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XX.
Mio zio capitò nel mese di luglio, e gli feci quelle festose accoglienze che meritava. In casa Bruni vi furono banchetti d'onore, brindisi, e mille felici pronostici per gli sposi. Il buon canonico si fermò qualche giorno al villaggio, esaminando e lodando i nuovi restauri della casa, e tutte le mie disposizioni pel prossimo matrimonio. Doveva rimanere convinto della mia perfetta conversione, tuttavia non mancò di raccomandarmi di far giudizio, d'essere ragionevole, sodo e ponderato, apparecchiandomi ad una vita positiva ed onesta, senza chimere nè sogni.
Io non avevo bisogno di tali consigli; amavo l'Agata teneramente, d'un amore pieno di stima, avevo rinunziato spontaneamente ad ogni idea che non avesse rapporto diretto col futuro mio stato, m'ero quasi dimenticato il passato... o perchè dunque è venuto fuori a parlarmi di chimere e di sogni?... Precauzioni balorde!... parlandomi di ciò che avevo dimenticato, me l'ha fatto tornare in mente.
Mio zio canonico colle sue reticenze irritava il mio carattere, suscitava i miei nervi, mi faceva l'effetto d'una mosca molesta, o d'un indiscreto che con un fuscello stuzzica un uomo che dorme!... non ci può essere di peggio!... Quando un cavallo cammina tranquillamente, lasciatelo andare in pace per la sua strada; se lo toccate colla frusta, imbizzarrisce, e forse vi trascina in un fosso!...
Esso evitava di parlarmi della contessa Savina.
Ma di che cosa aveva paura!... il mio prossimo matrimonio doveva rassicurarlo pienamente. Qualunque notizia m'avrebbe trovato indifferente; invece il suo silenzio provocava i miei sospetti e mi faceva fantasticare.
Finalmente lo zio essendo partito pei bagni di Bormio senza rompere il silenzio su tale soggetto, il mio umore se ne risentì, mi parve una ingiusta diffidenza, me ne crucciai fortemente, e per qualche giorno mi fu impossibile di nascondere l'uggia all'occhio chiaroveggente dell'Agata.
Dovetti giustificarmi con pretesti che vennero accolti freddamente, senza fiducia; ed ecco come un semplice vapore, sollevato dal fondo d'una palude, s'innalza a poco a poco e diventa una nuvola capace d'oscurare anche il sole, se non spira qualche brezza che la disperda.
Le dolci parole della mia fidanzata fecero l'ufficio della brezza: in breve tempo dispersero ogni vapore, e l'animo ritornò sereno e illuminato della luce benefica de' suoi sguardi.
Avendo dato termine anche in quell'anno alla scuola, e messo all'ordine ogni cosa, al ritorno dello zio venne fissato il giorno delle nozze.
Agata manifestò il desiderio di partire dal villaggio appena compiuta la cerimonia, per apparecchiarsi con qualche giorno di raccoglimento alla nuova vita. I parenti approvarono tale divisamento, mio zio ci propose un viaggio in Toscana, perchè non mi venisse l'idea di condurre la sposa a Milano. Io propendeva per Venezia. Le mie letture m'avevano affascinato, io vedevo quella città di marmo sulla laguna, coronata di cupole, cinta di navi, adorna di monumenti insigni. Pensavo alla bruna gondoletta che mi avrebbe condotto colla sposa attraverso quei canali misteriosi, davanti quelle basiliche e quei musei, ove quattordici secoli d'indipendenza e di gloria lasciarono traccie immortali. Sognavo la voluttà di quelle notti rischiarate dalla luna riflessa dalle onde, sentivo l'eco lontano delle serenate, immaginavo le gite sul mare, e il mio cuore palpitava d'ammirazione....
Ma la scelta spettava di pieno diritto alla sposa. Senza esitare un solo istante essa scelse la Svizzera.
La mattina del giorno solenne apersi per tempo la finestra dopo una notte insonne, e respirai con voluttà l'aria refrigerante dell'aurora. Era un bel giorno d'autunno, e mi pareva strano che tutti non celebrassero la mia festa. I pastori uscivano al pascolo col gregge, il belato delle pecore risuonava nella valle, unitamente al tintinnìo dei campanacci delle capre.
Le povere donne colla gerla sulle spalle salivano ai monti, l'operaio si metteva al lavoro, tutti seguivano le loro abitudini quotidiane.
Le abitudini non cambiavano che per me solo, io incominciavo una nuova vita.
Indossati gli abiti da sposo, corsi in casa Bruni. Agata era pronta; il pallore del suo volto, il languore de' suoi occhi, l'aspetto esitante raddoppiavano la sua bellezza. Il velo nuziale, assicurato ai capelli da qualche fiorellino d'arancio, le scendeva sulla candida veste, avvolgendo l'elegante persona. Il suo sguardo, inumidito da una lagrima, chiedeva pietà e tenerezza. Le baciai la mano tremante, col rispetto con cui da fanciullo baciavo la Madonna. Essa, trattomi nel vano d'una finestra, mi mostrò la medaglia di mia madre che teneva sul seno, dicendomi con tremula voce:
- Essa ci accompagna... quando saremo davanti l'altare, tua madre ci guarderà dal cielo... Daniele!... preghiamola insieme che ci benedica.
I miei occhi si gonfiarono di lagrime.
Di quel giorno non ricordo con precisione che quel momento. So che in chiesa mi pareva di vedere mia madre fra gli angeli, e pregai l'Essere Supremo di purificare la mia anima, e di rendermi degno della sposa che il cielo mi aveva destinata. Poi non mi rammento più nulla.
Alla nostra partenza le lagrime e i singhiozzi di tutti ci accompagnarono; i parenti non potevano distaccarsi dalla figlia; mio zio, impaziente, coll'orologio alla mano, ci dava premura, dicendoci che la vettura ci aspettava da un pezzo, che l'ora si faceva tarda, che non era prudente trovarsi fra le montagne di notte, e parve felice quando, entrati in carrozza, chiuse lo sportello, accennando al cocchiere di partire, e salutandoci colla mano e colle benedizioni del cielo.
Dalla Valtellina, attraversando lo Spluga, entrammo nel Cantone dei Grigioni. Agata piangeva, io cercava di consolarla senza impedire le sue lagrime, sfogo necessario del dolore che provava lasciando i genitori e la casa paterna, ove aveva vissuto fino allora felice. Guardando attraverso lo sportello, io non vedeva che squallide rupi pendenti minacciose sul nostro capo, e precipizi spaventosi ai nostri piedi.
Incominciavo la vita matrimoniale fra gli orrori di nude e brulle giogaie, trascinato a gran fatica da cavalli ansanti che salivano l'ardua montagna.
Io mettevo le Alpi fra il celibato e il matrimonio, deciso di difendere con vigore il mio nuovo stato dalle invasioni dell'antico. Ahimè!... io pensava, le Alpi non furono riparo sufficiente alla patria contro gli stranieri, potranno esse salvarmi dalle insidie delle passioni che assalgono l'anima umana?... In ogni caso sono deciso a vincere o morire, piuttosto di darmi prigioniero al nemico. La leggiadria che spirava da tutta la persona della mia sposa convalidava i miei santi propositi.
Chi ha viaggiato nelle regioni pastorali della Svizzera con una donna adorata al fianco crederà facilmente alla sincerità delle mie risoluzioni e all'entusiasmo della mia luna di miele.
Le aride montagne e i torrenti hanno un termine anche nella Svizzera... come le lagrime sul ciglio delle spose. Allora si rivede il sole. Varcata l'ultima gola, spariscono le roccie ferrigne, le nevi perpetue e i ghiacci eterni, e si scoprono le vallate ridenti di verdura, irrigate da limpidi ruscelli, sparse di casolari, circondate da boschi, popolate d'armenti vaganti sui pingui pascoli.
Nei deliziosi pellegrinaggi pei monti e per le valli, la natura alpina lussureggiante eccitava la nostra ammirazione fino all'entusiasmo. Quando un sito incantevole ci attirava gli sguardi, volevamo raggiungerlo ad ogni costo, "quali colombe dal desio chiamate," si saliva, e si arrivava trafelati, ma contenti, alla meta. Seduti sull'erba al rezzo d'un antico albero scapigliato, in qualche sito aprico, davanti allo stupendo panorama delle Alpi, si dimenticava la vita mortale, si respirava in un etere superiore alle umane miserie, lo spazio ci appariva infinito come il firmamento, il tempo non aveva più misura, e il sole soltanto, scendendo dietro le rupi, ci annunziava la prossima fine d'un giorno felice, e ci avvertiva di ritornare fra gli uomini, per non smarrirci di notte tempo fra i precipizi.
Un giorno fra gli altri, uscimmo a passeggiare lungo la riva sinistra del lago di Zurigo. Graziose villette suburbane fiancheggiano la strada adorne di aristolochie, di bignonie, di glicini, che salgono sulle colonnette delle loggie, corrono sui ballatoi, circondano di festoni i terrazzini, e tappezzano i muri fino alle cornici. I giardini spiegano gran lusso di fiori in eleganti canestri che spiccano sul verde smeraldo dei prati e sul fondo cupo degli alberi, sotto alle cui ombre si perdono tortuosi sentieri.
Ammirando quelle dimore campestri, e le acque cerulee del lago, e le punte acuminate dei campanili sul fondo violetto delle montagne, e quelle gradazioni infinite di colori e di tinte armoniose, ci siamo allontanati assai dalla città e siam giunti stanchi, sfiniti, in un piccolo paesello che si specchiava nell'acqua.
Seduti sotto un rustico pergolato, che sorgeva davanti un'osteria, si fece colazione all'aperto, con cibi semplici, ma con appetito complicato.
Non si vedeva degli abitanti del villaggio che la nostra ostessa e il suo gatto, che faceva il chilo sopra un tavolo. Tuttavia ci parve che il luogo fosse ancora troppo popolato, e finita la refezione ci siamo allontanati per cercare la solitudine completa. L'abbiamo trovata sotto un salice piangente, in un angolo romito, ove l'acqua lambiva i ciottoli ai nostri piedi. Il sole era splendido, l'aria olezzante, la natura incantevole; il silenzio non era interrotto che dal lieve mormorio delle onde che si frangevano sulla riva, e dallo stormir delle foglie agitate dalla brezza. Gli uccelli svolazzavano sui cespugli vicini senza timore, pascolavano sui greti saltellando d'intorno, mandando qualche allegro garrito a mezza voce, mentre il capinero solfeggiava sugli alberi e l'allodola intuonava un a solo melodioso innalzandosi sull'orizzonte.
Le acque erano limpide come l'aria, azzurre come il cielo, dolcemente agitate come le anime che contemplavano quello spettacolo. Una sublime armonia univa i nostri sensi alla natura esterna; i nostri pensieri, la nostra anima rispondevano unisoni al creato. Non potevamo rompere quella malìa, nè abbandonare quel posto. Io manifestava alla mia giovane sposa la pienezza delle emozioni: essa mi rispose:
- Tu mi esprimi benissimo tutto quello che sente il tuo cuore e che pensa la tua mente; se la tua anima potesse custodire come un tesoro le impressioni di questo giorno, la mia felicità sarebbe assicurata....
E ritornando verso Zurigo, osservò:
La vita sarebbe troppo bella se potesse scorrere sempre così, a contemplare le meraviglie della natura, ad amare teneramente, ad essere amati ardentemente, davanti a questo lago, a questi monti in un'eterna verdura, senza nuvole, senza uragani, e senza inverno. Tuttavia si può essere felici anche in condizioni assai più semplici e modeste. La felicità nasce in noi, si espande nel mondo esterno, e lo abbella co' suoi raggi; ma la natura più splendida non ha il potere di riscaldare il nostro entusiasmo se la felicità si è spenta nel suo focolare. Il sorriso della natura fa oltraggio alle lagrime degli infelici, esso non può trovare ricambio che nelle anime soddisfatte, le quali però, quantunque predisposte favorevolmente ad ammirare gli spettacoli più sublimi, sanno anche contentarsi delle cose più schiette. Un breve angolo di terra abbellito dalle nostre mani può bastare alla felicità, se l'affezione costante ci conserva la serenità dell'anima. A tale patto si soffrono con rassegnazione anche le disgrazie; senza di ciò tornano vane tutte le delizie del mondo.
A Friburgo passammo trepidando sul ponte di fil di ferro sospeso fra due montagne; io le dissi:
- Guarda... fa raccappriccio a pensare che la rottura d'una corda ci potrebbe precipitare nell'abisso!...
- Pensa, - mi rispose, - che anche la felicità non è attaccata che a un filo!...
Nel viaggio da Losanna a Ginevra, passando vicino a Coppet, siamo venuti naturalmente in discorso di Madama di Staël. Io manifestavo la mia ammirazione per questa donna insigne, che sotto al giogo napoleonico fece vergognare gli uomini della loro bassa servilità ed ebbe il coraggio virile di protestare contro la tirannide, spronando le nazioni alla libertà.
Agata mi ascoltava in silenzio, non osando contraddire ai miei sentimenti; ma, eccitata a dirmi francamente la sua opinione, rispose:
- Riconosco il genio di Madama di Staël, ma come donna mi è antipatica. Essa amava il rumore e gli splendori della gloria, io il silenzio e l'ombra del focolare domestico. Non ho stolti pregiudizi sulle letterate, non nego alle donne il diritto d'avere dell'ingegno e d'impiegarlo in onore della patria; i soli letterati gelosi possono dire il contrario: ove il genio risplende è un delitto il mettere lo spegnitoio. Non trovo strano che ogni rosa d'odore esali il suo profumo, ma come il fiore olezza al suo posto, così penso debba fare la donna.
Abbiamo esempi d'illustri poetesse, che furono ottime madri di famiglia e mogli affettuose. Madama di Staël mise per condizione del suo matrimonio l'obbligo del marito svedese di non costringere la moglie a seguirlo in Isvezia. Vedi che non è la letterata che mi sciupa la donna, è la moglie bizzarra che mi disgusta della letterata.
A Ginevra nuove discussioni intorno Rousseau. D'accordo entrambi nell'ammirare il profondo sentimento della natura del filosofo, non potevamo intenderci sulle altre qualità. L'Agata mi diceva:
- Un uomo che mette all'ospizio dei trovatelli i propri figli non ha cuore.
Io, deplorando questa macchia della sua vita, difendevo il cuore di lui, citando le sue passioni amorose.
- Troppe donne!... - essa mi rispondeva, - troppe donne!... Rousseau fu un giovane leggiero... e divenne un vecchio pazzo. È sempre così!... ogni causa ha i suoi effetti: l'uomo non è altro che la continuazione del giovane, la vita è una catena, il primo anello trascina all'ultimo, le abitudini della vecchiaia sono la legittima conseguenza delle abitudini giovanili; il giovane è il fiore, il vecchio è il frutto; l'uomo rimane sempre quello che è: il serpe resta serpe, e così l'uccello; chi ha volato in gioventù continua a svolazzare fino alla fine!...
Dovetti tacere, e ripiegarmi sopra me stesso meditando sulla mia sorte.
Attraverso il Lago Maggiore, siamo passati a Como e arrestandoci qualche giorno in Tremezzina, andavamo vagando nei paesi più pittoreschi del Lario. La nostra vita era un sogno delizioso nel paradiso terrestre.
Finalmente il bisogno di riposo ci spingeva verso il nido, ed avendo annunziato il nostro ritorno, siamo giunti al villaggio una bella sera al tramonto del sole.
I parenti, che ci aspettavano sulla porta del Casino, si gettarono nelle nostre braccia, mentre Bitto, esaltato da parossismo di gioia, mugolava correndo su e giù per le scale, le stanze e la strada, saltando addosso ai passanti, ed entrando dai vicini con latrati convulsi per manifestare la sua immensa gioia del nostro felice ritorno. Poi si slanciava sopra di noi dimostrandoci in mille modi la sua irrefrenabile contentezza.
La Rosa mi raccontò che i primi giorni della nostra partenza egli rifiutava gli alimenti, vagava continuamente dal casino a casa Bruni, e sulla sera si gettava sulla soglia collo sguardo fisso dalla parte dalla quale eravamo partiti e ci aspettava tristamente mandando qualche gemito che faceva pietà.
Dopo il nostro arrivo non abbandonò più la casa all'ora del mezzogiorno; egli vedeva i suoi amici riuniti sotto un medesimo tetto, e viveva contento.
Quell'autunno fu impiegato dall'Agata a completare l'assetto del nostro nido, e a far lavorare la terra circostante, secondo i suoi disegni. Beppo, il povero emigrato, era guarito, e per dargli lavoro vicino alla sua famiglia, lo prendemmo a giornata, e veniva occupato tutto il giorno con Martino a saccheggiare gli orti e il giardino de' miei suoceri. Mia moglie voleva abbellire la nostra dimora con piante robuste che producessero pronto effetto, e prendeva quelle che aveva educate con tanta cura nella terra paterna. Era un viavai di carriole cariche d'alberi, di cespugli, di fiori, di terricci, di concime, di vasi e d'innaffiatoi, ed io stesso dovevo prestarmi aiutando a trapiantare e lavorare colla vanga e colle mani, quantunque fossi ancora un ortolano assai poco dirozzato.
Quando l'inverno ci chiuse in casa, trovai la mia piccola dimora piena di vita. Agata vi aveva trasportato i suoi canarini che cantavano a squarciagola, un gatto che faceva le fusa e si lisciava il capo colla zampa o stava in contemplazione sui balconi, e de' bei colombi che beccavano le briciole sul pavimento o tubavano sulle porte. Aveva fatto un cuscino ben soffice per Bitto, che se lo godeva in santa pace russando tutto il giorno e svegliandosi soltanto per esprimere la sua soddisfazione alla padrona con occhiate piene d'affetto, ogni volta che gli passava dappresso.
Tutto era lindo, pulito, elegante, tiepido. Alcuni vasi di tulipani e giacinti vegetavano sulla stufa del salotto e mentre di fuori nevicava ed infuriavano gli aquiloni, la cucina ben riparata offriva un asilo gradevole, ove si alzava la fiamma viva e crepitante di ginepri, e i fornelli esalavano odori appetitosi. Gli scaffali della libreria s'erano arricchiti di nuovi libri acquistati in viaggio, che ci deliziavano nelle ore tranquille della sera.
Qualche buon giornale ci teneva in comunicazione col resto del mondo, e ci convinceva sempre più coi fatti diversi che la società è piena di trappole e di miserie, che le gioie strepitose non valgono le gioie della vita tranquilla, che le ambizioni smodate costano care e sovente si risolvono in disinganni, che la vera felicità rifugge dalla folla, e si nasconde di preferenza in luoghi romiti.
Al Carnevale si rideva leggendo le relazioni dei baccanali popolari e delle feste ufficiali, ove la diplomazia banchettava, faceva brindisi e alzava le gambe in cadenza musicale al suono di violini, viole e violoncelli, nell'interesse dei popoli... i quali intanto correvano per le vie in maschera da pantaloni, meneghini, gianduie, stenterelli, brighelli, pulcinelli, arlecchini e pagliacci. I più moderati col naso posticcio, per ridere, e far ridere. E noi ridevamo infatti!... di pietà.
I bagordi carnevaleschi, colla ciurmaglia che li accompagna, ci passavano danzando davanti gli sguardi, come i ballerini sulla scena davanti il Re e la Regina. I racconti di quei sollazzi letti davanti il severo aspetto delle Alpi, in un villaggio silenzioso, coperto di neve, producono l'effetto preciso d'una relazione medica sull'alienazione mentale, colla descrizione di tutti i sintomi della demenza, e di tutte le stranezze dei matti.
Alla primavera mi fu dato d'ammirare gli effetti dei lavori autunnali colle prime foglie che produssero un cambiamento completo di scena. Al momento dei trapianti non avevo veduto che ramoscelli sfrondati; la bella stagione, vestendoli di foglie e fiori, trasformò il casino e il suo giardinetto in un piccolo Eden. Una bella glicine s'arrampicava sulla facciata e passando sotto i balconi del primo piano profumava l'appartamento col soave odore esalato da' suoi grappoli violetti. I peri del Giappone erano coperti di fiori rossi, le spiree e i citisi di fiori bianchi e gialli. Gli anemoni, i mughetti, le primule schiudevano i loro bottoncini ai tepori primaverili. Le rose spiegavano la pompa dei loro colori, la grazia delle forme, l'olezzo soave che imbalsamava l'aria. Ogni pianta prometteva i suoi doni di fiori e di frutti, il suo tributo di colori, di balsami, di aromi o di sapori squisiti. Tutto questo lusso della natura mi rendeva gradito il soggiorno della casa.
Dietro una siepe viva di biancospini e cotogni s'udiva chiocciare, stridere, squittire, pigolare. Avvicinandosi si vedeva una coorte di vaghi volatili, anitre, tacchini, galline e pulcini che razzolavano sul letame30, svolazzavano, beccavano e correvano allegramente, e un bel gallo a penne variopinte, baldanzoso colla cresta e i bargigli rubicondi, pareva che dominasse sugli altri, e di tratto in tratto dirizzava il collo e mandava un superbo cucurucù.
Un maiale grugniva nel porcile, e sporgendo la testa dal foro che s'apriva sulla mangiatoia, v'immergeva il grugno, e poi lo alzava coperto di crusca che sbocconcellava avidamente, disperdendone d'intorno con agitazione convulsa, come quello che avevo veduto al mio arrivo in casa Bruni. Dall'altra parte c'era l'orto dapprima pieno d'ortiche e cardi selvaggi, ora tirato a cordetta, colle sue aiuole ricche d'erbaggi e pulite dalle male erbe, colle piante sarchiate a dovere, diradate in ordine, circondato da spalliere di viti, fiancheggiate da orli di fragole in fiori. Infatti il regno animale e il vegetale gareggiavano per farci ghiotte promesse, e l'occhio si riposava dovunque sull'abbondanza d'ogni bene. Ma una più lieta sorpresa mi attendeva nelle intime confidenze domestiche. Un bel giorno l'Agata commossa mi annunziò che sentiva la suprema consolazione di divenir madre. Allora incominciò a prodigare le sue cure al corredo che stimava necessario al fortunato mortale, atteso tanto ansiosamente, come il necessario complemento della nostra felicità, e lavorava tutto il giorno in fascie e guanciali, in benduccie, camicine, gonnellini, bavagli e cuffiette a pizzi che era una vaghezza a vederli.
Poi comparve una bella culla imbottita, e posata sugli arcioni per poter cullare il bambino, e questo era un dono dei futuri nonni.
La regia posta apportò l'annunzio a mio zio che alla sua venuta troverebbe la triade domestica completa. Mi rispose subito cortesemente ch'egli intendeva gli venisse riservato il piacere d'essere il padrino, e così correvano lettere, timbri postali, e fattorini a motivo d'un individuo che non era ancora venuto al mondo, e che già esercitava un'influenza sociale ed economica. Non dico niente dei nostri pensieri!... sarà un maschio od una femmina?... qual nome dobbiamo dargli?... e si studiava sul lunario la lista dei santi. Poi si pensava all'educazione, agli studi universitari, alla carriera. Vorrà fare il medico, l'ingegnere, l'avvocato o il notaio?... Sarà sindaco, deputato, ministro?... era quasi ministro, e ancora non era comparso nel mondo!
Finalmente, un anno circa dopo le nozze, nasceva, non un maschio, ma la mia cara bimba, che il reverendissimo Monsignor Canonico Don Giuseppe Carletti teneva al sacro fonte battesimale, imponendole il nome di Giuseppina.
Tutti dicevano che era belloccia, a me pareva un angelo addirittura, e non mi saziava mai di guardarla, compiacendomi31 con mia moglie di tanta delizia.
- Guarda, - le dicevo, - guarda le sue manine, guarda l'unghia del suo dito mignolo, guarda la sua boccuccia, e quel nasino, e quegli occhietti, come è carina!... come dorme tranquilla... senza rimorsi!
Mia moglie sorrideva d'un sorriso celeste, se la voleva sempre vicina, se la teneva stretta alla mammella, la guardava teneramente, le scacciava le mosche dal viso, la copriva di baci. Appese alla sua culla la medaglia di mia madre come una benedizione della povera nonna morta, e quando piangeva le cantava subito la ninna nanna per farla dormire.
Quando dopo un lungo sonno la bimba apriva i suoi occhietti, incontrava subito lo sguardo e il sorriso di sua madre che sorvegliava il suo riposo e aspettava che si svegliasse. Allora la chiamava con cento nomi diversi, pina... nina... tina... etta... nanina... e la bimba rideva come un angelo.
La nostra felicità era perfetta, e chi non crede alla felicità non ha mai avuto figli da una donna adorata. È certo che la felicità perfetta sulla terra guizza come il lampo.
Quella che proviene dai figli, se non s'ammalano prima, dura fino a che mettono i denti. Colla dentizione incominciano i primi affanni, che ci accompagnano, con corti intervalli, per tutta la vita.
Durante il suo puerperio mia moglie mi raccomandò caldamente di osservare con attenzione i suoi animaletti e le piante, affinchè ai primi non mancasse il cibo, nè alle seconde l'innaffiamento o i sostegni.
Mi ricordo d'un giorno che la Rosa essendo occupata nella stanza, l'Agata sentì un pipilare smanioso nel cortile, e se ne mostrò inquieta. Per tranquillarla scesi al pollaio, e vidi che il cibo mancava. Andai subito a provvederne, e ritornato in corte me ne stavo rannicchiato a sminuzzare della polenta ai pulcini che mi saltellavano intorno e mi beccavano le mani, quando udii una smascellata di risa dalla parte della strada. Alzai la testa e vidi il mugnaio Zaccheo sul deretano dell'asino, che guardandomi attentamente si sganasciava dal ridere.
- Buon giorno, Zaccheo, - gli dissi, - me ne consolo che siete di buon umore.
- Non può essere altrimenti, - mi rispose, - quando mi rammento che vi siete burlato di me perchè davo la pappa al mio bambino, ed ora vi vedo dare il pasto ai pulcini.
- Ridete che avete ragione, - soggiunsi, - quando mi burlavo di voi ero un imbecille, e non capivo che non si deve vergognarsi che a fare il male....
L'asino e il mugnaio si allontanarono, il primo camminando lentamente sotto il peso del secondo, il quale continuava a ridere della sua scoperta, bastonando in pari tempo la sua vittima, per farla andare avanti con maggior sollecitudine.
Io lo guardai lungamente pensando che il mio giudizio si maturava cogli anni, i quali apportano la calma della ragione; e sentivo finalmente con imparzialità i miei torti verso il mugnaio... e i torti di lui verso di me. Nè io dovevo ridere d'un padre affettuoso, nè egli d'un marito dabbene. Quando il maestro insultava il mugnaio, questi valeva più di lui; ma quando il mugnaio rideva del maestro, egli era un imbecille, perchè mentre io facevo del bene alle bestie, egli faceva loro del male, aggravando un asino laborioso del peso d'un uomo ozioso.
Chiunque lavora onestamente ha diritto d'essere rispettato, qualunque sia la sua posizione sociale, sia un maestro od un asino. Al mulino la macina e il mugnaio non fanno che girare, ma non lavora seriamente che l'asino, il quale apporta il grano sulle sue povere spalle, e riporta la farina, col peso del padrone sopra i sacchi. Per questo la tassa sul macinato, trovata troppo pesante dai contribuenti, riesce troppo mite per gli asini, che lascerebbero volentieri al mulino, per conto dell'erario, una dose maggiore di farina... ed anche il mugnaio per giunta.
Io richiamavo sovente alla memoria dei miei scolari l'esempio dell'asino e del mugnaio, e dicevo loro:
- Osservate l'uomo infingardo che pesa sulla bestia laboriosa... e ditemi francamente chi merita la lode e chi il biasimo?... O gioventù, imitate sempre l'asino: esso vi offre l'esempio del lavoro, della rassegnazione, della obbedienza!... quando il mugnaio rappresenta l'egoismo, la crudeltà, l'ozio gaudente e la spietata tirannide!...
Quando l'Agata m'udiva declamare con enfasi magistrale tali insegnamenti, essa pretendeva che mi restasse ancora sullo stomaco un po' di rancore indigesto, prodotto dal fiasco del mulino, ma non è vero; è proprio l'istinto naturale che mi ha sempre ispirato una viva simpatia per gli asini, e un grande rispetto per le loro virtù!...