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XXII.
Così fra il dolce e l'amaro, coi quali si compone la vita, passavano gli anni, e la nostra bimba era diventata una bella ragazzina, sapeva leggere, scrivere e far conti. Sua madre ed io andavamo a gara nell'istruirla, ma il pensiero di completare la sua educazione ci preoccupava gravemente. Non essendo possibile conservarla al villaggio ove mancano tutti i maestri, ci venne l'idea di collocarla nel collegio di Como, ove sua madre era stata educata con ottimo risultato. Mio suocero scrisse in proposito ad un suo corrispondente per nuove informazioni, e gli fu risposto che, essendo morta la vecchia direttrice, il collegio era caduto in discredito. Non bisognava più pensarci. Allora scrissi a mio zio canonico, il quale ci propose subito un eccellente istituto di Milano, diretto da una donna di molto senno e gran cuore. Di più egli si profferiva cordialmente di visitare spesso la fanciulla e di renderci esatto conto della sua salute e de' suoi progressi, e questo era per noi un argomento di gran valore. Ma l'idea d'una separazione ci spaventava: la Giuseppina era la nostra delizia, e si temeva che la vita rinchiusa la facesse ammalare. Essa era avvezza all'aria libera, e manifestava un continuo bisogno di agreste libertà. Nel breve tempo delle sue lezioni stava seduta per forza, e appena finito il còmpito correva dietro alle farfalle, seguita da Bitto, e spariva su per le colline, cantando allegramente le sue canzoni. Poi ritornava a casa ansante colle braccia piene di erbe e di fiori odorosi raccolti sui poggi. Sua madre la sgridava, essa rispondeva con baci che rasserenavano il volto materno. Ella era l'amore dei parenti, l'amica dei fanciulli, la provvidenza dei poveri, la vaghezza del villaggio. Il pensiero di allontanarla era sentito da tutti come una privazione comune. Tuttavia bisognava pensarci seriamente, aveva raggiunto i dieci anni e la sua bella intelligenza meritava un'accurata coltura; il nostro affetto era troppo indulgente, mancava dell'energia necessaria ad imbrigliare la sua eccessiva vivacità. L'interesse della nostra creatura c'imponeva il sacrifizio del cuore, e quindi si discusse lungamente la proposta dello zio. La troppa distanza dalla Valtellina veniva compensata dal valore dell'istituto, e dall'affettuosa oculatezza d'un parente di nostra piena fiducia. Ci siamo dunque decisi per Milano, e prese le opportune disposizioni, venne fissato il principio di novembre per condurla in collegio.
L'Agata ed io dovevamo accompagnarla, quando negli ultimi giorni d'ottobre mio suocero cadde gravemente ammalato. Avevamo deciso di ritardar la partenza, ma mio zio ci scriveva lettere sopra lettere, eccitandomi all'esattezza, osservando che la direttrice non intendeva transigere sui regolamenti del collegio, perchè la regolarità dell'istruzione non permetteva di ammettere nuove educande, oltrepassata la metà del novembre.
Il termine si avvicinava, e la malattia di mio suocero si andava aggravando; esso non gradiva che le cure della moglie e della figlia, la quale non poteva abbandonarlo. Bisognava dunque che io solo accompagnassi la Giuseppina a Milano; necessità non ha legge.
Una tale prospettiva conturbò fortemente il mio spirito, mettendomi in seria apprensione per le noie che mi sarebbero cagionate dalla gelosia di mia moglie. Infatti non m'ingannavo, ed essa incominciò colle solite insinuazioni a manifestarmi i più atroci sospetti. Che fare?... Io rinunziava di buon grado a tal viaggio. Agata lottava fra il desiderio di rimandarlo all'anno venturo, e il timore di privare sua figlia della necessaria istruzione; ma l'età della fanciulla esigeva una sorveglianza resa sempre più difficile dalla necessità che legava mia moglie al letto del padre infermo. Mio zio c'insinuava il sospetto che, oltrepassata l'età normale, nostra figlia non sarebbe più ammessa in collegio; ella stessa desiderava compiere il suo destino e dedicarsi interamente allo studio: perciò dopo mature considerazioni, secondando anche l'opinione espressa dai miei suoceri, venne finalmente deciso che la Giuseppina entrasse in collegio, e che io solo andassi ad accompagnarla. Mi dovetti rassegnare; ma qualche giorno prima della partenza i sospetti di mia moglie si accrebbero in modo tale da farmi perdere la pazienza. Tempestai pieno di sdegno per così insana ingiustizia: le parole che mi sfuggirono dall'irritazione della collera la persuasero maggiormente ch'io avessi cessato d'amarla, la mia indignazione per tale assurdità la riconfermava nel suo giudizio. Essa era profondamente convinta che la contessa Savina mi amasse ancora, e che io non saprei resistere alla minima seduzione; il mio racconto, troppo ingenuo e imprudente, l'aveva persuasa che quell'amore non fosse che semplicemente sospeso in causa di forze contrarie, come una pianta che ritarda la sua fioritura a motivo delle brine d'una primavera tardiva, ma che schiuderà i suoi bottoni nella stagione più avanzata, e non avrà minore profumo per aver sbocciato più tardi, sotto l'influsso d'una temperatura elevata. Essa mi sosteneva che il primo amore è il solo vero, sincero, durevole; lo diceva per prova, non avendo essa amato che me solo.
- Tu dunque non ammetti secondi amori?... - io le chiedeva.
- No... - mi rispondeva sospirando, - non sono che ripieghi....
- Allora perchè mi hai sposato?
- È stata forse una follìa... prodotta anche questa dal primo amore che ne fa tante!... forse sarà una disgrazia... perchè ti dichiaro che io non sono donna da sopravvivere a un tradimento!... pensaci bene!...
- Non hai dunque fiducia nella mia affezione... nel mio onore... nella mia onestà?...
- Tutte parole... che svaporano al soffio delle passioni!... più forti della volontà... specialmente per certi uomini... troppo leggieri!...
- Ma che cosa puoi dire sul mio conto?
E qui saltava fuori la storia della mugnaia!...
- Ebbene, manda la bimba con chi vuoi, ma io non parto.
Allora nuove scene, perchè diceva che tradivo la mia debolezza, e non mi sentivo abbastanza forte per affrontare il pericolo!
- Ebbene... partirò!...
Allora le pareva sicuro che il mio soggiorno a Milano avrebbe servito a rannodare il passato al presente. Diceva che se la contessa ed io avevamo perduta l'ingenuità e la freschezza giovanile, avevamo d'altronde guadagnato in esperienza e coraggio, che la donna doveva aver deplorata la soverchia timidità della fanciulla, e che certamente aspettava la prima occasione favorevole per rifarsi. Infatti io potevo contare di sicuro per questa volta sul bacio della contessa Savina!
Io sentivo invece dentro di me il profondo convincimento che mia moglie aveva torto, che la mia coscienza era forte della sua onestà, e quindi quegl'ingiusti pronostici mi accendevano di sdegno; accusavo l'Agata di essere un'ingrata, visionaria, e taccagna!... ma invece di calmarla, l'esasperava... e si passavano notti d'inferno!...
E mentre forse molti bricconi dormivano in pace, noi, onesti entrambi, legati da un'affezione leale, sincera, scambievole, con una cara bambina che cementava la nostra unione, noi eravamo agitati da fiere burrasche, infelici senza giusto motivo e senza colpa! A furia di giuramenti sulla medaglia di mia madre, sulla vita della mia bambina, giunsi finalmente a moderare la sua fantasia, e ad assicurare alquanto il suo cuore. Vedendola, se non più ragionevole, almeno più rassegnata, aggiunsi tutti quegli argomenti che militavano in mio favore; e il più importante di tutti era questo: la contessa Savina aveva un marito, essa lo aveva seguito al domicilio coniugale, in conseguenza non dimorava più in casa Brisnago, ed io non sarei certo andato a cercarla davanti al palazzo di Montegaldo, che non sapevo nemmeno dove fosse. Di più non mi sarei fermato a Milano che il tempo necessario per completare il corredo della bambina in collegio: e sarei ritornato subito a casa, sperando di trovarla più ragionevole, altrimenti malgrado la mia sincera affezione, e tutta la sua, mi sarei gettato nel lago con una pietra al collo per finire una vita sciocca, insopportabile e immeritata. Ed essa di rimando con nuove spiegazioni, accompagnate da lagrime e singhiozzi, mi dichiarava il suo affetto profondo, del quale pretendeva che le sue inquietudini dovessero essere la prova più convincente.
- Grazie tante! - io rispondeva, - se queste scene sono prove d'amore, preferisco l'odio che mi assicura la pace.
Ed era davvero l'amore d'una moglie riamata che pesava sulle mie spalle, come peserebbe un carico di miele.
Giunse anche il giorno della partenza. Il povero nonno, accasciato dalla malattia nel suo letto di sofferenze, non poteva lasciarci partire, e si teneva la bimba stretta per mano, quasi avesse timore che le sfuggisse per sempre; voleva ancora un altro bacio, poi un altro, e ancora un saluto, e una carezza sui capelli, poi non potendo più reggere all'angoscia ricadde sull'origliere con un singhiozzo... e ci lasciò andare.
La nonna ci accompagnò in anticamera, ma sentendosi soffocare dall'emozione, baciò più volte la Giuseppina, la strinse al seno teneramente, e ritornò presso il malato. L'Agata aveva dimenticato i pericoli del marito per occuparsi intieramente della figlia che stava per lasciare. Quella separazione lacerava crudelmente il suo cuore, eppure si forzava di dissimulare il dolore per non aggravare quello della sua creatura, già troppo intenso. Sono momenti terribili, e chi si trova in condizioni tali da poterli evitare, fa benissimo a tenersi le figlie vicine, educandole in casa sotto la sorveglianza materna. In quanto poi a quelle madri che senza assoluta necessità mettono le loro figlie in collegio, per sollevarsi da un peso importuno, fanno ancora meglio; le figlie non possono che guadagnare nel cambio.
Dopo ripetute raccomandazioni, baci, amplessi e sospiri, l'Agata ci accompagnò sulla porta, e saliti nella vettura che ci aspettava da un pezzo siamo partiti, mentre tutti ci mandavano i più cordiali saluti coi cenni delle mani, e coi fazzoletti spiegati.
La gioventù si rassegna più facilmente dell'età matura, e l'aspetto dei paesaggi pittoreschi della Valtellina, e poi il panorama incantevole del lago di Como valsero a calmare nella bambina l'affanno provato per lasciare la madre, i nonni e il villaggio, e a distrarla dai suoi dolorosi pensieri.
Appoggiati al parapetto del battello a vapore, io le indicava i più bei siti delle due sponde, i paeselli pittoreschi e le splendide ville, e le facevo osservare col cannocchiale le note cime dei nostri monti lontani, già spruzzati del primo nevischio.
È cosa piacevole assai servire di guida ai fanciulli nelle loro prime escursioni, e specialmente ai propri figli; l'assistere alle continue sorprese che li colpisce, il rispondere alle ingenue domande, l'osservare l'intensità della loro ammirazione.
Alcuni viaggiatori stranieri, che entravano per la prima volta in Italia, arrestarono i loro sguardi con viva simpatia e somma benevolenza sulla vispa e svegliata ragazzina italiana, che davanti le opere stupende della natura e dell'arte manifestava tanto entusiasmo, con precoce intelletto del bello. Ed io andava superbo e soddisfatto che il primo successo di mia figlia facesse onore alla patria.
Giunti a Como, la condussi a visitare la città, poi ci siamo rimessi subito in viaggio. Quando vidi da lontano l'aguglia maggiore del Duomo di Milano, sentii dentro di me un rimescolamento di gioia e di paura. Godeva di rivedere alfine il mio paese, e mi pareva d'essere minacciato da un pericolo imminente. Erano circa dodici anni che non entravo nella diletta città, impedito dapprima da mio zio, poi da mia moglie, sospettando entrambi che io volessi scalare il cielo di nuovo. La mia insania giovanile li spaventava ancora, e per avere osato, come Prometeo, alzare gli occhi al fuoco celeste, ero condannato in perpetuo a restare incatenato ad un monte, e dilaniato il cuore da un avoltoio col becco a due mascelle taglienti: l'amore e la gelosia.
Entrammo in Milano sulla sera, quando i fattorini del gas accendevano i fanali. Il rumore delle carrozze, il movimento animato delle vie, lo splendore dei magazzini, l'eleganza delle donne, il suono degli organetti, mi allucinavano lo spirito. Mi pareva di destarmi da un lungo sonno, nel quale avessi sognato un matrimonio fra i monti e conosciuto dei personaggi fantastici, bizzarri, impossibili. La vettura ci trascinava attraverso quelle vie che mi ricordavano la gioventù e l'amore. Ogni signora che attraversava la strada mi sembrava la contessa Savina.... Le interpellanze di mia figlia mi richiamarono alla realtà, essa mi manifestava la sua ammirazione per quello spettacolo nuovo per lei, per quelle belle vie larghe e pulite, per quell'elegante brulichìo di gente ammodo, così diversa dai rustici montanari del villaggio.
Alfine giungemmo alla porta della casa di mio zio, e suonando il campanello, non potea frenare la mia curiosità, e diedi un'occhiata in isbieco al palazzo Brisnago. Tutte le gelosie erano chiuse.
Al suono della mia voce, Veronica mi corse incontro35 precipitosa, seguita da mio zio che mi aperse le braccia, fra le quali gettai la mia Giuseppina, che esso strinse al seno teneramente. Salite le scale, mi ricomparvero dinanzi quelle stanze piene di ricordi giovanili, riconobbi l'odore speciale di quei luoghi poco ventilati; quei mobili, quei quadri mi facevano l'effetto d'antiche conoscenze che sorridessero al mio ritorno. La Veronica non si saziava di contemplare la bambina e di accarezzarla:
- Come è bella... e grande... - essa ripeteva; - mi pare proprio impossibile che sia vostra figlia!
Mio zio mi chiedeva conto dell'Agata, della suocera, della malattia del signor Nicola, del parroco, del dottore, e di tutte le sue conoscenze.
La cena ci venne servita nel solito tinello, ove il canonico, durante il pranzo, soleva in altri tempi chiedermi conto de' miei studi pedagogici e delle mie occupazioni del giorno, quando io gli rispondeva di straforo, non potendo parlargli nè dell'amore, nè della tragedia. Dopo alcune ore di ciarle, di domande, risposte ed esclamazioni, ci siamo alzati da sedere per andare a letto. Mio zio si ritirò nella sua stanza, augurandoci un buon riposo.
Veronica mi annunziò che condurrebbe la Giuseppina nella bella camera vicina alla sua, e mettendomi in mano il lume acceso, mi disse:
- Voi non avete bisogno che v'insegni la vostra camera; felice notte, Daniele, dormite bene.
Diedi un bacio alla bimba, e ripetendo gli augurii di buona notte, mi ritirai alla mia volta.
Era nella modesta ma cara cameretta dello studente ch'io rientrava finalmente dopo lunga assenza, quando i varii casi della vita avevano fissato il mio destino in modo impreveduto. Chiusi la porta e m'arrestai alquanto sulla soglia, contemplando con mesto raccoglimento quell'asilo ove s'era ricoverata la mia gioventù; quella serra calda ove avevano fiorito i pensieri della mia primavera; poi ne feci il giro lentamente, come i divoti nei luoghi santi, guardando attentamente quelle pareti ch'io conosceva perfino nei minuti rilievi e nelle minime anfrattuosità, come un monaco la sua cella, come un prigioniero il suo carcere; e ne scoprivo ancora i segni tracciati colla matita, e gli spruzzi delle penne; indi osservai con pari interesse il letticciuolo de' miei sogni giovanili, il canapè dei sospiri, delle lagrime, delle illusioni, il tavolino di studio sul quale scartabellai tante carte, raccolsi tanti concetti, formulai tante idee, e ne riconobbi ancora le macchie d'inchiostro, rammentandomi gli accidenti che le produssero.
Sedetti e meditai lungamente, e ripensando al passato dimenticavo il presente, e gli oggetti che mi stavano sotto gli occhi mi facevano scomparire i lontani: la distanza offuscava la vista come la nebbia.
In Valtellina mi pareva di veder Milano nascosto dietro i monti, i laghi, le campagne, lontano, lontano, nell'ombre semibuie del vespero. Nella mia cameretta di Milano la Valtellina mi compariva alla sua volta sfumata in un'atmosfera brumale, come una catena di montagne grigie che si confondono colle nuvole in fondo d'un quadro.
Quei muri, quei mobili, quella finestra mi parlavano come amici da lungo tempo abbandonati, io stavo ascoltandoli con religiosa attenzione.
Rivivendo nel passato si vive due volte, e la natura ci spinge con istinto irresistibile a raddoppiare la vita.
Quando la stanchezza eccessiva ed il sonno persistente mi chiudevano le pupille mi coricai, e dormii profondamente, ma la luce del crepuscolo entrando per gl'interstizii delle gelosie mi trovò desto. Balzai dal letto, mi vestii, ed aperta la finestra aspirai avidamente le brezze mattinali.
Il palazzo Brisnago era sempre chiuso, le piante del giardino erano cresciute: tanto meglio! potevo guardare francamente senza scrupoli. La finestra e il giardino mi rammentavano naturalmente il mazzetto raccolto e il bacio respinto, ma mi dicevano in pari tempo: tutto è finito!...
E chiedevo a me stesso: Chi sa in qual angolo di Milano sarà collocato il palazzo Montegaldo?...
Sarebbe bene che lo sapessi, per evitare quella via, e non offrire il minimo pretesto di sospetti al mio ritorno.
L'Agata mi chiederà subito: - l'hai veduta?... - ed io potrò rispondere: - non solo non l'ho veduta, ma non sono nemmeno passato davanti la sua casa.... No... no... non devo dire così... io devo ignorare la sua dimora. Non potrei mai persuadere l'Agata d'aver ricercato la località del palazzo Montegaldo per evitarlo. Nel dubbio, la gelosia preferisce sempre di credere al peggio; la gelosia ha bisogno di tormentarsi, e quando non trova motivi di farlo, li crea. Essa non crede a nulla che possa calmarla, e presta fede a tutto quello che può sconvolgerla; essa costringe gli onesti a farsi ipocriti per dissimulare il vero... il quale viene spesso interpretato a rovescio!... quale fatalità!...
E se mio malgrado incontrassi la contessa per via?... Spero che non mi toccherà questa tentazione!... Milano è grande, ed io posso evitare benissimo i luoghi frequentati dalle signore.
Però quel palazzo chiuso mi rattristava. I vecchi saranno tutti morti! io pensava, i mobili dispersi, le stanze nude e deserte.
Divagavo in questi pensieri, quando lo scricchiolare d'una gelosia mi fece alzare la testa. Una finestra al terzo piano del palazzo si apriva lentamente: - C'è un guardiano... dissi fra me. Le gelosie rimasero semichiuse durante una mezz'ora, poi vennero spalancate d'un tratto, ed una donna vestita di bianco apparve davanti i miei occhi... era la contessa Savina!...
A prima vista non la conobbi: la ragazza s'era fatta donna, al fiore era succeduto il frutto. Era bella d'un'altra bellezza. I lineamenti avevano acquistato un carattere deciso, lo sguardo s'era fatto più grave e melanconico, le forme s'erano arrotondate, e un certo abbandono della persona indicava la fatica di pensieri dolorosi.
Appena aperte le imposte, la contessa si arrestò un istante come attonita a guardarmi, forse al pari di me stupefatta dalla sorpresa, e dubbiosa della scoperta. Poi mi parve, da una contrazione quasi impercettibile del volto, che mi avesse riconosciuto: chiuse le invetriate e si ritirò lentamente. Io rientrai, caddi sul canapè, sopraffatto da confuse emozioni, nelle quali però dominava una strana paura... paura di quel fantasma che mi perseguitava con implacabile fatalità... paura di me stesso... paura di nuovi tormenti, di nuove noie sotto al tetto domestico. Avrei voluto fuggire ogni pericolo, sottrarmi alla sorte che si ostinava a rendermi vittima di nuove complicazioni, allontanarmi subito da quella malìa che si faceva giuoco della fermezza delle mie buone intenzioni... ma come avrei potuto partire?... Impossibile! bisognava abbassare il capo davanti il destino e lottare!...
Allora mi spiegavo il motivo della desolazione eccessiva dimostrata da mio zio per la malattia di mio suocero!... egli rimaneva deluso nella speranza che venissi a Milano con mia moglie. Tuttavia, vedendomi al fianco la Giuseppina, mi pareva più fiducioso del solito. Divagavo nelle smanie della mia posizione imbarazzante, quando la Veronica entrò nella stanza. Non era in caso d'aspettare lungamente la spiegazione di tanti misteri, e le dissi subito senza esitare:
- Ditemi francamente, Veronica, qual è il motivo per cui la contessa Savina di Montegaldo si trova nel palazzo Brisnago?
- Come?... non sapete nulla?
- Non so nulla....
- Il conte di Montegaldo è morto, or son tre anni, coperto di debiti. La contessa ha dovuto vendere il palazzo del marito per soddisfare agli impegni che egli aveva incontrati co' suoi vizii... ed essa è ritornata a casa sua.
- Vedova... e la credo meno infelice di quando viveva il marito, che gliene ha fatte passare d'ogni sorta! Figuratevi... un giuocatore... un donnaiuolo.... un dissipatore.... insomma uno scapestrato!...
- Ma... e perchè l'aveva essa sposato?...
- Sapete bene, i signori!... l'ha sposato senza conoscerlo... imposto dai genitori, perchè dicevano ch'era d'antico casato... un bel nome insomma... e lo credevano ricco... e lo sarebbe stato senza i suoi vizi....
- La contessa fu dunque infelice?
- Infelicissima... e già pochi mesi dopo le nozze si parlava di divorzio... poi venne alla luce il figliuolo....
- Ah sì!... il giudice conciliatore!
- Che cosa dite?
- Dico che questo rampollo fece le veci d'un giudice conciliatore, e ricongiunse il marito alla moglie....
- Come il galeotto al suo compagno di catena, - soggiunse Veronica, alzando le spalle con aria sprezzante. - Bene o male rimasero legati per riguardi di famiglia, fino alla morte.
- E il figliuolo è con lei?
- È la consolazione della madre; un buon ragazzo!... La contessa gli darà un'educazione che lo tenga lontano dalle abitudini paterne... e ne farà un uomo onesto.
- Che il cielo l'aiuti!... - io risposi.
E la Veronica si mise a parlarmi di mia moglie, del suo desiderio di conoscerla, e non finiva mai di farmi gli elogi della bambina. Io la ringraziai della sua costante affezione e dei regalucci che non mancava di mandarmi ogni anno cogliendo l'occasione del viaggio dello zio quando recavasi ai bagni, ed ella, per sottrarsi alla dimostrazione della mia gratitudine, si ritirò, col pretesto d'apparecchiare la colazione.
Rimasto solo, incominciai a rimuginare le cose udite, considerando gli effetti fatali d'una inclinazione giovanile, che, quantunque soffocata in germe, continuava a far sentire il suo influsso sulla esistenza di due persone. E mi proposi d'evitare con ogni cura un simile destino a mia figlia chiudendola per tempo in collegio, e riservandomi a sorvegliarla attentamente al suo ritorno in famiglia. Intanto doveva pensare a sorvegliare seriamente me stesso, per evitare, non pericoli impossibili, ma le occasioni più innocenti che potessero offrire il benchè minimo pretesto alla cieca gelosia di mia moglie. E pensavo con raccapriccio a quel momento terribile nel quale sarei costretto36 di raccontarle la impreveduta ricomparsa della contessa Savina davanti la famosa finestra!
La infelicità del suo matrimonio verrà attribuita certamente alla sua inclinazione per me, la sua vedovanza le darà indizio d'imminente pericolo, il suo ritorno alla casa paterna verrà interpretato come un'insidia, la sua innocente ricomparsa come un tentativo di seduzione. E troverà le prove evidenti di tutto!... Se le racconto questi fatti, dirà che non posso tacere nemmeno con lei di ciò che mi trabocca dal cuore; se non gliene parlo, quando li sentirà raccontare dagli altri, dirà che il mio silenzio rivela la colpa!...
Che fare in posizione così imbarazzante?... questo mi pareva un problema più insolubile della quadratura del circolo!
Incominciai allora a fantasticare sulle probabilità compromettenti: per esempio, se realmente la contessa mi amasse davvero?... e rimpiangesse gli anni giovanili, e disingannata della vita positiva volesse ritentare un affetto sincero?... Se per vendicarsi dei pregiudizii sociali che la condannarono ad un'unione forzata, volesse reclamare i diritti naturali che ci spingono nelle braccia dell'amore spontaneo?
Chi sa!... forse essa deplora di non aver corrisposto alla mia dimostrazione d'affetto!... forse mia moglie ha ragione, e i suoi presentimenti non l'ingannano!... forse la contessa Savina desidera restituirmi il mio bacio!...
Sarei quasi curioso di farne il tentativo, io pensava fra me, e questa non sarebbe una colpa d'amore, ma una vendetta!... Essa ha rinnegato il mio amore per orgoglio, quando era libera d'accettarlo. Io ho diritto di dirle: - vedi? il tuo rifiuto ti rese infelice!... te ne penti ora? - Sì, me ne pento, ed eccoti un bacio!... - Ebbene, io risponderei, questa volta sono io che non l'accetto, non sono più libero, e riprendi il tuo bacio... e che tutto sia finito!... Se facessi così!... e andavo scrutando se un bacio possa considerarsi sempre come una colpa... e mi pareva di no. E cavillando sull'argomento, mi andavo persuadendo esservi baci che non costituiscono un'infedeltà, e peroravo col calore e l'eloquenza di un avvocato il quale si sforza di dimostrare che vi sono assassini galantuomini, e che si può anche ammazzare un uomo senza essere colpevoli d'omicidio, o almeno almeno con circostanze attenuanti... e aspettavo la sentenza del giudice.... Questa volta il giudice era la mia coscienza... ed essa con voce severa mi diceva: - sei pazzo!... tu mediti un tradimento. Gli assassini sono sempre assassini... e i baci sempre baci... talvolta più pericolosi degli assassini!...
E in quel punto mi rammentavo d'aver promesso davanti l'altare d'essere fedele a mia moglie, e poi avevo giurato sulla medaglia di mia madre, e sulla vita di mia figlia, di mantenere la promessa. Mio Dio!... la vita di mia figlia!... al solo pensiero di esporre ad un pericolo la vita della mia creatura, di attirare la vendetta del cielo sul suo capo innocente, di colpire con una colpa due vite in una volta... perchè l'Agata sarebbe morta se avesse perduta la Giuseppina!.., mi si dirizzarono i capelli sulla fronte, mi sentii i brividi della febbre.... Corsi tutto ansante nella stanza della bambina che terminava di vestirsi, mi parve di vedere l'Agata col suo sorriso e il suo sguardo, le baciai teneramente la fronte, e sentii che la coscienza soddisfatta mi rendeva forte contro ogni pericolo.
Rientrato nella mia stanza, scrissi una lettera affettuosa a mia moglie, nella quale le parlava del viaggio, della nostra bambina, e del desiderio di ritornare nel mio nido tranquillo... e felice!
Quel giorno mi recai al collegio in compagnia di mio zio, e, prese le debite informazioni, venni a sapere che, mancando molti oggetti necessarii al completo corredo dell'educanda, era costretto di trattenermi a Milano più di quanto avrei desiderato.
Scrissi nuovamente all'Agata annunziandole l'indispensabile ritardo, pregandola d'aver pazienza, perchè gli operai non sono sempre esatti nella consegna dei loro lavori.
Intanto io andavo sollecitando le commissioni, mentre37 Veronica conduceva la Giuseppina a spasso e a fare le spese minute.
Le ore che mi restavano libere girovagavo per la città visitando le strade nuove, o passeggiando negli antichi quartieri per rammentarmi le cose vecchie. Poi andavo a riposarmi sul canapè della mia cameretta, e colà ricostruivo la passata gioventù. L'inveterata abitudine d'affacciarmi alla finestra mi vi spingeva sovente senza pensarci; l'affetto per l'Agata e la paura della contessa mi allontanavano, la curiosità di contemplare sul volto della vedovella le modificazioni prodotte dagli anni e dalle prove della vita mi veniva contrastata dal timore di compromettermi, e mi pareva debolezza tanto il cedere quanto il resistere, perciò i miei brevi riposi venivano paralizzati da una continua lotta, e quei giorni passati a Milano dopo una lunga assenza, che avrebbero dovuto formare la mia delizia, furono invece un continuo tormento. Non volendo espormi ad un'imprudenza, cadevo in una sguaiataggine: tutto mi faceva ombra, ogni accidente mi si presentava come un pericolo.
Quando udivo aprire una finestra del palazzo Brisnago, io chiudeva rapidamente le gelosie; quando vedevo un movimento dietro le invetriate, mi ritiravo in fretta abbassando le tendine; era una pantomima continua, che poteva dare negli occhi e suscitare sospetti.
O non sarebbe stato meglio abbandonare addirittura la finestra?...
È più facile il dire che il fare: e dice anche il proverbio che la lingua batte dove il dente duole. Chi si propone di non rivolgere lo sguardo ad un oggetto qualunque, si trova spinto dalla parte vietata con irresistibile impulso. Ignoro il nome di quella forza arcana che mi faceva roteare nello spazio, ma è positivo ch'io mi trovavo nell'identica condizione di un pianeta che gira intorno a due stelle.
Per determinare la mia orbita bisognerebbe calcolare le forze complesse che lottavano fra loro. Io amavo l'Agata sinceramente, essa aveva tutto il vantaggio dell'attrazione e tutto il danno della distanza, la contessa Savina perdeva nell'attrazione in forza della mia onestà, ma la distanza quasi nulla che mi divideva da lei le dava un grande vantaggio. E credo che, se l'uomo fosse costretto di subire le leggi che trascinano gli astri, io sarei caduto come un bolide nel palazzo Brisnago.
Per buona sorte non fu così, ed anche per quella volta la profezia di mia moglie non si è avverata; il creditore fuggiva la debitrice morosa, la quale forse, come molti debitori, non aveva nessuna volontà di pagare.
È però vero altresì che finchè vivono i debitori, e finchè sono solventi, non è tolta la possibilità di riscuotere, quantunque certe partite, che passano agli arretrati, vadano scemando di continuo il valore.
Avendo finalmente collocata la figliuola in collegio, mi decisi di partire immediatamente per la Valtellina, sollecitato anche da lettere pressanti dell'Agata, che mi annunziavano un progressivo peggioramento nella salute di suo padre.
Desideravo sinceramente rivedere mia moglie, rientrare nella mia casa, riprendere le mie tranquille abitudini; ma devo confessare con pari franchezza che al momento di lasciare la mia cameretta mi sentii una spina al cuore!... O perchè?... Domandatelo a chi può conoscere a fondo gli atomi più riposti del nostro fango!... io non comprendevo me stesso. Qual legame poteva sussistere ancora fra me e la casa Brisnago, se io con deliberato proposito aveva fuggito il benchè minimo rapporto, cancellata ogni traccia del passato, spento, o supposto di spegnere, ogni lievito che potesse minacciare il futuro?... Misteri incomprensibili!
Mia moglie aveva dunque ragione co' suoi presagi? ed io tentavo invano di far scomparire intieramente le traccie della gioventù; nè la probità, nè le oneste intenzioni, nè gli affetti domestici potevano assicurarmi la pace dell'età matura.
Quel primo amore, così esile in apparenza, resisteva a tutte le vicissitudini della vita, come quelle sementi minute, impercettibili, che gettate una volta sul terreno, sfidano l'inclemenza delle stagioni, e presto o tardi germogliano.
Dunque la spada di Damocle pendeva continuamente sul mio capo, ed era vana ogni speranza di liberarmene?...
Dunque quel bacio fatale stava sempre scritto nel libro della vita come una partita da liquidarsi?... Io aveva rinunziato fermamente ad ogni pretesa, io non voleva nulla... che cosa poteva restarmi nel cuore?... c'è forse al mondo qualche cosa di più forte d'una volontà indipendente?...
Ma!... l'antica sapienza giudicava inutili gli sforzi umani contro i decreti del fato!...