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VII.
Il giorno seguente presi possesso della mia nuova dimora, dopo di aver dimostrato come seppi meglio tutta la profonda riconoscenza per la cordiale ospitalità ricevuta in quell'eccellente famiglia. La partenza da casa Bruni mi riuscì dolorosa come se vi avessi vissuto degli anni. Vi sono a questo mondo luoghi ai quali non ci avvezziamo nemmeno dopo una lunga dimora; ve ne sono altri nei quali si sta bene fin dal primo giorno, e che non si vorrebbero lasciare. Generalmente in questi si è destinati a passare rapidamente, e negli altri a consumare la vita! ecco il nostro destino!
Pregai quei buoni signori di continuarmi la loro amicizia.
- Nulla è cambiato, - mi rispose il signor Nicola, - avete due case invece d'una sola, ecco tutto!...
Volevo baciargli la mano, ed egli si è rifiutato, dandomi due grossi baci sul volto. Mi accompagnarono fino alla porta della loro casa, mi strinsero le mani affettuosamente. Martino portava il mio sacco da notte, le signore mi dicevano:
- A rivederci.... a rivederci.
- A rivederci.... questa sera, - io risposi, - e partii salutando colla mano, seguito da Bitto, che, colla coda bassa, dimostrava non essere più contento del suo padrone.
La Rosa m'aspettava sulla porta della casa, mi venne incontro per alcuni passi, prese il sacco dalle mani di Martino, e m'introdusse nel mio nuovo possesso.
Salii il primo piano seguito dalla fantesca, ed affacciandomi alla finestra che guardava sul cortile vidi un bel gallo a penne variopinte, il quale scuoteva la cresta orgogliosa, sorvegliando quattro belle galline che razzolavano in terra.
- Ove avete trovato quei bei polli? - chiesi alla Rosa.
- È un dono della signora Agata, che volle piantarvi il pollaio co' suoi allievi. Rammentandosi gli elogi fatti a colazione sulla freschezza delle uova, desiderò che continuaste a trovarne d'eguali sulla vostra tavola.
- Eccellente creatura!... cuor d'oro!...
- E testa fina!... - soggiunse la Rosa.
- Sicuro!... sicuro!... ma.... ma.... e ripeteva dentro di me: ma peccato che sia bionda!
Io era sempre perdutamente innamorato della contessa Savina, alla quale non avevo mai parlato, e che aveva rifiutato di restituirmi il bacio. Ma.... ma!... e andavo girellando per le camere come un uomo che cerca qualche cosa. Cercavo infatti lo scioglimento d'un problema: - date due donne giovani, ed amabili entrambe, una lontana e inaccessibile per la distanza, la nobiltà, la ricchezza, le condizioni sociali, e l'altra vicina, accessibile per relazioni di famiglia e opportunità d'ogni genere, un giovane s'innamora della prima e disdegna la seconda. Qual è la forza che lo spinge di preferenza verso l'impossibile?... ecco l'incognita.... Ho passato il primo giorno nel mio nuovo domicilio occupato esclusivamente di questo problema, che mi pareva un'equazione algebrica fra le più complicate e difficili. Chiuso nel mio studio, coi gomiti appoggiati allo scrittoio, e le mani nei capelli, io meditava le condizioni della vita e delle umane passioni, inesplicabili. Udivo al di fuori della gente che domandava alla Rosa:
- È in casa il signor maestro? - ed essa rispondeva:
- Sì, è in casa, ma non posso disturbarlo. Sapete che i maestri hanno delle occupazioni.... degli studi seri.... ritornate più tardi.
Io lasciava che andassero; infatti che cosa al mondo poteva interessarmi di più dello scioglimento del mio problema? non era esso il mistero della mia vita?... La contessa Savina era per me la più bella, la più seducente, l'unica donna!... L'Agata era una sorella. Il suo volto? io non lo vedeva! Il viso della contessa Savina mi stava impresso nel cuore con indelebili tracce. Per vederla viva e presente io non aveva che a chiudere gli occhi.... Essa era lì, alla sua finestra, coi suoi bruni capelli rilevati sulla fronte, con quello sguardo penetrante.... con quella scintilla che accende e consuma!... Ma e gli ostacoli?... Nel dizionario d'amore, ostacolo significa eccitamento, stimolo, sprone, prestigio. Tuttavia la ragione, il buon senso?... Che ragione! l'amore è una pazzia.... lo sento nei lucidi intervalli, che non mi servono a nulla. Dopo qualche breve sosta, la demenza riprende il suo dominio, e mi fa vedere le cose a rovescio. L'impossibile mi sembra facile.... e sento che in certi momenti posso diventare un eroe.... o un imbecille!
Il fatto sta, che quando il cuore è saturo d'un amore non ci sta altro, gli occhi non vedono più, il cervello è tutto occupato dai fumi del cuore; che possano allignare insieme due amori, è credere all'impossibile, all'assurdo. Chi s'illudesse di amare due donne in una volta, può essere sicuro che non ne ama nessuna. Io amo la contessa Savina, l'amo perchè l'amo, perchè è stata il primo raggio di luce della mia vita, il primo palpito del mio cuore, l'amo....
- Signor maestro, il pranzo è servito.... - mi disse la Rosa picchiando leggermente all'uscio.... - mi dispiace incomodarlo, ma è l'ora precisa che mi ha fissata.
- Vengo subito, - risposi, ed aggiunsi fra me: - maledetta prosa della vita!... Massaie indiavolate, siete tutte uguali! dalla Veronica alla Menica, dalla Menica alla Rosa, dalla Rosa alle sue pari! ogni giorno vi fanno discendere il pensiero sulla tavola, vi abbassano i vostri sogni al livello del loro focolare!...
- Il falegname ha portato l'ultima polizza, - mi disse la Rosa quando sedetti a mensa. - Anche il calzolaio voleva consegnarle questa nota, ma non ho voluto disturbarla. Tobia l'organista m'ha detto che i maestri sono come i santi apostoli.... bisogna lasciarli in pace, che si preparino ad insegnare agli altri.... Va bene di sale?
- Benissimo, benissimo.... ma dov'è Bitto?...
- Bitto?... Ah! se sapesse come ho avuto paura di perderlo. Si figuri che non si poteva trovarlo. Ma dopo averlo cercato in tutto il villaggio finalmente l'ho trovato.
- Ove l'avete trovato?
- In casa Bruni, si sa; mentre il maestro studiava, egli si è ricordato che era l'ora del pranzo in casa Bruni, e vedendo che qui il fuoco era ancora spento, è andato a chiedere da pranzo alla signora Agata. Essa mi ha detto: - lasciatelo qui fin che ha mangiato, povera bestia, mi vuol bene, si ricorda di me, gliene sono grata, e non posso rimandarlo a digiuno. Bisognava vedere come la guardava, che feste, che scodinzoli; pareva che intendesse le sue parole, e gli dicesse: - vi ringrazio.
Poco dopo ecco Bitto che ritorna a casa contento, abbaiando e saltandomi addosso come se volesse rendermi conto de' fatti suoi.
Da quel giorno prese il suo partito, andando regolarmente a pranzo in casa Bruni, colla scrupolosa esattezza che metteva mio zio canonico per andare a vespero. Io era destinato ad avere sempre sotto gli occhi l'esempio dell'ordine, dagli uomini o dalle bestie, senza approfittarne. Dopo pranzo Bitto se ne tornava a casa, a fare la sua guardia alla porta, e guai se qualcuno s'avvicinava. Egli dapprima abbaiava francamente, poi incominciava a latrare, e finiva con un certo ringhio che metteva tutti in riguardo. La mia voce lo calmava. Egli lasciava passare i visitatori che venivano invitati ad entrare, ma non permetteva che nessuno entrasse senza essere invitato.
Quando andavo al passeggio mi accompagnava, e se ero diretto a casa Bruni lo indovinava a mezza strada, giungeva prima di me, e mi aspettava sulla porta; alla notte dormiva sempre ai piedi del mio letto: alla mattina divideva la mia colazione, ma ripartiva regolarmente pel pranzo, e pareva che mi volesse dire: - la mia fedele amicizia non ti sarà troppo a carico, povero maestro; tu pensi che il cuore non può contenere che un amore solo, io ti mostrerò che l'amicizia è meno esigente, e può vivere benissimo in compagnia.
Appena presa residenza stabile in paese, il signor Nicola mi condusse a fare le visite di dovere alle autorità municipali, che dimoravano nel capoluogo del comune, a poche miglia dalla nostra frazione. Tutti mi accolsero cortesemente, e mi venne consegnato l'atto di nomina a maestro, già deliberato dal Consiglio Comunale fino dai primi giorni del mio arrivo.
Durando tuttora le vacanze mi misi a lavorare assiduamente intorno alla mia tragedia. Nel rileggere le pagine scritte a Milano, trovai necessarie alcune correzioni e di rifare introducendo nuovi incidenti e nuove scene. Fuggivo l'imitazione servile, volevo riuscire poeta originale, i personaggi d'Alfieri mi parevano convenzionali, io sentiva il bisogno di studiare l'uomo dal vero, ma temevo di non trovare in un piccolo villaggio di Valtellina i modelli necessari alle mie scene del medio evo. Tuttavia, pensando che il cuore umano è sempre lo stesso malgrado la diversità dei tempi, mi decisi di studiare le umane passioni nei soggetti che mi stavano intorno tenendo conto delle proporzioni. La distanza era immensa, formidabile! ma l'anatomico che studia l'uomo sul cadavere mi pareva in condizioni peggiori di me. Difatti due uomini vivi, anche distanti di qualche secolo, devono rassomigliarsi fra loro assai più d'un uomo vivo ad un cadavere. I tempi modificano le passioni, ma la morte le annulla addirittura. Il morto non è più che un misero avanzo inanimato dell'uomo. Dall'uomo vivo al cadavere la distanza è assai maggiore di quella che passa fra Giacobbe che inganna suo padre colle pelli d'agnello, e sor Isacchetto, mercante d'abiti fatti, che inganna il suo avventore.
Tali considerazioni mi spinsero a far conoscenza coi maggiorenti del villaggio, che visitai e ricevetti in casa, coll'interesse d'un professore di storia naturale che si circonda d'ogni sorta d'animali necessari a' suoi studii. Io studiava attentamente i miei interlocutori, scrutavo la loro indole, le loro inclinazioni, analizzavo minutamente i loro istinti, la depravazione, i vizii delle loro nature, e li classificavo esattamente, secondo un sistema adottato per mia istruzione. Ogni individuo che manifestasse delle tendenze virtuose o perverse corrispondenti ad un personaggio della mia tragedia, riceveva il suo nome relativo e veniva sottoposto ad attento esame.
Assorto nell'intensità della mia osservazione, è naturale che io rispondessi talvolta sbadatamente alle loro frivole cicalate, e ciò mi valse la riputazione d'uomo superficiale, leggiero e distratto; ma invece, mentre mi credevano colla testa in aria, io era entrato nel loro cervello e nel loro cuore. Con questo sistema penetrante pervenni a trovare nel villaggio tutti i modelli viventi dei miei personaggi.
Il signor Marco Canziani mi servì di modello pel Lucchino Visconti, e offrì tratti magnifici al mio marito tiranno. La signora Pasquetta, moglie del dottore, divenne un'Isabella Fieschi impareggiabile. Essa amava segretamente Ugolino Gonzaga, parte rappresentata al naturale dal giovane farmacista signor Gaspare Zapolini. I caratteri degli amanti, le loro ansietà, l'ardore dei loro sguardi, le insidie tese al marito, le inquietudini della donna colpevole, le aspirazioni impazienti del seduttore, si presentavano alla mia osservazione nelle varie circostanze che mi mettevano in presenza de' miei modelli. La loro ingenuità me li abbandonava in piena balìa; ben lontani dal sospettare il particolare interesse della mia inchiesta, essi non avevano altra mira che fuggire i pericoli che li minacciavano direttamente, e così, schivando il marito, cadevano nelle braccia del tragico. Il povero don Vincenzo Liserio, studiato a rovescio, divenne Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. Il signor Nicola Bruni, che si trova spesso in opposizione col medico, specialmente nelle gravi disquisizioni del tarocco ove cercava di sbancarlo, conveniva benissimo coll'indole del congiurato Francesco Pusterla. Ma il più bello di tutti era il mio vicino Tobia, piccolo possidente, ma grande filosofo ed organista. Egli passava in paese per una lingua malefica, un maldicente velenoso, ma per me era un perfetto modello di ghibellino, sempre in lotta col parroco, colla camarilla, coi seguaci, pronto a battere in breccia la canonica, il campanile, la sacrestia e tutti i ridotti del clero. Egli s'incarnava a meraviglia nel mio Uguccione della Fagiuola, e mi si mostrava, senza sospetto, un tipo originale e degno di figurare fra i migliori della tragedia. Aveva il portamento bellicoso, quando ritto della persona teneva le braccia a semicerchio, e alzando la testa in segno di provocazione, faceva far la ruota al randello, mosso dalle sue mani scarne e nodose. Capelli radi, sopraccigli incrociati, orecchie larghe e staccate in alto presentavano i segni caratteristici del suo volto. Aveva il naso lungo e diritto come un dardo, le labbra tumide, le guancie scarne, i zigomi spiccati, la barba rasa. La sua parola era sentenziosa, i suoi movimenti rapidi, decisivi, taglienti; e l'occhio iniettato di sangue gli rendeva lo sguardo feroce.
È certo che ci voleva un grande sforzo d'immaginazione a trasformare il cappello a cilindro diritto, lungo, a tese strette, rosso, spelato, unto, contuso di Tobia coll'elmetto a piume di Uguccione; la giubba corta e i larghi calzoni di fustagno dell'organista colla corazza, i cosciali e le gambiere del guerriero, ma le vesti non sono che la scorza dell'uomo, ed io trovava sotto quelle spoglie miserande un magnifico Uguccione della Fagiuola, con un'anima piena d'ardori velenosi, e d'odio profondo pel partito avverso.
Così io m'ero formato un medio evo artificiale e travestito nel quale vivevo, studiando e meditando le umane passioni e traendone ispirazioni al mio lavoro. Era una specie di carnevalone di Milano trasportato in Valtellina per mio uso e consumo, che mi rendeva il clima meno uggioso, mentre se ne avvantaggiavano i miei studi sull'uomo, e i versi della mia tragedia.
La scuola comunale era collocata a piccola distanza dalla mia casa. Io l'aveva aperta all'epoca indicata dal regolamento, e mi vi recavo esattamente ogni mattina. Poco prima di mezzogiorno, Bitto passava per andare a pranzo a casa Bruni, e al suo passaggio gli scolari si apparecchiavano alla partenza; alla comparsa del maestro si aprivano le lezioni, a quella del cane si chiudevano; il comune era servito a meraviglia da due individui, e non ne pagava che uno solo.
Io rientrava in casa, pranzavo, facevo un giro pel paese fumando un sigaro, poi mi chiudevo nel mio studio per raccogliere le ispirazioni, prender nota, e architettare i versi della tragedia. Passavo la sera in casa Bruni o alla farmacia, e scoprivo sempre dalle mie osservazioni che le medesime passioni agitavano gli uomini, cambiando forma ed importanza, ma restando sempre eguali nel fondo.
Dall'epoca della mia tragedia ai nostri giorni erano passati circa cinque secoli, e mutata anche la scena dalla città di Milano ad un piccolo villaggio della Valtellina, io trovava gli stessi uomini.
Però uomini e passioni erano ridotti a dose omeopatica. L'amante Ugolino Gonzaga, invece di correre le giostre colla lancia in resta, imbrandiva tranquillamente la spatola e faceva pillole; ma il suo amore colpevole aveva le stesse tendenze, le medesime astuzie, gli eguali ardori. Il Duca di Milano faceva il medico condotto, ma cavava sangue e denaro dai suoi soggetti, e condannava a morte gl'innocenti, come nel medio evo. La natura tollerante dell'arcivescovo Giovanni trovava il suo riscontro nella rassegnazione di Don Vincenzo Liserio, che cedeva ai fabbricieri il diritto d'amministrare la parrocchia, limitando la sua autorità alle cose ecclesiastiche. Uguccione della Fagiuola, abbandonato il suono dell'armi, si contentava di quello dell'organo, ma continuava la guerra ai guelfi, e li feriva colla lingua.
Pusterla congiurava sempre contro Lucchino celando accuratamente le spade, i bastoni, le coppe e i denari che dovevano abbatterlo. L'autorità del potere era contrastata da mille insidie, e minacciata da impreveduti stratagemmi che concentravano tutta l'attenzione del tiranno. Uguccione della Fagiuola sosteneva i ghibellini, l'Arcivescovo secondava il fratello; la lotta dei partiti era accanita, e il tarocco contrastato fino all'ultima carta. Frattanto Ugolino Gonzaga, approfittando dell'ardore della mischia, si allontanava dal campo, chiudeva lentamente la porta del suo laboratorio farmaceutico, e correva sotto ai balconi d'Isabella Fieschi!... Io lo seguiva da lontano con prudenza: e lo udivo confabulare colla sua bella:
- Ove sono?
- Tutti intenti al tarocco!... apri.... siamo sicuri!...
Isabella chiudeva il verone, scendeva precipitosa, e nel buio della notte si vedeva il lumicino che percorreva le scale. L'uscio veniva aperto, e Ugolino entrava di soppiatto nel covo del tiranno.
Io ritornava tranquillamente in farmacia, Lucchino si dibatteva invano.... la partita era perduta!...
O mondaccio perverso! è stato sempre così!... una partita di tarocco!
Epoca del ferro o della carta, c'entrarono sempre le coppe e le spade, e i mariti dabbene, e le notti buie, e i capitani di ventura, e gli speziali. Da Eva alla sora Pasquetta le donne furono sempre tentate dal serpente e dal pomo. La virtù della resistenza è il prezioso prestigio della donna onesta, e beati i tiranni, i medici condotti e tutti i giuocatori di tarocco, le cui mogli non possono servir di modello nè alla commedia, nè alla tragedia.
Io studiava coscienziosamente i miei modelli, e ne traevo partito. Quando il medico condotto mi compariva davanti col suo aspetto grave ed altero, le guancie sostenute dai solini bene inamidati, e il ciuffo irto sul capo come le aste dell'istrice, io diceva a me stesso:
Egli lamentava continuamente l'egoismo dei villani, l'ingratitudine di coloro, ai quali pretendeva d'aver salvata la vita, e che credevano sdebitarsi d'un tale beneficio, coll'offrirgli in dono una magra ricotta affumicata!... Io afferrava subito il pensiero dominante, e lo traducevo in versi tragici:
"Popolo sconoscente... che le gravi
Cure del regno con l'oltraggio paghi
E con l'infame tradimento!..."
Una domenica, dopo la messa solenne, i parrocchiani usciti di chiesa s'intrattennero sul piazzale in conversari amichevoli. Gaspare il farmacista si avvicinò alla signora Pasquetta, e mentre il dottore scambiava una presa di tabacco con un cliente, io udii la signora che diceva sotto voce all'amico:
- Questa sera fanno il tarocco in casa Bruni.... io sarò sola....
- A rivederci.... - l'altro rispose.
Ed io corsi subito a casa, e presa la penna scrissi:
"Al chiaror della luna, quando il suono
Dell'armi, nel vicino castel, chiama
I guerrieri, vien, mio diletto, involto
Nel tuo bruno mantel, che mi rammenta
I segreti misteri della notte."
Un altro giorno Tobia corse da me tutto ansante per isfogare il suo dispetto contro il parroco, che avendolo ricevuto pranzando, aveva osato trinciargli sotto al naso un pollo arrosto fumante senza dargliene un boccone, e vuotare un intiero fiasco di vino senza offrirgliene un bicchiere.... Egli declamava contro l'avidità del clero, ed io pronto col mio Uguccione della Fagiuola ad esclamare:
"Ingorda razza!... che il feroce acciaro
Immergi in petto all'innocente! e bevi
Fino all'ultima stilla il sangue puro
Del mio amico fedel.... forse tu ignori
Ch'io ti guardo fremente... e aspetto il giorno
Della vendetta!..."
Uguccione della Fagiuola, non trovando nel mio sguardo quelle scintille di sdegno che secondo le sue idee avrebbero dovuto accendere un incendio al racconto dei casi suoi, andava dicendo in paese che io era uno scettico, un uomo senza cuore, un cervello balzano, un enigma vivente!
Così cavando dei versi tragici dalla prosa slombata del villaggio, osservando col microscopio gli omuncoli del mio tempo e vestendoli all'antica, io passai il primo inverno, col corpo in Valtellina, col pensiero nel medio evo, col cuore a Milano; diviso in tre parti, una che tremava dal freddo sotto le Alpi, l'altra sepolta fra le tenebre del passato, la migliore che, accovacciata alla finestra di mio zio canonico, aspettava il bacio della contessa Savina.
Finalmente venne la primavera, e coi tiepidi aliti dell'aprile io sentii nel mio cuore innalzarsi9 anche la temperatura dell'amore, assopito sotto le nevi del verno.