Antonio Caccianiga
Il bacio della contessa Savina
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XV.

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XV.

 

Per riparare almeno in parte i passati miei torti io visitai sovente il povero infermo, portando il mio obolo al tugurio, e qualche dolciume ai fanciulli che mi presero presto in amicizia. La loro ingenua affezione mi tornava assai più grata di quella dei miei compagni di disordine, e seduto su quei greppi colla bambina, mentre la capra rosicava le foglie dei mirtilli e dei roveti, e Bitto vagava pel bosco alla caccia di tutto quello che brulicava sulla terra e sugli alberi, io mi sentiva calmo e predisposto a fare il bene; l'aria pura ed elastica della montagna mi risvegliava teneri sentimenti ed elevati pensieri, l'esalazioni silvane esilaravano il mio spirito, il silenzio solenne di quelle solitudini mi facevano fantasticare gradevolmente, e mi pareva impossibile di aver per qualche tempo abbandonato i miei passeggi e le mie contemplazioni per vivere in cattiva società nell'afa dell'osteria, grave ai polmoni, che esalta il cervello ed abbrutisce il cuore.

Uguccione della Fagiuola non era contento, e tentò, ma invano, d'eccitarmi a non abbandonare gli amici e la partita, rinnovandomi il suo panegirico del vino, e dicendomi che il soldato non deve mancare di coraggio per una battaglia perduta. Gli risposi con fermezza irremovibile che avevo rinunziato per sempre al giuoco ed all'osteria, senza rinunziare per questo ai buoni amici e al buon vino, ma aggiunsi che non stimavo buoni amici coloro che mi spogliavano mentre ero ubbriaco, buon vino quello che mi faceva dormire sotto ai tavoli. In quanto all'esempio del soldato, gli risposi che chi aveva la testa rotta era autorizzato a passare agli invalidi, e che in quanto al coraggio, ce ne voleva talvolta di più per sostenere una ritirata che per tornare alla lotta. Io parlavo per esperienza, non potendo vantare nella mia vita una sola vittoria, ma molte sconfitte.

Uguccione non si mostrava persuaso de' miei argomenti, ma non sapendo che cosa rispondere, agitava furiosamente il suo cappellaccio in segno di disapprovazione, ed essendo testardo ed organista ad un tempo, mi risuonava continuamente lo stesso motivo, con poche e cattive variazioni, fermandosi lungamente sopra una nota, come soleva fare nell'organo. Il giuoco abbandonato lo crucciava più del dovere.

- Ma non volete nemmeno tentare una rivincita? - mi diceva. - Ma tentate dunque una rivincita.... e vedrete i capricci della fortuna.

- La rivincita, - io rispondevo, - l'ho ottenuta il giorno che feci solenne giuramento di non prendere più in mano una carta da giuoco; da quel momento ho guadagnato tutto quello che avrei perduto giuocando, senza tener conto del denaro risparmiato nel vino.... e nell'acqua che vi si trova sovente commista, della salute perduta a forza di disordini, della riputazione pregiudicata a mio danno.

A me, caro Tobia, basta una sola lezione, la perdita d'un solo orologio, una sola notte funesta!...

Uguccione, vedendo impossibile il convertirmi, si metteva a ridere con quella bocca sperticata, spalancando le sue labbra da Cafro con strani sberleffi, ed accusandomi di subire le malvagie influenze del clero.

Questo Ghibellino arrabbiato aveva in parte ragione, perchè due giorni dopo tal dialogo giungeva al villaggio mio zio, e l'arrivo del canonico riconducendomi a visitare il parroco mi gettava nuovamente nelle braccia dei Guelfi, capitanati dall'arcivescovo Giovanni.

Uguccione sghignazzava co' suoi amici sulla mia apostasia.... egli aveva perduto il suo pollo.

Mio zio, che si recava ai bagni di Bormio, volle farmi il favore di arrestarsi qualche giorno al villaggio; ond'io gli feci ammirare i restauri del suo casino, la modesta agiatezza succeduta al lurido disordine del mio antecessore, ed egli ne rimase soddisfatto.

L'accompagnai in casa Bruni per ringraziare quei buoni signori di tutte le bontà che mi andavano prodigando. Essi diedero un pranzo in onore di lui, e furono tanto cortesi non solo da tacere la mia condotta, ma anche da farmi degli elogi.

Io era tutto contento di rivedere il mio vecchio zio, ambizioso di fargli gli onori di casa, lieto di prodigargli le più delicate attenzioni, e tutte le cure d'una ospitalità previdente.

Io avevo dato alla Rosa le opportune istruzioni; abbandonare ogni grettezza, procurarmi i cibi migliori, i vini più scelti, e far debiti in caso di bisogno. Io sedevo a tavola dirimpetto a mio zio, lo servivo con sollecitudine affettuosa, gli mettevo sul piatto i migliori bocconi, e gli tenevo il bicchiere sempre ricolmo. Egli mi accennava di arrestarmi, ma poi cioncava e stava allegro. Tutto procedeva a meraviglia. La Rosa faceva miracoli, e Bitto lambiva le mani a mio zio e gli faceva mille feste. Il cane ha un istinto che non l'inganna, egli sente a usta gli amici e i nemici del padrone, mena la coda o abbaia secondo il caso.

L'Agata, alla quale la Rosa s'era raccomandata per avere dei consigli risguardanti la cucina, mandava invece dei cibi squisiti, belli e pronti da mettersi in tavola. Ah se tutti i consiglieri facessero così!...

La Veronica m'aveva mandato per mezzo dello zio squisiti manicaretti milanesi dei quali mi sapeva ghiotto, e così si faceva ogni giorno baldoria, e si stava a mensa lungamente.

Io vedeva in mio zio non solo il più prossimo parente, il benefattore ed il padre, ma bensì il mio liberatore dall'esilio di Valtellina, che mi pesava assai e non aveva più scopo. La contessa Savina maritata, io poteva ritornare a Milano. Questa era la mia ambizione e il mio sogno; io mi proponevo di svolgere tutti gli argomenti possibili per persuadere il mio buon zio a questo passo; e non avevo motivi che mi facessero temere un rifiuto. Egli mi chiese conto naturalmente delle mie occupazioni e de' miei studi; ed io gli risposi:

- Caro zio, la scuola rurale è un incubo, una penitenza, una espiazione. La mia vita è un continuo sacrifizio, e mi è chiuso ogni adito ad una carriera onorevole. A che cosa può condurmi l'insegnare l'abbicì ai piccoli idioti delle montagne? Senza un avvenire in prospettiva, mi manca anche il coraggio di studiare. Per lavorare bisogna avere una meta, ogni studio ha bisogno di un fomite. Quivi non posso sperare nessuna risorsa, nessun compenso alle mie fatiche.

Volendo evitare ogni allusione al passato, mostrai d'attribuire al mio esilio il solo scopo di mettere in assetto l'amministrazione rurale della piccola proprietà, e quello d'acquistare un titolo in qualità di maestro, incominciando l'insegnamento dal primo scalino, e proseguii:

- Ora, avendo restaurata la casa, diventa più facile affittare vantaggiosamente la terra; io ho fatto le prime prove nell'istruzione, e posso aspirare ad un posto superiore. Quivi io non istudio, non imparo, sono lontano dai superiori e dalle occasioni di farmi onore; mi avvilisco, mi scoraggio, non vivo, ma vegeto!...

Mio zio mi ascoltava tacendo. Il suo silenzio mi urtava i nervi, i nervi agitati fanno dire delle bestialità, ed io venni alla conclusione seguente:

- Vuol dire che oziando, passeggiando e fumando il sigaro, aspetterò un migliore avvenire dalla Provvidenza!

Non so se sia stata l'assurdità della frase o la Provvidenza invocata che abbia scosso mio zio; ma il fatto sta che si scosse.

Certo era assurdo che la Provvidenza fosse tanto improvvida da proteggere un ozioso che ne aspettava i benefizii passeggiando e fumando; e mio zio, che per me rappresentava la Provvidenza, se ne commosse.

- Hai torto di sragionare, - mi disse, - e di non apparecchiarti una strada collo studio e la coltura, ma hai ragione di desiderare una sorte migliore, e ti prometto che intendo occuparmene e soddisfarti. Puoi credere quanto mi deva esser caro il tuo ritorno a Milano, non avendo altri parenti vicini, che possano tenermi compagnia e sostenere la mia vecchiaia. Abbi un po' di pazienza, non bisogna precipitare, ma al mio ritorno mi darò premura di soddisfare i tuoi voti, e di trovarti un collocamento a Milano, che ti permetta di farti conoscere.

Tale promessa mi ridava la vita; m'alzai, presi la mano di mio zio, la copersi di baci, la bagnai di lagrime. Il pensiero di ritornare nella mia cameretta di Milano m'aveva esaltato. Accorgendomi però che mio zio mi guardava con qualche sorpresa, procurai di calmare il mio soverchio entusiasmo per non destare sospetti, e poco dopo cambiai discorso.

L'ora del pranzo era quella delle ciarle, delle confidenze, e dell'espansioni. All'indomani mio zio mi raccontava le novità di Milano, mi rendeva conto degli amici, dei conoscenti, dei vicini.

- A proposito, - diss'io con aria indifferente, - come va il matrimonio della contessa Savina?

Mio zio mi guardò in faccia prima di rispondere. Io affettai una tale bonarietà che dovette ispirargli fiducia, ed egli un po' esitante rispose:

- Veramente.... se devo dire il vero.... non va troppo bene.

- È dunque un matrimonio infelice?

- Non dico questo.... ma non è troppo felice.

- Così presto!... - io esclamai. Poi volendo dissimulare la mia sorpresa e l'emozione, mi versai da bere; procurai di mostrarmi freddo e distratto, lasciai passare qualche tempo, cacciando giù un boccone per forza, poi soggiunsi:

- Se non m'inganno, mi pareva che la contessa Savina avesse sposato un signore....

- Sicuro, ha sposato un signore della più alta nobiltà, molto ricco, ma scialacquatore.... un vizioso, un donnaiuolo, un beone.... un cattivo soggetto.

- Diamine!... come mai ha potuto innamorarsi d'un tal personaggio?

- Innamorarsi, - disse mio zio, chiudendo gli occhi ed alzando le spalle, - sai bene che i gran signori si maritano senza conoscersi, guardano al nome ed alle sostanze e basta. Il conte Azzone di Montegaldo aveva tutte le qualità richieste per fare un eccellente matrimonio. Appartiene a famiglia ricchissima e d'antica nobiltà, ed avrebbe potuto scegliere fra i migliori partiti; ma non ci pensava nemmeno, vivendo gran parte dell'anno a Parigi, ove si dice che tenesse una famiglia.... illegittima. Sembra che gravi perdite al giuoco lo abbiano costretto a cercare una dote, non essendogli possibile di trovare del denaro sugli stabili coperti da ipoteche. Col suo matrimonio ha potuto pel momento riacquistare il credito e chiudere le breccie.

Meno male se avesse fatto giudizio, ma si pretende a Milano ch'egli continui la tresca, e non abbia abbandonato il giuoco, gli stravizii. Intanto la povera moglie oltraggiata paga le spese.

- È un'infamia!... - io gridai; - questo non è un matrimonio, ma è piuttosto la prostituzione legale della donna!... Se le leggi fossero giuste per tutti, il conte di Montegaldo dovrebbe essere condannato all'ergastolo, come coloro che tradiscono la buona fede e l'innocenza!... come i ladri.... come i frodatori.... come i sacrileghi.... - e non sapendo più frenare la mia esaltazione, fuori di me dalla indignazione, acciecato dalla collera, diedi un pugno così potente sulla tavola, che feci saltare le stoviglie, le posate, i bicchieri, e ruppi una bottiglia inondando la mensa di vino.

Mio zio rimase sbalordito, la Rosa accorse al rumore, io abbassai il capo confuso e pentito della mia escandescenza.

Cercai ogni argomento possibile per giustificare tale esaltazione, ma era troppo tardi. Mio zio aveva aperto gli occhi, e mi leggeva nel cuore; io non dovevo più sperare sulle sue prestazioni per farmi ritornare a Milano. Tutto era perduto!... Io conoscevo troppo gli scrupoli di mio zio per poter dubitare un solo istante della sua risoluzione. Certo egli mi condannava all'esilio perpetuo per salvarmi dai pericoli, e per non portare sulla coscienza il rimorso d'aver contribuito a facilitare un amore colpevole.

Io non potevo più contare che sopra me stesso, e il pensiero della infelicità di colei che mi stava fissa nel cuore mi dava tanto coraggio da tentare la mia emancipazione, ad ogni costo, senza il soccorso di nessuno. Quando si è giovani ed innamorati tutto sembra facile; guardando alla meta lontana non si prevedono gli ostacoli, l'amore è cosa troppo elevata e sublime per occuparsi del denaro necessario ad ogni impresa; e dopo pranzo, collo stomaco soddisfatto, non si pensa che bisogna desinare ogni giorno.

Ho passato una notte d'inferno, raggirandomi smanioso nel letto senza trovare riposo. Io vedevo la contessa Savina infelice, derelitta, immersa nelle lagrime, e pensavo al modo di vendicarla, di consolarla. La nostra santa affezione, inspirata dalla naturale simpatia, ci avrebbe resi felici in tutte le condizioni della vita. Le ricchezze erano la prima cagione della sua infelicità, come la miseria era il solo ostacolo che mi tenesse lontano da lei. Se fossi ricco! io pensavo, andrei a stabilirmi a Milano, troverei una finestra dirimpetto al palazzo Montegaldo, e un bel giorno le comparirei davanti come al tempo felice che dalla casa di mio zio stavo in adorazione davanti al palazzo Brisnago. Ma cambiate le circostanze, e avendo imparato dall'esperienza a che giovi l'amor platonico, questa volta il nostro amore prenderebbe un'altro indirizzo... questa volta, se non rispondesse al primo bacio, non vorrei disertare dal posto senza aver tentato il secondo.... e il terzo.... e il quarto.... ed avrei parole e mezzi per ottenere sicuro il bacio della contessa Savina, quel bacio che certo non vorrebbe negarmi, del quale io prelibo la voluttà.... come l'Arabo assetato fra le aride sabbie del deserto quando pensa alla fresca fontana dell'oasi.

Con tali pensieri m'addormentai verso il mattino; all'ora che il crepuscolo apporta un po' di calma a chi ha passato la notte agitata. Dapprima divagai in sonni confusi, poi mi parve di vedere chiaramente la contessa Savina ad una finestra bassa d'un palazzo in una strada deserta. Io la contemplavo assorto in estasi, quando mi fe' cenno d'avvicinarmi. Giunto sotto al balcone, le mandai un lungo bacio amoroso. Essa mi guardò con un mesto sorriso e scomparve. Io rimasi estatico al mio posto, non so quanto tempo, senza perdere la speranza di rivederla.

Essa ricomparve, vestita di bianco, pallida, come una fidanzata che aspetta lo sposo per recarsi alla cerimonia nuziale. Io congiunsi le mani in atto di preghiera, essa mi guardava fisso, e pareva che mi dicesse: t'aspetto.

Le feci cenno che sarei ritornato, e andai non so dove a prendere una scala di corda. La scala aveva da un lato due ganci, che gettai sul balcone. La contessa Savina non si prestò, si oppose; essa aspettava sempre pallida e immobile. Io tremavo come una foglia, la scala era assicurata, ed io incominciai a salire. Ad ogni scalino che mi avvicinava al balcone distinguevo più chiaramente i lineamenti della contessa. I suoi occhi leggiadri mi guardavano con affettuosa espressione, le sue labbra si atteggiavano ad un mesto sorriso.... ed io salivo sempre. Le giunsi tanto vicino che vidi il suo seno agitato dai moti violenti del cuore... stavo per afferrare la meta, quando d'un tratto si ruppe la corda ed io precipitai nella strada.

Il colpo violento mi risvegliò. Volli dormire nuovamente per riprendere il filo del sogno.... impossibile!... Perfino il sonno si rifiutava alla mia felicità!...

M'alzai conturbato. Mio zio, vedendomi sofferente, s'accorse che avevo passata una cattiva notte.

- Povero Daniele!... - mi disse con affezione, - tu pensi sempre alla contessa Savina!...

- Nemmeno in sogno!... - gli risposi, temendo quasi che potesse scoprire i misteri della notte, e soggiunsi: - Tutto è finito.

- Finito di sicuro, - osservò mio zio, al quale premeva togliermi ogni speranza; - finito per varii motivi: primo, perchè bene o male maritata essa appartiene per sempre a suo marito; secondo, perchè è donna onesta e virtuosa fino allo scrupolo, e questo te lo diranno tutti; terzo, perchè se la natura ti aveva spinto verso di lei con tanta violenza, vuole onestà che tu faccia ogni sforzo per starle lontano, evitando ogni pericolo che possa aggravare la sua infelicità, e renderti colpevole di maggiori sventure.

- Le ripeto che non ci penso nemmeno, - risposi, - e che anche se fossi tanto pazzo da pensarci, credo di essere un galantuomo, e di non aver mai fatto dubitare della mia condotta.

Lo zio si mostrò soddisfatto della mia dichiarazione, ma io credo che egli realmente prestasse poca fede alle mie parole, come io stesso non era convinto che fra me e la contessa Savina tutto fosse finito.

 

 

 


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