dipendere da un egoismo allettato la creazione di un Popolo? sforzare un re ad esser grande? voi lo sforzerete a tradirci. Il monarca allettato si ritrarrà davanti al primo ostacolo grave che lo minaccerà sulla via; e quando noi vorremo costringerlo a inoltrare, ci tradirà. Così fece Pio IX; così il re di Napoli; così, per colpa propria o di chicchessia, la monarchia piemontese nel 1848. Non ci costringete perdio, a rimescolar quella storia di vergogna e di sangue.
Se Dio potesse mai oggi mandare nel core d'un re il grande pensiero di farsi liberatore e unificatore della propria Nazione - se il POPOLO non fosse, per decreto di Provvidenza e logico sviluppo di sintesi storica, l'unico re possibile dell'avvenire - quel re porrebbe da un lato, disposto a perderla, la povera sua corona, e snudando la spada e cacciandola attraverso la rete di vecchi iniqui trattati, che gli contendono libertà d'opere, griderebbe ai milioni che lo circondano: ecco: io non sono monarca, ma primo soldato e primo cittadino d'Italia,. Noi dobbiamo cancellare insieme un'onta di secoli, insieme conquistare il Diritto di reggerci liberi a unità di Nazione. Serratevi intorno a me, però ch'io mi sento deciso a vincere o cadere con voi. Quel re, vincendo, non avrebbe forse il misero vanto di fondar dinastia; pur di certo ei sarebbe, monarca, preside o dittatore, l'Eletto del Popolo. Ma un re sforzato? un re allettato dall'offerta d'una più ricca corona?
Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio.
Da un re allettato avreste promesse splendide in sulle prime; poi, per forza di cose, titubanza, come di chi procede, non per impulso proprio, ma per altrui - scelta di capi avversi o ineguali all'impresa, comandati dalle tradizioni aristocratiche di ogni monarchia - limitazione dei disegni di guerra fin dove imporrebbero le monarchie sperate amiche o non nemiche - sospetto d'ogni elemento non interamente dipendente dall'inspirazione monarchica - rifiuto di tutti gli ajuti che tendono a dar, coll'azione, coscienza al popolo della propria forza e dei propri diritti - prostrazione d'ogni entusiasmo nelle moltitudini, che sole assicurano vittoria ad ogni guerra nazionale - isolamento dell'elemento regolare, inferiore per cifra al nemico - indietreggiamento e tendenza ad accogliere patti disonorevoli e contrarî al primo programma - malcontento del popolo rieccitato - inganni a sopirlo - capitolazioni vergognose - e Novara.
È legge di cose, e voi non potete sfuggirla. Sforzando o allettando, voi preparate al paese la terza rovina, la seconda Novara.
Io vi predissi la prima; ed or vi predirei la seconda: ma non oserete. Voi siete, o monarchici, diseredati d'iniziativa. Nessuno agirà primo in Italia se noi non agiamo. E se, a Dio piacendo e all'Italia, operiamo, respingeremo la vostra esclusiva, tirannica, intollerante bandiera.
La respingeremo, perchè prefiggere anzi tratto un capo a una Insurrezione Nazionale, e darne le sorti al caso, è tutt'uno. I capi delle insurrezioni escono dalle insurrezioni medesime; e allora soltanto possono incarnarne in sè il concetto e l'audacia.
La respingeremo, perchè prefiggere a una Insurrezione Nazionale un re, è lo stesso che condannarla a tutte le tradizioni, necessità, esitazioni, transazioni, inerenti a una guerra regia, fatali inevitabilmente al successo. Dando la condotta d'una insurrezione al principio monarchico, voi affidate lo sviluppo d'una rivoluzione al principio dell'ordine stabilito: e quanto al re guidatore, voi lo ponete nel bivio o di segnare egli stesso gli ultimi fati della dinastia, o di tradire. Non è un solo tra voi che non abbia scritto o detto, l'avvenire dell'Italia libera essere la Repubblica.
La respingeremo, perchè da Vittorio Emanuele non abbiamo pegno alcuno di genio, di devozione all'Italia, di audacia pari all'impresa, di ferrea costanza e di preconcetto disegno. Sappiamo ch'egli trovò lo Statuto legge del regno, che lo accettò, e che non potrebbe, se anche ei volesse, ritorlo. Sappiamo che i ministri, nei quali ei fida, rifiutano, come utopia non verificabile, l'Unità dell'Italia, ne perseguitano i promotori, e accettano, taluni almeno, la vergognosa, funesta influenza imperiale di Francia, al mezzodì dell'Italia.
La respingeremo perchè tutti i municipalismi, che voi Pallavicino enumerate nel vostro scritto presti a confondersi nella grande libera espressione della Volontà Nazionale, riarderebbero, minacciosi, il giorno in cui volessimo cancellarli sotto il dominio imposto d'un re, domandato ad una o ad altra provincia.
La respingeremo, perchè siamo Repubblicani, e se accettiamo, più riverenti che voi non siete al paese, il voto della Nazione, quando anche avverso alle nostre credenze, non vogliamo soggiacere all'arbitrio d'una frazione impercettibile del Partito.
E la respingeremo, perchè è parola - non di codardi: avete provato che voi nol siete - ma codarda, il dire ad un popolo, che deve e vuole farsi libero: da un individuo pende la tua salute; devi acclamarlo o non insorgere. Un popolo, che accettasse questa formola stivatrice, non merita d'essere libero, e nol sarà.
A questo popolo, grande anche nella sventura - a questo popolo, che gl'istinti europei additano come depositario dei fati delle nazioni oppresse - è tempo, parmi, di tenere linguaggio diverso e più degno. Questo popolo balzò gigante dal fango d'un doppio servaggio, sei anni addietro, commosso da una parola di Nazione e di Libertà, che noi gli avevamo proferita, santificata dal sangue dei nostri martiri. Non chiese un re, ma una Patria; non mendicò, a patto di concessioni servili, promessa di battaglioni ordinati, ma disse a sè stesso: sono italiani e li avrò. Grande a un tratto per un senso di dovere comune, per un lampo di fede che avea solcato subitamente la tenebra in cui giacea, s'inebriò della vista d'una bandiera, sulla quale non era scudo di Savoja, nè altro, fuorchè l'iride dei bei tre colori, si levò a battaglia e vinse, e trascinò dietro a sè i battaglioni ordinati. Poi, prevalsero funesti consigli. Voci d'uomini, taluni tristi, altri illusi, e inetti tutti, e incapaci d'intendere qual tesoro di forze si chiuda in un popolo e in un principio, gli susurrarono di re, di centomila soldati, di liberatori allettati o sforzati. E il moto diventò, di nazionale, dinastico; e all'impeto d'amore sovrumano, che avea convertito una gente schiava e divisa in un popolo di fratelli, sottentrò la diffidenza; poi la discordia e lo sconforto e l'isolamento e l'inganno e la rotta dei battaglioni ordinati; e la tenebra si raddensò sull'Italia: e il popolo ridiscese nella sua prigione ad espiarvi la colpa d'essersi lasciato sedurre ad abbandonare il principio, che gli aveva dato forza e virtù. Allora, i delusi profughi giuravano, giuravano a noi, ch'erano rinsaviti per sempre, che nessuna illusione, nessun sofisma li avrebbe mai più sviati d'un passo dalla bandiera della Nazione. Ora, immemori, incorreggibili, copisti meschini d'un passato che dovrebbe farli arrossire, ridicono al popolo, ridesto al fremito e conscio che l'espiazione è compita, gli errori, i sofismi e le codardie d'otto anni addietro. Io ricordo ogni linea di quella tristissima storia, e grido agli Italiani: «Badate! Guai se porgete orecchio a quei detti! Ricordate il 15 maggio; ricordate Milano; ricordate Novara. I consigli ch'oggi vi danno, sono gli stessi che v'hanno perduti pochi anni addietro; gli uomini che osano darveli sono gli stessi che vi travolsero allora. Non siate, per Dio, popolo di fanciulli! Quegli uomini vi parlano di battaglioni che non hanno, di cannoni che non s'allontaneranno d'un palmo dalle fortezze o dagli arsenali ove giaciono, di re collegati con chi rifiuta l'Unità della vostra terra. Di fantasma in fantasma, di sogno in sogno, servi ciechi e inconsapevoli di un inganno tessuto a frenarvi, essi vi trascinano fin dove comincia il disonore, ch'è la morte dei popoli. E se anche la monarchia, ch'essi presumono imporvi, potesse mai - e nol può - scendere sull'arena prima, essa si varrebbe del vostro moto per ottenere, colla minaccia di peggio, una zona del vostro terreno, e abbandonerebbe, voi tutti quanti non siete compresi in quella zona, alle vendette d'un nemico irritato. Essi vi dicono, come a gente spregevole che non può vivere senza padrone: gridatevi un re o non sorgete; io vi dico: sorgete liberi padroni di voi: darvi senza patti è parte di schiavi. Sorgete in nome dell'eterno Diritto: abbiate, incarnate in voi, la coscienza di quel Diritto: senza quella, non isperate d'essere liberi mai. Voi siete giganti di forza, purchè vogliate esserlo di volontà. Ma se volete essere Nazione - se volete dai popoli d'Europa che studiano i vostri moti, non pietà, ma onore e ajuto fraterno, v'è d'uopo rompere oggimai quel cerchio di menzogne, di piccoli calcoli, d'espedienti immorali o fallaci, che le piccole menti, i politici della giornata, e le scimmie di Machiavelli, v'hanno steso attorno; v'è d'uopo riconsacrarvi a dignità, a riverenza pei santi nomi d'Italia e di Roma, colla memoria della grandezza passata, colla fede nella grandezza avvenire; v'è d'uopo di purificare la Bandiera Nazionale di tutto questo fango d'anticamere e cancellerie, che gli adoratori degli idoli v'hanno cacciato sopra. Voi non dovete adorare altro Dio che Dio, e il Popolo sulla terra. Posate, finchè non v'è dato di sorgere come leoni. Sorgete, venuta l'ora, potenti e subiti come le nostre tempeste. Colpite siccome fulmine. Decisi, volenti, avrete dalla Nazione i battaglioni e i cannoni, che oggi mendichereste invano da un re.»
A voi, Giorgio Pallavicino, ed ai vostri, io dirò: se invece d'ostinarvi a fondare un Partito Nazionale senza la Nazione, e ad evangelizzare una guerra regia senza re e senza esercito, dacchè l'insurrezione sola può darveli, vi adopraste colla tacita opera concorde, colla parola, e col sacrificio di parte dei vostri mezzi, a spianare le vie difficili alla Insurrezione - se, invece di gettare nel nostro campo una nuova semenza di discordia e di riazione coll'intolleranza, abbracciaste con noi la bandiera, non d'un governo locale, ma della Patria comune, e ve ne faceste apostolo instancabile tra i vostri amici - se voi, Manin, Cattaneo, Montanelli, Ulloa, Sirtori, Tommaseo, Garibaldi, e altri uomini cari pel passato all'Italia, firmaste con noi, pegno d'unità di voleri e di riverenza collettiva alla Sovranità del Popolo Italiano, una chiamata simile a questa che io ho scritto qui sopra - voi sareste di certo più giovevoli alla vostra Patria che non siete oggi, stampando foglietti in nome d'un Partito invisibile, che manda il Papa a Gerusalemme e commette la Dittatura a una ipotesi di liberatore. E noi potremmo salutare i vostri anni cadenti colla stessa amorevole riverenza, che avviava i nostri pensieri allo Spielberg, quando voi eravate protesta vivente, fra i ceppi, per l'Italia contro le tirannidi che l'opprimono, senz'altra fede che nel Dio di Giustizia e nella Nazione predestinata a risorgere. Io, se mi è dato di vedere il giorno di resurrezione, ricorderò al popolo quella protesta, perchè sperda fin la memoria degli errori nei quali, per una funesta illusione, vi lasciaste più dopo travolgere.
Ottobre, 25.