Antonio Caccianiga
Il bacio della contessa Savina
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XVIII.

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XVIII.

 

Una sera, appoggiato al balcone della mia stanza, contemplavo la campagna, fantasticando sul nuovo amore e sulle nuove speranze, e pensavo all'oro dei suoi capelli, e, senza pregiudizio della passione, anche all'oro della borsa del babbo, che accompagnato ai pregi materiali e morali della figliuola poteva comporre una famigliuola felice. Mi compiacevo nell'idea d'essere finalmente riuscito a mettere d'accordo il cuore e la ragione, quando vidi passare da lontano i coniugi Bruni senza la figlia. - L'Agata sarà sola in casa, pensai subito; prendiamo l'occasione pei capelli! E corsi difilato in casa Bruni. Infatti l'Agata era sola, ma non mi ricevette più nel salotto come soleva fare in passato, e invece mi trattenne in cucina con Martino e la Menica. O perchè dunque non mi riceveva più come le altre volte, coll'intimità di un fratello?... A tale domanda, che io facevo a me stesso, rispose subito la mia coscienza: Ecco, essa mi diceva, i tuoi sguardi amorosi le hanno rivelata la tua passione. Hai perduto i diritti acquisiti, per acquistarne altri, con altro titolo ed altre condizioni.

Il concittadino che diventa pretendente esce dalla legge, deve apparecchiarsi alla corona o all'esiglio e rinunziare alla vita comune.

Mi rassegnai al mio destino, e soddisfatto del suo onesto contegno, procurai d'apparecchiarmi.... alla corona.

Per fortuna, la Menica andava e veniva senza darsi pensiero dei nostri discorsi, Martino intendeva il senso delle parole assai meno di Bitto, chè il suo dizionario non aveva che poche pagine, e per lui tutto ciò che non era volgare era arabo. Poco dopo la Menica scomparve, Martino la seguì e restammo soli. Io mi sedetti al focolare, scaldandomi le mani, parlando di cose indifferenti, e guardando l'Agata con affettuosa attenzione, mentre essa in piedi raccoglieva24 i tizzoni colla molle, e disegnava dei geroglifici sulla cenere.

Come era bella!... le morbide treccie le cingevano la fronte serena, come un diadema; l'occhio limpido e profondo brillava d'una luce tranquilla fra i molli contorni del volto, che colla dolcezza del sorriso rivelava la soavità del sentire. Le movenze delle sue membra snelle e flessibili non accusavano artifizi, ma una naturale mollezza le rendeva eleganti.

Confrontando i pregi di lei colla mia tempra e colla riputazione di cervello balzano confermata dai miei stravizi, mi mancava affatto il coraggio di esprimerle colle parole quello che le avevo già detto cogli occhi.

Dopo qualche esitanza, pensai che prima d'espormi con una dichiarazione imprudente era meglio mi assicurassi della sua opinione sul mio conto, e tremando per la risposta, rivoltomi a lei con uno sguardo supplichevole, la interrogai in questi termini:

- Agata... ditemi francamente che cosa pensate di me....

- Che siete un galantuomo... quantunque un poco fantastico; un uomo intelligente, quantunque poco studioso... ecco tutto.

- Riconosco la vostra indulgenza... siete buona come siete bella, vorrei aprirvi il mio cuore... dirvi che mi foste sempre simpatica... ma che da qualche tempo questa simpatia minaccia di far progressi... e di trascinarmi... Infatti temo di perdere la vostra stima... non oso sperare... dirvi di più.

Essa alzando gli occhi, e guardandomi in faccia apertamente, mi incoraggiò con uno sguardo che voleva dire: - Vi amo!

Io le risposi con una di quelle occhiate che non lasciano dubbio, che si leggono a prima vista anche dagli analfabeti, e che significano chiaramente: - Vi adoro!

I nostri occhi scambiarono lungamente i loro raggi, fino a tanto che io mi sentii affascinato da quella luce; essa abbassò le pupille facendosi rossa come una bella rosa di maggio. Allora, esaltato dall'entusiasmo, esclamai:

- Agata... vi ringrazio... ora sono felice!

- Felice di che cosa?... - mi chiese con un'aria che mi fece rabbrividire, - e di quale favore mi ringraziate?

Mi sentii vacillare... mi pareva di guardare nel fondo d'un precipizio... mi sentivo attratto dal vuoto... i capelli mi si drizzavano sulla fronte... Credo che essa abbia avuto paura, perchè mi posò una mano sul ginocchio, chiedendomi con inquietudine:

- Che cosa avete?

- Mi sento morire!... - risposi.

- Mio Dio!... come passate rapidamente dalla felicità... alla morte! Su via... fatevi animo... qual è il motivo di tali eccessi?

- Voi... voi sola.

- Io?... Ma che cosa vi ho fatto io?

- M'avete detto: vi amo! e poi avete finto d'ignorarlo.

- Ma io non ho mai pronunciate quelle parole!

- È vero... non me lo avete detto colle parole, ma cogli occhi... quelle possono mentire, questi non mentono mai... io so leggere negli occhi meglio che nei libri... e con essi mi avete detto: vi amo!... Potete negarlo?...

Sorrise graziosamente, rinnovò la dolce espressione degli occhi, e mi disse:

- Come siete esperto nella conoscenza del linguaggio arcano dell'anima!... lo avete dunque studiato lungamente?...

- Domanda insidiosa!... - io soggiunsi. - Risponderò sinceramente a suo tempo, ma ora m'interessa di più conchiudere la quistione che mi tiene sospeso tra la vita e la morte. Ditemi, ve ne prego: quando io ho tradotto nel linguaggio volgare l'espressione dei vostri occhi, mi sono ingannato?...

- Siete un traduttore traditore, - mi rispose ridendo.

- Ma vivaddio!... vi costa dunque tanto una spiegazione sincera? temete forse di qualche cosa?...

- Avete indovinato anche questa volta. Sì, temo mille cose. Vi sono parole che dette una volta segnano il destino della vita, e non si possono pronunziare senza esitanza. Bisogna pensarci seriamente; da una sillaba dipende talvolta la nostra sorte: sì o no, possono significare talvolta una lunga serie d'anni felici o dolorosi, è il dado gettato che decide delle gioie o delle sventure non d'una persona, ma d'una famiglia e forse d'una lunga generazione! Bisogna pensarci seriamente.

- Ma il cuore?...

- Ah il cuore!... ebbene è appunto il cuore leggiero che più pesa gravemente su tutto e su tutti!... È il cuore leggiero che si lascia trascinare troppo facilmente dalle sue inclinazioni subitanee, senza dar tempo alla mente di ponderarle, che poi trascina alle gemonie i suoi seguaci, e li precipita con stesso negli abissi di sventure che fanno della vita domestica un inferno... macchiano d'infamia i nomi più onorati... e talvolta spingono alla disperazione e al delitto!... Vi par facile a voi dire sì o no sulla strada da seguire nel pellegrinaggio terreno; eppure è la decisione più grave della vita!...

- Ma l'amore è cieco, - io osservai.

- Bisogna guarirlo, - mi rispose.

- Oh sta a vedere, - io soggiunsi, - che voi proponete di mandar l'amore in un istituto oftalmico, oppure all'istituto dei ciechi per fargli insegnare a leggere sulla scrittura in rilievo, e imparare un mestiere.

- Sicuro, l'amore moderno deve essere ragionevole, ponderato, prudente.

- Agata, - io esclamai, - per una ragazza siete troppo positiva.

- Vi piacerebbe meglio che fossi più fantastica?... più accessibile alle illusioni, più facile alle lusinghe... che cercassi l'uomo ideale?!...

- No, per carità, Agata... gli uomini e le donne ideali non si trovano che nei romanzi.

- Ebbene siamo dunque d'accordo: l'amore degli antichi non è più dei nostri tempi. Noi gli abbiamo tagliato le ali, è vero, ma lo abbiamo anche guarito dalla cecità. Ora egli va per la sua strada in costume moderno, e non è più pericoloso. Per questo ogni ragazza onesta può viaggiare sola e sicura attraverso l'Europa, frequentare le Università e le Accademie, rispettata da tutti. Anticamente non era così. Cupido si cacciava dovunque. Quel fanciullo colle ali e la benda agli occhi, munito d'arco, freccie e faretra, tirava a caso sui passanti, e metteva tutti in pericolo. Se lo vedete ancora ai nostri tempi raggirarsi nella società, penetrare di soppiatto nelle case coll'astuzia raffinata del contrabbandiere, dite pure francamente che è un malfattore... o un imbecille. E guai alle sue vittime!...

- Avete ragione... anche nelle affezioni bisogna dar luogo alla ragione, e mettere d'accordo il cuore e il buon senso. Io ho fatto anche questo, e offrendovi un amor cordiale e profondo, credo in pari tempo di potervi assicurare che ho consultato anche la ragione e le convenienze. A meno che voi e i vostri parenti non mi troviate troppo povero per aspirare alla vostra mano. Questo dubbio mi ritenne di manifestarvi prima d'ora la mia affezione.

- I miei genitori vi stimano e vi vogliono bene, e non intendono certo di vendermi al maggior offerente, ed io credo che veramente poveri non sieno che gli oziosi... e gl'ignoranti. Chi studia e lavora ed ha un buon capitale nel cervello, non è mai povero.

- Dunque voi non sarete contraria ai miei voti e non mi stimate indegno d'aspirare alla vostra mano?

- Solo una vaga apprensione mi arresta.... un timore indeterminato di pericoli ignoti.... di non bastare alla vostra felicità.... di non avere virtù sufficiente per fissare la vostra vita.... Ve lo confesso francamente: io non avrei la forza di sopravvivere al minimo disinganno.... Intendo offrire tutta me stessa a chi mi possa promettere altrettanto.... per la vita.... per l'eternità.... senza restrizione di sorta.... fino l'ultimo pensiero.... O tutto o niente!...

Dicendomi queste cose il suo occhio aveva assunto un'animazione straordinaria, che dava alla sua attitudine una posa decisa ed energica. Era un nuovo aspetto della sua bellezza. Fiera come una regina che impone le sue condizioni all'alleato, essa attendeva una risposta breve ed esplicita come la sua sentenza. Non la feci attendere lungamente:

- Avrete tutto!... - le risposi. - Ve lo giuro sull'anima di mia madre!...

Essa mi stese francamente la mano, dicendomi:

- Sarò vostra per la vita!

- Dunque mi amate veramente?

- Sì, vi amo....

I nostri sguardi dissero molto di più, perchè non vi sono parole in nessuna lingua per esprimere certi sentimenti dell'anima. L'eloquenza dell'amore sta nel silenzio.

Stemmo fino a notte inoltrata soli ed al buio, senza scambiare una parola. Io aveva presa una sua mano nelle mie, e un fluido arcano aveva messo in comunicazione i nostri cuori che corrispondevano fra loro.

La Menica rientrando accese il lume, Martino mise della legna sul fuoco che era quasi spento, e i signori Bruni, ritornati dalla loro escursione, ci trovarono seduti uno vicino all'altro come due colombi in un nido.

All'indomani scrissi una lunga lettera a mio zio nella quale gli svelavo il mio amore per l'Agata e il progetto di matrimonio chiedendo il suo assenso.

Non appena partita la lettera, rammentandomi il passato, incominciò a frullarmi per la testa che il lirismo delle mie frasi potesse produrre un funesto effetto sull'animo positivo di mio zio. Egli che giudicava l'amore coll'aritmetica, che alla poesia d'un primo affetto opponeva l'ostacolo dei milioni, che sfoggiava tutta la sua rettorica per dimostrarmi che un misero non ha il diritto d'ammirare la bellezza risplendente fra i fulgori della fortuna, egli avrebbe riso certamente anche questa volta della mia nuova pretesa.

Ma ov'era la mia colpa, s'io non sapevo trovare le perle negli stracci, se, attirato dalla bellezza d'un volto e dal prestigio d'un sorriso, m'imbattevo sempre nella trappola dello scrigno, senza vederlo?...

È dunque facile immaginare quale fosse la mia sorpresa quando ricevetti una lettera dello zio, che aderiva pienamente al mio piano, lodava l'ottima scelta, mi muniva d'una commendatizia pel signor Nicola, nella quale appoggiava la mia domanda con argomenti decisivi, e prometteva d'intervenire alle nozze. Però, secondo i miei presentimenti, l'aritmetica non mancava, ma questa volta i calcoli del buon zio non erano fatti per dimostrare la mia inferiorità, ma per rialzare il mio valore. Non si trattava più d'una sottrazione, ma d'una moltiplica. Vedendo la necessità d'accogliere degnamente una sposa, avvezza agli agi della vita, esso destinava immediatamente una somma per l'allestimento della casa e le spese occorrenti, e mi faceva un annuo assegno, per mettere la mia condizione economica in armonia con quella della sposa.

Questi atti generosi mi commossero fino alle lagrime e mi posero in condizioni tali da poter chiedere la mano d'Agata senza arrossire. Un padre affettuoso non avrebbe potuto fare di più, e la mia risposta fu quale doveva essere quella d'un figlio che riconosce il beneficio, e che esprime la sua gratitudine con tutta l'espansione del cuore.

L'esito della domanda formale della sposa fu quale potevo desiderarlo.

Il signor Nicola mi gettò le braccia al collo dicendomi che da quel momento mi considerava quale suo figlio, la signora Giovanna mi baciò con pari affezione, e l'Agata, che ci guardava commossa, mi parve più bella che mai; la Menica piangeva della nostra allegrezza, e Martino, incerto se dovesse ridere o piangere, restava fra le due, cogli occhi lagrimosi e la bocca ridente, come le selci delle sue montagne all'aurora d'un giorno sereno, bagnate dalla rugiada e rischiarate dal sole.

L'epoca del matrimonio venne fissata per le vacanze autunnali; allora gli sposi sarebbero liberi, lo zio avrebbe risparmiato di fare il viaggio apposta fermandosi al villaggio dopo i bagni, e intanto ci restavano alcuni mesi di tempo per mettere25 in assetto la casa e apparecchiare il corredo. Quell'inverno scorse rapidamente, e fu uno dei più fausti della mia vita. La felicità dell'aspettativa d'un bene assicurato è superiore alla felicità del bene conseguito, perchè alla più dolce realtà si accoppia sempre qualche piccola dose d'amarezza. L'assoluto non esiste che nel cervello.

Facevamo ogni sera lunghe letture confacenti allo stato dell'animo. Leggevamo dei romanzi nei quali la vita era una burrasca, e l'amore trovava ogni sorta d'ostacoli per giungere al suo scopo; il confronto colla tranquilla esistenza, che sorrideva ai nostri voti, accresceva il valore di quella pacifica condizione, che ci rendeva tanto facile ciò che a personaggi eroici costava sforzi inauditi.

I nostri occhi s'incontravano sovente, e mettevano i cuori in comunicazione; talvolta l'Agata poggiava leggermente il suo piede sopra il mio, e quella dolce pressione rendeva più soave l'armonia delle nostre anime, producendo l'effetto dei pedali sul pianoforte.

Al di fuori, il nostro matrimonio era divenuto il soggetto principale di tutti i discorsi. Si parlava della mia fortuna, e si diceva che il signor Nicola sacrificava26 l'unica figlia, concedendola in isposa ad un povero maestro. Altri rispondevano che un maestro foderato d'un canonico diventava morbido come un cuscino imbottito. Le donne citavano le mie prodezze al mulino e mettevano fuori dei cattivi pronostici; chi ricordava la notte all'osteria, il vizio del giuoco e del vino, chi mi dipingeva come uno scioperato, senz'ordine e senza giudizio, e tutti facevano le meraviglie della incredibile condiscendenza dei Bruni.

Basta avere una fortuna a questo mondo perchè gli oziosi e i malevoli si scaraventino contro di voi, vi facciano l'esame di coscienza come i giudici inquisitori, vi contino in tasca i quattrini, e vi taglino i panni indosso. Tutta invidia!... Nella pentola sociale bolle sempre l'antico intingolo delle streghe, composto di mille sozzure, ove si confondono i rospi coi serpenti, e tutte le carogne che appestano l'aria. Non c'è rimedio, bisogna lasciare che la pentola bolla senza coperchio, affinchè il vapore non si condensi e scoppii con grave pericolo.

Uguccione della Fagiuola, che era stato il primo a trascinarmi all'osteria e a mettermi in mano le carte, era il primo anche a denigrarmi ed a pungermi colla sua lingua di vipera. Egli sosteneva che tutti i canonici hanno dei nipoti che vengono rappresentati sulla cappa magna da quelle code nere che spiccano sulla pelle dell'ermellino, come tante macchie!... Colui ch'era stato il fomite principale de' miei stravizi diventava il propagatore più maligno delle contumelie. I malvagi sono sempre funesti; bisogna fuggire il loro contatto. Essi vivono nei siti uggiosi e nel fango come i funghi velenosi; e sono veramente i funghi sociali.

Uguccione coll'organo della chiesa scorticava le orecchie ai divoti, e coll'organo della sua voce cavava la pelle ai galantuomini. Esso rappresentava a perfezione la maldicenza con tutte le sue voci discordi ed abbominevoli. Invece il campanaro, venuto a cognizione del mio matrimonio, raddoppiò le sue riverenze, coll'intenzione di raddoppiare il suono dei sacri bronzi, il giorno delle nozze, a gloria ed onore degli sposi.... e della mancia che si aspettava in ricompensa del frastuono col quale assordava il paese. Esso era l'avidità in persona.

Ugolino Gonzaga si struggeva di rancore, vedendo un maestruncolo del villaggio salire più in alto di lui, che credeva di rappresentare la scienza medica colla scatola27 delle pillole, e non poteva rassegnarsi che il sillabario avesse soperchiato la terapeutica. Esso faceva la parte dell'invidia. Il medico censurava il possidente più ricco del paese che scendeva a stringersi in parentela con un orfano sprovveduto di censo, quando avrebbe potuto maritare la figlia a un signore.

Insomma la maldicenza, l'avidità, l'invidia, la superbia serpeggiavano nel piccolo villaggio, unitamente all'ignoranza e ai pregiudizii che ne formavano il fondo.

Nauseato di tante ciarle volgari, irritato da tante calunnie, inasprito da così malevoli insinuazioni accolte da una ciurmaglia d'idioti, io esclamava:

- La natura è bella al villaggio, ma sarebbe più gioconda se si potesse distruggere la razza malvagia degli abitanti!...

Poi ritornato in calma, e moderato dalla ragione e dal cuore, riprendevo:

- Distruggerla moralmente, come si distrugge l'ignoranza, col mezzo dell'educazione, trasformando quegli animali selvaggi in uomini ragionevoli, onesti e civili.

 

 

 





24 Nell'originale "racglieva". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



25 Nell'originale " permettere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



26 Nell'originale "sacricava". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



27 Nell'originale "spatola". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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