Maria Savi Lopez
Nani e folletti
Lettura del testo

In Lombardia

«»

In Lombardia

Il giovane re Ortnit era padrone della Lombardia, dalle montagne fino al mare. Aveva la forza di dodici uomini, e la sua potenza superava quella di tutti gli altri re ai quali erano sottoposte le terre latine. Brescia, Verona ed anche Roma gli appartenevano.

I suoi feudatari vollero indurlo a prendere una moglie che potesse regnare degnamente sulla Lombardia. Per cinque giorni sedettero a consiglio, ma non seppero indicargli una principessa che fosse nobile al pari di lui, poiché tutti i re dei paesi vicini gli erano sottomessi, ed egli non poteva sposare una delle loro figlie senza abbassarsi.

Suo Zio Ilias gli disse che conosceva una giovane bellissima e nobile, figlia di un re possente chiamato Machorel, signore di Gerusalemme e di Tiro, che era capitale del suo regno. Ma Ortnit non avrebbe ottenuto mai la mano della fanciulla, perché suo padre uccideva tutti gli imprudenti che osavano chiederla.

Ortnit affermò che avrebbe saputo conquistarla, assalendo con un forte esercito il re Machorel. Il margravio Helmnot di Toscana, il re Ilias, il burgravio Engelwan di Garda al quale ubbidivano valorosi cavalieri, il duca di Troia ed il re di Sicilia e di Puglia offrirono ad Ortnit l'aiuto dei loro eserciti per l'audace e pericolosa spedizione, e si stabilì di aspettare la primavera per far vela sul mare selvaggio.

Invano la bellissima regina, madre di Ortnit, cercò d'indurre il figliuolo a rinunziare alla pericolosa impresa, nella quale poteva perdere la vita. Il giovane le mostrava sempre un grande amore, ma non volle cedere alle sue preghiere. Egli le disse che, a cagione di un sogno fatto, voleva andare presso una roccia per trovare un abito delle tempeste, cioè una forte armatura.

La regina si adoperò per farlo rinunziare a quel proposito, e poiché la volontà del longobardo fu irremovibile, gli diede un piccolo anello che doveva essere prezioso per lui nei rischi di quell'avventura, e gli fece giurare che non lo avrebbe mai ceduto ad altri.

Il giovane Ortnit domandò ridendo alla madre:

– Perché ti è tanto caro quest'anellino?

– Mi è caro per la sua pietra, che ti farà vivere un'avventura, – rispose la madre. – L'oro dell'anello ha poco valore, e tutto il suo pregio sta nella pietra. Se non te lo lascerai sfuggire di mano, tutti i regni diverranno tuoi! Quando andrai verso il lago di Garda, volgerai a sinistra, fra i boschi ed i monti, lungo una parete rocciosa, e guarderai per trovare un tiglio, presso una fontana che scaturisce dal monte. Questo tiglio verde, che si trova sopra un ampio prato, può fare ombra a cinquecento cavalieri. Sotto il tiglio vivrai un'avventura, ma non devi nascondere il piccolo anello, e lascerai che risplenda alla luce.

Il longobardo s'inchinò dinanzi alla cara madre, mise l'armatura e lasciò la città, non permettendo a nessuno di seguirlo. Si diresse verso luoghi alpestri senza strade e senza sentieri, e per ubbidire alla regina lasciava sempre risplendere al sole il piccolo anello d'oro con la pietra.

Ortnit arrivò sopra un prato verde coperto di fiori presso il lago di Garda, e sentì cantare dolcemente gli uccelli. Seguendo su un sentiero le orme di certi piccoli piedi, trovò la fontana ed il tiglio. L'eroe scese da cavallo, e mentre teneva in mano la briglia, si rallegrò nel guardare l'albero, al quale disse sorridendo: – Formi un bel tetto, e non venne mai da un albero ombra più gradevole!

Il re Ortnit, guardando l'erba sotto i rami, vide un fanciullo con un abito meraviglioso. Fra i giovani ed i vecchi non si era mai veduta una cosa simile, e la stoffa dell'abito era adorna di oro e di gemme.

Quando il re vide il fanciullo, che era pieno di gioia, disteso sull'erba, gli chiese: – Dov'è tua madre, e perché sei senza difesa all'ombra del tiglio ? Hai un abito bellissimo, degno di un cavaliere, ed a cagione della tua bellezza non ti farò alcun male. Ah! Se Iddio volesse che tu fossi il mio figliuolo. Dalla tua statura si direbbe che hai quattro anni. Se ti rapissi non acquisterei nessun onore, poiché non vi è chi ti protegga. Dov'è tua madre, caro fanciullo?

Il re Ortnit guardava con molta compiacenza il bambino, e poteva vederlo soltanto in virtù dell'anello che gli aveva dato la regina. Ma poiché era andato in cerca di avventure e non trovava altra preda, volle portar seco il fanciullo, che sembrava addormentato. Ma quando lo prese tra le braccia ebbe da lui un pugno violento.

– Com'è possibile che tu abbia tanta forza? –, gli domandò Ortnit. – Vuoi sfuggirmi?

Intanto lottando con quel fanciullo, che rideva con disprezzo, il re si sdegnava. Questo rese più violenta l'ira di lui, che lo gettò in terra, e benché avesse la forza di dodici uomini, riuscì con molta difficoltà a domarlo. Il re trasse dal fodero la spada e voleva colpire il fanciullo, ma questi lo pregò di lasciargli la vita e di limitarsi a farlo prigioniero, poiché non avrebbe avuto nessun onore uccidendolo.

Il longobardo gli disse: – Non è possibile che tu mi segua come prigioniero. Nessuno crederebbe che ti ho vinto con la forza, e la gente riderebbe di me; eppure non ho mai trovato in un uomo tanta resistenza. Mi faresti vergogna se ti lasciassi vivere! Il fanciullo si gettò ai piedi di Ortnit, promettendo, se gli avesse lasciato la vita, di donargli una corazza lavorata da lui, e migliore di tutte quelle che si trovavano sulla terra. Egli lodò altamente le armi che gli avrebbe date, e descrisse la spada che spezzava tutte le corazze come se non fossero state d'acciaio. Era splendente e si chiamava Rosa. Anche lo scudo e l'elmo promessi erano di mirabile fattura; anzi, nessun cavaliere possedeva un elmo simile.

Il lombardo volle sapere chi fosse il fanciullo, e disse che non l'avrebbe lasciato in libertà, se prima non gli avesse detto il suo nome. Il fanciullo rispose:

– Sono un nano selvaggio, e più di una valle e di una montagna mi ubbidiscono in Lombardia.

– Come ti chiami? –, domandò ancora il re.

– Se vuoi chiamarmi bene, – rispose il nano, – chiamami Alberico.

Ortnit gli disse che non bastava per lui il dono della corazza e della spada, e che gli avrebbe tagliata la testa se si fosse rifiutato di aiutarlo nella conquista di una bella sposa.

Il nano volle sapere se costei era figlia di re e degna di lui. Se Ortnit avrebbe acquistato onore con quel matrimonio, era pronto ad aiutarlo; altrimenti preferiva che gli fosse tolta la vita. Quando seppe chi era la fanciulla, disse che conosceva suo padre, e che avrebbe aiutato Ortnit ad impossessarsi di lei. Ma il longobardo non volle lasciare il nano, chiedendo che gli mostrasse prima l'armatura promessa.

– Ti avverto, – gli disse Alberico, – che non l'avrai finché non sarò libero. Puoi lasciarmi perché sono un re anch'io, ed i miei compagni sanno che sono fedele alle mie promesse. Il mio regno è più grande del tuo, e posseggo sottoterra tutto ciò che voglio. Posso dare molto oro e molto argento, e l'uomo che proteggo è favorito dalla fortuna.

Ortnit si lasciò vincere dalla preghiera del nano, e gli rese la libertà dicendo: – Ora dammi senza indugio quello che mi hai promesso –. Ma Alberico lo pregò di accogliere con benevolenza un'altra sua domanda. Se gli avesse dato il piccolo anello che aveva al dito, sarebbe diventato per sempre suo servo.

– Non posso dartelo, – disse il re, – donerei più volentieri una città ed anche un paese. Me l'ha dato mia madre, e se non lo conservassi perderei la sua grazia.

– A che ti serve la tua forza, – disse il nano, – se hai paura di una donna?

– Da un pezzo ella non mi batte più, – disse Ortnit, – ma se lo facesse ancora, lo sopporterei volentieri. Non voglio darle dispiacere, e tu non avrai l'anello!

– Vuoi lasciarmelo vedere? – domandò Alberico.

– Sì, ma devi giurare che me lo renderai.

Il re non voleva lasciare l'anello al nano prima che avesse giurato; ma questi afferrò la sua mano, e quando ebbe preso l'anello, scomparve dinanzi a lui.

Dove sei andato? – domandò il re.

– Che t'importa? Visto l'anello ti è stato rubato, non lo riavrai in tutta la tua vita. Se tu non avessi posseduto quest'anello, non ti sarebbe mai riuscito di vedermi e di farmi prigioniero. Adesso puoi andartene dove ti pare e piace!

Il longobardo chiese al nano se gli avrebbe dato almeno la corazza e la spada. Egli non volle mantenere la promessa, ed il re Ortnit, dolente di non poterlo inseguire ed atterrare poiché era invisibile, staccò il cavallo per andarsene.

– Chi ti farà aver grazia presso tua madre? – domandò il nano, che soggiunse: – Come ti compiango per le busse che ti darà!

– Posso tollerare tutto da lei, – disse Ortnit.

Alberico l'indusse a fermarsi ancora, e dopo che ebbe da lui la promessa che non si sarebbe adirato, gli rivelò un suo grave segreto, dicendogli che era suo padre. Avendo reso al giovane l'anello, entrò nella montagna, dalla quale trasse fuori una mirabile armatura che depose sull'erba. Era questa così risplendente, che Ortnit non poté guardarla. L'eroe l'indossò con molta gioia, ed era proprio adatta alla sua persona. Non era d'acciaio, ma d'oro, e l'elmo era adorno di gemme. Il re era tanto lieto che si mise a danzare e disse ad Alberico: – Iddio ti rimeriti: in tutta la mia vita non ho mai indossato un'altra armatura che si adattasse così bene alla mia persona!

– Prima che tu venissi, avevo già pensato alle tue armi, – disse il nano. – Adornati con esse, ma se vuoi che ti serva fedelmente, non devi dare alcun dispiacere a tua madre; se la trattassi male, saremmo separati eternamente.

– Te lo prometto, – disse il longobardo, – e debbo renderle grazie, poiché per mezzo suo ho ottenuto queste armi, e fidando in te farò tutto quello che vorrai.

Il re corse lietamente verso il suo cavallo, e il nano si accinse a tenergli la staffa. Ortnit gli disse: – Resterei in piedi un giorno intero, anziché accettare da te quest'umile servigio! – Egli montò a cavallo, e il nano che gli stava allato gli dette lo scudo e disse: – Iddio ti benedica, e quando avrai bisogno di me, ricordati del piccolo anello!

Il re si allontanò dal nano entrando nella foresta, ed era molto contento, così disse: – Ora che sono bene armato per le lotte, dove posso mettere alla prova la bontà della spada e della corazza?

Per tre giorni il re andò errando alla ventura in cerca di un combattimento, ed era tanto eccitato che non gli veniva in mente di riposare. Diceva: – Sono un infelice, poiché non trovo l'occasione di battermi con qualcuno!

In tutto il paese regnava una grande tristezza, perché si temeva che Ortnit fosse morto. Sua madre era immersa in un dolore profondo, e nessuno sapeva consolarla. La nobile regina soffriva molto per l'assenza del figlio, e se non fosse tornato sarebbe morta.

Dopo quattro giorni, il re Ortnit arrivò a cavallo innanzi al suo castello di Garda, sul prato verde, nel momento in cui la stella mattutina splendeva fra le dense nubi, ma il suo elmo e la sua spada non erano meno luminosi della stella. Il custode della torre non riconobbe il re, essendo la sua armatura così fulgente. Ortnit attaccò il cavallo, e mentre spuntava il giorno corse fino al fosso del castello, come se avesse voluto prenderne le mura. Il custode non gli permise di entrare, ed il longobardo gli ordinò di dire ai migliori cavalieri che il re Ortnit era arrivato. Il custode gridò forte: – Perché dormite tutti? Da quattro giorni il padrone è partito! Ora sta qui, dinanzi alla porta, un uomo che sembra acceso dal capo fino ai piedi, e dice di essere il re Ortnit! Egli è certamente uscito dalle mani del diavolo e dall'inferno!

La nobile regina, tanto accorata, si destò, e guardando dalla finestra e vedendo lo splendore abbagliante delle armi, disse: – O tu che ardi come una candela, non risplendono tanto le armi del mio figliuolo!

Tutti gli uomini e le donne che erano al castello s'affacciarono dai merli per vedere quello splendore, ed il burgravio che aveva il comando chiese ad Ortnit: – Chi siete, signore? Dovete dire il vostro nome prima di entrare.

Il re mutò voce, e con forza tremenda rispose: – Sono il vostro signore Ortnit!

– Chi vi ha dato queste armi rilucenti? Non sono quelle del mio padrone.

– Ebbene, – rispose Ortnit, – voglio dire la verità: sono un feroce pagano ed ho ucciso il tuo padrone. Egli mi ha detto i nomi degli uomini che si trovano nel suo castello; sono settantadue e debbono vendicarlo: li aspetterò qui. Vengano pure tutti ad assalirmi!

– Voglio vendicarlo io! – esclamò il burgravio. Intanto la nobile regina si batteva il petto, affranta dal dolore per la morte del figliuolo, e quell'annunzio aveva sparso la tristezza nel castello. Il burgravio, che aveva preso subito le armi, uscì per assalire il cavaliere di fuoco, che resistette alla sua furia e se lo distese ferito ai piedi. Uscì subito dal castello un altro cavaliere, ma Ortnit, lodando la fedeltà dei suoi vassalli, si fece conoscere, e chiese loro perdono della scortesia mostrata. Egli fu ammesso nel castello e corse dalla madre dolente, che lo riconobbe subito perché aveva tolto l'elmo. Ortnit visitò il ferito, gli chiese perdono e promise di compensarlo largamente del male che gli aveva fatto.

– Chi ti ha dato queste armi? – domandò la regina al re, che rispose: – Cavalcai secondo quello che mi dicesti lungo la parete rocciosa, e debbo ringraziarti perché vi sono giunto! – Così ebbe fine la seconda avventura del re Ortnit.

Quando venne il tempo stabilito per la spedizione in Oriente, si raccolsero intorno al re tutti i suoi, ed egli partì, dopo aver affidato la madre ed il regno al margravio Helmnot. I guerrieri valorosi salparono da Messina diretti verso l'Oriente, e quando giunsero in vista di Suder, capitale dei pagani, il capo della nave ammonì Ortnit dicendogli di essere prudente.

Il re non sapeva che cosa risolvere, e si doleva di non avere allato il nano per domandargli i suoi consigli. Allora questi gli apparve, ed Ortnit, salutandolo ad alta voce come padre e signore, lo prese fra le braccia per baciarlo. Alberico l'aveva seguito, essendo nascosto sulla gabbia dell'albero maestro! Mentre il re parlava col nano, invisibile a tutti fuorché a lui, il re Ilias, che l'aveva accompagnato, si segnò impaurito e disse:

– Chi parla con te e ti consiglia? Perché non ti fai il segno della croce, nipote Ortnit?

Il re diede il suo anello allo zio, che rise vedendo Alberico, e gli disse con dolcezza: – Come sei venuto qui, fanciullo? Ahimè, come sono lontani i tuoi genitori! –. Il nano gli disse: – Benché io sia così piccino, porto sulle spalle più di cinquecento anni!

Alberico suggerì ad Ortnit di fingersi mercante, per ingannare i pagani ed aver libero il passo fino al porto; ma il re gli disse che non sarebbe riuscito a farsi capire, poiché non conosceva la loro lingua.

Il nano gli diede una pietra che doveva metterlo in grado, con la sua virtù soprannaturale, di capire e di parlare tutte le lingue. Ortnit non voleva credere ad Alberico, ma avendo messo in bocca la pietra, ebbe subito la prova che aveva detto la verità. Intanto molte galee di pirati pagani, con le vele spiegate, si stringevano intorno a quelle di Ortnit, ed il loro capitano gli domandò: – Chi siete? – Ortnit rispose: – Sono mercante e porto un carico di merci bellissime –. I suoi guerrieri erano nascosti sotto il ponte, e nessuno poteva vederli.

– Chi vi ha permesso di accostarvi tanto? – domandò il pagano. – Avreste fatto meglio se foste andati lontano!

Penso invece di avvicinarmi di più, – disse Ortnit, – poiché non reca danno ad alcuno chi porta mercanzie. Ho le stoffe più belle di Francia e d'Italia, e dovete accompagnarmi sino alla spiaggia, poiché non voglio combattere con alcuno. Quando il governatore della città seppe che le navi di Ortnit erano cariche di stoffe, disse che poteva avvicinarsi liberamente; anzi, volle andargli incontro e fece allestire un galera, dove salì con quaranta trombettieri spiegando, in segno di pace, un vessillo sul quale si vedeva la Croce.

A questo punto debbo notare che in questa parte del poema si rileva una incoerenza nel carattere di Alberico, che dovrebbe sembrarci strana, se non ci provasse lo sforzo fatto dal poeta per dare certe virtù cavalleresche e cristiane al vecchissimo Alberico pagano. Questi voleva prendere con l'inganno, sotto il tiglio, l'anello di Ortnit, ed aveva anche indotto l'eroe ad entrare con l'inganno nel porto dei pagani; ma quando Ortnit gli domandò consiglio per prendere la città, e manifestò il proposito di assalirla mentre i suoi abitanti erano immersi nel sonno, Alberico lo redarguì severamente. Perché voleva commettere la vigliaccheria di aggredire come un traditore coloro che l'avevano accolto con fiducia? Doveva mandare invece una sfida al re Machorel, ed affrontare a viso aperto le sue armi.

Ma poiché Ortnit non sapeva a chi affidare il pericoloso messaggio per il feroce re pagano, Alberico propose di portare la sfida in suo nome. Il longobardo gli disse:

– Ti sono grato di questa proposta, e me ne ricorderò sempre. Debbo aspettarti qui?

– Sì, – rispose il nano, – e tornerò domani –. Egli conosceva tutte le valli, tutti i monti ed i castelli dei pagani, ed arrivò a pié di Montabaur prima che spuntasse il sole, aspettando con impazienza che gli riuscisse di parlare al re Machorel. Questi uscì sulle mura del castello per godersi il vento fresco e l'aria buona, ed Alberico, invisibile, gli gridò per farsi sentire: – O tu che sei in alto sopra di me, dimmi dove si trova il padrone del castello.

– Sono io, – rispose il pagano impaurito segnandosi(!), – chi mi parla senza ch'io possa vederlo? Sei forse il diavolo? Dimmi: che cosa fai qui?

– Vengo a darti un messaggio in nome del mio Dio e del mio padrone, – gli rispose con disprezzo il nano.

– Io non riconosco il tuo Dio, e temo soltanto Apollo e Maometto.

– La tua audacia ti recherà molto danno; dimmi dove hanno il loro paradiso Apollo e Maometto? – Si trovino pure dove vogliono, a me basta che la mia fede renda me ed i miei compagni allegri. – Ebbene, io sono più forte di tutti i tuoi numi!

Dimmi chi ti ha mandato.

– Il mio padrone, per chiederti la mano di tua figlia.

Il pagano si strappò la barba con ira, e disse al nano quale era stata la sorte tristissima di coloro che gli avevano fatto la stessa domanda.

– Non temo le tue minacce, – disse Alberico, – se rifiuti, il re verrà a rapire la fanciulla con un forte esercito, e ti avverto di stare in guardia.

– Ah! Se ti avessi fra le mani, – disse il re Machorel, – ti schiaccerei – ed afferrando un macigno lo gettò nel fossato contro Alberico, benché non lo vedesse. Questi non fu colpito, e disse al re che il suo padrone l'avrebbe impiccato alla porta del castello.

Nell'udire questa minaccia, il pagano gridò tanto forte che tutti i suoi sudditi l'udirono. – Sei matto? – gli disse la regina. – No, – rispose Machorel, – ma mi hanno domandato la mano di mia figlia!

Il pagano ordinò ai suoi guerrieri di correre nel fosso, e di circondarlo in tal maniera che il suo nemico non potesse fuggire. Alberico si nascose dietro le spalle dei pagani e gridò al re: – Proibisci alla tua gente di assalirmi. Nessuno può recarmi danno, ed io invece sono in grado di colpirti.

Machorel disse che non si dava pensiero delle sue parole, e Alberico domandò: – Che cosa debbo dire in tuo nome al mio padrone?

– Come posso rispondergli, – disse il re, – se non ho ricevuto da lui un messaggio scritto?

– Non mi è dato di consegnarti la lettera che non ho! Ma per provarti la mia presenza ricevi questo! – E nel dire tali parole, Alberico gli diede uno schiaffo tanto forte che tutti ne udirono il rumore.

Machorel divenne furioso, e fu legato dalla sua gente. La moglie e la figlia s'inginocchiarono pregando Apollo e Maometto. In questo modo, il nano Alberico domandò la mano della fanciulla, e quando lasciò il castello, nessuno poté colpirlo, nonostante gli tirassero dietro molti sassi.

Il nano, tornato presso Ortnit, gli raccontò quanto era accaduto, e poiché era necessario prendere con la violenza la fanciulla, venne stabilito che i cristiani avrebbero dato l'assalto alla città, prima di muovere verso il castello di Machorel.

Ortnit avrebbe commesso un'imprudenza, facendo accostare troppo le sue navi alla riva, e Alberico deliberò di rubare ai pagani molte barche per trasportare i guerrieri cristiani. Seguìto da Ortnit e da Ilias, prese cinquecento barche, e quelli che le custodivano furono ingannati, credendo che il vento le avesse spinte in alto mare. Trentamila uomini discesero nella notte sulla spiaggia; poi il longobardo chiese consiglio ad Alberico, e questi gli suggerì il modo migliore per prendere la città.

Il re Ortnit volle che suo zio Ilias portasse il vessillo, ed entrò in Suder suonando il corno. I pagani che custodivano questa città erano sessantamila, ed incominciò una crudele battaglia. Quando la vittoria arrise finalmente a Ortnit, il feroce Ilias continuava a fare strage in mezzo ai pagani, uccidendo anche quelli che volevano convertirsi. Invece Ortnit, aiutato da Alberico, ne battezzò molti.

Quando Ortnit si mosse per andare ad assalire il castello del re Machorel, solo quindicimila uomini lo seguivano. Alberico, il quale conosceva la via, volle portare il vessillo reale, e disse ad Ortnit: – Se ti domandano chi lo porta, dirai che è un angelo.

Ortnit mise dinanzi a sé sopra il proprio cavallo il nano, sempre invisibile, che portava con molta superbia il vessillo, indicando la via agli eroi alla testa dell'esercito.

Tutti gli Italiani, facendosi il segno della Croce, dissero al re: – Non vuoi segnarti? Non vedi il miracolo? Chi porta lo stendardo sul tuo cavallo?

Ilias ed Ortnit risero molto, perché essi soltanto vedevano il nano. Il longobardo disse: – È un angelo di Dio, e ci guida fino al castello di Montabaur. Quelli che moriranno in battaglia saranno portati da lui in Paradiso.

I Longobardi si rallegrarono molto, e dissero: – Combatteremo tutti volentieri, se è vero.

Quando l'esercito giunse ai piedi del castello, Alberico volle che si accampasse in un vasto prato. Fra le tende splendeva quella del re Ortnit. Il campo era tanto vicino al castello che Ortnit temeva le armi dei nemici, i quali potevano colpirli dall'alto delle mura. Ma il nano gli disse: – Non temere, perché getterò quelle armi nel fosso –. Infatti andò sulle mura del castello e gettò le armi, mentre i pagani gridavano: – Ecco, è venuto il diavolo e ci ha involato quanto ci occorreva per difenderci! È meglio, re Machorel, che tu dia la fanciulla al re che la domanda, anziché lasciarci uccidere tutti! Anche la regina lo pregò di accettare la domanda del re straniero, ed il pagano adirato le diede un pugno sulla bocca. Alberico, il quale assisteva a quella scena senza essere visto, minacciò di nuovo Machorel dicendo che Ortnit l'avrebbe impiccato ai merli del castello, se si fosse ostinato nel rifiuto. Machorel disse che non avrebbe ceduto mai, e fece gettare contro il nano picche e bastoni.

Il giorno seguente ebbe principio una feroce battaglia fra le genti di Ortnit ed i pagani, e mentre si combatteva sotto le mura del castello, la madre della fanciulla la condusse nel tempio per pregare gli dèi. La fanciulla era molto addolorata, e si batteva il petto perché temeva per la vita del padre. Nel tempio, Alberico le prese la mano senza lasciarsi vedere. La fanciulla disse: – Chi mi prende con forza la mano? Lasciami! Sei forse Apollo o Maometto? Se sei il mio nume, liberami dalle mie paure.

– Sono un messaggero del cielodisse il nano.

Devi fuggire, perché se resti qui, i miei numi si vendicheranno.

– Io sono più forte di tutti i tuoi numi!

– Che cosa devi dirmi? – domandò la fanciulla.

– Tu diverrai regina d'Italia!

– T'inganni! Sono nata in paese pagano e qui voglio morire. Resterò presso i miei genitori.

– Questo non avverrà, – disse il nano, – e ti opponi inutilmente al volere di Dio: se respingi il longobardo perderai la tua bellezza. Invano Alberico parlò ancora alla fanciulla del vero Dio e cercò di convertirla; ma, riuscendo vane le sue ammonizioni, si avvicinò ad una finestra per vedere la battaglia. Quando scorse i re Ilias ed Ortnit che facevano strage in mezzo ai pagani, chiamò la fanciulla affinché vedesse la sconfitta della sua gente, e di nuovo le disse che se non voleva convertirsi e sposare il longobardo, suo padre sarebbe stato ucciso.

La fanciulla e sua madre furono atterrite, ed Alberico insistette perché non venisse più respinta la domanda del re Ortnit. La fanciulla persisteva nel diniego, e disse al nano: – Finora non hai avuto il coraggio di toccare i miei numi!

Alberico prese subito le statue di Apollo e di Maometto e le gettò nel fosso. Ilias le vide cadere, e capì che ciò era avvenuto per opera del piccolo nano. Pochi pagani erano rimasti ancora in vita sul campo di battaglia, e la fanciulla disse ad Alberico: – Cerca di salvare mio padre e di mettere fine alla battaglia; ed io ti prometto che farò tutto quello che vorrai; ma desidero vedere prima il longobardo.

Guarda, – disse Alberico, – il cavaliere che fa strage in mezzo ai pagani: le sue armi splendono più di tutte le altre, ed egli precede i suoi tenendo in mano la spada sanguinosa.

La fanciulla permise ad Alberico di portare come pegno d'amore il suo anello ad Ortnit, purché cessasse il combattimento. Il longobardo accolse con gioia la sua preghiera e depose subito le armi, mentre il feroce Ilias, che pareva felice in mezzo al sangue, voleva continuare la battaglia, e destò l'ira di Alberico.

Fu stabilito che Ortnit ed Alberico avrebbero rapito la fanciulla, mentre Ilias, con i cinquanta Italiani rimasti in vita, sarebbe stato pronto a difenderli in caso di pericolo.

Quando Ortnit ed Alberico arrivarono a piedi del castello, questi disse all'eroe di aspettarlo, ed essendo entrato senza che nessuno lo vedesse, si avvicinò alla fanciulla, dicendole che era giunto per lei il momento di mantenere la sua promessa. La regina le permise di seguire il nano, che la condusse fuori delle mura presso Ortnit. Questi, che era stanco dopo la battaglia, dormiva in sella, ed Alberico lo chiamò prima sottovoce, ma poi, vedendo che non si destava, gli diede parecchi pugni dicendo: – Svegliati, ecco la tua sposa!

Il longobardo fu molto felice nel vedere la bellissima fanciulla, ed espresse il desiderio di baciarla mille volte. Alberico gli disse: – Te lo permetterò, ma non prima ch'ella sia battezzata.

Ortnit e la fanciulla fuggirono a cavallo, ed Alberico si divertì ad ingannare i pagani, affinché i fuggitivi non fossero molestati. Riportò gli idoli nel castello, e rendendosi invisibile vicino alla statua di Maometto, parlò, lasciando credere ai pagani che fosse la statua a parlare: – Inginocchiatevi tutti e pregate, poiché l'intercessione della principessa ha fatto ritornare i vostri numi nel castello. Vedete bene che siamo di nuovo in mezzo a voi, ma non dovete inseguire la fanciulla.

In questo modo, Alberico ingannò i pagani, prima di tornare presso Ortnit. Un ciambellano andò ad avvertire il re Machorel del ritorno di Apollo e di Maometto. Questi, non trovando pace dopo la fuga della fanciulla, mandò dodicimila uomini ad inseguire il rapitore.

Il cavallo del longobardo era molto stanco, e non poteva fuggire velocemente innanzi ai guerrieri di Machorel. Ortnit, nel grave pericolo, domandò consiglio ad Alberico.

– Non avevo pensato a questo! – disse il nano, e fece spronare il cavallo ad Ortnit, affinché potesse giungere in un luogo paludoso dove non gli sarebbe difficile combattere contro molti assalitori, mentre egli sarebbe andato a chiamare Ilias ed i suoi guerrieri.

Ortnit, giunto nel luogo indicato da Alberico, smontò da cavallo, attraversò un fiume portando fra le braccia la fanciulla, e stette sull'altra riva ad aspettare i nemici, che non potevano assalirlo in gran numero a causa del terreno infido. Egli uccise tanti pagani che i loro corpi ingombrarono il letto del fiume, ma poi, venendogli meno le forze, propose al re Machorel di rendergli la figlia, purché gli lasciasse la vita!

Il pagano voleva ad ogni costo uccidere il longobardo, e questi, rianimandosi alquanto, prese di nuovo a difendersi, ma finalmente Ilias giunse in suo soccorso e sconfisse l'esercito di Machorel. Ortnit rimontò a cavallo con la fanciulla, e senza fare altri brutti incontri, giunse sulla riva del mare. Ortnit s'imbarcò con la sua gente e condusse la sposa a Messina, e di nel suo castello di Garda, dove furono celebrate grandi feste.

Il re Machorel era sempre immerso in un dolore profondo, e non sapeva in qual modo vendicarsi, quando un cacciatore andò a visitarlo, dicendo che aveva trovato il mezzo di uccidere il re Ortnit. Fingendo di essere mandato al longobardo dal suocero, come messaggero di pace e di letizia, avrebbe portato seco una cassa contenente certe uova di draghi. Egli avrebbe fatto schiudere quelle uova in un antro fra le montagne, nel paese del re Ortnit, e più tardi i draghi, spargendo il terrore, sarebbero stati cagione della sua morte. Il re pagano donò molti tesori al cacciatore, il quale compì quanto aveva promesso. Uno dei draghi feroci si accostò al castello di Garda, ed il re Ortnit, che il poeta ci mostra molto addolorato pensando di dover lasciare la moglie, decise di andare ad assalirlo. Dopo una scena pietosa fra lui e la moglie, che gli dimostrava un grande amore, Ortnit uscì dal castello. Egli aveva seco l'anello che gli permetteva di vedere il nano. Avendolo incontrato per via, gli domandò consiglio. Alberico gli disse che era matto ad esporsi a quel pericolo, ma quando vide che Ortnit non si lasciava persuadere dalle sue parole, volle da lui il piccolo anello incantato, promettendo che l'avrebbe reso se Ortnit fosse tornato.

Egli raccomandò a Ortnit di non lasciarsi vincere dal sonno, poiché, se gli fosse riuscito di combattere contro il drago, l'avrebbe vinto; ma se questo l'avesse sorpreso nel sonno, il suo valore non gli sarebbe servito a nulla per salvarlo dalla morte. Ortnit gettò sull'erba l'anello del nano, che era molto triste.

L'eroe andò cercando il drago fra le montagne presso il lago di Garda, e poiché non gli riuscì di trovarlo, fu vinto dalla stanchezza e si addormentò. Il suo cane fedele, che l'aveva seguito, non lo lasciò, e quando vide che il drago si avvicinava, fece quanto poté per destare il padrone, ma non vi riuscì.

Il drago uccise il re Ortnit e lo trasportò nella sua caverna presso i piccoli draghi affamati, i quali ne succhiarono il sangue, mentre indossava ancora l'armatura che gli aveva dato il nano. In questo modo ebbe fine l'ultima avventura del re Ortnit.

Quando il cane tornò solo nel castello di Garda, si capì che il re Ortnit era stato ucciso, e la povera bestia si mise a tirare gli abiti della gente lacerandoli, perché voleva che si andasse nella caverna del drago dove era rimasto il suo padrone! La madre del re Ortnit morì di dolore, e sua moglie rimase sola nel castello, piangendo colui che aveva tanto amato.

Si potrebbe credere che il poeta di Ortnit abbia notato soltanto quello che gli dettava la sua fantasia, quando ha parlato del sonno profondo che cagiona la morte dell'eroe. Credo che invece questo sonno debba ricordarci quello della Walkiria destata da Sigurd. Esso è il simbolo del sonno lunghissimo della natura nell'inverno. Nello stesso modo si addormentavano certi eroi famosi dell'epica russa, ed il loro sonno profondo durava tre, oppure, nove giorni. Nel racconto in cui si narra di Bove Korelevitch, il quale altri non è che il Beuve d'Hanstone del ciclo carolingio, questo eroe si lascia vincere dal sonno chiamato eroico nell'epica russa. Mentre dorme, un leone viene ad assalire sua moglie, la principessa Drojnevna ed i suoi bambini, che si trovano con lui all'aperto. Polkane, fratello d'arme di Bove, combatte contro il mostro, l'uccide, ma è ferito gravemente e muore. Bove continua a dormire; la principessa atterrita fugge con i bambini. Quando l'eroe si desta e vede il cadavere dell'amico ed il leone morto, crede che sua moglie ed i bambini siano stati divorati.

Più tardi, quando Bove deve sposare una principessa saracena, sua moglie va a ritrovarlo con i figli, ed egli l'accoglie con molta gioia.20

L'Ortnit, che è uno dei migliori poemi della poesia germanica del Medioevo, appartiene a quel ciclo nuziale svoltosi principalmente sulle spiagge del mare del Nord, nel quale si raccontano portentose avventure di cavalieri per la conquista di una sposa. Il più bel poema di tutto il ciclo è quello in cui campeggia la dolce figura di Gudrun, ma i principi che si contendono la mano e l'amore di questa fanciulla, gentile come Nausicaa e fedele come Penelope, sono veri pirati, audaci e fortissimi, che le leggi della cavalleria e la nuova fede non hanno ancora mutato tanto da renderli dissimili dai loro avi feroci e pagani, e non hanno certe debolezze che troviamo nel carattere di Ortnit.

Pare che il poeta austriaco o bavarese dell'Ortnit abbia scritto il poema intorno al 1225, ma non ci è possibile conoscere le fonti poetiche della sua opera come conosciamo le antiche leggende mitiche dalle quali essa è in gran parte derivata, al pari di tutti i poemi del ciclo nuziale germanico.

Ho già detto che molto si discute intorno a certe somiglianze che vengono notate fra Oberon ed Alberico, padre del re Ortnit. Vi è chi vuole dimostrare la loro stretta parentela, e chi dice che Oberon è derivato da Alberico, o viceversa, ma non mancano i sostenitori dell'assoluta indipendenza dei due poemi. Gaston Paris, che è di quest'ultimo parere, spiega la somiglianza fra i nani affermando che le loro figure derivano da una stessa tradizione germanica. Il Rajna dice che le sue opinioni hanno su quest'argomento molta affinità con quelle di Gaston Paris.21 In ogni modo, non è possibile che io esponga nei limiti di questo lavoro quanto si è detto intorno ad Alberico e ad Oberon. Noterò solo che non possiamo negare la fratellanza di tutti i nani della poesia medioevale, derivati dalle medesime origini mitiche, e credo che nella prima parte dell'Ortnit il poeta, rimaneggiando un altro poema, abbia lasciato che Alberico appartenesse ancora in modo palese al vecchio mondo eroico, al quale si collegano così strettamente altri nani famosi della poesia medioevale; ma poi, lavorando con la propria fantasia intorno alla figura del nano, ce lo mostri infiacchito e ben diverso dallo stesso Oberon, benché questi ci appaia nella fase di decadenza della poesia cavalleresca.

Alberico, che nel suo primo incontro col re Ortnit era tanto così possente, cade dunque dall'alto dopo breve tempo. In quale modo ci mostra, allora, di avere in sé la forza e la grandezza dei suoi antenati gloriosi? Dove sono i centomila uomini che Oberon faceva apparire a suo piacimento? Dov'è l'epica grandezza del piccolo Laurino? Alberico, che si nasconde sulla gabbia dell'albero maestro, che fa indispettire Machorel e si diverte ad ingannare i pagani riportando in mezzo ad essi le statue di Apollo e di Maometto, è già divenuto una specie di trastullo nelle mani del poeta, perché questi ha finito col vedere nel nano un fratello dei piccoli folletti che fanno ammattire la gente, e che si ritrovano anche in certi poemi cavallereschi col loro aspetto volgare. Ma se la trasformazione di Alberico nuoce alla sua importanza ed alla sua gloria, essa rende più dilettevole il racconto, e questo non poteva dispiacere al suo poeta ed ai semplici uditori che ascoltavano le portentose avventure del re Ortnit.

In ogni modo, leggendo l'Ortnit s'intende che la cavalleria è vicina a morire, e che i vecchi nani possenti e forti spariscono già dietro le schiere non meno antiche dei folletti irrequieti e birichini, ai quali è destinata una vita molto più lunga in mezzo al volgo delle campagne e delle città. Invece, leggendo l'Huon de Bordeaux, se possiamo notare, come già dissi, che la figura di Carlomagno è avvilita e schernita, e che la poesia cavalleresca cerca di rinnovarsi con la fusione di due grandi cicli, vediamo che invece la figura di Oberon, anche nella sua stentata trasformazione cristiana, conserva ancora la grandezza epica di un antico mito pagano; e mentre la fantasia del poeta francese le ha dato, in mezzo al succedersi di strane avventure, un'attrattiva nuova e adatta ai suoi tempi, non ha mai voluto svilirla. Avviene dunque che Oberon, il quale trionfa innanzi a Carlomagno e a tutta la sua corte, può essere un fratello maggiore di Alberico, ma non è certamente derivato da questo povero nano, che guarda con tanta tristezza il re Ortnit che va a combattere i draghi e non può salvarlo dalla morte!

Nel poema Wolfdietrich, seguito dell'Ortnit,22 si parla ancora, ma brevemente, delle armi e dell'anello famoso di Alberico. L'eroe Wolfdietrich, che ha questo nome perché venne nutrito da una lupa, combatté contro Ortnit quando questi viveva con la sposa nel castello di Garda; poi strinsero insieme una grande amicizia. Dopo molte avventure, Wolfdietrich, al quale veniva contesa dai fratelli l'eredità paterna, tornò al castello di Garda e conobbe la triste fine del re Ortnit. Andò alla ricerca del drago fra le montagne, ebbe la gloria di ucciderlo al pari dei piccoli draghi, e ritrovò nella caverna dove essi vivevano la buona spada del re Ortnit, e l'anello che questi, rinchiuso ancora nella forte armatura, portava al dito. Quando Wolfdietrich ebbe dato sepoltura al re, portò seco l'anello e le armi. Altre avventure gli impedirono di tornare subito nel castello di Garda, e di far nota la sua vittoria alla regina Liebgard, vedova di Ortnit, che aveva promesso la sua mano a colui che avesse sconfitto il drago. Quando finalmente Wolfdietrich andò nella terra dei Longobardi, vi trovò molta allegria per la morte dei draghi, e perché si celebravano le nozze della regina col cavaliere che aveva vendicato il re Ortnit e liberato il paese dai suoi spaventevoli nemici.

Wolfdietrich si adoperò affinché l'anello di Alberico fosse messo in una coppa di vino data alla regina Liebgard. Questa sedeva nella gran sala del castello di Garda, fra le dame e i cavalieri raccolti insieme nel giorno solenne delle sue nozze, e le stava allato un conte possente che si vantava di aver ucciso il drago ed i suoi figli. Come prova della vittoria aveva portato nel castello di Garda la testa del mostro. Quando la regina vide l'anello nella coppa si mise a piangere, ed il conte si adirò poiché la festa veniva turbata da quell'incidente.

Allora Wolfietrich si fece conoscere, e poiché aveva seco i denti da lui strappati al drago dopo averlo ucciso, svelò l'inganno del conte. Egli sposò la regina Liebgard, e da uno dei loro figliuoli discese Teodorico di Verona!

Le armi di Alberico ritrovate nella caverna del drago non furono cagione di sventura per Wolfdietrich, il quale, dopo le nozze con Liebgard, poté riconquistare il suo regno di Costantinopoli. Nell'Ortnit, invece, possiamo notare che l'ignoto poeta di Alberico, che fu certamente più colto di quello di Laurino, e forse meno ingenuo di quello di Oberon, ritornò alle fonti mitiche del suo racconto quando, dopo aver fatto di Alberico una specie di buffone, lasciò che le armi da lui date ad Ortnit non servissero a salvarlo dalla morte.

Così il nano si avvicinò di molto ad Efesto, il quale non riuscì con la sua mirabile opera ad allontanare da Achille l'ora estrema.

Eppure, Alberico non maledisse le armi date ad Ortnit, come Efesto non maledisse quelle date a Teti, e vedremo più tardi per quale ragione si trovi spesso un'influenza malefica nell'opera e nei doni dei numi che rappresentano le forze del mondo sotterraneo.

Queste armi di Alberico, famose nella poesia germanica, non portarono sventura soltanto al re Ortnit, e le ritroviamo, col loro potere nefasto, nel Viaggio di Ecke (Ecken Ausfahrt). Al principio del poema vediamo riuniti, come nel Re Laurino, alcuni eroi che vantano le imprese di Teodorico di Verona. Il giovine Ecke, nel quale Cox23 vuole trovare una certa relazione con Paride e con l'Hagen dei Nibelunghi, si sdegna nell'udire le lodi del Veronese, e dice che vuole cercarlo in ogni terra per ucciderlo o essere ucciso da lui.

Tre belle regine odono le parole del valoroso Ecke assetato di gloria. Una di esse, la regina Seburk, che non conosce Teodorico, s'accende di amore per lui, e brama ardemente di vederlo. Ella promette ad Ecke la più bella corazza che si trovi nel mondo, e che apparteneva al re Ortnit di Lombardia. Questi l'indossava quando un drago lo trovò addormentato presso le rocce e lo trasportò nella montagna, dove i piccoli draghi ne succhiarono il sangue attraverso l'armatura. L'eroe Wolfdietrich di Grecia conquistò queste armi del re Ortnit, e quando si fece frate le donò al suo convento, nel quale espiò in una notte le sue colpe con una penitenza superiore a tutte le altre, poiché lottò con le ombre di coloro che aveva uccisi fin dalla sua fanciullezza. In quel convento la regina Seburk ha comprato l'armatura per 50.000 marchi. Essa è di duro acciaio e d'oro, è stata fatta in Arabia e vale un regno. Nel darla al giovane Ecke, la regina Seburk vuole ch'egli le prometta di lasciare in vita Teodorico, se l'incontrerà nel suo viaggio. Ecke dice che il re avrà salva la vita, se gli consegnerà la sua spada, ma non crede che Teodorico si piegherà a questo, essendo la sua fama così grande.

Ecke indossa la meravigliosa armatura, descritta minutamente nel poema, e gli viene promesso come premio della vittoria l'amore di una delle tre regine, che sceglierà al suo ritorno. Egli vuole andarsene a piedi alla ricerca di Teodorico, perché non crede che il miglior cavallo possa reggere sotto il suo peso. Invano la regina insiste, e dice che si parlerà male di lei, credendo che gli abbia dato soltanto le armi senza un cavallo. Egli non cede, e parte come un leopardo che balzi fra i boschi, mentre le sue armi risuonano fino a grande distanza come una campana.

Le fiere sono spaventate da quel fragore, e gli uccelli si destano; tutti fuggono dinanzi a lui.24 Finalmente Ecke arriva a Verona; mentre passa per strada la gente fugge, poiché la sua corazza risplende come il fuoco. Il suo scudo e l'elmo mandano faville come carboni accesi. La gente dice: – Chi è costui che sta in mezzo al fuoco? S'egli si ferma in qualche luogo, la città intera sarà incendiata!

Ecke domanda ad alta voce dove si trovi Teodorico di Verona, che egli cerca perché deve condurlo presso certe regine belle e nobili, che bramano di vederlo. Il vecchio Ildebrando si meraviglia, perché il giovane armato in modo così splendido non è a cavallo. Teodorico non si batte con quelli che vanno a piedi, e poi non si trova in Verona; è andato nel Tirolo. Ildebrando cerca di distogliere Ecke dal proposito di combattere contro di lui, ma il giovane non cede. Passa l'Adige per andare fra le montagne, e tutta la gente che incontra lo guarda con meraviglia, perché le sue armi splendono sempre come il sole. Dopo diverse avventure, fra le quali è notevole la lotta di una specie di centauro con Ecke, il quale l'uccide con la sua buona spada, il giovane eroe s'incontra di notte con Teodorico in una valle oscura, dove le loro armature somigliano al sole ardente.

Teodorico non si accorge subito della presenza di Ecke, e credendo che tutta la luce sia prodotta dal proprio elmo esclama: – Come sei bello! Il fabbro che ti ha fatto doveva essere libero da ogni dolore. Più diventi vecchio e più risplendi! – Mentre l'eroe parla, vedendo che il giovane avanza è disposto a salutarlo con molta cortesia. Ecke gli dice che ha fatto un lungo viaggio per incontrarlo, e che deve parlargli di tre regine nobili e ricche che vogliono vederlo; poi lo sfida, e soggiunge che, se sarà vinto da lui, perderà le sue armi, più ricche di quelle portate dal figlio di un imperatore. Teodorico, il quale si mostra spesso arrendevole e mite nella poesia germanica, prima che un'ira terribile si accenda nell'animo suo cerca di evitare il duello; ma Ecke non si lascia piegare dai suoi ragionamenti, e per indurlo a combattere vanta le armi che indossa, e che il re Ortnit portava quando i draghi succhiarono il suo sangue.

Finalmente le offese di Ecke inducono Teodorico ad accettare la sfida, ma egli prega il giovane di aspettare che passi la notte, affinché il duello abbia luogo alla luce del sole. Ecke non vuole rispettare quel diritto della notte, in nome del quale gli araldi separarono Ettore ed Ajace quando più aspri erano i loro colpi e più terribile era la pugna. E come avvenne più tardi, quando Orlando ed Agricane lottarono insieme per amore di Angelica:

Nel verde prato, ne la notte bruna,25

Ecke e Teodorico vengono alla prova delle armi. Sotto i colpi violenti che si danno, esce dalle loro armature un fulgore più vivo. All'alba, quando gli uccelli incominciano a cantare, la corazza di Ecke e l'elmo di Teodorico vincono col suono le loro voci; le aste delle lance s'infiammano fra le scintille che escono dagli elmi, il fumo sale fra gli alberi come una nube.

La corazza di Ecke, forte come una montagna, non salva il giovane dalla morte come non ha salvato Ortnit: Teodorico l'uccide, ed è rosso in volto per la vergogna dopo quella vittoria, pensando all'età del suo nemico. Egli esclama di non aver mai veduto un eroe correre incontro alla morte come ha fatto Ecke. Dopo essersi lamentato a lungo per quella morte, Teodorico, che è gravemente ferito e sarà curato da una specie di ninfa, prende le armi di Ecke.

La figura di questo giovane cavaliere, che indossa le armi luminose di Alberico e risplende nella notte come il re Ortnit quando arrivò dinanzi al suo castello di Garda dopo l'incontro col nano, fu molto popolare in Germania nel secolo XIII, e la grandezza epica del suo carattere, lo splendore soprannaturale delle sue armi furono giudicati dai menestrelli degni dei loro canti.

Il Cox26 ritrova nella regina Seburk la ninfa Eco, che sospira per Narciso, e dice che potrebbe anche essere l'Aurora che prega perché Ecke lasci la vita al sole, rappresentato da Teodorico. A dire il vero, non credo che si possa ritrovare in modo chiarissimo in Seburk questo o quel mito, benché i personaggi del Viaggio di Ecke siano tutti mitici. Mi sembra più facile trovare nelle armi fatte dal nano e nella lotta fra gli eroi sfolgoranti una ragione seria ed evidente per collegare il poema ad un'origine lontanissima. E, nelle frequenti relazioni del Teodorico della poesia germanica con i nani, possiamo anche avere una delle prove più importanti del suo significato mitico, benché gli ingenui poeti del Medioevo cerchino spesso di presentarci in lui il Teodorico della storia, del quale ha usurpato il nome.

Nel poema Il gigante Sigenot (Reise Sigenot), di molto inferiore al Viaggio di Ecke, Teodorico deve la sua salvezza ad un nano. L'eroe incontra un gigante che dorme in un bosco e lo desta. Teodorico porta un elmo che apparteneva ad un certo Grein, nipote del gigante. Questi lo riconosce, e combatte contro l'eroe perché ha ucciso Grein. Teodorico è vinto, e il gigante lo trascina presso un fosso, nel quale lo getta. Ildebrando accorre, combatte col gigante, è quasi vinto da lui, ma poi l'atterra e lo ferisce gravemente.

Teodorico soffre molto nel fosso, dove si trovano grossi serpenti, e Ildebrando, dopo la sconfitta del gigante, non può dare nessun aiuto efficace al suo signore. Seguendo però il consiglio di Teodorico, taglia i propri abiti e fa con essi una fune che getta nel fosso. Mentre tira su Teodorico, la fune si spezza, l'eroe ripiomba nell'orribile prigione, e vi resta così malconcio che si dispera di salvarlo. Ildebrando vede sulla montagna un nano chiamato Eggerick; questi dorme, ma l'eroe l'afferra per la barba e col suo aiuto trova una scala, che gli serve per salvare Teodorico. La notte che l'eroe ha passato nel fosso gli è sembrata della lunghezza di trent'anni.

La breve prigionia di Teodorico nel fosso ricorda quella che soffrì nella montagna vuota di Laurino. In questa prigionia possiamo trovare il simbolo della vittoria che l'oscurità della notte ottiene quando la luce del sole non rallegra la terra. Ma anche nel Gigante Sigenot il poeta non conosce né questo simbolo, né le sue origini, e segue in gran parte la sua fantasia! Nel poema Il Re Rother (König Rother), che appartiene al ciclo nuziale germanico al pari dell'Ortnit, il consigliere del re per la conquista della sposa non è un nano, come Oberon ed Alberico. Il poeta del Re Rother, nella redazione del poema che ci rimane, è forse stato un frate al quale non piaceva indugiare, come usarono altri poeti suoi contemporanei, nel racconto di lotte sanguinose. Forse questa sua qualità dovette anche indurlo a non dare per consigliere al re Rother un nano, credendo che vi fosse qualche cosa d'infernale in questi esseri strani, celebrati con tanta compiacenza nella poesia della sua gente e così popolari in mezzo ad essa.

Già vedemmo con quanta cura i poeti di Oberon, di Laurino e di Alberico cercarono di collegare in qualche modo questi nani al cristianesimo, per mettere alquanto nell'ombra la loro origine pagana. Il poeta di Rother andò ancora più lontano. Egli lasciò che i giganti apparissero per aiutare i guerrieri cristiani, ma nell'opera sua il consigliere del re è il vecchio eroe Berter o Berker, padre di dodici figliuoli, uno dei quali è già morto per la fede cristiana combattendo eroicamente contro i pagani. Eppure, credo di non ingannarmi vedendo in Berter uno stretto parente di Alberico, poiché Rother non sarebbe stato capace di compiere l'impresa senza seguire i suoi consigli, e questi gli fanno usare l'astuzia e l'inganno.27

Anche una parte dell'azione del Re Rother si svolge in Italia, e la redazione che ci rimane di esso appartiene forse alla prima metà del secolo XII. Allora da gran tempo i Goti di Teodorico ed i re longobardi non imperavano più nel nostro paese, e già la gloria dei liberi Comuni italiani diradava le tenebre della barbarie che erano discese su di noi. Ma i poeti popolari di una parte della Germania si compiacevano ancora nel ricordare i gloriosi conquistatori, le città vinte, i regni creati con la forza delle armi.

Anche il re Rother, come Ortnit, aveva dunque il suo regno in Italia; egli dimorava nella sua città di Bar,28 molti re erano suoi vassalli, ed egli superava in gloria tutti quelli che avevano ricevuto la corona a Roma.

I cortigiani dissero a Rother che doveva prendere moglie, e vantarono la bellezza di una fanciulla, figlia di Costantino, re di Costantinopoli. Rother, al pari di Ortnit, non si lasciò sgomentare dalla difficoltà dell'impresa, ed accettò volentieri i consigli di Berter per ottenere la nobilissima fanciulla. Fu stabilito di mandare gli eroi Lupolt ed Erwin, figli di Berter, con altri cavalieri valorosi a Costantinopoli. Essi, montati su cavalli bianchi e coperti d'oro e di gemme, entrarono nella città, ed in nome del loro re chiesero per lui a Costantino la mano della figliuola, ma furono gettati in un'orribile prigione, e Costantino s'impossessò dei tesori che avevano portato nelle navi.

Rother, ansioso sulla loro sorte, passò tre giorni e tre notti seduto sopra un sasso, non sapendo a quale partito attenersi per conquistare la bella sposa, che non aveva potuto ottenere con la pace e la letizia. Durante quei tre giorni non parlò con alcuno; poi chiamò il vecchio Berter per avere i suoi consigli. Questi gli disse che doveva partire col suo esercito per assalire gli Ungari ed i Greci.

Venne chiamato allora per aiutare il re Rother il gigante Asprian, e quando costui giunse con i suoi compagni, Berter si rallegrò della loro venuta. Ma poiché questi faceva presso Rother la parte del nano, non era possibile che il re assalisse apertamente i suoi nemici, e si doveva tessere l'inganno immaginato da lui.

Per questa ragione, Rother, imbarcatosi con l'esercito per andare a Costantinopoli, chiamò i suoi capi, ai quali disse che dovevano tutti per la propria salvezza usare l'astuzia, e li fece giurare di non chiamarlo più Rother, ma Teodorico.

Giunto con i suoi cavalieri innanzi a Costantino, il falso Teodorico si dolse acerbamente del re Rother. Costantino, di mala voglia e per timore, lasciò che il giovane restasse alla sua corte. Rother, il quale conosceva la dolce arte del canto e suonava l'arpa, ebbe occasione di farsi conoscere dalla giovane principessa. Questa volle che le provasse in modo sicuro di essere il re Rother, e la prova si poteva avere soltanto per mezzo dei prigionieri. La fanciulla ottenne dal padre che fossero liberati, e quando la luce entrò nella prigione, dove gli infelici erano da tanto tempo fra le tenebre, avvenne una scena commovente. Erwin, figlio di Berter, fu il primo ad uscire, ed il padre, che non poteva ancora farsi riconoscere da lui, si addolorò profondamente nel vederlo in uno stato compassionevole, vestito di cenci. Anche Rother tratteneva a stento le lacrime. Erwin e Lupolt supposero che quel vecchio che si era voltato per non lasciarsi vedere fosse il loro padre. Il giorno seguente la principessa ottenne di servire a tavola i prigionieri liberati, e Berter faceva da coppiere mentre i suoi figliuoli mangiavano. Rother prese l'arpa e si mise a suonare; allora, colui che beveva lasciò cadere il vino sulla tavola, colui che affettava il pane lasciò cadere il coltello, e tutti dimenticarono in parte il proprio dolore, finché Lupolt ed Erwin, dopo che ebbero ascoltato il canto del re, balzarono in piedi e l'abbracciarono. Così la fanciulla ebbe la prova desiderata, vedendo che il falso Teodorico era veramente Rother.

Con l'inganno, il re riuscì a rapire la fanciulla, che condusse in Italia nella sua città di Bar. Più tardi, Rother partì per la guerra, lasciando sotto la custodia di Lupolt Bar e la sposa. Questa venne rapita con l'inganno da un menestrello, che doveva ricondurla a Costantinopoli dal padre. Rother, tornando in Bar, fu molto addolorato, ma perdonò Lupolt che non aveva saputo guardare la giovane regina. Di nuovo Rother partì per Costantinopoli, accompagnato da Berter, da Lupolt e da trentamila uomini, per riprendere la sposa. Rother, Berter e Lupolt sbarcarono travestiti da pellegrini, e Rother aveva seco un corno, dono del giovane Wolfrat, che doveva suonare se si fosse trovato in pericolo.

Dopo diverse avventure, Rother ottenne di nuovo la vittoria, e quando Berter gli disse di mostrarsi clemente verso Costantino, il giovane re gli manifestò tutta la sua riconoscenza per i consigli che gli aveva sempre dati, fin da quando, dopo la morte del re suo padre, era stato affidato alle sue cure.

Costantino, essendo costretto a cedere, dovette condurre la figliuola nel campo di Rother. Nessuno dei suoi guerrieri lo seguiva, ed aveva in sua compagnia la moglie, la figliuola vestita di abiti meravigliosi, e ottanta dame che portavano delle corone d'oro. Il gigante Asprian voleva uccidere Costantino, ma Berter lo distolse da quel proposito con i suoi consigli.

Nella città di Bar nacque il figlio di Rother, che venne chiamato Pipino. Questi sposò Berta e fu padre di Carlomagno. Pipino aveva ventiquattro anni quando fu fatto cavaliere in Aquisgrana, e per le feste si raccolsero in quella città tutti i vassalli del re Rother. Fra essi si trovava Berter, divenuto vecchissimo, con un seguito di 200 uomini. Egli veniva a dare un ultimo consiglio al re Rother, pregandolo di pensare alla salvezza dell'anima sua e di accompagnarlo nei boschi per farsi eremita!29

Nel poema Gudrun, che è, come ho già notato, il più bello di tutto il ciclo nuziale germanico, si trova un personaggio importante che, per certe qualità soprannaturali, si avvicina in qualche modo ai nani consiglieri degli eroi andati fra mille rischi alla conquista di una sposa. Si chiama Wate, e nelle diverse avventure narrate nel poema consigli, guida i suoi compagni ed è l'anima di gran parte dell'azione, Fra i personaggi principali, è quello che ha conservato in modo più palese il suo antico aspetto mitico.

Egli ha la forza di 26 uomini, e la sua voce è sovrumana. Possiede il corno meraviglioso che abbatte le mura delle città e sconvolge col terribile suono il mare, che egli attraversa con frequenza quando va a visitare il fabbro Wieland, suo figlio, da lui affidato a due nani espertissimi nel lavorare il ferro e l'argento, affinché l'istruiscano nella loro arte. Questi nani dimorano in una grotta presso Kallov.

Alcuni cercano di dimostrare che Wate è un gigante o una divinità del mare,30 mentre altri l'avvicinano al dio del fulmine Thor. Io credo che le dispute su quest'argomento potrebbero cessare, se si pensasse che Wate, pur appartenendo strettamente come dio del fulmine al mondo sotterraneo, può trovarsi, per così dire, in relazione col mare, la qual cosa si nota anche nel mito di Efesto e di altri numi dei quali dirò, parlando dei fabbri divini.





20 Rambaud, op. cit., p. 429.



21 Origini dell'epopea francese, pp. 425-439



22 L'Ortnit fu edito da Kaspar von den Roen nel XV secolo, nell'Helden Buch, insieme con i poemi seguenti: Wolfdietrich, Etzel's Hofhaltung, Riese Sigenot, Ecken Ausfahrt, Dietrich und seine Gesellen, König Laurin, Der Rosengarten zu Worms, Das Hildebrandslied, Das Meerwunder, Herzog Ernst. Si suppone che questi poemi siano stati rimaneggiati da Wolfram von Eschenbach e Heinrich von Osterdingen, alla fine del secolo XII. Altri poemi medioevali furono aggiunti più tardi al libro degli eroi.



23 Aryan Mythology, p. 129.



24 Quando Teti depone a piè di Achille le armi lavorate da Vulcano, «...Dier quelle un suono / Che terror mise ai Mirmidoni: il guardo / Non le sostenne e si fuggir...» (Iliade, XIX).



25 Orlando innamorato, libro I, canto XVIII.



26 Op. Cit., p. 129.



27 Anche il Basin, protagonista del poema Jehan de Lanson e Malagigi hanno statura regolare, ma essi appartengono alla famiglia dei nani (Rajna, Origini dell'Epopea francese, pp. 425, 439).



28 Parecchi credono che questa città sia Bari; altri sono di contrario parere.



29 Nella Wilkina Saga, in cui si parla anche di Rother e della sua impresa, non si nomina Berter di Meran. Wilhelm Grimm (Die Deutsche Heldensage, Göttingen, 1867, p. 59) si meraviglia di questo fatto e trova una stretta relazione fra il vecchio Berter e Rechtung, che nel poema Wolfdietrich è consigliere del giovane signore di Costantinopoli. Non potrebbe anche Rechtung essere in qualche modo una derivazione del nano Alberico, nel Wolfdietrich, che è il seguito del Re Ortnit?



30 Albert Fécamp, Bibliothèque des Hautes Études. Le poème de Gudrun, p. 132. Il Fécamp è di questo parere, come il Müllenhoff ed altri. L'illustre W. Mannhardt l'avvicina invece al dio Thor. Intanto non credo che il Fécamp abbia ragione di meravigliarsi nel ritrovare un certo Watte, che dovrebbe essere quello della Gudrun sotto forma di nano, in compagnia del nano Vitte, nel racconto di Vitte e Vatte pubblicato dal Müllenhoff nel volume, Sagen Märchen und Lieder, p. 292.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License