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Un giorno in Roma, nel 1849, mentr'io era ancora semplice rappresentante del popolo e senza parte nella suprema direzione delle cose, saliva a vedermi un giovane ufficiale napoletano. Era Carlo Pisacane. Mi si presentava senza commendatizie; m'era ignoto di nome e, bench'io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima fra quel turbinìo d'esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton Ticino, io non sapeva nè gli studî teorici e pratici, nè la ferita di palla austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, nè i principî politici serbati inconcussi attraverso l'esilio e la povertà, nè altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perchè l'anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb'essere il militare italiano, l'uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studî ed amore, non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza di intuizione e il genio, sì raro a trovarsi, dell'insurrezione. Da quel giorno in poi fummo amici e concordi nell'opere a pro del Paese.
La fronte e gli occhî di Carlo Pisacane parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l'ingegno, gli occhî scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d'affetto. Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto nè avventato nè incerto, dall'insieme della persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sè e l'animo consapevole di una fede da non violarsi nè in vita nè in morte.
Era la Fede Italiana: la fede nella Patria avvenire, nell'Unità repubblicana d'Italia e nel Popolo per fondarla.
Fede, io dico, e non opinione: l'opinione nazionale è oggi universale in Italia: la fede rara tuttavia, fuorchè tra i popolani delle nostre città, nei quali riposano le migliori speranze d'Italia. L'opinione commossa dalle ingiustizie e dalle pazze ferocie che tuttodì si commettono dai nostri padroni in Italia, dal desiderio di sicurezza personale e di più largo sviluppo all'industria e ai guadagni, dalle condizioni migliori in che versano le nazioni più libere, crede che una Italia dovrebbe essere; la fede - convinta che noi tutti siam posti quaggiù per compiere quando che sia un intento comune; che l'associazione di tutte le nostre facoltà e forze per raggiungerlo è nostro dovere; che il dito di Dio ha segnato nei caratteri geografici, nelle lingue, nelle tradizioni delle diverse terre, la distinzione dei gruppi nei quali deve partirsi l'associazione universale - sa che una Italia sarà. L'opinione, vagante nella sfera del pensiero e presta a salutare e seguir l'azione da dove che venga, non sente il bisogno d'iniziarla e, rifuggendo dai pericoli che l'accompagnano, fa velo all'intelletto e trasforma volentieri le difficoltà in impossibilità: la fede anela alla azione, martirio o vittoria: sa che bisogna educare il Popolo a fare, e fare con esso. L'opinione diplomatizza, si prostra, sprezzando nel suo segreto, a qualunque potere le faccia sperare un milionesimo di libertà; insozzerebbe dello stemma turco la santa bandiera, se il sultano s'arrendesse a dire: innesterò sul mio dispotismo una frazioncella di miglioramento; la fede intende che non si rigenerano i Popoli con la menzogna; intende che le Nazioni non siano se non hanno coscienza del loro diritto, e chiama coll'esempio il Popolo a conquistarsi patria ed emancipazione col proprio sacrificio e col proprio sangue. L'opinione, piegando a seconda di tutti eventi, accoglie, come grado a salire, le costituzioni strappate ai principi nel 1821; rinnega la fratellanza Italiana coi Governi provvisorî del 1831; sostituisce alla bandiera nazionale la bandiera bianca dei moti di Rimini nel 1843; fantastica le tre, le quattro, le cinque Italie, coi Balbo, Azeglio, Durando; l'Italia del Nord con Gioberti, l'Italia Muratista, Papale, Piemontese con Cavour e gli eunuchi politici che gli fan codazzo: - la fede, logica, diritta, leale, non riconosce se non una Italia, una Sovranità, quella della Nazione, una guerra di tutti, in nome del diritto e dei principî che chiamano i Popoli ad esser padroni di sè, per procacciare vittoria e vita normale a tutti. L'opinione cede cogli anni, sfibrata dalle delusioni e dai patimenti inseparabili da ogni grande impresa; la fede si ritempra nei santi dolori, e splende, come il sole sulle nevi dell'Alpi, sulle fronti incanutite nell'apostolato e nei tentativi d'azione. L'opinione sta alla fede politica, come la filosofia alla religione. E religione, quali pur fossero le altre di lui credenze, era l'amor patrio di Pisacane: occupava in esso tutte le facoltà della vita, non illanguidiva per anni o per sventura, non s'addormentava nello sconforto, egoismo ammantato d'orgoglio, che oggi pur troppo sottrae tante anime, un dì generose, alla lotta. L'ultimo giorno in cui ci abbracciammo, gli lampeggiava sul volto quel sorriso di fede ignara del tempo, che mi strinse a lui nel primo nostro colloquio a Roma. Gli uomini dei quali io parlo tradiscono ne' stanchi lineamenti e ne' moti snervati il guasto che si è fatto, consumando il bollore del sangue giovanile nell'anima loro; li diresti reliquie galvanizzate di una vita spenta, fantasmi di un tempo che fu.
Erano giorni quelli nei quali gli affetti sgorgavano singolarmente rapidi e schietti fra i seguaci della bandiera. Non v'era menzogna tra noi; il vero sfavillava, sereno e limpido, dal simbolo che aveva sostituito Dio al papa, il Popolo all'aristocrazia di un clero incredulo, inetto, corrotto; e nella luce di quel vero l'anime buone si ravvisavano, imparavano a conoscersi ed amarsi più facilmente. Fra noi non era diplomazia. Quando il nome d'Italia suonava sulle nostre labbra, volea dire Italia davvero; non una Italia del Centro o del Nord. Quando dicevamo libertà, intendevamo libertà vera e per tutti, non una libertà di pochi, e salvi i diritti d'una dinastia e de' suoi faccendieri. Roma era convegno d'uomini viventi la vita piena, attiva, volente, che Dio ci assegnava creandoci, e che noi stessi dovevamo serbarci, non di liberti, di servi emancipati, che ne affidano la tutela ad un re e a un pugno di milizie assoldate da lui; tra i giorni sospettosi, dubbiosi, trepidi, di Milano dopo l'ingresso di Carlo Alberto e i giorni di Roma repubblicana, correva lo stesso divario che fra un'alba dei cieli sereni d'Italia e le fredde nebbie di Londra. Luciano Manara di monarchico si tramutava in repubblicano, e mi chiamava fratello; uomini imbevuti fino allora delle calunnie che ci chiamavano alleati dell'Austria, dopo un giorno trascorso in Roma, si ricredevano e venivano, accolti con amore, a dichiararcelo lietamente. Da poche vanità incorreggibili in fuori, vivevamo tutti nella patria e nell'avvenire, non nei proprî meschini rancori, nelle povere ambizioncelle di un'ora, o nei gretti sistemi architettati nel gabinetto. Era vita collettiva d'un Popolo trasformato dal subito apparirgli del vero tradotto in fatti, e d'uomini scelti liberamente a capi, che avevano fiducia in quel Popolo.
C'intendemmo rapidamente con Pisacane, e mi occupai di metterlo in luogo dov'ei potesse rivelare le potenti facoltà che gli fremevano dentro, e giovare alla causa d'Italia.
Gli uomini che circostanze straordinarie e necessità imprevedute avevano chiamato al sommo delle cose, avevano potuto far poco per un avvenire imminente: forse la coscienza d'un diritto moralmente innegabile e la purezza delle intenzioni li allettavano a sperare che non verrebbero assaliti mai. Il dicastero di guerra era singolarmente negletto: non ordini, non armi, non allestimento di un esercito nazionale. Io, Pisacane ed alcuni altri sentivamo il turbine che si addensava tacitamente da lungi. Sapevamo che la bandiera repubblicana non poteva sventolare dal Campidoglio senza diventare più o meno rapidamente bandiera d'Italia: come potevano gli eterni nemici della libertà delle Nazioni lasciarla in pace? E d'altra parte, a che la libertà in Roma, se non significava libertà dell'Italia intera? Il turpe spettacolo d'una forte provincia italiana, libera e in armi per dieci anni, tra il gemito di venti milioni di fratelli e l'insulto dello straniero, e nondimeno inerte e inutile, anzi dannosa per lunghe inadempite speranze, all'Italia, era privilegio serbato ai monarchici di Piemonte; i repubblicani da Roma guardavano alle Alpi. D'offesa o difesa, a seconda dei casi, la guerra era dunque inevitabile a ogni modo per noi. Il 19 marzo 1849 io proponeva all'Assemblea Romana di costituire una Commissione di guerra, composta di cinque individui, che si occupasse, dando conto ogni dieci giorni dei suoi lavori, d'apprestare armi, armati, ordinamenti e studî guerreschi. Richiesto di consiglio quanto a quei che dovessero comporla, indicai fra gli altri Pisacane. Ed egli fu l'anima della Commissione e l'inspiratore de' suoi lavori. Se le di lui cure attive non avessero apprestato i materiali alla difesa, i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul nascere.
Il piccolo esercito romano era male ordinato: gli ufficî degli elementi diversi che lo componevano erano mal definiti; le paghe non erano eguali per tutti i corpi; non esisteva, se non di nome, stato-maggiore. E questo piccolo esercito era disseminato in piccoli distaccamenti attraverso lo Stato. Un lungo cordone, steso parallelamente alla frontiera napoletana, ne assorbiva la maggior parte. L'idea di proteggere uno Stato con una forza smembrata in piccoli nuclei posti a difesa d'ogni punto esposto ad assalto era militarmente falsa. Gli Stati si difendono non sul confine, bensì col concentramento delle forze ordinate sui punti strategici interni. Ma il sistema contrario era suggerito e appoggiato da tutte le paure locali: ogni paesetto della frontiera fantasticava difesa, purchè avesse un gomitolo di milizia regolare collocato sul proprio terreno: ed io solo ricordo la tempesta di opposizioni, lagnanze e deputazioni provinciali, che mi fu forza affrontare quand'io e i miei colleghi decretammo il riconcentramento di tutte le truppe sui due campi di Bologna e di Terni. Quel riconcentramento, avversato da presidi, deputati e cittadini delle terre poste lungo il confine, sostenuto con ostinazione pari al convincimento da Pisacane e da me, fu cagione che noi potessimo, al primo apparire dei Francesi, raccogliere in Roma le forze.
L'unità dell'esercito, l'abolizione in esso di ogni privilegio e disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento su punti che gli assicurassero in un momento dato l'iniziativa, furono opera in gran parte di Pisacane. E quei che sentono quanto l'onore raccolto nel 1849 dalle armi italiane in Roma debba fruttare nell'avvenire all'unità della patria comune, gli serberanno lunga ed amorosa riconoscenza.
Ricordo le ore notturne che passavamo sulla carta d'Italia, parlando dell'ultimo fine che la Repubblica Romana doveva proporsi; della guerra della nazione; dei modi coi quali avremmo potuto iniziarla; dei disegni che avrebbero dovuto presiedere al vibrarsi dei primi colpi. Parevami che in lui il concetto della guerra insurrezionale vivesse limpido, logico, rapido più che in qualunque altro da me interrogato; e gli studî da lui pubblicati intorno alla malaugurata campagna del 1848 lo riveleranno a chi vorrà leggerli attentamente. Ma quando, ad esplorare l'animo suo, io gli chiedeva chi guiderebbe militarmente, ei m'additava, senza pensiero di sè, un suo commilitone, allora colonnello, nel quale infatti ebbi campo a riconoscere doti singolari, e concetto altamente strategico della guerra nazionale, oscurato in oggi miseramente da progetti colpevoli di monarchismo straniero. Pisacane aveva, come dissi più sopra, giusta coscienza di sè, non ombra di ambizione o di vanità.
Il 29 marzo 1849, dopo la rotta di Novara, fummo eletti triumviri, io, Saffi e Armellini. Ci affrettammo a porre in atto le principali tra le idee maturate coll'amico. Un decreto del 16 aprile dichiarava che l'esercito romano raggiungerebbe la cifra di 45 000 uomini ed 80 cannoni, più due batterie di montagna. Se ci fosse stato dato tempo sino al finire di maggio, Carlo Pisacane sarebbe forse caduto, ma col sorriso della vittoria sul volto, appiè dell'Alpi Lombarde, non a Padula per mano di fratelli, e senza conforto di vicina speranza per la patria giacente.
Gli eterni nemici della Nazionalità Italiana sentivano intanto il pericolo, e determinarono di prevenirlo. La morte della Repubblica Romana fu decretata nei conciliaboli di Gaeta. Importava che il principio repubblicano apparisse disonorato in Europa; e la Francia, allora repubblicana di nome, fu scelta a vibrare il primo colpo. La Francia accettò. Il 24 aprile fummo assaliti dalle armi francesi codardamente e sotto colore di proteggerci contro l'invasione austriaca, in Civitavecchia. La subita occupazione di Civitavecchia ci tolse 4000 fucili, che avevamo comprato a denaro dal Governo di Francia, un battaglione di bersaglieri, ingannato prima, poi disarmato, e tra sei mila soldati lombardi che s'apprestavano a ricongiungersi sotto le nostre aquile, e ai quali il naviglio francese vietava il mare. Nondimeno l'onore della Nazione, la necessità di provare con fatti che il Paese, fatto segno di sozze calunnie da tutta la diplomazia straniera, voleva davvero ed unanime le libere instituzioni proclamate in febbrajo, l'immensa forza che una splendida difesa in Roma doveva procacciare alla futura Unità Nazionale, comandavano resistenza ad ogni costo; e decidevamo resistere. Pisacane fu scelto a capo dello stato maggiore; nessuno de' suoi colleghi certo mi smentirà, s'io qui dico che, condannati pur troppo a pentirci di parecchie scelte suggerite da circostanze insuperabili o dalla poca conoscenza degli elementi individuali coi quali ci trovavamo per la prima volta a contatto, sceglieremmo oggi di nuovo l'aulico, s'ei vivesse, a quello o a più alto incarico, senza timore d'illuderci.
Per me egli non era solamente il capo dello stato maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del generale in capo e delle nostre; era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non prevede l'assalto, ed al quale io potevo affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente perchè in apparenza contrarî alle così dette regole dell'arte bellica. E da lui solo ebbi approvazione ed appoggio - mentr'altri, in nome di quelle regole, protestava - in due di quelle determinazioni che sembrano gravi di pericoli agli ingegni timidi e pedanteschi, e trascinano, se non riescono, biasimo universale sulla testa di chi le prende. La prima fu quella di vuotar Roma d'ogni milizia per inviarle tutte contro l'esercito Napoletano accampato in Velletri e dintorni; la seconda, quella di convertire, verso la fine dell'assedio, la difesa regolare in una giornata campale.
I Francesi stavano, quando il nostro piccolo esercito mosse alla volta di Velletri, appiè delle mura. V'era armistizio, ma a tempo indeterminato; ed io sapeva che Oudinot era tale da romperlo e ordinare l'assalto, qualunque volta ei vedesse l'occasione propizia a impadronirsi di Roma. Togliendo a Roma ogni difesa di milizia regolare, io avventurava dunque i fati della città; e ricordo ancora i giusti terrori e i rimproveri di parecchî tra i membri dell'Assemblea, i quali, vedendo reggimento dopo reggimento avviarsi fuori della cinta, correvano sospettosi a chiedermi ragione degli ordini dati. Ma d'altro lato, i Napoletani erano giunti senza ostacolo ad Albano e Velletri, e minacciavano Roma; ed io sapeva che le istruzioni date al generale francese gli commettevano di vietare l'ingresso in Roma ad ogni altro straniero. L'assalire dei Napoletani trascinava quindi inevitabile la subita rottura dell'incerta tregua; e, stretta fra due nemici operanti ad un tratto, Roma era inevitabilmente perduta. Bisognava dunque scegliere tra un pericolo, al quale potevamo in ogni modo opporre una difesa di popolo, ed una certezza di rovina. Bisognava liberarsi per sempre dai Napoletani per poter poi concentrare tutte le forze a sostenere l'urto dell'altro nemico. E bisognava, ad accertare la rotta dei Napoletani, cacciar loro addosso quante forze avevamo: il dimezzarle non avrebbe raggiunto lo scopo, nè salvato Roma. Forte dell'approvazione di Pisacane, m'avventurai. E il disegno riescì; riusciva ben altrimenti se l'incauto ardire del corpo di battaglia, guidato dal generale Garibaldi, non mutava in un assalto a Velletri le istruzioni date, che erano quelle di raggiungere con una contromarcia Cisterna, e troncare le comunicazioni e la via della fuga al nemico.
Più dopo, quando i Francesi stavano per aprir la breccia, e le cose alloramai disperate di Francia e l'inerte silenzio di tutta Italia non lasciavano alcuna via di salute visibile, pensai si dovesse convertire l'assedio in una battaglia. La disfatta avrebbe senz'altro accelerato il cadere di Roma; ma una decisiva vittoria ci avrebbe ridato due mesi forse di vita; e ad ogni modo il fatto splendido per sè e audacissimo, in chi era ridotto agli estremi, avrebbe coronato Roma di nuovo lustro, prezioso, come dissi e sentivo profondamente, per l'avvenire davanti all'Italia. Apersi il mio pensiero a Pisacane ed ei lo accolse lodandolo, e lo tradusse in un disegno pratico che gli dava, s'altri non lo rimutava poco prima dell'esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo. Il disegno fu descritto da Pisacane medesimo in una Relazione storica, ch'egli inserì, nel 1849, in un fascicolo dell'Italia del Popolo, pubblicato in Losanna; e lo ricopio, perchè rivela singolarmente, parmi, la tempra dell'ingegno militare di Pisacane.
«I monti delle Cave della Creta sono risentite ondulazioni di terreno, comprese fra la strada di Tiradiavoli, che parte da Porta San Pancrazio, costeggia Villa Pamfili e, svolgendo verso destra, conduce al canale di Pio V, e l'altra che, movendo da Porta Cavalleggieri, rasenta le mura Vaticane, passa per la Madonna del Riposo, e curvandosi a sinistra, si unisce alla precedente.
«Queste due strade formano quasi un triangolo mistilineo, la cui base si estende lungo la cinta di Roma, compresa fra le due parti nominate; e su questa base è un terreno intricato da casette e giardini, facilissimo a difendersi palmo a palmo. Il rimanente del terreno, compreso nell'area del triangolo, è sgombro affatto, e vantaggioso a ogni truppa che marciasse all'assalto di Villa Pamfili.
«L'esercito Romano fu diviso in 5 brigate.
«La prima doveva uscire da Porta Cavalleggieri, prendere per punto di direzione il Canale di Pio V, e portarsi a ridosso di Villa Pamfili, cercando penetrarvi.
«Tre brigate l'avrebbero seguita a giusta distanza; ma, giunte alla svolta, propriamente all'altura dell'angolo di Villa Pamfili, dovevano far alto e porsi per massa in battaglia, parallelamente e di fronte alla strada dei Tiradiavoli, dalla quale erano separati dai monti della Creta; quindi, cominciando il movimento dalla diritta, marciare in iscaglioni per assalire la detta Villa, non dovendo percorrere che uno spazio di circa 1200 metri. L'artiglieria doveva prendere posizione sopra una delle più vantaggiose elevazioni; e la quinta brigata, marciando lungo la base del triangolo, avrebbe occupato tutte le casette e giardini sgombri affatto dal nemico, assicurando la sinistra della linea. Guadagnata Villa Pamfili, era girata la prima parallela, e per conseguenza tutti i lavori sarebbero stati presi da rovescio, e con tale manovra si poteva anche accollare al fiume il campo nemico.
«La marcia doveva principiare due ore prima del giorno... Tutto era pronto e non restava che spedire gli ordini.»
Del come l'operazione fosse strozzata in sul nascere, non importa qui favellare: chi vuole può rintracciarlo nel lavoro sopra citato, Fascicolo VI dell'Italia del Popolo.
Roma cadde; infamia eterna all'assalitore; ai Governi che, intitolandosi pure Italiani, non protestarono allora, nè protestano oggi, contro l'oltraggio straniero; e agli ipocriti per codardia, che inalzano un guaito di servi contro chi tenta frapporsi tra l'oppressore e gli oppressi, mentre taciono davanti all'assassinio, che ancor dura, d'un popolo. Roselli, generale in capo dell'armi repubblicane e uomo degno di tempi migliori, diede, protestando, la sua dimissione e quella di pressochè tutti gli ufficiali del piccolo esercito; Pisacane la diede con essi, e ripigliò le vie dell'esilio.
Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno, sorridente nella povertà, com'io l'aveva veduto in mezzo ai pericoli. Fondai allora l'Italia del Popolo, raccolta periodica di scritti politici; ed egli v'inserì uno scritto sulla Guerra Italiana; alcuni Pensieri, notevolissimi, sulla Scienza della guerra; una eccellente Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana; una serie di Osservazioni sulla Relazione scritta dal generale Bava della Campagna di Lombardia: - lavori che dovrebbero raccogliersi in un volume261. Poi, spronato dalla necessità d'una occupazione utile, impossibile nella Svizzera, partì per Londra, dove visse otto mesi, ajutandosi di qualche lezione di lingua; quindi ripartì per l'Italia, dove io lo rividi nel 1857.
In questa sua vita errante, egli aveva un conforto. La maledizione del vae soli non si adempiva per lui. Unico raggio ai giorni di chi cerca patria e non l'ha, gli era compagno un amore nato fino dal 1830; infelice, pur costante per diciassette anni; ricambiato apertamente e con rara e lieta fedeltà dopo quel tempo e sino agli ultimi giorni. Dal 1847 in poi, la donna del suo core lo seguiva e gli accarezzava della suprema carezza l'incerta vita. È storia d'amore questa che rivelerebbe, s'io la raccontassi, come all'indomita energia, di ch'ei fece prova, s'accoppiassero in Pisacane una potenza singolare d'affetto e un sentire delicato, raro a trovarsi, e che onorerebbe ad un tempo l'anima sua. Ma non mi sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre lasciarsi sospeso tra i più e il santuario delle vita individuale. Dirò soltanto che quell'amore, mercè le nobili aspirazioni della donna, non infiacchì mai l'anima dell'amico, non si trovò mai a contrasto coll'adempimento de' suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente compirli. Fu l'amore delle epoche di credenza, l'amore che ritempra l'animo a grandi cose, e tradizionale, più che altrove, in Italia, prima che noi ci facessimo, come nell'ultimo mezzo secolo, imitatori servili - salve le eccezioni - delle idee e delle foggie straniere.
Da Genova, dov'ei rimase per due anni celatamente, poi tollerato, ei mantenne corrispondenza con me; corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità, e onorano anzi tutto il Vero, ma intendono la suprema necessità d'unità del Partito, e non si allontanano, per dissidî o vanità individuali, dal terreno comune, conquistato coll'opera di tutti. E noi dissentivamo su parecchî punti; sulle idee religiose, ch'ei non guardava - errore comune ai più - se non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche e corrotte dell'oggi; sul così detto socialismo, che riducevasi a una mera questione di parole, dacchè i sistemi esclusivi, assurdi, immorali delle sètte francesi erano ad uno ad uno da lui respinti; e sulla vasta idea sociale, fatta oggimai inseparabile in tutte le menti d'Europa dal moto politico, io andava forse più in là di lui; sopra una o due cose delle minori, spettanti all'ordinamento della futura milizia; e talora sul modo d'intendere l'obbligo che abbiamo tutti di serbar fede al Vero262.
Ma il differire di tempo in tempo sui modi d'antiveder l'avvenire, non ci toglieva d'esser intesi sulle condizioni presenti e sulla scelta dei rimedî. Pisacane sapeva che tra le sue opinioni e le mie sarebbe sempre giudice supremo l'arbitrio della Nazione, alla cui Sovranità io avrei sempre piegato riverente il capo: io sapeva che ogni qualvolta avessi potuto additargli una via di libertà o d'onore al Paese, l'avrei trovato pronto a cacciarvisi. Però duravamo amici, benchè talora discordi. Se tutti sentissero a un modo come, sopra una terra oppressa e disonorata, davanti all'insulto perenne di chi ci nega Patria, libertà, dignità d'uomini e vita e bandiera ed ogni cosa ch'è santa e cara, il richiamarsi a piccole gare e lagnanze individuali, per giustificare l'isolamento e la inerzia, sia colpa a un tempo e meschinità, noi saremmo compatti come Legione, e concordemente operosi e potenti e liberi forse a quest'ora.
Pisacane credeva, com'io credo, nel dovere e nella potenza educatrice dell'Azione; credeva che dalle vittorie popolari del 1848-49 in poi non fosse più concesso, senza sofisma o innata viltà, ciarlare dei tempi immaturi, di popolo da educarsi. Quel popolo, ch'altri giudica senza curar di conoscerlo, ei lo aveva studiato e lo studiava dappresso, convivendo famigliarmente con esso e ajutandone l'ordinamento; e lo sapeva capace d'emancipare la propria terra, se guidato da capi che vogliano e sappiano. Credeva con me che una splendida vittoria basterebbe a risuscitarlo da un capo all'altro d'Italia; e non sentiva così bassamente della nostra terra da dichiararla diseredata d'iniziativa, e commetterne i fati a una vittoria straniera: vergogna senza nome, che alligna tuttavia in molto anime, e le accusa di servilità e di mentito o tiepido amore alla Patria. Pisacane non dimenticava che le insurrezioni d'Europa aveano, nel 1848, seguìto, non preceduto l'insurrezione della Sicilia; avea veduto i vecchî soldati Austriaci fuggire davanti ai giovani volontarî Lombardi, e le temute insegne francesi dar volta davanti ai militi improvvisati della Repubblica appiè delle mura di Roma. Ei raccoglieva insieme a me dall'attenzione di tutta Europa, or volta su noi, dai vincoli che inanellano tutte le cause nazionali, dai terrori, dalle cure gelose dei Governi risolutamente avversi, e dalle speranze ipocritamente date dai Governi codardamente ambiziosi, che qui, sul nostro terreno, premio del martirio generosamente affrontato per lunghi anni dai nostri migliori, sta oggimai la potenza iniziatrice delle battaglie nazionali. E ripeteva spesso a ogni modo con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai, nè egli nè io, trovato risposta chiara da quei che dissentono; ben egli ed io abbiamo incontrato sovente diserzioni mute e doloroso abbandono dove meno l'aspettavamo. Se non che vi sono uomini ai quali è impossibile tradire il proprio dovere perchè altri tradisce il suo: ed egli era tale. Però studiando, scrivendo, e vivendo con povertà lieta su qualche lezione di matematica, fissava l'occhio voglioso su qualunque angolo della Penisola rivelasse indizio di vita; tendeva intento l'orecchio, presto a seguirla, ad ogni chiamata.
E la chiamata venne da quella parte d'Italia dov'egli avea imparato a patire, a fare, ad amare: venne dalle insanie feroci di un Governo che un conservatore inglese definì una negazione di Dio; dalle torture dei migliori del Regno; dal cupo malcontento di tutti; da una serie di dimostrazioni, piccole in sè, pure indicanti una crescente tendenza al fare: dal tremendo appello d'Agesilao Milano; dal linguaggio dei moderati stessi, ai quali è da parecchî anni fatto famigliare il mal vezzo di bandire all'Europa il fremito del Paese per ottenere un brano di tiepida frase in un memorandum o in un discorso ministeriale, a patto di frammettersi con ogni sorta d'ostacoli agli audaci che s'affidano in quel fremito ed operano; venne dai nostri pure; or dirò in quali termini.
I nostri dissero: venite e faremo. Posero condizioni, alcune delle quali ci parvero inattendibili; altre esigevano mezzi ch'io sperava raccogliere e non raccolsi. Ma, al di sopra di ogni particolare, stava avverato per noi che i nostri - forti d'ardire, d'attività, d'elementi mal collocati tra un Governo insospettito e potente e la genìa moderata, avversa a ogni moto e ad ogni generoso concetto - avevano bisogno d'una scintilla che suscitasse a fermento le vaste moltitudini; e ci richiedevano d'applicarla, indicando il come. Esaminata la proposta, Pisacane l'approvò, e me ne scrisse, sollecitandomi, s'io pure approvassi, a recarmi ov'esso era. Esaminai, approvai: parvemi che le numerose difficoltà potessero vincersi; e, traversando Parigi e Lione, mi affrettai a recarmi in Genova.
Nessuno s'aspetta ch'io dica i concerti presi, i provvedimenti, gli ostacoli superati. Il fatto ha provato, credo, che anche sotto gli occhî di un Governo ostile, volendo si può; e noi volevamo, e volevano davvero gli uomini che ci secondavano. E quanto ai modi tenuti, ai preparativi fatti, perchè una prima vittoria fosse veramente la scintilla che dà moto all'incendio, è debito assoluto il silenzio. Ben devo alcune parole all'energia singolare di Pisacane e alla condotta dei nostri in Napoli. Delle accuse gittate contro a chi tenta da chi non fa, dopo fallito un disegno, nè io devo occuparmi, nè Pisacane, s'ei vivesse, si occuperebbe. Ma le accuse gittate alla spensierata, da chi non sa, contro quei che non fecero, son poscia invocate dai nemici come prova che il Paese, rimasto inerte, non vuole o non può, e giova ribatterle e togliere ai raggiratori il pretesto di cui si valgono a infondere lo scetticismo negli animi.
La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 giugno. Un incidente, di quelli che niuno può prevedere o combattere, s'attraversò e distrusse tutto il nostro lavoro lo stesso giorno in cui doveva tradursi in atto. Avevamo intanto, poche ore prima, certi com'eravamo di mantener la promessa, avvertito i nostri del Regno che il battello partiva. Mancavano i mezzi per sollecite spiegazioni, e, più assai della perdita del materiale ed altro, temevamo gli effetti morali della delusione e i pericoli che il subito attivo prepararsi a seguire poteva moltiplicare sugli amici di Napoli. Partiva a quella volta un legno a vapore la stessa sera, e Pisacane determinò di portare egli stesso ai nostri la spiegazione dell'indugio e d'accertarsi a un tempo della realtà degli elementi sui quali si fondavano le nostre speranze. In due ore ei decise; fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore, che si mostrò in tutto degna di lui, e partì. Era determinazione per lui più grave dell'altra; era l'esporsi a tortura e a morte solitaria, senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno, chi lo vide in quelle ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del Dovere, che la coscienza di compirlo bastava a infiorargli la via.
Partì, giunse, rimase tre giorni in Napoli e tornò dov'io era. Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al di là delle objezioni pratiche, egli aveva veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani; ei sentiva che uno splendido fatto, un trionfo, sarebbero stati più assai potenti, che non protratti e pericolosi preparativi; e mi scongiurò di rifar la tela pel 25, giorno di partenza del Cagliari. Fui convinto, e diedi opera ai preparativi. Il tempo era breve, breve di tanto ch'io disperava quasi di condurli a termine. Ma il fervore dei nostri compagni di lavoro era tale che si riescì. Il 25 ei partiva. Genova doveva seguire, farsi padrona di sè e de' suoi materiali da guerra, consecrarsi ad afforzar l'impresa in Napoli, operare come riserva e chiamare coll'esempio alla crociata italiana il Nord e parte del Centro. Io rimasi a dirigere il moto. Genova, che nessuno oggimai può rapire alla causa della Nazione, avrebbe fatto e, al sorgere d'una generosa chiamata, checchè provveda il governo, farà.
Il tentativo riescì quale l'avevamo ideato. La nostra parte era fatta; perchè Napoli non fece la sua?
Io accennai altrove, e lo ridico oggi più esplicitamente, provocato dalle menzogne degli avversi a noi, e dalle ingiuste accuse gittate contro ai nostri da uomini buoni, ma precipitosi nei giudizî e incauti nel proferirli; se Napoli non rispose, è dovuto alla frazione così detta dei moderati.
Gli uomini che oggi s'adoprano a smembrare il nostro campo e impedire il moto, furono - prima del 1848, taluni anche dopo - cospiratori, su tutti i punti d'Italia, con noi. E questo aver cospirato con noi li addita tuttavia al Popolo come amatori caldi, attivi, volenti d'Italia, e rende impossibile una mossa imminente, senza che essi vengano a risaperlo. Il Popolo ricorda i loro lavori, gli imprigionamenti patiti, le persecuzioni governative; ignora il loro mutamento, e non sospetta la tattica perenne che essi adoperano in oggi.
E questa tattica, identica negli uomini del Governo Piemontese e nei moderati costituzionali delle altre parti d'Italia, ha invariabilmente tre stadî: promettere, agitare, illudere a sperare in cose giuste - dissuadere, ingigantire i pericoli e le triste conseguenze d'un moto inopportuno, e diffondere sfiduciamenti e paure, quando altri s'appresta a fare - affratellarsi, frammettersi apparentemente a chi fa, quando il fare sembra inevitabile, a strozzare in sul nascere o sviare lentamente il moto dalla via diritta. Tattica siffatta fu adoperata con successo dai moderati, dal 1848 in poi, dieci volte su dieci punti diversi; tanto che pare oggimai più idiota che credulo chi tuttavia s'abbandona a quelle arti. E tattica siffatta fu adoperata in Napoli, a tradire il concetto dei generosi.
All'annunzio della discesa su Sapri, fu deciso dai nostri d'agire in Napoli. Furono presi i concerti opportuni. Fu determinato il giorno. I capi-popolo aderivano tutti. Il momento era solenne; e, dimenticate tutte le gare, i nostri chiesero agli influenti fra i moderati cooperazione ad un fatto già iniziato da Pisacane e da' suoi compagni. Gli influenti fra i moderati non solamente risposero con un rifiuto alla generosa proposta, ma s'adoprarono a tutt'uomo a infiacchire, sviare, dividere i capi-popolo; e vi riuscirono; venne allora proposta una vasta manifestazione tra il pacifico e l'ostile, che suscitasse fermento nelle moltitudini. I moderati aderirono e s'assunsero l'ordinamento della dimostrazione; tradirono la promessa e non ne tentarono il compimento; poi, quando giunse l'infausta nuova della rotta di Padula, e indovinarono diffuso lo sconforto nei ranghi, si ritrassero subitamente. Più dopo s'avvilirono, protestando anonimi contro il fatto di chi moriva per tutti.
A queste mie affermazioni potrei dare appoggio di dichiarazioni scritte; ma or non giova; e potrei dir nomi; ma finchè vive la tirannide, non per essi, ma per la dignità dell'anime nostre, nol devo.
Io non ho dunque accusa pei nostri, per gli uomini veduti da Pisacane, se non quest'una, che in parte li onora: l'avere essi, uomini di pure, generose intenzioni, sperato soverchiamente nelle altrui. E lo dico, perchè alcune parole scritte da me nell'Italia del Popolo potrebbero essere interpretate a loro danno, e me ne dorrebbe. Sia sprone ad essi, nella santa impresa iniziata col proprio sangue dall'amico, il dolore profondo che la delusione deve aver confitto nell'anima loro.
Non mi tratterrò sugli ultimi fatti; mancano tuttavia i particolari: nè io scrivo la vita di Carlo, ma soltanto alcuni ricordi del mio contatto con lui. Altri potrà forse dire un giorno le sue sensazioni scendendo sul suolo napoletano, i divisamenti che ne diressero i moti, l'arti inique del Governo che, annunziando la discesa di una banda di prigionieri rei di delitti comuni fuggiti da Ponza, gli sospinsero contro le popolazioni ignare dei villaggi che ei traversava; i due scontri, vittorioso l'uno, fatale l'altro, e le ultime sue parole. Io imagino gli ultimi suoi pensieri; cadde mentr'ei credeva incamminarsi a vittoria, cadde per mano di uomini che avrebbero dovuto secondarne l'impresa e abbracciarlo fratello e iniziatore di vita italiana ai giacenti; e nondimeno io sono certo che se egli avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto: rifate, tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete. Pisacane non era simile ai tanti che, dopo aver cacciato il guanto al nemico, si ritraggono per alcune disfatte, e dopo aver giurato che ora e sempre consacrerebbero anima e vita a fondare una Patria, tramutano il sempre in alcuni anni di sforzi, e tradiscono nell'inerte stanchezza giuramento e Patria ad un tempo, perchè non riescono a creare in quei pochi anni una Italia.
Perdendo Pisacane noi abbiamo fatto una perdita grave: perdemmo l'ufficiale che avrebbe un dì o l'altro guidati i nostri alle battaglie del Popolo: perdemmo il cittadino al quale noi avremmo potuto fidare quell'alto incarico, senz'ombra di timore che ei ne abusasse mai per ambizione o voluttà di basso egoismo: perdemmo l'uomo che, fra quanti io conobbi, identificava più in sè il pensiero e l'azione e le doti generalmente disgiunte, scienza e spontaneità d'intuizione guerresca, energia e riflessione pacata, calcolo ed entusiasmo. Guardava dall'alto le cose, e nondimeno ne afferrava i menomi particolari. Amava di amore intensamente devoto l'amica e la fanciulla che gli era figlia, ma non sacrificava a quei santi affetti un solo de' suoi doveri verso la Patria. Moveva ad una impresa che doveva costargli la vita, e dava lo stesso giorno l'ultima lezione di matematica ad un allievo.
E morì. Noi possiamo seguire ad amarlo; ma che cosa è l'amore a chi è morto alla terra, se scompagnato dalla religione del pensiero che costituiva la miglior parte della sua vita quaggiù? Basta a compiere il legato, ch'ei ci lasciava morendo, un tributo di lode, una sottoscrizione per la fanciulla che non lo rivedrà mai più sulla terra? Son essi, o Italiani, i vostri martiri, gladiatori al cui morire applaudono gli spettatori del Circo, se muojono composti in atto virile ed impavido? Non ha diritto la figlia di Pisacane di dirvi un giorno, quand'essa invocherà la carezza paterna, e saprà il come e perchè le fu tolta: se mio padre scendeva, mercè i vostri ajuti, con forze doppie sulla mia terra, forse ei sormontava gli ostacoli; e giungendo ad uno dei centri ove vivono luce d'intelletto educato e fiamma di libertà, trovava fratelli e vinceva? Rimprovero amaro è cotesto, o Italiani, perchè meritato; e viene a noi nel gemito non solamente della povera Silvia, ma dei mille orfani dell'amore dei tanti, che da oramai dieci anni morirono vittime della tirannide straniera e domestica, protestando per noi tutti contr'essa. Perchè sono orfani su questa terra che seppe sorgere e vincere nove anni addietro? Perchè si muore d'intorno a noi, quando si potrebbe vivere col serto del trionfo sul capo? Perchè move il vento e bagna la pioggia le ossa di Pisacane, come fossero ossa di masnadiere, quando sta a noi di comporgli su terra libera una tomba sulla quale sventoli la sua bandiera? E come provvediamo noi a ch'egli sia almeno l'ultimo martire che cada nello sconforto e nel silenzio comune?
Perchè noi siamo a tale, che non possiamo oggimai evitare il martirio dei buoni se non coll'azione e colla vittoria. Un Paese sul quale pesa l'oltraggio e il patir d'ogni genere, non può dare per cinquanta anni al patibolo, o alla lenta morte delle carceri e dell'esilio, il fiore dei suoi patrioti, e a un tratto adagiarsi nella propria tomba ad aspettare muto ed inerte che gli squilli la tromba di risurrezione dall'Oriente o dall'Occidente. Un Popolo non può ricordarsi che pochi anni prima liberava con cinque giorni di lotta il proprio terreno, e non cadeva se non per errori evitabili, e rassegnarsi immoto al marchio della schiavitù, sol perchè a una genìa diplomatico-letterata, sfibrata e codarda, piace di dirgli: tu aspetterai salute da una serie di memorandi o dall'ambizione d'un despota. Un partito, al quale la parola di tanti, che non hanno se non parole, tesse ogni giorno la storia de' suoi dolori e delle sue vergogne, non può impedire che i più bollenti fra i suoi non prorompano nel grido di Foscolo: chè non si tenta? Morremo, ma frutterà almeno il nostro sangue un vendicatore; non può impedire che gli uomini, non nati a gemere o a servilmente tacere, tentino por fine al disonore o alla vita. Il sangue di quegli uomini sta su voi tutti, o Italiani, che potete e non fate; su voi che, caldi di amor patrio a parole, non v'affratellate in concordia di lavori e di sacrificî con quei che s'adoprano a creare alle moltitudini l'opportunità; su voi che, fatti pubblico ozioso di chi move, condannate freddamente i tentativi su piccola scala, senza far cosa alcuna che renda possibili i tentativi maggiori; su voi che profondete in capricci e sollazzi di schiavi inviliti ed immemori, l'oro che potrebbe procacciar salute al Paese: su voi che, teneri dei vostri impieghi o dei vostri riposi, date apparenza di dottrina al vostro egoismo e sviate, colle illusioni, colle torte teoriche di progresso pacifico, e colle accuse ai migliori, la gioventù nostra dal diritto sentiero.
E il sangue di Pisacane e d'Agesilao Milano, il sangue di quanti morirono col nome di Patria sul labbro per suscitarvi ad opre virili, da Milano e Pisacane risalendo fino ai Bandiera, grida a voi degnamente, Italiani di Napoli: sorgete e ribattete da uomini un'accusa che serpeggia crescente per tutta Europa. Siete voi, iniziatori un tempo della lotta italiana, caduti per sempre? Non freme più vita sulle vostre terre, fuorchè quella dei vostri vulcani? Da parecchi anni voi diffondete attraverso l'Europa un lamento che riesce ignobile, se non profetizza, dimostrandola legittima, l'insurrezione: voi snudate, popolo Giobbe d'Italia, le vostre piaghe dinanzi a tutte le Nazioni, e non temete ch'esso dicano: un popolo che soffre ciò ch'essi soffrono è un popolo degenerato; chi sopporta il bastone lo merita?
Io ho, per amore del vero, scolpato i nostri, gli uomini che presero concerti con noi, dell'accusa di codardia: i nostri, comunque numerosi, son pur sempre minorità. Ma chi può scolpare un popolo intiero? Il popolo Napoletano sopporta in oggi una di quelle tirannidi che non solamente tormentano, ma disonorano. L'esercito Napoletano serve ad un sistema che tramuta il soldato in birro e carnefice dei proprî fratelli. Napoli ha, più che ogni altra parte d'Italia, propizia al moto l'opinione europea: e nessun Governo, dall'Austriaco in fuori, oserebbe combattere con armi aperte l'insurrezione. E dall'Austria l'assecura il resto d'Italia, presto a rispondere alla chiamata. Perchè non sorse, quando intese l'annunzio della discesa di Pisacane? Manca pur troppo finora ai nostri, non il coraggio, ma l'intelletto rapido, audace, dell'insurrezione. Se ciò che noi predichiamo da ormai dieci anni, che al levarsi di una bandiera di libertà, supremo dovere, suprema salute, è insorgere dove che sia, si facesse, Pisacane sarebbe in oggi capo della rivoluzione napoletana. Se una delle provincie collocate fra il punto di sbarco e la Capitale avesse, al primo giungere della nuova, romoreggiato armi e guerra, il concentramento di quei che oppressero Pisacane non s'operava. Mancò il tempo perchè si ricevessero istruzioni dal punto centrale? Che! non erano istruzioni viventi i generosi che venivano a sacrificarsi per voi? Aspettate, per farvi liberi, un cenno di Comitato?
Giovani del Regno! voi potete compiere una grande missione: e voi dovete compirla, dapprima, perchè in mano vostra sta la salute d'Italia; poi - non v'incresca la franca fraterna parola - perchè v'è mestieri redimervi dall'accusa che vi dice scaduti e indegni dei vostri padri. Sorgete dunque e smentite l'accusa. Siano vostra parola d'ordine al combattere i nomi di Milano e di Pisacane. La terra che produce tali uomini non è fatta per rimanersi schiava, segno al disprezzo dei padroni e al compianto dei Popoli.