Maria Savi Lopez
Nani e folletti
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Oberon

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Oberon

I nani più famosi per la loro forza, per la potenza, la ricchezza e la bellezza sovrumana hanno parte importante in parecchi poemi del Medioevo; e pare che i loro poeti si siano compiaciuti nel delinearne le figure strane, così diverse da quelle degli eroi, per i quali s'accesero d'amore le castellane di Francia e di Germania, o le Saracene che rinnegarono per essi la fede dei loro avi. Questi nani, siano essi padroni di tesori o di regni meravigliosi sotto il triste cielo dell'Islanda e della Scandinavia, nell'ignoto paese dei Nibelunghi, sui monti del Tirolo, o sulle sponde del nostro lago di Garda, hanno fra loro relazioni strettissime. Così avviene che il Laurino del vecchio poema tirolese, del quale è il personaggio principale, non sia meno bello del famoso Oberon francese. Entrambi, poi, hanno ricchezza pari a quella dell'Andvari e del Regin dell'Edda, dell'Alberico dei Nibelunghi, e dell'altro Alberico divenuto cittadino d'Italia nel vecchio poema Ortnit, appartenente al ciclo longobardo.

Quante volte nelle sale dei castelli o sulle piazze, dove la gente credula, amante delle avventure portentose, si radunava intorno allo skaldo, al giullare, al minnesinger, questi avranno ripetuto il verso facile, il racconto dilettevole nella sua semplicità, narrando della bellezza di Oberon, «le roy faés», e del dolore di Laurino, il re dei nani del Tirolo; della forza di Alberico e dell'anello incantato di Andvari; o avranno descritto le meraviglie dei tesori che i nani custodivano nelle loro città sotterranee, e le lotte da essi sostenute contro eroi famosi! Sarà parso allora agli ingenui uditori di vedere quei nani alti tre piedi, o più piccoli ancora, con le splendide corazze tempestate di gemme, i piccoli berretti incantati, le spade sfavillanti e gli scudi che nessuna forza umana poteva rompere.

Poi gli ultimi skaldi, i giullari, i minnesinger sono discesi nella tomba. Nessuno ha raccontato più le gesta dei nani nelle sale dei castelli e sulle piazze affollate. La canzone epica, il romanzo d'avventure hanno perduto ogni valore per la gente colta, allettata in Francia ed in Germania da una fiacca e tardiva imitazione della poesia classica, e non hanno più commosso il popolo travolto in nuove guerre e divenuto indifferente alle gesta dei padri, al sorgere dell'Evo moderno. I vecchi manoscritti, che erano stati la gloria dei poeti in tanta parte dell'Europa medioevale, ed avevano procurato ai cantori popolari il pane quotidiano, furono dimenticati o distrutti; e soltanto alcuni di essi, salvi per caso, ci hanno conservato il racconto delle imprese dei piccoli nani, riapparsi innanzi a noi in questo secolo forse per opera della loro magica potenza, fulgidi e belli, coperti d'oro e di gemme, vicino alle pagine vetuste e polverose,

Vedremo che sono comuni le origini mitiche e lontanissime di questi nani, nei quali possiamo trovare una grandezza epica, se osavano combattere contro il Siegfried dei Nibelunghi, contro Teodorico di Verona e il longobardo Ortnit. Ma sarebbe più opportuno discorrere prima di quelli che più si avvicinano a queste origini. Sono, senza dubbio, l'Andvari ed il Regin dell'Edda, e l'Alberico dei Nibelunghi, più antichi nell'aspetto, mentre le figure degli altri ci vengono presentate con maggiori ornamenti, con parvenza più bella e dilettevole, da poeti già avvezzi a lavorare con amore intorno ad una figura nota, ignari del valore mitico che questa ebbe in altri tempi. Ma fra tutti i nani la gloria maggiore spetta ad Oberon, il piccolo re «du pays de féerie», che ha tanta parte nel vecchio poema francese Huon de Bordeaux. Egli ha ispirato allo Shakespeare ed al Wieland pagine immortali, e ride nel Fausto di Goethe. A lui dobbiamo l'opera bellissima di Weber che porta il suo nome; per lui il popolo di Francia ha sempre avuto una predilezione singolare, e durante parecchi secoli si sono moltiplicate le edizioni popolari di un rifacimento moderno dell'Huon de Bordeaux.

Più bello del sole, destinato alla gloria del Paradiso dove si trova il suo seggio; re di un paese incantato; potente a tal punto da compiere tutto ciò che brama con la sola forza della sua volontà, forse Oberon ha anche voluto che l'arte della parola e quella dell'armonia, nella loro perfezione maggiore, rendessero più durevole e fulgente quella fama, che gli aveva già data l'ingenua e semplice parola dell'ignoto suo poeta medioevale.

Credo dunque che fra queste pagine il posto d'onore spetti a colui che rise accanto al gran tragico inglese nel dolcissimo Sogno di una notte d'estate; che fece discendere nel cuore di Weber le note del suo corno incantato, dolci nel suono come la lira di Orfeo; che dettò forse al Wieland i versi armoniosi nei quali venne esaltata la sua gloria, e che appare fra le pagine che ricordano l'amore ed il pianto di Margherita.

Da quale vecchio poema il cantore di Huon de Bordeaux trasse l'immagine luminosa del piccolo re selvaggio, figlio di Giulio Cesare e della fata Morgana? Come potè il trovèro francese presentarci Oberon, re di Monmur e di tutta la «féerie» della vecchia Bretagna, con certe qualità soprannaturali che lo congiungono strettamente ai più illustri nani della Germania e della Scandinavia, al Laurino tirolese, ed all'Alberico del poema longobardo, Ortnit?

La creazione poetica della figura di Oberon, che protegge Huon e la sua bella sposa Esclarmonda, è anteriore o posteriore a quella dell'Alberico che aiuta il re Ortnit a conquistare una sposa nel lontano Oriente? È ardua cosa trovare risposte soddisfacenti a queste domande, e pare che non sia bastata ad Oberon, dopo i suoi trionfi medioevali, la nuova gloria acquistata fra l'arte moderna. Egli ha pure costretto illustri eruditi, fra i quali vanno ricordati specialmente Gaston Paris, il Grimm, il Rajna, il Graf, il Guessard, il Lindner, lo Hummel a meditare sul mistero che lo circonda. Ma dirò più tardi, brevemente, delle loro ricerche; ora ascoltiamo il poeta che presenta il piccolo Oberon ai suoi uditori.

Questi sono riuniti intorno a lui nella vasta sala del castello, alla luce rossastra delle lampade ed ai bagliori del fuoco, che arde nell'immenso camino. Sfavillano gli occhi delle giovani castellane e dei paggi, che aspettano con ardente curiosità la storia d'amore. Raccolti nell'avito castello, mentre lasciano riposare, fra una battaglia e l'altra, le spade e gli ardenti corsieri, anche i cavalieri aspettano con ansia il racconto, richiamerà spesso un sorriso sulle loro labbra con la sua barbara franchezza, o farà battere il loro cuore celebrando la bellezza di qualche donzella accesa d'amore e la gloria di cavalieri valorosi, ed il poeta dice: – Udite, o signori, e che Gesù vi faccia del bene, Gesù il glorioso che ci creò a sua immagine. Udite una buona canzone, in cui si narra di Carlomagno da «l'aduré coraige», di Huon e di Oberon, il piccolo re selvaggio, «que tant ot segnoraige». Sappiate che Oberon era figlio di Giulio Cesare (Juliien Cesare), governatore d'Ungheria, terra selvaggia, e d'Austria, e signore di Costantinopoli, dove fece costruire sette leghe di mura che ancora si trovano presso il mare selvaggio. Giulio ebbe per moglie una dama molto savia, che si chiamava Morgana ed aveva il viso bellissimo.1 Ella fu la madre di Oberon il selvaggio.2

Qui il poeta prende a raccontare la storia lagrimevole di Huon de Bordeaux, il giovane barone che solo con l'aiuto di Oberon potrà compiere quanto gli è stato imposto dall'odio di Carlomagno, e che dovrà un giorno succedere al nano nel governo del suo regno, divenendo signore di Monmur. Le dame, i cavalieri, i paggi si commuovono, le lacrime velano gli sguardi, l'accesa parola del poeta o del giullare toglie ai barbari versi la monotonia del suono; la rima lungamente ripetuta carezza gli uditori intenti. Cessa il gran bagliore del fuoco, che nessuno si cura di alimentare, e non s'ode più il crepitio allegro delle fiamme, finché il poeta stanco tace, per riposare brevemente, e beve il vino spumante nella coppa ricolma, come i vati divini ricordati da Omero.

Allora i servi gettano sugli alari nuovi fasci di legna, l'allegra fiammata offusca la luce rossastra delle lampade. Le dame tacciono, pensando alla bella figura di Huon, e tacciono i cavalieri ed i paggi, sognando avventure portentose in lontani paesi, dove le giovani saracene innamorate sorridono ai cavalieri cristiani.

Ma potrebbe oggi un uditorio colto e gentile passare lunghe ore intento, ascoltando i casi del Sire di Bordeaux? Vero è che la parola del suo cantore, nella quale si trova tanta semplicità fanciullesca, può anche allettare noialtri moderni, e riposare la nostra mente. Ma siamo troppo avvezzi a lasciarci avvincere l'anima dalle seduzioni della grande arte classica. Non invano sono risorti per noi i vecchi maestri dell'arte antica, e quella moderna ha aggiunto uno splendore meraviglioso alla gloria antica della parola e del pensiero. A noi è concesso di ascoltare il canto divino delle Sirene, che invece di condurci alla morte c'inebria l'anima e nuova forza al nostro pensiero. Non possiamo dunque compiacerci a lungo della nenia fanciullesca, del rozzo canto che risuona nell'aperta campagna, o fra le anguste stradicciuole del villaggio. Per questa ragione lasciamo che il giullare canti per le dame cortesi del Medioevo, per i cavalieri ed i paggi, se il piccolo Oberon ha anche il potere di evocare i loro fantasmi nei castelli abbandonati, perché odano ancora la «buona canzone» che celebra la sua gloria. Io narrerò brevemente, in povera prosa, una parte della storia di Huon de Bordeaux, prima di ritrovare fra le pagine del poema medioevale il piccolo nano, il suo corno incantato e la coppa meravigliosa, cagione di rossore per molti cavalieri, ed anche per il vecchio imperatore Carlomagno.

Nel giorno di Pentecoste, Carlomagno tiene corte bandita a Parigi, dove sono convenuti molti cavalieri. Dopo il banchetto chiama i suoi vassalli, ai quali dice che è vecchio e debole: poiché non ha più la forza di governare, debbono eleggere un altro re.

Il duca Namo, che si mostra sempre umano e saggio anche in questo poema, cerca di persuadere Carlomagno affinché non rinunzi alla corona e si riposi in una città. I cavalieri di Francia penseranno a difendere i suoi castelli ed i suoi feudi. Carlomagno è irremovibile nel suo proposito. I baroni, allora, gli domandano consiglio per l'elezione del nuovo imperatore. Egli dice che debbono eleggere suo figlio Carlo (Charlot). Questi è cattivo, ha causato grandi sventure alla Francia uccidendo il figlio di Oggiero il Danese, ma è per diritto erede della corona. Carlo si presenta innanzi al padre ed ai baroni tenendo uno sparviero sul pugno; è bello, e non ha ancora venticinque anni. Carlomagno lo chiama a prendere possesso del regno e gli savii consigli.

In mezzo ai baroni si alza Amaury della Torre di Rivier, traditore maledetto, e dice a Carlomagno che non deve dare al figlio un regno nel quale l'imperatore non è stimato, né amato, poiché in una terra vicina si trovano vassalli ribelli alla sua potenza. Questa terra è la Borgogna. Da sette anni il duca che la governa è morto, lasciando due pessimi figliuoli, chiamati Huon e Gerardo, che non si degnano di servire il loro imperatore. Amaury chiede a Carlomagno il permesso di andare a Bordeaux con la sua gente per fare prigionieri i giovani, che condurrà dinanzi a lui affinché li punisca.

Il duca Namo si oppone a quanto domanda Amaury, e ricorda all'imperatore che il duca Seguin, padre dei giovani, l'amava, ed era un vassallo ligio e cortese. Egli soggiunge che l'imperatore deve chiamare a corte i giovani ed accoglierli con affetto. Il suo consiglio prevale sui perfidi raggiri di Amaury, e Carlomagno invia a Bordeaux due messaggeri. Questi sono ricevuti dalla duchessa, ed è stabilita la partenza dei giovani per Parigi, dove Carlomagno li riceverà con grandi onori.

Amaury, furente, corre a gettarsi ai piedi di Carlo, accende nell'animo suo un'ira violenta contro i principi di Borgogna, e l'induce a mettersi in agguato con lui ed altri compagni presso Parigi, per assalirli al loro passaggio. Troncheranno il capo dei giovani e nessuno lo saprà.

Gerardo e Huon si separano con dolore dalla madre, che non vedrà più Huon, il maggiore dei figliuoli. Questi viaggiano alla volta di Parigi. Huon è lieto di andare a corte, e prega il fratello di cantare. Gerardo non vuole, perché ha fatto un triste sogno, e prega Huon di tornare presso la madre con lui. Huon lo rassicura: Iddio li proteggerà. Essi incontrano per via l'abate di Cluny che va a Parigi, chiamatovi da Carlomagno. Viaggiano con lui ottanta monaci, che si uniscono ai giovani ed al loro seguito. Si viene a sapere che l'abate è cugino di Huon e di Gerardo; egli è potente presso l'imperatore, e promette di proteggere i suoi congiunti.

Tutti cavalcano verso il bosco, dove i traditori stanno in agguato. Amaury vede i giovani e dice a Carlo che spetta a lui ucciderli. Questi va loro incontro, ed Amaury impone ai suoi compagni di non muoversi: se Carlo sarà ucciso nello scontro, la corona di Francia rimarrà senza erede, e lui, Amaury, la prenderà per sé.

I giovani vedono il cavaliere che avanza minaccioso, e non sanno che è figlio di Carlomagno. Huon gli manda incontro Gerardo, per chiedergli cosa voglia da loro. Gerardo gli dice: – Franco cavaliere, fate voi la guardia per custodire il paese? Se vi dobbiamo qualche cosa pagheremo volentieri –. Carlo vuole sapere chi sono, e quando ode la risposta di Gerardo, lo minaccia. Il giovinetto non ha armi e domanda grazia. Se lui e suo fratello hanno commesso qualche delitto, saranno giudicati a Parigi dai baroni. Carlo non si muove a pietà; insegue il giovane e lo ferisce. L'abate, che lo vede cadere, piange e teme che sia morto.

Huon pensa con dolore alla madre, che ha educato Gerardo con tanto amore, e invoca la Vergine. Domanda all'abate se l'aiuterà nella vendetta. Questi non può, essendo prete. Huon chiama i suoi cavalieri, che sono pronti a battersi per lui, e insieme si slanciano verso Carlo. L'abate piange, prega Iddio di poteggere Huon ed i suoi compagni, e continua il viaggio, ma può da lontano vedere il combattimento.

Huon corre a sollevare Gerardo, il quale gli dice che si sente morire. Si vedono delle armi nel bosco, e Gerardo in nome di Dio prega il fratello di salvarsi con la fuga. – Non è possibile che t'abbandoni, – dice Huon. – Non rivedrò la nostra città, se prima non avrò punito il tuo assassino –. Egli sprona il suo cavallo arabo contro Carlo senza aspettare i compagni, lo raggiunge, lo sfida e l'uccide. Amaury vede con gioia cadere il figlio di Carlomagno. Huon, tenendo per la briglia il cavallo di Carlo, si avvicina al fratello, benda la ferita, e con l'aiuto dei suoi cavalieri lo solleva e lo mette in sella. Tre volte Gerardo sviene, poi, riavendosi, supplica Huon di fuggire e di tornare a Bordeaux presso la madre. Huon non vuole, perché deve accusare l'imperatore di tradimento a Parigi. I giovani si riuniscono con l'abate e riprendono a cavalcare, benché Huon si sgomenti, vedendo uscire dal bosco Amaury ed i suoi compagni che li seguono.

Giunti alla reggia, Huon e l'abate sorreggono Gerardo, e si presentano con lui a Carlomagno, che Huon accusa di tradimento poiché ha fatto mettere in agguato degli assassini sulla via che dovevano percorrere. L'imperatore s'adira, e giura che, se non gli verrà provata la verità di quell'accusa, Huon sarà condannato a morire.

Guarda, – gli dice Huon, – e sii maledetto!

Egli si avvicina al fratello, che è sorretto dall'abate, alza la sua pelliccia di ermellino, toglie il bendaggio alla ferita e il sangue scorre: Gerardo sviene di nuovo per il gran dolore.

Carlomagno è molto commosso, e non può tollerare di essere creduto malvagio alla sua età, quando si avvicina alla tomba. Egli giura di far uccidere il traditore. Un medico esamina la ferita di Gerardo, che non è molto grave: fra un mese sarà guarita.

Huon dice all'imperatore che ha già fatto giustizia. Il traditore, che ha colpito il fratello, è stato ucciso da lui. Era nel suo diritto. Chiunque sia colui che ha ucciso, egli si sottomette alla giustizia della Francia, e domanda il giudizio.

Carlomagno vuole che Huon beva nella sua coppa. Purché non abbia commesso un tradimento, non deve temere nulla, neppure se l'ucciso fosse Carlo, erede della corona.

Arriva Amaury con i suoi compagni portando il cadavere di Carlo, il quale viene deposto ai piedi dell'imperatore, che sviene riconoscendo il figlio. Quando ritorna in sé, Namo cerca di fargli animo, ed Amaury accusa Huon, dicendo che ha ucciso il giovane. Carlomagno prende un coltello, che vede sopra una tavola, e si slancia contro Huon per ucciderlo; il duca Namo lo trattiene.

Huon è meravigliato nel sapere che ha ucciso il figlio di Carlomagno, ma non si perde d'animo, e afferma che ignorava chi fosse il traditore dal quale Gerardo era stato ferito. Se l'avesse saputo, non si sarebbe messo nelle mani dell'imperatore. Amaury inventa un infame racconto per dimostrare che Huon ha mentito. Dice che si è impossessato di un uccello di Carlo, che era uscito per andare a caccia. È incominciata allora una rissa fra i giovani, e Carlo ha ferito Gerardo venendo poi ucciso da Huon, che lo conosceva. Amaury ha inseguito i traditori senza poterli raggiungere.

L'abate di Cluny afferma di non aver mai udito una menzogna simile, ed è pronto a giurare con i suoi ottanta monaci che l'accusa fatta da Amaury è falsa. Carlomagno non gli crede, e si stabilisce che Huon ed Amaury si batteranno a duello. Amaury è ucciso senz'aver prima confessato il suo delitto, e Carlomagno non vuole riconoscere l'innocenza di Huon, al quale toglierà il ducato. Il giovane gli dice: – Poiché mi odiate tanto, prendete pure il mio feudo, ma datelo a Gerardo –. Carlomagno ricusa. Namo allora dice ai Pari di alzarsi e di abbandonare con lui l'imperatore, reo di un'ingiustizia così grave.

Carlomagno piange: ha perduto il figlio ed ora perde i suoi baroni! Li richiama e fa anche venire Huon, che s'inginocchia dinanzi a lui. Come condizione della pace gl'impone di andare in un luogo peggiore dell'inferno, nel quale ha già spedito quindici messaggeri, mai più tornati. Quel luogo è Babilonia, dove regna l'ammiraglio Gaudisse. Giunto dinanzi a costui, Huon dovrà troncare la testa ad una persona, dare tre baci a sua figlia, la bella Esclarmonda, e domandargli, in nome di Carlomagno, mille sparvieri, mille orsi, mille levrieri, mille giovinetti, mille donzelle bellissime, ed anche la sua barba e quattro denti suoi. – Volete dunque la morte di Huon? – domandano i Pari. Carlomagno proibisce al giovane di tornare a Bordeaux prima di aver compiuto la sua missione, e vuole ostaggi da lui. Huon gli lascia dieci dei suoi cavalieri, e domanda di condurre seco gli altri fino al Santo Sepolcro. Carlomagno gli concede di averli per compagni fino al Mar Rosso, ma non oltre.

In questa scena, il contegno e le parole di Carlomagno ci danno la prova, come ben nota il Gautier,3 che l'Huon de Bordeaux, nelle redazioni che ci restano, è opera della decadenza della poesia cavalleresca francese. Infatti, deve appartenere al tempo in cui l'ignavia e la debolezza dei successori di Carlomagno giunsero ad offuscare innanzi al popolo la sua figura, a renderla fiacca, irragionevole, crudele e spesso ridicola.

Ma a dire il vero, non so trovare, come l'illustre critico francese, una certa grandezza epica nella figura di Carlomagno quale ci appare al principio del poema. Il vecchio debole e stanco, divenuto incapace di reggere lo scettro, che quasi implora i suoi vassalli perché diano la corona a suo figlio, è così diverso dal superbo e forte vincitore dei Sassoni, dei Longobardi e di altri popoli valorosi, che si prova per lui, fin dai primi versi del poema, un senso di compassione. Questa si muta in ribrezzo, quando egli si mostra così ferocemente crudele verso il giovane Huon, e gl'impone di compiere un'impresa grottesca fra pericoli mortali.

Nota ancora il Gautier che in questa parte del poema, il trovèro, che aveva incominciato a percorrere la via larga dell'epica, imitando nella serietà del racconto le chansons de geste, si piega improvvisamente verso i romanzi di avventure; e Gaston Paris ritiene che, tra i tentativi compiuti alla fine del secolo XII per rinnovare l'epopea francese, quando l'arido argomento della canzone di guerra non riusciva più ad allettare gli uditori, già avvezzi alle meraviglie della materia di Bretagna, questo è stato uno dei più riusciti.

Ma torniamo al duca di Borgogna, che parte senza speranza di rivedere la sua terra nativa. Gerardo, che deve governare il feudo durante l'assenza del fratello, arriva a Bordeaux e racconta alla madre quanto è accaduto. La nobile donna incomincia a piangere, e il suo dolore è tale che nessuno può confortarla. Per due anni ella soffre e languisce pensando al giovine Huon, finché piace a Dio di toglierla da questo secolo.4

Dopo le brevi e commoventi parole che ricordano il dolore inconsolabile della madre di Huon, il poeta riprende il racconto del viaggio lunghissimo e pericoloso del duca, che giunge a S. Pietro in Roma mentre il Papa celebra la messa. Quando ha finito, Huon lo saluta con riverenza, ed essendo da lui interrogato, gli dice che è figlio del duca Seguin. Il Papa l'abbraccia, perché è suo nipote.

Huon si confessa al Papa, e gli racconta le sue sventure. Questi vuole che dimentichi l'odio nutrito contro Carlomagno. Huon lo perdona. Il Papa gli consiglia di andare a Brindisi, dove troverà un cugino d'entrambi chiamato Garin de Saint-Omer, che lo accoglierà con affetto. Garin vuole seguire Huon, e abbandona per lui la moglie ed i figliuoli. Dopo quindici giorni, Huon ed i suoi compagni, giunti in Palestina, vanno presso il Santo Sepolcro a Gerusalemme, e Huon prega Iddio di assisterlo e di permettergli di tornare in Francia per far pace con l'imperatore. Il giovane licenza ai suoi cavalieri di tornare in Francia, ma questi vogliono accompagnarlo fino al Mar Rosso. Garin rimanda la sua nave a Brindisi, e tutti si rimettono in viaggio.

Avvicinandosi al bosco dove impera il piccolo Oberon, i cavalieri attraversano paesi desolati e selvaggi, fra i quali si trova la Femenie, povera e triste regione dove non risplende il sole (Solaus n'i luist), e dove i cani non abbaiano ed i galli non possono cantare. I cavalieri non si fermano, e giungono nella terra dei Conmains, che non mangiano il grano ma la carne cruda, come i cani; sono più coperti di pelo che i cinghiali, ed hanno orecchie così lunghe che li coprono tutti. Nel vedere questi mostri, Huon si spaventa, ma essi non fanno male a nessuno.

Più tardi, i cavalieri incontrano un uomo con una lunga barba. Huon lo saluta in nome di Dio; il vecchio accorre presso di lui, gli prende una gamba e la bacia più di venti volte. Da trent'anni abita in un bosco, senza aver mai incontrato un uomo che credesse in Dio, e poi è molto commosso perché Huon somiglia a Seguin, duca di Borgogna, che egli ha conosciuto.

Huon ed il vecchio, che si chiama Girolamo, si raccontano a vicenda la loro storia. Il vecchio vuole accompagnare a Babilonia il sire di Borgogna perché conosce l'ammiraglio Gaudisse, e dice che due vie menano a quella città. Una di queste è molto pericolosa, ma seguendola si può arrivare in quindici giorni alla meta del viaggio. L'altra vi conduce in un anno ed è una via sicura, lungo la quale si trovano osterie, città e castelli. Huon sceglie la via più breve, e domanda a quali pericoli andrà incontro. Girolamo risponde che si deve percorrere un bosco molto esteso, cagione di spavento ai viandanti, in cui abita un nano alto tre piedi e più bello del sole di nome Oberon. Se un uomo entrato nel bosco gli rivolge la parola, cade subito in suo potere, e deve restare con lui finché gli dura la vita.

– Non avrete percorso dodici leghe in quel bosco, – soggiunge Girolamo, – che lo vedrete innanzi a voi, e vi parlerà in nome di Dio con tali accenti che nessuno diffiderebbe di lui. Se non vorrete rispondergli, sarà tanto irato che si vendicherà in modo terribile.

Non basta al trovèro di aver dato al nano piccolissimo la bellezza di un nume. Ora immagina che abbia la potenza di suscitare le tempeste, attribuita nel Medioevo alle streghe, agli elfi neri e ai malefici spiriti dell'aria, ed è strano trovare in lui questo carattere che lo avvicina ad esseri diabolici, mentre il suo trono è già pronto in Paradiso. Ma il trovèro non si lascia fermare da certe sottigliezze nel delineare la meravigliosa figura di Oberon; eppure, credo che questa qualità malefica del nano sia uno dei ricordi più spiccati della sua origine pagana, mascherata dal trovèro cristiano che ce lo presenta come amico di Dio e degno del Paradiso.

Girolamo dice dunque ad Huon che Oberon farà scoppiare un terribile temporale:

Car il fera et plovoir et venter,
Arbres brisier et fort esquarteler.

Come i maghi e gli orchi di certe novelline popolari, Oberon ha anche il potere di far sorgere ostacoli paurosi, per spaventare gli infelici da lui inseguiti; e Girolamo dice ancora a Huon che apparirà innanzi ad essi, nel bosco, un fiume largo e profondo. Ma come nella foresta incantata dove è messa a dura prova la forza di Tancredi e Rinaldo non si trovano che parvenze vane, così pure nella foresta di Oberon ogni cosa atta a sgomentare i cavalieri non è che una vana immagine. Purché Huon non si spaventi, potrà attraversare il fiume impetuoso senza bagnarsi né le calze, né le scarpe. Basterà per la sua salvezza che non dica una sola parola al nano. Huon promette al vecchio di non parlare, e seguìto da lui e dai cavalieri entra nel bosco di Oberon, dove si ferma sotto una quercia per riposarsi. Huon si duole perché non mangia da tre giorni, e Girolamo l'induce a cibarsi di radici. Da trent'anni il vecchio non mangia altro. Mentre il duca di Borgogna discorre con i suoi compagni, il nano giunge vicino ad essi, ed è veramente bello come il sole che risplende nell'estate. Ha un ricco mantello di seta con trenta strisce di oro fino,5 e tiene in mano un arco del quale si serve con grande maestria. Porta sospeso al collo un bellissimo corno d'avorio ornato con bende d'oro. Questo corno, che ha tanta importanza nella storia di Huon de Bordeaux, è più meraviglioso del corno di Orlando celebrato nella «Chanson de Roland», e di quello che sarà più tardi sonato da Astolfo, per spaventare i suoi nemici ed anche i suoi compagni.6 Il trovèro, che ignora certamente le lontane origini mitiche del famoso corno, si compiace nell'enumerare le sue virtù meravigliose. Le fate lo hanno fatto in un'isola; una di esse gli ha dato il potere di guarire gli infermi che ne odono il suono. Un'altra ha voluto che questo suono potesse satollare chi ha fame e dissetare chi ha sete; un'altra ancora, che nell'udirlo l'uomo più infelice si mettesse a cantare; una quarta, infine, che se pur fosse suonato in luogo lontanissimo dalla città di Monmur, dove abita Oberon, fosse sempre udito da lui.

L'omino, vedendo Huon ed i suoi compagni, incomincia a suonare il corno, ed essi si mettono tutti a cantare. Huon, meravigliato, dice di non avere più né fame, né sete. – Ecco il perfido nano! –, esclama Girolamo. – In nome di Dio, vi prego di non parlargli, se non volete restare sempre con lui!

Il duca dice al vecchio che non parlerà. Intanto il «nains boceré» grida: – O voi che passate nel mio bosco, vi abbia in sua custodia il Re del mondo. In nome dell'olio santo e del sale del battesimo, vi scongiuro di salutarmi!

Huon ed i suoi tredici compagni fuggono. Il nano s'adira e tocca il corno con un dito. Scoppia una violentissima tempesta, che spaventa Huon e gli animali, che non sanno dove fuggire. I cavalieri e Girolamo percorrono a caso circa mezza lega, e si trovano davanti ad arrestarli il fiume, sul quale può navigare un «gran navie».

– Ecco, – esclama Huon, – siamo presi! Che pazzia ho fatto entrando in questo bosco –. Girolamo l'ammonisce perché non si sgomenti. Huon fa discendere da cavallo i suoi compagni, che sono spaventati anch'essi e non sanno cosa fare. Sul greto si alzano quattro torri, e Girolamo dice ai cavalieri che tutto questo è opera del nano arrabbiato; ma niente può arrestarli, e debbono cavalcare senza timore.

Essi rimontano a cavallo e percorrono cinque leghe. Huon si rallegra perché si sono allontanati dal nano, e afferma di non avere mai, fin da quando fu battezzato, avuto una paura simile. Al pari dei suoi compagni crede di essere sfuggito ad Oberon. Girolamo lo disinganna, ed afferma che lo rivedrà presto. Infatti, appena giungono presso un ponticello, il piccolo uomo salta loro «devant les nés».

Huon esclama: – Ecco il diavolo! – Oberon gli dice con ira: – Vassallo, non sono mai stato un demonio, e così possa Iddio salvarmi. Sono un uomo in carne ed ossa. Vengo di nuovo a pregarvi, in nome di Dio e del potere ch'Egli mi ha concesso, perché vogliate parlarmi.

Fuggiamo, – dice Girolamo spronando il cavallo. I compagni lo seguono, e si voltano spesso per vedere se sono inseguiti. Il piccolo uomo, fortemente adirato, è rimasto solo, ed accosta alle labbra il suo bel corno d'avorio. Appena i cavalieri l'odono, non possono né cavalcare, né camminare, e conviene che cantino accompagnandone il suono con la voce. – In fede mia, – dice Oberon, – chi vuole sfuggirmi è pazzo, e me la pagherà cara –. Di nuovo prende il corno di bianco avorio e con l'arco batte su di esso tre volte gridando: – Venite, uomini miei!

Subito si vedono apparire nel bosco quattrocento uomini armati a cavallo, che domandano al nano: – «Gentis sire, c'avés?» – Oberon comanda che inseguano i fuggitivi passati nel bosco senza salutarlo e li uccidano. Un cavaliere del nano implora per essi misericordia. Oberon non vuole perdonare. Lo stesso cavaliere lo prega di fare un ultimo tentativo: parli ancora ai colpevoli, e se non risponderanno, li uccida pure.

Oberon cede. Intanto Huon, che si è alquanto rinfrancato, dice a Girolamo: – Signore, abbiamo percorso dodici leghe e siamo salvi; ma vi dico lealmente che non ho mai veduto un uomo pari al nano. Come è bello, e come sa parlare bene di Dio! Anche se fosse Belzebù il maledetto, bisogna rispondergli. E poi che male potrebbe farci quell'omino, il quale mostra di non avere più di cinque anni? – Girolamo gli dice che il nano da lui creduto un fanciullo è nato prima di nostro Signore Gesù!7

– Non importa, – dice Huon, – sono disposto a parlargli, se tornerà.

Oberon chiama i cavalieri, e prega e minaccia perché l'ascoltino. Vuole avere il loro saluto, perché sono entrati nel suo bosco ed è impossibile che gli sfuggano, come è impossibile che un bue salga in cielo. Poi dice a Huon che sa quello che ha fatto e la cagione del suo viaggio, ed afferma che senza l'aiuto del corno incantato non potrà compiere la sua missione ed uccidere l'ammiraglio. Purché Huon gli parli, lo farà tornare salvo e vittorioso in Francia, e gli darà anche da mangiare e da bere. Pare che Huon non sia molto contento delle radici trovate nel bosco, perché si direbbe che questa ultima promessa l'induca più delle altre a parlare. Dice subito al nano:

Signore, siate il ben trovato.

Huon, mio bel fratello, – gli dice Oberon, – voglia Iddio onorarti poiché mi hai salutato. Nessun saluto sarà mai ricompensato meglio di questo.

Huon esprime ad Oberon la meraviglia provata nell'essere inseguito da lui. Il nano gli dice che l'ama per la sua grande lealtà, e soggiunge: – Sono figlio di Giulio Cesare e della fata Morgana. La mia nascita fu accolta con molta gioia; mio padre fece venire a corte tutti i suoi baroni, e le fate visitarono mia madre. Una di esse volle che fossi «petis nains bocerés», e con mio grande dolore non sono più cresciuto dopo l'età di tre anni. Ma questa fata volle pure che fossi l'uomo più bello della terra. Un'altra fata mi fece il dono di poter conoscere il cuore degli uomini ed i loro pensieri più segreti. Una terza volle che fosse subito realizzato ogni mio desiderio; per questa ragione, non vi è nessun paese nel quale io non possa andare appena lo voglia. Se bramo un palazzo, l'ho subito. Sono noto anche molto lungi da qua, a Monmur, che si trova a più di quattrocento leghe, e posso andare e venire di in un attimo. Ed ora, mio bel fratello, sii il benvenuto. Tu digiuni da circa tre giorni; vuoi pranzare in questo bosco, o in una sala di pietre e di legno ?

– Come volete, signore, – dice Huon.

– Hai risposto bene, – dice il nano, – ma non sai ancora tutto quello che debbo alle fate. Non vi è uccello, cinghiale o altra bestia selvaggia, anche tra le più feroci, che non venga volentieri verso di me ubbidendo ad un cenno della mia mano. Conosco tutti i segreti del Paradiso, e capisco il canto degli uccelli. Non invecchierò mai, e quando vorrò che abbia fine la mia vita, troverò già pronto il mio seggio vicino a Dio.

Oberon comanda a Huon ed ai suoi compagni di prostrarsi abbassando il volto fino a terra. Essi ubbidiscono, ed un arciere non avrebbe avuto il tempo di lanciare una freccia che già il nano dice loro: – Alzatevi! – I cavalieri si trovano dinanzi a un gran palazzo, vi entrano, e seggono presso le tavole già apparecchiate.8

Dopo pranzo, Huon si licenzia dal nano, che non vuole lasciarlo andar via senza fargli un ricco dono, e gli la sua coppa preziosa, dicendo: – Vedi questa coppa dorata? È vuota; ebbene ora la riempirò! – Il nano fa girare tre volte la mano intorno alla coppa, e poi fa su di essa il segno della croce. La coppa si riempie subito, e Oberon soggiunge: – La virtù di questa coppa è tale che può dar vino sufficiente a tutti i vivi, e ne darebbe anche a tutti i morti, se tornassero sulla terra; ma per avere questa virtù portentosa è necessario che si trovi fra le mani di un uomo onesto; e vi possono bere solo coloro che hanno il cuore puro e non sono macchiati da un peccato mortale. Appena un malvagio la tocca, essa perde la sua virtù. Se puoi bere il vino da questa coppa, te la darò. Huon non crede di essere in tal condizioni da poter bere nella coppa, benché sia stato assolto dal Papa, non odii nessuno e si penta dei peccati mortali commessi. In ogni modo prende la coppa, che resta piena, e beve.

Oberon si rallegra, l'abbraccia e gli dona la coppa, raccomandandogli di essere sempre leale. Appena dirà una menzogna, la coppa perderà la sua virtù, ed egli non si curerà più di proteggerlo. Il nano aggiunge alla coppa il dono del corno d'avorio, e promette a Huon di accorrere in suo soccorso tutte le volte che ne udirà il suono. Huon sarà colpito da grave sventura, se lo suonerà senza esservi costretto da un pericolo.

Quando Huon si dispone alla partenza, Oberon piange, e gli dice che porta con sé il suo cuore. Dopo che il giovane ed i suoi compagni hanno percorso a cavallo quindici leghe, arrivano sulla sponda di un fiume e non sanno come attraversarlo. Un messaggero di Oberon che li segue porta in mano una verga d'oro, con la quale batte l'acqua; questa si ritira, lasciando un passaggio che potrebbe servire a centomila uomini, ed è di nuovo invaso dall'acqua dopo che Huon ed i suoi compagni sono giunti all'altra sponda.

I cavalieri si fermano in un frutteto, dove Huon vuol mettere alla prova la virtù della coppa, e riconosce che vale più di due ricche città. Egli delibera di darla a Carlomagno, e sarà lieto se resterà vuota per lui. Ma Huon non crede nella virtù meravigliosa del corno, e vuole mettere alla prova anch'esso. Il vecchio Girolamo l'ammonisce, ricordandogli ciò che gli ha detto il nano. Huon non l'ascolta e suona. Allora:

Li vieus Geriaumes au son del cor canta,
Et tout li autre, cascuns joie mena.

Il nano ode subito il corno ed esclama: – Ah! Il mio amico mi chiama! Mi auguro di andare con centomila uomini nel luogo dove Huon ha suonato.

Questo desiderio è subito esaudito, con grande spavento di Huon. Il nano, fortemente adirato, gli domanda dove sono i suoi nemici. Il giovane lo supplica di perdonarlo, e soggiunge che non ha voluto esporsi ai rischi di pericolose avventure senza avere messo alla prova la virtù del corno.

Oberon perdona Huon egli dice che passerà fra breve nella città di Tourmon, dove risiede un certo Macario, traditore e rinnegato, zio di Huon e nemico di tutti i cristiani. Il nano gli proibisce di andare presso di lui. Huon dice che vuole punirlo. Se sarà necessario per lui l'aiuto del nano, lo chiamerà suonando il corno. Oberon gli raccomanda di usarlo soltanto se fosse ferito o si trovasse in pericolo di morte, e nel dire queste parole piange. Huon gli domanda la cagione di quel pianto. Oberon dice che lo accora una grande compassione per lui, che va incontro a terribili sventure.

Huon va a Tourmon dove incontra lo zio, che non può bere nella coppa di Oberon, perché da essa il vino scompare appena se l'accosta alle labbra. Il rinnegato vuole far uccidere il giovane a tradimento. Questi si rinchiude nella reggia dove è assediato, e trovandosi in gran pericolo suona il corno con tanta forza che gli esce sangue dalla bocca.

Appena si ode quel suono, i Saraceni che stringono d'assedio il palazzo si mettono a cantare, e gli assediati ballano, mentre appare Oberon con centomila uomini armati. I Saraceni che non vogliono convertirsi vengono uccisi.

Oberon ammonisce Huon che cercando nuove avventure si espone a grandi pericoli, e gli proibisce di andare nel castello di Dunostre, costruito da Giulio Cesare, all'entrata del quale si trovano due uomini di rame. Vi dimora un gigante chiamato l'Orgoglioso, che ha rubato ad Oberon un usbergo più bianco delle margherite e che nessuna spada può rompere. Chi indossa quell'usbergo non può né annegare, se cade nell'acqua, né ardere in mezzo al fuoco. Oberon raccomanda ad Huon di non assalire il gigante, ma il giovine stabilisce invece d'impossessarsi dell'usbergo. Suonerà il corno se sarà necessario. Oberon gli dice di non contare sul suo aiuto, e Huon risponde che andrà ugualmente.

Il giovane uccide il gigante, gli prende l'usbergo ed un anello incantato, e libera una sua cugina prigioniera dell'Orgoglioso.

Prima di continuare il viaggio, si accomiata dai compagni, ai quali raccomanda di aspettarlo quindici giorni prima di tornare in Francia. Essi vogliono aspettarlo un mese.

Huon arriva sulla spiaggia del Mar Rosso, e non può attraversarlo non avendo una nave. Desolato, invoca la Vergine e piange, mentre un folletto che nuota più rapidamente d'un salmone si avvicina alla riva, sulla quale getta via la sua pelle e si mostra in forma di un uomo bellissimo.9

Huon, spaventato, guarda il folletto (Luiton) e gli domanda: – Qual è il tuo paese? Sei della razza di Pilato o di quella di Nerone? Non farmi male, in nome di Dio! – Il folletto dice che lo conosce, e che è mandato a lui dal gran re Oberon per aiutarlo. Huon vuole sapere il suo nome, ed egli risponde che si chiama Malabruno, ed è vassallo di Oberon. Questi l'ha condannato ad essere per trent'anni folletto di mare. Vuole portare sull'altra sponda Huon, che non si bagnerà né le calze, né le scarpe, ma deve affrettarsi per esser pronto, mentre egli rientra nella sua pelle.

Malabruno raccomanda ancora a Huon di farsi il segno della croce, affinché Iddio li aiuti e li conduca. Appena è entrato nella pelle, Huon gli monta sul dorso; il folletto attraversa rapidamente il mare, depone Huon sull'altra riva e gli dice: – Non sei nato sotto una buona stella, perché soffrirai grandi dolori; ed io soffrirò anche per te, dovendo la mia penitenza essere più lunga perché ti ho aiutato. Mi toccherà di stare trent'anni di più nel mare, oltre quelli ai quali ero già condannato. Ecco la città dove sei diretto; ricordati che, se dirai una menzogna, perderai l'amicizia di Oberon –. Quando Malabruno finisce questo discorso:

Il joint ses piés, se resaut ens la mer.

Questo folletto che ritroveremo, e che darà nuova prova a Huon della sua fedele amicizia, è una figura mitica importante del poema, e credo che la sua importanza non sia stata riconosciuta come doveva. Egli ci ricorda certe trasformazioni anteriori di uomini e di numi in pesci, e specialmente quella del famoso nano Andvari dell'Edda, possessore d'immensi tesori e dell'Andvara-nant, anello famoso del quale avrò più tardi occasione di discorrere.

Nella Bataille Loquifer, poema affine al ciclo di Guillame au cor nez, si trova un demonio chiamato Isembart, che è stato lungamente mostro marino, ma non somiglia al bellissimo Malabruno; anzi, è orribile nell'aspetto, ha il naso dietro la testa, un occhio sulla fronte e l'altro sotto il naso, e certe orecchie così lunghe che può con esse coprirsi tutto il corpo. Queste orecchie lo fanno somigliare ai Conmains, che Huon incontrò, come abbiamo già visto, nel suo viaggio.

Dopo la scomparsa del pietoso Malabruno, Huon si dirige verso la città di Gaudisse. Il portinaio gli domanda se è saraceno. Huon dimentica la promessa fatta ad Oberon, mente dicendo di sì e poi entra, mentre il giullare, prima di narrarci le portentose avventure del sire di Borgogna in Babilonia, domanda una mercede generosa agli uditori cortesi.

Huon giunge sino al palazzo dell'ammiraglio, mostrando l'anello tolto al gigante Orgoglioso, ed entra in un frutteto, dove sono raccolte tutte le specie di frutta create da Dio. Una fontana che viene dal Paradiso rende la giovinezza ai vecchi più decrepiti. Una serpe, vicino a questa fontana, uccide i cattivi ed i traditori che si accostano ad essa. Huon beve quell'acqua, dimentica il suo messaggio, ma trema sempre nel pensare ad Oberon, perché teme di aver perduto la sua amicizia. Infatti suona il corno, e nessuno accorre presso di lui. Il corno ha conservato la sola virtù di rallegrare la gente, poiché nell'udirlo l'ammiraglio e quelli che si trovano con lui incominciano a cantare. Gaudisse, spaventato, comanda ai suoi uomini di prendere l'incantatore che li ammalia. Huon invoca la Vergine ed entra arditamente nel palazzo, con l'elmo sul capo e la spada in pugno.

Alla tavola dell'ammiraglio, il quale, per una di quelle stranezze tanto frequenti nei poemi cavallereschi, celebra quel giorno la festa di San Giovanni, siede un saraceno potente, fidanzato della bella Esclarmonda.

Con un colpo di spada, Huon fa cadere la testa del saraceno, ed il sangue di costui ricade su Gaudisse. Huon si rallegra, perché ha dato buon principio alle imprese che deve compiere per ordine di Carlomagno, e Gaudisse non ardisce offenderlo, perché ha al dito l'anello dell'Orgoglioso, del quale è vassallo.

Huon bacia anche tre volte innanzi a tutti Esclarmonda, che s'accende d'amore per lui, poi impone a Gaudisse, in nome di Carlomagno, di ricevere il battesimo e di mandargli il tributo richiesto.

Gaudisse s'adira e ricusa. Ha già fatto scorticare e salare quindici messaggeri di Carlomagno; Huon riceverà la stessa punizione. Egli vuol sapere in qual modo il giovine sia venuto in possesso dell'anello appartenente all'Orgoglioso. Huon risponde che ha ucciso il gigante. Gaudisse comanda ai suoi baroni di legare Huon, che viene assalito da ogni parte e a cui sono tolte le armi, il corno d'avorio e la coppa.

Gaudisse domanda consiglio ai baroni, per sapere a quale supplizio debba condannare Huon. Uno di essi gli dice che, celebrandosi la festa di S. Giovanni, non può fare giustizia senza mancare alla sua legge. Huon è messo in prigione; Esclarmonda va a visitarlo e gli promette la libertà, purché l'ami. Huon dice che non vuole amarla perché è saracena. L'ha baciata per ubbidire a Carlomagno, ma non per altro. Esclarmonda comanda ai carcerieri di lasciarlo digiuno. Huon resiste per tre giorni, e al quarto si arrende. Amerà Esclarmonda, e questa promette di farsi cristiana e di liberarlo, purché la conduca seco in Francia. Per ordine della fanciulla, un carceriere va ad annunziare la morte di Huon a Gaudisse, che raccomanda l'anima sua a Maometto.

I tredici compagni di Huon rimasti nel palazzo che apparteneva all'Orgoglioso aspettano per quattro mesi l'eroe. Un giorno arrivano innanzi al castello trenta pagani su una nave. I cavalieri li uccidono, e con quella nave partono per andare alla ricerca di Huon, accompagnati dalla bellissima Sibilla, sua cugina.

Finalmente giungono alla corte di Gaudisse. Il vecchio Girolamo si dice suo nipote, e gli dona come tributo i dodici cavalieri francesi. L'ammiraglio dovrà tenerli in prigione fino alla festa di S. Giovanni. Allora serviranno di bersaglio ai suoi arcieri.

I Francesi s'incontrano in carcere col sire di Borgogna, e gli dicono che Girolamo è un rinnegato e li ha traditi. Huon ride, perché ha indovinato le intenzioni di Girolamo. Questi giunge nel carcere con Esclarmonda, e abbraccia con grande affetto Huon.

Agrapart, orribile gigante fratello dell'Orgoglioso, giunge alla corte di Gaudisse e vuole vendicare il fratello. Esclarmonda confessa al padre atterrito che Huon è vivo, e lo prega di lasciarlo combattere contro il gigante. Il cavaliere di Francia acconsente al duello, purché gli rendano la coppa, il corno e l'usbergo. Gli viene dato quanto gli appartiene. Egli consegna la coppa e il corno a Girolamo, e si confessa e domanda perdono a Dio prima d'indossare l'armatura; quando poi gli riesce di metterla senza difficoltà, comprende che Oberon lo ha perdonato.

Il gigante Agrapart offre in moglie a Huon sua sorella, che è più alta di lui, nera come l'inchiostro, e ha i denti lunghi una spanna. Huon respinge con orrore la proposta, e uccide Agrapart.

Gaudisse, riconoscente, fa sedere Huon alla sua tavola e gli domanda se vuole restare con lui o tornare in Francia. Huon non risponde, e si fa portare la coppa. Dopo aver fatto notare all'ammiraglio che è vuota, la riempie, facendo su di essa il segno della croce. Appena è toccata dall'ammiraglio il vino scompare. Gaudisse crede che si tratti di un incantesimo:

Et dist Gaudisse: Vous m'avés encanté.

Huon gli dice che è la sua malvagità a far sparire il vino dalla coppa. Pensi a convertirsi, per amore verso l'anima sua. Se vuole persistere nell'errore, i nemici invaderanno la sua buona città.

L'ammiraglio dice a Huon che è un diavolo. Vorrebbe sapere chi verrà in suo soccorso. Il cavaliere francese suona il corno, e Oberon entra subito in Babilonia. I suoi soldati invadono in un attimo la città, ed egli sale nel palazzo. Huon lo vede, corre ad abbracciarlo e gli il benvenuto. Oberon dice che l'aiuterà sempre, purché segua i suoi consigli.10

I baroni vincono i pagani nella città, e Oberon rimette l'ammiraglio nelle mani di Huon. Il nano dichiara che si convertiranno non avranno nulla da soffrire, e più di duemila pagani si lasciano battezzare.

Huon domanda a Gaudisse se vuole convertirsi. Questi ricusa, e Oberon grida: – Huon, perché tardi? Prendi la testa di quel malvagio e potrai dare a Carlomagno ciò che vuole –. Huon tronca il capo all'ammiraglio e:

Le barbe prent qui pendoit sor le nés,
Puis li osta.
IIII. dens maiselers.

Col soccorso di Oberon, il cavaliere francese ha dunque potuto prendere la barba e i quattro denti di Gaudisse che deve portare a Carlomagno. E poiché la sua vita dipende dal modo nel quale avrà eseguito gli ordini dell'imperatore, prega Oberon di nasconderli in luogo sicuro. Questi comanda che restino nascosti nel fianco di Girolamo.

Huon, – dice il nano, – debbo tornare a Monmur. Conduci con te la figlia di Gaudisse, ma se non vuoi perdere la mia amicizia, non parlare d'amore finché non l'avrai sposata a «Romme, la mirablecité»; se mancherai alla promessa, sarai colpito da nuove sventure.

Huon promette ciò che vuole il nano, ma quando si trova con Esclarmonda sulla nave che li conduce in Francia, manca alla parola data, e scoppia intorno alla nave una violenta tempesta. I giovani sono gettati sopra un'isola deserta, dove approdano certi marinai saraceni che riconoscono Esclarmonda, la rapiscono e lasciano nell'isola Huon con gli occhi bendati e le mani legate. Oberon conosce la sventura di Huon, e ricordandosi di lui piange con i suoi begli occhi. I suoi uomini gli dicono: – Gentile signore, che avete? – In fede mia, – risponde Oberon, – lo saprete. Ricordo l'infelice Huelin al quale ho dato il mio affetto, e che ho aiutato ad uccidere l'ammiraglio.11 Il nano continua a raccontare i casi di Huon; il suo cavaliere Gloriano gli parla del peccato di Adamo e del perdono di Dio. Allora Malabruno si getta ai piedi del re e dice: – Signore, lasciate le vostre crudeltà e aiutate il giovanetto –. Oberon risponde: – Non lo farò –. Malabruno dice: – Andrò io, se volete. – Vai, – risponde Oberon, – ma ti voglio fare questo dono: sarai per ventotto anni folletto nel mare, senza contare i trent'anni ai quali sei già condannato, e dovrai riportarmi la mia corazza, la coppa ed il corno d'avorio.

Malabruno accetta, e giunge ben presto a tre leghe dall'inferno, nell'isola di Mosè, dove ritrova Huon disperato che maledice spesso Oberon. Malabruno domanda a Huon se dorme, o se è desto. Huon vuole sapere con chi parla. Malabruno risponde che è il «luiton» che lo portò sul mar Rosso, e che l'ama come una madre può amare il suo figliuolo. Huon chiama fratello Malabruno, lo supplica di togliergli la benda e di slegargli i polsi, poi vuol sapere chi l'ha mandato. Malabruno gli dice a quale patto ha ottenuto di poterlo soccorrere. Per amor suo ha lasciato che gli venisse quasi raddoppiata la pena, e deve anche riportare a Oberon la corazza, la coppa e il corno. Huon maledice di nuovo Oberon, ed è avvertito da Malabruno che il nano sa quello ch'egli dice.

Il giovane si mette a cavallo sul «luiton», che lo porta sopra un'altra spiaggia e l'abbandona raccomandandolo a Dio. Huon maledice di nuovo il nano, poi incontra un menestrello che lo crede un uomo selvaggio e lo prende al suo servizio. Huon mente per far dispetto al cattivo nano, e dice al menestrello che è africano e che navigava con certi mercanti. La nave è affondata, ed egli ha potuto salvarsi con l'aiuto di Maometto.

Il menestrello dice che era al servizio di Gaudisse, e maledice un certo Huon che l'ha ucciso. È diretto presso Ivorino, fratello di Gaudisse. Giungono alla corte d'Ivorino, che vuole prendere Huon al suo servizio e gli domanda quello che sa fare. Il giovane risponde che conosce molti mestieri. Sa tenere nella muda uno sparviero, sa cacciare il cervo ed il cinghiale, servire a tavola e giocare benissimo ai dadi ed agli scacchi. – Ecco, – dice l'ammiraglio, – voglio provarti al giuoco degli scacchi.

E qui troviamo nel poema l'episodio della partita a scacchi che doveva ispirare il Giacosa, quando, dopo più di seicento anni, Huon di Bordeaux si trasformò nel paggio Fernando che ha fatto sospirare tante fanciulle italiane, e la figlia dell'ammiraglio divenne la bella e cortese Jolanda. Nel poema francese però, il cavaliere, per non mancare alla parola data ad Esclarmonda, o per non attirare su di sé nuovamente la collera di Oberon, rinunzia alla vittoria che la figlia dell'ammiraglio è pronta a dargli, accesa dalla sua bellezza. I giovani sono chini sulla scacchiera d'oro e d'argento dipinta, e già Huon, che perdeva molti pezzi, si è scolorito in viso. Già la donzella gli ha detto: – Vassallo, a che pensate? Fra poco sarete vinto e vi taglieranno la destra –. Già ella si è adoperata per perdere, ma quando Huon è sicuro della vittoria chiama il padre di lei, e dice che rinunzia al premio che gli è stato offerto. Vuole tornare presso il menestrello, ed accetta cento marchi d'argento invece dell'amore della donzella, che si ritira nelle sue stanze irritata contro di lui e dolente di non averlo vinto. Quanta scortesia in quel paggio Fernando, e quale barbara franchezza sulle labbra della Jolanda saracena! Finalmente Huon libera Esclarmonda che era prigioniera, e i due fidanzati sono riuniti per sempre. Huon viene a sapere che suo fratello, dopo la morte della madre, si è impadronito del ducato. Egli s'imbarca con Esclarmonda e tutti i suoi compagni; scendono a Brindisi e vanno a Roma, dove il Papa ode la confessione di Huon, battezza Esclarmonda e li unisce in matrimonio.

Huon arriva a Bordeaux, e viene ospitato in un'abbazia dove fa chiamare suo fratello. Gerardo è desolato nel sentire il ritorno di Huon, e prepara contro di lui un tradimento. I fratelli s'incontrano, e Huon dice a Gerardo dove sono nascosti i denti e la barba di Gaudisse.

Il duca di Borgogna, Esclarmonda ed i loro compagni sono assaliti dai traditori in un bosco, e vengono fatti prigionieri.

Gerardo dice a Carlomagno che suo fratello è tornato, e che non avendogli risposto quando gli ha domandato se ha ubbidito agli ordini ricevuti, si è creduto in obbligo, come vassallo dell'imperatore, di farlo mettere in prigione.

I baroni sono addolorati, sospettando il tradimento di Gerardo, e l'imperatore domanda al duca Namo che lo consigli. Questi parla dei suoi sospetti contro Gerardo, e dice all'imperatore di andare a Bordeaux per interrogare Huon. Si offre un banchetto a Carlomagno nel palazzo del duca di Borgogna, che sente gran rumore dalla sua prigione. Insieme con la moglie e Girolamo, Huon è chiamato dinanzi a Carlomagno. Ha i ferri ai piedi e racconta il tradimento del fratello, mentre Girolamo mostra la ferita che gli ha fatto Gerardo al fianco per togliergli la barba e i denti di Gaudisse. L'imperatore non gli crede, e Huon è condannato a morte con molta gioia di Gerardo.

Oberon piange di nuovo, ed i suoi sudditi gli domandano la cagione di quel pianto. Risponde che si duole per un infelice che si trova in gran pericolo. Carlomagno ha giurato sulla sua barba che pranzerà una volta sola prima della morte di Huon. Oberon vuole che la sua tavola sia subito trasportata vicino a quella di Carlomagno, che sia molto più alta e si trovino su di essa la coppa, il corno e l'usbergo. Centomila uomini debbono accompagnarlo, e anche un numero maggiore, se sarà necessario.

In un attimo la tavola del nano appare vicino a quella di Carlomagno, che si spaventa e crede che si compia a suo danno qualche incantesimo. Girolamo riconosce sulla tavola gli oggetti che appartengono ad Oberon, e fa animo a Huon. Questi si rallegra, perché il piccolo re non l'ha dimenticato. Oberon – il fatatoentra nella città con i suoi baroni, ai quali ordina di custodire le porte affinché nessuno esca. Ad ogni porta si trovano diecimila uomini armati, altri diecimila sono a guardia del palazzo.

Oberon entra nella sala del banchetto con alcuni suoi baroni.

Il fu vestus d'un paile gironné,
A noiaus d'or laciés les costés,
Et si biaus fu com solaus en esté.

Il nano passa con tanta insolente superbia vicino al re che gli urta la spalla, e:

... de son cief fait le capel voler.

– Chi è questo nano maledetto, – esclama Carlomagno, – che mi ha urtato e quasi fatto cadere sulla tavola che ha fatto volare dalla mia testa il cappello, ed è così superbo, che non si degna di parlarmi? Qual è il suo disegno? Come è bello!

Oberon va presso Huon, e vuole che i suoi ferri cadano. Fa anche cadere quelli di Esclarmonda e di Girolamo, e ordina al sire di Borgogna ed ai suoi compagni di sedere a tavola con lui. Il nano, facendo il segno della croce, riempie la sua bella coppa d'oro lucente e la fa vuotare da Huon, da sua moglie e da Girolamo; poi comanda a Huon di portare la coppa a Carlomagno, dicendogli di vuotarla in segno di pace. Se l'imperatore non vuole prenderla, Oberon gli farà pagare a caro prezzo la sua scortesia. Carlomagno e i suoi baroni sono meravigliati, ma nessuno di essi osa parlare. Huon porge la coppa all'imperatore, questi la prende, e il vino che contiene sparisce.

Vassallo, – dice Carlomagno al sire di Borgogna, – mi avete incantato!

– No, – dice Oberon, – questo dipende dalla vostra malvagità. La coppa ha tale virtù che vi può bere solo chi è senza peccato. Voi avete commesso un peccato gravissimo del quale non vi siete ancora confessato, ma io non voglio dire quale sia!

Carlomagno si spaventa. Huon porta la coppa al duca Namo, che la vuota; gli altri baroni non possono invece toccarla senza che ne sparisca il vino. Oberon fa sedere anche Namo alla sua tavola, e si congratula con lui; poi chiama Carlomagno (Karlon), e gli impone di ascoltarlo. – Ecco Huon, – dice il nano, – che avete spogliato e privato ingiustamente del suo regno, perché è pieno di lealtà. Ha compito la sua missione, ve l'assicuro, col mio aiuto. Il traditore è Gerardo.

Oberon chiama costui, che avanza tremando e confessa il proprio fallo. Huon implora Oberon perché abbia pietà di lui. Il nano non si lascia vincere dalle preghiere e condanna Gerardo, che per volere di lui cade morto.

Carlomagno si spaventa ed esclama: – Ohimé, quell'uomo è Dio, e se volesse ci farebbe morire tutti!

– No, – dice Oberon, – non sono Dio, sono un uomo in carne ed ossa.

Il nano racconta la sua storia a Carlomagno, e soggiunge che protegge Huon perché ha sempre amato la giustizia e la lealtà. Egli fa riconciliare Huon con l'imperatore, che gli rende il suo ducato e poi dice al giovane: – Fra tre anni verrai a Monmur come erede del mio regno e della mia potenza. Iddio mi ha permesso di potermene spogliare quando voglio.

Il nano dice ancora a Huon che porterà la corona d'oro e che dovrà lasciare il suo ducato a Girolamo, che l'ha servito fedelmente. Huon gli promette di ubbidire, e Oberon soggiunge: – Amico mio, non voglio più restare nel mondo e dimorare nella féerie. Voglio andarmene presso il Signore, nel Paradiso, dove il mio posto si trova alla sua destra.

Oberon abbraccia Carlomagno e Huon prima di andarsene con la sua gente a Monmur; Carlomagno torna a Parigi, e Huon resta nella sua città, dove regala grandi ricchezze all'abbazia e i borghesi sono felici perché ha riavuto la sua eredità. Anche la dama Esclarmonda e Girolamo sono lietissimi. Il trovèro finisce il poema dicendo:

De Huelin ne vous sai plus conter,
Ne d'Auberon, le petit roi faé,
Ains nous convient nostre cançon finer.
Si proiiés Dieu, le roi de maïisté,
Vous ki m'avés de vos deniers donné.
Que Diex vous laist tés oeuvres demener
Qu'en paradis vous meche reposer,
Et moi aveuc, ki le vous ai conté.

Pare che il poeta si sia innamorato della figura di Huon e di quella di Oberon. Quest'ingenuo amore, che volle certamente infondere nell'animo dei suoi uditori, si sente in molte frasi, ma egli non ha chiesto nulla per sé ai posteri, e non si trova il suo nome sui quattro manoscritti del poema che ci sono restati. S'ignora anche quello della sua città natia, ed il tempo nel quale è vissuto. Soltanto la fusione già notata di elementi carolingi con la materia di Bretagna induce a credere che il poema sia del XII o del XIII secolo.

Nella prefazione dell'Huon de Bordeaux pubblicato da Guessard e Grandmaison, che si sono valsi dei manoscritti di Tours, di Parigi e di Torino, si dice che può essere stato composto fra il 1180 ed il 1200. Gli editori non sono del parere del Wolf, il quale crede che sia esistito un altro poema a questo anteriore sullo stesso argomento. Credono che la redazione da loro pubblicata sia originale, e che patria del trovèro sia Sant'Omer, nell'Artois, ch'egli nomina spesso senza necessità.

Anche il Gautier crede che il poema pubblicato da Guessard e Gradmaison sia stato scritto fra il 1180 e il 1200.12 Ma riguardo alla sua originalità, debbo far notare come il Rajna13 ricordi che dalla introduzione ai «Loherains» di un codice torinese è risultato un fatto di grande importanza: «l'esistenza di uno Huon molto più semplice e pedestre, senza Auberon e senza principesse saracene, dove il protagonista esulava modestamente in Italia, e vi amoreggiava con una donzella figliuola, al più, di un conte».

Probabilmente questo poema è stato anteriore a quello che ci presenta, fra tante meraviglie, il piccolo Oberon. In ogni modo, senza la figura smagliante del nano, la storia di Huon di Bordeaux non sarebbe stata popolare a lungo. Lasciata invece nell'oblio, come tanti altri poemi cavallereschi, non avrebbe detto nulla al cuore ed alla fantasia dello Shakespeare, del Wieland e del Weber.

La poesia medioevale non si occupa di Oberon solo in questo poema. Nel manoscritto di Torino, esso ha una specie di prologo dal titolo «Roman d'Auberon», posteriore al poema. In esso si parla dei genitori e degli avi del nano: questi è fratello di San Giorgio, ed ha anche tre piedi di altezza, il che non impedisce che vinca in una giostra tutti i cavalieri di Artù e combatta pure senza timore contro il gigante Orgoglioso.

Questa prova della forza meravigliosa del nano è anche un'altra memoria della sua origine lontanissima, che si ritrova con caratteri spiccati nei nani germanici, e può risalire al tempo nel quale, fra la poesia vedica, numi possenti assunsero la forma di nani. E nella vittoria di Oberon sull'Orgoglioso ritroviamo anche l'antico trionfo dell'intelligenza sulla forza brutale, celebrata nell'India prima che Esiodo ci raccontasse la sconfitta dei Titani14.

Nelle Suites dell'Huon de Bordeaux, che lo fanno arrivare a 30.000 versi, riappare Oberon che soccorre Huon e sua moglie assediati nella città di Bordeaux. Dopo la morte del nano, Huon raccoglie la sua eredità e diventa «roy de féerie».

Prima che Shakespeare desse l'immortalità ad Oberon nel dolce Sogno di una notte d'estate, e lo facesse sposo di Titania, il nano era già molto popolare in Francia, in Inghilterra e nelle Fiandre. In Francia si era diffuso un rifacimento in prosa del poema, stampato in parecchie edizioni a Parigi, Rouen e Lione, e già la bizzarra figura del nano era apparsa in teatro, poiché si trova una domanda del 14 dicembre 1557 dei Confratelli della Passione al Parlamento, per ottenere il permesso di rappresentare di nuovo nella città di Parigi «il giuoco», da essi incominciato, che trattava di Huon de Bordeaux. A cagione delle gravi spese sostenute per allestire lo spettacolo, e che furono fatte certamente per presentare al pubblico il regno di «féerie», i confratelli ottennero il permesso di riprendere le rappresentazioni interrotte, a patto che non avessero luogo nelle ore in cui si celebravano le funzioni sacre. Si crede che la figura di Oberon, avendo tanta affinità con quelle degli stregoni, sia stata causa del divieto fatto per le rappresentazioni.

In Inghilterra, nel 1540, Lord Berner, traduttore di Froissart, pubblicò il suo rifacimento in prosa di Huon di Bordeaux col titolo: Prouesses et faictz merveilleux de Huon de Bordeaux. Il nano piacque anche a Robert Greene, che lo presentò al pubblico in una «piacevole commedia» negli intermezzi del suo dramma su Giacomo IV di Scozia, pubblicato a Londra nel 1598.

Nel dramma del Greene, al principio dell'azione Oberon appare sopra una tomba, dalla quale esce un fantasma che litiga con lui. Poi si riconciliano, ed in segno di pace il fantasma fa assistere Oberon alla recita di una tragedia. Oberon, per mostrare il suo compiacimento al fantasma, cerca di rallegrarlo negli intermezzi con balli ed altri divertimenti. Verso il 1593 la Compagnia D'Harlow rappresentava a Londra un dramma che aveva per titolo: Huon de Bordeaux.

Intanto, né queste opere per il teatro, né l'Huon de Bordeaux, né il Roman d'Auberon, né le lunghissime Suites avevano potuto dare alla figura del nano quella bellezza artistica che non teme di essere offuscata nel succedersi dei secoli. Toccava al gran tragico inglese di dargli l'immortalità, e certamente il poeta di Amleto e di Otello, del Re Lear e di Macbeth, che sapeva intendere tutti i dolori e tutte le passioni, dovette sorridere nel creare la novella immagine di Oberon, lieve come le farfalle che si posano sui fiori, capricciosa come l'aura che scherza tra le fronde, e così diversa da quella solenne e maestosa, a dispetto della sua piccolezza, delineata dal trovèro francese nell'Huon de Bordeaux.

Dopo lo Shakespeare, anche Ben Jonson fece apparire Oberon in teatro, in una fantastica produzione che ha per titolo: Oberon, the fairy prince, e nel 1662 la Compagnia di Molière rappresentava uno Huon de Bordeaux.

Sui monti dell'Harz, nella notte di Valpurga e nella sfera dei sogni e degli incanti, Oberon appare anche all'anima triste di Faust; ma non credo che la sua immagine abbia virtù di mutare in sorriso il terribile ghigno di Mefistofele! Già in mezzo alla confusione satanica che regna nella notte, è parso a Faust di rivedere il volto soave di Ghita. Invano Mefistofele gli dice che vagheggia una magica forma, un aspetto senza vita, il cui sguardo agghiaccia e converte l'uomo in pietra. Faust non può fuggire la vista di quella fanciulla, che al leggiadro collo ha un monile rosso largo come un fil di coltello.

Per distoglierlo da quella vista, da quella vaghezza di chimera, Mefistofele lo conduce sopra una collinetta, dove gli pare di vedere un teatro. Infatti si rappresenta il Sogno della notte di Valpurga, ovvero, Le nozze d'oro di Oberon e di Titania; e non manca fra gli altri il Puck di Shakespeare:

...il qual s'aggira a sghembo,
Mette il piede di sbieco,
E ne trae dietro a lui di cento un nembo
A far baldoria seco.

Non sembra che la coppia abbia avuto molta gioia dal matrimonio, poiché Oberon dice altamente:

Coppia che brami di star sempre in pace
Far come noi s'avvisi:
Se due voglionsi amar d'amor tenace
Non han che a star divisi.

E Titania nota che:

Se imbroncia l'uom, la donna infuria intorno,
Piglia amendue spedito
E conduci la moglie a mezzogiorno
Ed a Borea il marito.15

Mentre intorno ai vecchi sposi:

Musi di mosche e trombe di zanzare
Con i congiunti loro,
Grilli in erba e ranocchi entro le ghiare
Son de' musici il coro,

e passa una folla diversa e bizzarra; un viaggiatore curioso si meraviglia scorgendo in quel luogo Oberon, leggiadro nume, ed un ortodosso dice di lui:

Non veggo coda, non iscorgo artigli,
Pur senz'altro io confesso
Che pari ai tanti dii di Grecia figli
È un diavolo anch'esso.

Ben presto:

Del nubiloso velo il firmamento
Si spoglia e s'asserena;
Mormora fra le canne e i rami il vento
e dilegua la scena

alla quale segue l'ultimo e terribile incontro di Faust e di Margherita.

Nel 1780, Wieland aveva reso popolare il nano in Germania col suo poema Oberon, traendo l'argomento non già dal vecchio poema originale francese, che doveva essere pubblicato solo nel 1860, ma da uno dei rifacimenti della Bibliothèque des romans, che continuava a diffondere con veste moderna la storia di Huon e del nano.

Nel 1826 l'Oberon di Weber fu rappresentato per la prima volta a Londra, e dopo trentun anni a Parigi, dove ebbe un successo strepitoso.

A questo punto debbo notare che, nella faticosa ricerca delle origini di Oberon fra le tradizioni poetiche e mitiche del Medioevo, fu provata la sua stretta parentela col nano Alberico delle tradizioni germaniche, del quale vedremo apparire fra breve la figura più arcaica, per così dire, di quella d'Oberon. Ma mi sembra che questa ricerca sia stata fatta in un campo troppo ristretto, poiché nel Medioevo si trovavano anche molte figure di altri nani bizzarri, affini ad Oberon, nelle tradizioni popolari di tutte le genti indoeuropee, strette da legami indissolubili all'antica grandezza romana.

Lo dimostrerò più tardi parlando dei nani in generale e dei folletti; e credo che la figura di Oberon non rispecchi solamente le credenze intorno ai nani importate fra i Galli dai Franchi, ma pure, in qualche modo, quelle diffuse fra altri popoli, e che dovettero avere le stesse lontanissime origini di quelle germaniche. Mi pare che nello studiare la figura di Oberon non si sia notata come si doveva la mancanza del famoso berretto incantato, della Tarnkappe che rende invisibili, e nella quale trovasi la potenza e la forza dei nani, a cominciare da quelli famosi della poesia germanica fino ai più volgari folletti, nell'esistenza dei quali crede ancora il popolo, come vedremo, in tanta parte d'Europa.

Oberon non ha neppure l'anello famoso che possiede la stessa virtù, e che sarà celebrato anche nella nostra poesia cavalleresca sia che si trovi nelle mani imbelli di Angelica, sia in quelle fortissime di Bradamante; e si direbbe che il trovèro, al quale non mancava una fervida immaginazione, abbia voluto essere in qualche modo originale nel delineare la figura del nano, da lui trovata certamente nelle tradizioni del popolo, o forse in qualche poema anteriore al suo, con gli attributi che aveva da secoli.

Di questo era capace quando, annoiato come i suoi contemporanei dell'arida poesia carolingia, conobbe la necessità di darle una parvenza di vita con nuovi e meravigliosi elementi. E così tolse ad Oberon il possesso del berretto e dell'anello famosi,16 e mentre ce lo presentava con aspetto quasi angelico, come un essere predestinato al Paradiso, gli diede invece il nappo, tanto affine al vaso sacro dei Celti, al Saint Graal famoso nella poesia cavalleresca già così mutato da quel che era nelle sue origini orientali, prima di diventare il:

...bel nappo d'or fino,
Di fuor di gemme, e dentro pien di vino,

nel quale Rinaldo non ha il coraggio di bere, temendo di perdere quella che era forse per lui una dolce illusione.17

Ed ora, racconterò forse del nano Alberico, il quale diede al re longobardo Ortnit ai piedi delle Alpi le armi che splendevano di notte come la stella mattutina e come il fuoco? Poiché tanto si discute per trovare la sua stretta parentela con Oberon, questi dovrebbe apparirci vicino a lui; ma Laurino, il piccolo re dei nani, è così bello nel suo meraviglioso giardino di rose fra i monti del Tirolo, che mi costringe a parlare di lui prima di volgere ad altro il pensiero.





1 «Morge ot a nom, moult ot cler le visaige, / Cele fu mere Auberon le sauvaige».



2 Les anciens poètes de la France, Huon de Bordeaux. Chanson de geste publiée pour la première fois d'apres les manuscrits de Tours, de Paris et de Turin, par M. M. T. Guessard et C. Grandmaison, Paris, 1860.



3 Gautier, Les Epopées françaises, tom. II, p. 552.



4 «La dame l'ot, si commence à plorer; / Tel duel demainne, nus nel puet acesser. / II. ans en gut, ainc ne s'en per lever; / Souvent regrete Huon le baceler. / Tant a langi que il vint Diu à gré / Qu'il li convint de cest siecle finer».



5 Sul mantello del nano Laurino queste strisce, che forse debbono ricordarci i raggi del sole, sono trentadue.



6 Orlando furioso, canto XX, 35.



7 «Cis petis enfes ki vous a salué, / Que vous avés enfanchon apelé, / Nasqui ançois que Jhesu Cris fust nés».



8 «Les tables truevent et trestot apresté / A grans bacins qui estoient doré. / Lor aporterent li sergant à laver / Et puis se sont tout asis au disner».



9 «Et puis s'escoust, le pel a jus geté: / Li plus biax hom est iluec demorés / Que on péust véoir ne esgarder. / Li enfes Hues en fu tous esfraés».



10 «En Babilone sont maintenant entré, / Toutes les rues emplisent de tos lés. / Et Auberons est ou palais montés; / Hues le voit, si le court, acholer. / 'Sire, fait il, vous soiés bien trové! / De Dieu vous renc. Vc. mercis et gré, / Qu'en si lonc regne m'estes venus tenser'. / Dist Auberons: 'Or laisiés çou ester; / Toujours t'aidrai en fine loiauté, / Tant com vauras par mon consel ouvrer'».



11 «De Huelin li prist a remembrer; / De ses biax iex commença à plorer. / Dient si homme: 'Gentis sires, c'avés?' / Dist Auberons: 'Par foi, vous le sarés; / Il me souvient du las, maléuré, / C'est Huelin, qui j'ai m'amor donné'».



12 Gautier, Les épopées françaises, t. II, p. 552.



13 Rajna, Le origini dell'epopea francese, pp. 425-439.



14 Graf, «I compimenti alla chanson d'Huon de Bordeaux», in Germania, XXVII, 191, 219.



15 Fausto, tragedia di W. Goethe, traduzione in versi del prof. Federico Persico, Napoli, 1861 (questa eccellente traduzione non si trova più in commercio).



16 Si vede, peraltro, che il trovèro non ha potuto liberarsi del ricordo di un anello celebre, e ne troviamo nel poema uno posseduto dal gigante Orgoglioso, del quale Huon s'impossessa. Ma esso ha perduto ogni sua parvenza mitica.



17 Orlando furioso, canto XLI.



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