Maria Savi Lopez
Nani e folletti
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Tra le dame e i cavalieri

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Tra le dame e i cavalieri

Altri nani di minore importanza si trovano nei poemi germanici, francesi e brettoni del Medioevo, e nei romanzi di avventure. Molti hanno perduto ogni potenza soprannaturale; altri portano corona di re e sono capaci di compiere opere meravigliose; altri ancora non hanno nessuna relazione col mitico popolo dei nani, e rappresentano in qualche modo i deformi buffoni che rallegravano le corti dei sovrani e dei feudatari. In generale questi nani stanno nell'ombra vicino ai personaggi importanti dei poemi e dei romanzi, e poiché sono tutti astuti, esperti nell'ingannare, o savii e prudenti, accompagnano spesso i cavalieri ai quali danno aiuto e consigli.

Fra essi va notato un re dei nani che si trova nella versione neerlandese del poema brettone La vengeance de Raguidel. L'eroe Gauvain, celebre nel ciclo di Artù per l'indomito coraggio e le avventure portentose, benché appartenga a quella stirpe maganzese tanto disprezzata in Italia, chiede alla regina, mentre si trova alla corte di Artù, quale sia «il pensiero delle donne». La risposta che riceve non è chiara, ed egli, che vuol conoscere quel mistero, si arma e parte in cerca di un'avventura che lo istruisca.

In una foresta, Gauvain incontra un re dei nani, che, soffiando su di lui lo trasforma in nano, poi gli rende il suo solito aspetto e lo tratta con amicizia. Gauvain gli confida la ragione per la quale va in cerca di avventure. Il nano gli dice che è difficile avere la spiegazione da lui desiderata, e lo prega di accompagnarlo in casa sua. Mentre cena con l'ospite, Gauvain, nota con meraviglia che vien mandato del cibo in una stanza vicina. Il re gli confessa che vi è rinchiusa sua moglie, da lui sposata per amore benché fosse di vile condizione, e che l'ha tradito.

Il nano consiglia a Gauvain di mettere alla prova la fedeltà della sua dama, e lo trasforma di nuovo in nano. Vanno entrambi alla corte di Artù, dove nessuno riconosce il fortissimo cavaliere, che a dispetto della piccola statura, riesce senza difficoltà a farsi amare dalla dama dei suoi pensieri, chiamata Ydain, e le domanda un anello che gli è subito donato.

Più tardi Gauvain, avendo ripreso il solito aspetto, domanda conto alla dama dell'anello che aveva.

– L'ho perduto! – esclama la bella Ydain. – Mentre ero affacciata ad una finestra sul fosso che circonda il castello e pensavo a voi, è caduto nell'acqua ed un pesce l'ha ingoiato.

– Voi mentite, ed io conosco la verità, – dice Gauvain, – perché ho incontrato un cavaliere nano che l'aveva ottenuto in dono da voi –. Ydain si confonde, poi con le lusinghe giunge a farsi perdonare dal cavaliere, che si ripromette di non andare più in cerca d'avventure per conoscere il pensiero delle donne.

Nel Conte du papegaut, piccolo romanzo del secolo XV, si parla di un nano incaricato di custodire un pappagallo, e sarei lieta se potessi tra queste pagine trascrivere alcune delle scene divertenti che avvengono fra l'uccello ed il suo custode; ma ho potuto conoscere questo romanzo solo da un riassunto pubblicato nell'Histoire littéraire de la France,40 e debbo limitarmi a dire che le dispute avvengono quando un pericolo minaccia i due compagni: il pappagallo tremante prega il nano di aprirgli la gabbia e di lasciarlo fuggire; il nano non si commuove nell'udire quelle preghiere, e pensa solo alla propria salvezza. Il pappagallo ragiona come un uomo, è molto sapiente e rallegra il padrone, cantando per lui bellissime canzoni. Il pappagallo ed il nano accompagnano sempre Artù in tutte le sue stranissime avventure. Questi, che è chiamato «le chevalier du perroquet», mentre viaggia su una nave con i suoi compagni indivisibili è gettato da una violenta tempesta su una spiaggia ignota. Il cavaliere trova in quell'isola una torre, in cui si entra solo da una finestra. Vi abita un vecchio, il quale, venti anni prima, è stato abbandonato dal suo padrone nell'isola deserta.

Costui vive con un suo figliuolo gigante, che ha una forza straordinaria ed è stupido. Quando il mare si calma, Artù riparte con il pappagallo, il nano ed il gigante, e approda nel regno della bellissima dama bionda che ama.

Nel piccolo Gwin Araun della vecchia leggenda gallese di Myvyrian, pubblicata nel 1805, Hersart de la Villemarqué volle ritrovare l'origine di Oberon. Il nome Gwin significa «bianco», e per questa ragione si vuole che somigli al nome di Oberon, di Alberico, di Andvari e di altri nani che hanno rapporto, a quanto pare, con l'alb latino.

Gwin era uscito come un lampo da una nube, ed era figlio, al pari di Oberon, della fata Morgana; lo invocavano i guerrieri celti perché si credeva che desse la vittoria. Innanzi a lui cadevano le schiere dei nemici, come cadono i giunchi tagliati dalla falce.

Gwin, re delle fate, aveva l'altezza di sei piedi, era debole e portava un corno: sul suo cavallo Karn Grum poteva percorrere la terra da un capo all'altro in un attimo. Gli era anche possibile trasformarsi e mutare gli uomini di statura regolare in nani; conosceva tutti i segreti delle piante e delle pietre, e osservando le stelle indovinava l'avvenire. Era buono, e si compiaceva nell'usare la sua grande potenza per il bene degli uomini.

Come possiamo vedere, Gwin aveva le qualità che si trovano in tanti nani delle leggende, e benché gli mancasse la forza, era uno dei loro fratelli; ma non vi è nessuna ragione per cercare in lui solo l'origine di Oberon, benché sia, guarda caso, figlio della fata Morgana!

Un giorno il nano invitò a pranzo, nel suo palazzo incantato, il santo eremita Kollenn. Questi non osava accettare per timore che il nano fosse un demonio; ma poi cedette alle sue insistenze, e poiché non cessavano in lui i sospetti, portò seco un'ampollina piena d'acqua benedetta, che gli avrebbe dato aiuto efficace in qualche pericolo. Giunto sulla vetta di un'arida montagna, dove abitava il re delle fate, vide intorno ad un palazzo meraviglioso una folla di nani e di nane giovani e bellissimi, che ballavano mentre un vecchio bardo suonava l'arpa.

Condotto dinanzi al re, che gli si mostrò sfolgorante sopra un trono d'oro, l'eremita fu pregato da lui di sedere presso una tavola apparecchiata. Il re gli disse: – Devi soltanto desiderare che tutti i piatti d'oro e le coppe di brillanti messi dinanzi a te siano pieni dei cibi e dei vini migliori, e il tuo desiderio sarà subito soddisfatto.

Il santo gli disse: – Non veggo altro sulla tavola che foglie secche, e non ho mai bevuto e mangiato servendomi di bicchieri e di scodelle simili –. Poi spruzzò con acqua benedetta la tavola, che scomparve al pari del re, del palazzo e di tutti i nani.

Nel romanzo di Merlino, dove si seguono e s'intrecciano tante strane avventure di dame e di cavalieri, che possono anche destare in noi un certo interesse per la piacevole semplicità della forma,41 si trovano alcuni nani. Quando il cavaliere Tor partì dalla corte di Artù, per andare in cerca di un altro cavaliere che aveva rubato un cane, egli entrò in un bosco seguendo le tracce del fuggitivo. Non aveva percorso ancora una lega quando vide alla sua destra, sopra una radura, due padiglioni, innanzi a ciascuno dei quali era uno scudo appeso in cima ad una lancia.

Tor non si dette pensiero di quei padiglioni, e proseguì, ma un nano gli corse incontro e colpì con un grosso bastone il suo cavallo, che indietreggiò. Tor, molto irato contro il nano, gli disse: – Che cosa vuoi? Lasciami andare e che ti colga un malanno! – Cavaliere vigliacco, – esclamò il nano, – volete andar via per non combattere contro i cavalieri che stanno in quei padiglioni e che vi sfidano!

– Ah, nano! – disse Tor, – non ho il tempo di fermarmi. Debbo raggiungere in fretta un cavaliere che fugge con un cane.

– Lo conosco, – disse il nano, – e l'ho veduto; ma voi non passerete, se prima non sapremo in qual modo usate la lancia.

Tor, che il re Artù aveva fatto da poco tempo cavaliere, non volle dare prova di viltà, ed accettò la sfida, benché si dolesse di non poter seguire il fuggitivo. Il nano gli disse:

– Non temete di non trovare più colui che cercate. Un cavaliere valoroso non perde mai il tempo! Egli suonò un corno che portava sospeso al collo. Un cavaliere uscì da uno dei padiglioni, «tous montés, le hiaume lachiet, l'escu au col, la lanche el puing», e gridò a Tor di stare in guardia. Questi vinse i due cavalieri, che gli domandarono in grazia la vita e furono salvi, dopo che ebbero promesso di andare a Camalaoth, presso Artù, e di darsi a lui prigionieri.

Dopo la vittoria, Tor rimontò a cavallo, prese lo scudo e domandò una spada al nano, che gliene dette una «boine e forte». Questo dono della spada fatto dal nano ci mostra la sua parentela con i piccoli fabbri delle montagne. Egli divenne anche una specie di genio protettore del cavaliere, al quale disse: – Ha! franc chevalier, par la foi che tu dois a toute chevalerie, je te prie che tu me doinnes un don par si que toi averas plus preu que damage –. Il cavaliere si disse pronto a contentarlo, e il nano lo pregò di prenderlo al suo servizio, perché non voleva più essere lo scudiere di quei «deus faillés». Tor acconsentì e partirono insieme, avendo il nano promesso al suo nuovo signore di fargli ritrovare il cavaliere che cercava.

Infatti il nano condusse Tor in una foresta, dove era alzato un ricco padiglione bianco fra molti altri rossi. Il nano sapiente disse al cavaliere che nel padiglione bianco avrebbe trovato il cane rubato. Dopo aver affidato al nano il suo cavallo e la spada, Tor entrò nella tenda, dove trovò quello che cercava (chou que il vait querant) perché sopra un letto ricchissimo vide una fanciulla addormentata con il cane. Tor si avvicinò per prenderlo, ed esso abbaiando svegliò la fanciulla, ed ella fuggì. Tor poté impossessarsi del cane e lo portò al nano dicendogli: – Vés chi le braket por coi je parti de court. Il nano, che l'aveva aiutato con i suoi consigli a compiere l'impresa, gli fu ancora lungamente compagno e consigliere nei rischi del ritorno, mentre andavano a raggiungere il re Artù a Camalaoth.

Nello stesso romanzo si trova un altro nano, del quale possiamo facilmente spiegarci la presenza, poiché è incaricato dalla fata Morgana di dare una celebre spada ad un cavaliere, e di aiutare la sua signora a compiere una triste opera di vendetta contro Artù, andato a caccia con un seguito di parecchi cavalieri.

Questi hanno ucciso un cervo sulla sponda di un fiume, quando vedono arrivare una nave bellissima, coperta in tal maniera con certi drappi di seta rossa, che si scorge solo un po' della carena e dodici remi che battono l'acqua, ma non le persone che li muovono. I cavalieri entrano nella nave, «si biele et si cointe et si parée de drap de soie», che non hanno mai veduto una cosa simile. Dodici fanciulle escono da una cabina, vanno ad inginocchiarsi dinanzi ad Artù, e lo pregano di restare sulla nave perché la notte si avvicina. Il re accetta l'invito, e siede con i suoi cavalieri presso una tavola riccamente imbandita. Le fanciulle li servono con molta cortesia, e tutti passano lietamente la sera. I cavalieri dormono la notte in letti ricchissimi, e non sospettano di nessuno inganno; quando si destano la mattina, si trovano con grande loro meraviglia fuori della nave, e ciascuno di essi è in un luogo diverso, lontano dai compagni.

Uno dei cavalieri, chiamato Accalone, si lamenta con amarezza dicendo che, se dipendesse da lui, tutte le donne del mondo sarebbero ridotte in tale stato non poter offendere più i valent'uomini. Allora gli appare un nano «petit et gros et ot les cheviaus noir et la bouche grant et le nès petit e chamus». Il nano gli dice che la regina Morgana sua padrona lo saluta, e l'avverte che dovrà il giorno seguente combattere contro un cavaliere. Poi il nano gli la famosa spada di Artù chiamata Escalibor.

Accalone si rallegra tanto vedendo la spada, che «acole le nain et l'embrache et dist»: – Nano, sii il benvenuto, – e gli domanda se si trova vicino a Camalaoth. Il nano gli tutte le notizie che vuole; e il cavaliere gli domanda come sappia quelle cose. Il nano risponde che sono avventure di Bretagna e incantesimi di quella terra.

Da un castello vicino escono cavalieri, dame e donzelle, che fanno la migliore accoglienza ad Accalone, tratto in inganno dalla perfida regina Morgana, che ha tessuto tutti quegl'incantesimi perché avvenga un duello tra suo fratello Artù, che ella odia, e Accalone. Questi sono fidi amici, e combattono l'un contro l'altro senza conoscersi. Morgana, per rendere più probabile la vittoria di Accalone, gli ha fatto consegnare dal nano la spada Escalibor. Avviene invece nel duello che Artù resta incolume e Accalone muore, dopo che i due amici si sono riconosciuti. Più vicino di questi nani ai folletti, esperti nel mettere alla prova la pazienza degli uomini, è il Picolet della Bataille Loquifer,42 coperto di peli e nero come il diavolo.

Tos est velus et noirs com aversier;
Le poil est lonc, bien le puet on trecier
Le vens li fet onder et baloier.

Al pari di Malabruno, Picolet sa nuotare come un pesce, e in un attimo come Oberon può anche percorrere grandissime distanze, ed è molto destro nel rubare.

L'astuzia non manca neppure al nano che appare nel poema Méraugis de Portlesguez, il quale, peraltro, è molto diverso dai nani fortissimi che combattevano contro eroi invincibili! In questo poema, opera del celebre trovèro Raoul de Houdenc, si dice che la bella Lidoine, erede del regno di Escavalon, si presentò ad un torneo nel quale, a quanto pare, vi era una specie di concorso di bellezza, poiché uno sparviero doveva esser donato alla dama più bella. Lidoine osò prenderlo, e tutti i cavalieri l'applaudirono. Fra questi si trovavano Méraugis ed un certo Gorvain, che s'innamorarono della fanciulla. Lidoine li divise mentre si battevano per lei, ed Artù riunì la sua corte perché desse un giudizio sulla questione sorta fra i cavalieri. Méraugis amava Lidoine per la sua bellezza, Gorvain per le sue qualità morali.

La regina disse che, trattandosi di una questione d'amore, doveva essere giudicata dalle dame. Queste presero le parti di Méraugis, dicendo che Lidoine doveva sposarlo. La fanciulla trovò giusta la sentenza, ma disse che l'avrebbe sposato quando il suo nome fosse diventato glorioso. Si presentò allora alla Corte di Artù un brutto nano dal naso camuso, e rimproverò il re perché abbandonava suo nipote Gauvain, partito da gran tempo per compiere un'impresa pericolosa, e del quale non si sapeva più nulla. Il nano soggiunse che, se un cavaliere senza paura avesse voluto accompagnarlo, sarebbe stato condotto da lui nel luogo dove si trovava Gauvain.

Méraugis volle andare subito alla ricerca dell'eroe, e Lidoine disse che gli sarebbe stata compagna nel viaggio. Il giovane cavaliere si rallegrò di quella decisione, e partì con lei ed il nano. Questi aveva indotto con l'inganno Méraugis a seguirlo, perché voleva che fosse il suo campione in un torneo che doveva aver luogo alla corte del re Amargone. Fra diverse avventure, Méraugis smarrì il nano, poi lo ritrovò; sostenne per lui il combattimento e, dopo la sua vittoria, il nano poté sposare la donna amata, che era gobba, aveva il naso camuso ed era di statura più piccola della sua. Dopo interminabili avventure, nelle quali il nano non ebbe parte, avendo già conseguito il suo scopo, Méraugis sposò finalmente Lidoine.

Prima che il Boiardo ci desse in Brunello un discendente dei nani celebrati nella poesia brettone e francese, l'autore del Carduino (che forse è stato Antonio Pucci), ci presentò in questo poemetto un nano che aveva già sostenuto una parte importante in un poema brettone, dal quale sono derivati anche l'altro poema brettone Guinglain o il Bel Desconeü, una redazione francese in prosa del secolo XVI, una versione inglese che ha per titolo Perceval, ed il poema tedesco Wigalois.

Il nano, che si chiama Tedogolain nel Guinglain e Tendalayn nel Perceval, non ha nome nel nostro poemetto di Carduino,43 conservato in un codice prezioso della Riccardiana e pubblicato dal Rajna.

Nel Carduino si narra che il re Artù prediligeva uno dei suoi baroni, che aveva acquistato fama in tutto il mondo. Altri baroni invidiosi l'uccisero a tradimento, e la moglie di lui, che era giovane e bella, temendo che uccidessero anche un suo figliuoletto di nove mesi, fuggì con lui alla ventura.

In una selva grande si nascose
E portò pietre e perle e ricche cose.

Ella edificò nella selva, in luogo recondito e selvaggio, una capanna di frasche e di legno, e vi passò molti anni col figliuolo, mentre nessuno sapeva alla corte d'Artù dove si fosse nascosta.

E Giesù Cristo con Santa Maria
La gentil donna fortemente amava
Ch'è sua divotà e gran ben le volia;
Con cierte bestie il fanciullo si stava,
Colle bestie si stava notte e dia,
Onde colloro il fanciul dimorava.
Questo fanciullo usò tanto colloro
Che non crede sia altro che costoro.

Un giorno il re Artù andò a caccia nel bosco, accompagnato da molta gente. Quando il giovanetto, che si chiamava Carduino, fu visto dai cacciatori, questi presero ad inseguirlo gridando forte: – Eco un uom selvagio –. Il giovine riuscì a fuggire presso la madre sbigottita, che vedendolo:

Faglisi incontro e presel per le braccia.
«C'à' tu, figliuol? dolcie isperanza mia?
C'à' tu, figliuolo? dimi chitti caccia».
Ed e' rispuose: «Dolcie madre mia,
O madre, tummi gabi e tummi incaccia.
Tu di' c'al mondo nonn'à più giente
Se non no' due e Cristo 'nipotente.

Il giovane, non volendo più credere alla madre, dopo aver incontrata tanta gente nel bosco, decise di andare a conoscere il mondo. La madre, addolorata, prese i danari, le perle e l'argento che possedeva, e partì col figliuolo per la corte di Artù. La madre gli disse il nome di suo padre e quello dell'uccisore di lui, e gli raccomandò di non parlare né dell'uno, né dell'altro alla corte del re. Per questa ragione, quando Artù domandò a Carduino chi era suo padre, il giovane rispose che non lo sapeva, e che sua madre era di vile condizione. Intanto si apparecchiarono le tavole nel palazzo del re, si diede l'acqua alle mani dei commensali, e Artù ebbe molti riguardi per Carduino, il quale non parlava.

E mangiò sì, che più di se' baroni
Arieno asai di quelle inbandigioni.

I baroni erano meravigliati, quando videro arrivare una donzella in compagnia di un nano. Essi s'inginocchiarono dinanzi al re, e la donzella lo supplicò di avere pietà di sua sorella Beatrice, colpita da grave sventura: avendo respinto l'amore di un uomo perverso che la voleva per moglie, questi si era vendicato trasformandola in biscia. Tutti gli abitanti della città dove si trovava sua sorella avevano subito la stessa sorte, essendo mutati in animali diversi, e quel supplizio durava da duecento anni.

La donzella pregò il re di farla accompagnare da un cavaliere valoroso e sapiente, capace di combattere contro il mago feroce nemico di sua sorella. Il nano avrebbe aiutato il cavaliere con i suoi consigli a compiere l'ardua impresa.

Il re si dolse nel sentire che Beatrice si trovava in quella triste condizione, e volle che Carduino accompagnasse la donzella. Non avendo il giovane acquistato ancora fama nelle armi,

E 'l nanodiciea: O re Artue,
Or che è quello ch'io v'odo parlare?
Questo non fia di tanta virtue
Che n'uomo selvaggio costui mi pare.

Artù non mutò consiglio, e il giovane partì col nano e la donzella. Per via incontrarono l'uccisore del padre di Carduino, che volle rapire la donzella. Carduino l'uccise senza conoscere il suo nome, che gli venne poi detto dal nano, divenuto il suo fedele e sapiente consigliere.

Dopo la morte del traditore, Carduino ed il nano, con la gentile e nobile donzella, giunsero di sera in un bosco, dove alzarono un padiglione e accesero un gran fuoco. Mentre apparecchiavano la cena, alte grida arrivarono fino ad essi, mentre una voce di donna implorava aiuto in nome della Vergine. Il nano volle che fosse spento il fuoco, e che il giovane non si muovesse, perché in quel luogo dimoravano due fortissimi giganti,

D'uribil forza e di grande afare.

Ma la voce domandò di nuovo soccorso. Carduino, non tenendo più conto delle parole del nano, si slanciò verso il luogo dal quale partivano le grida, e liberò una donzella caduta nelle mani dei giganti, che egli uccise. Il nano si meravigliò quando lo vide tornare con la donzella, e conoscendo la sua gagliardia,

Più che inprima il serve di coraggio.

Passò la notte, e Carduino, che non aveva pari, si allontanò dal bosco in compagnia delle donzelle e del nano «grazioso e saggio». Finalmente giunsero presso la città incantata, e il nano disse a Carduino:

– Or te bisongna provar tuo bontade,
Or ti bisongna essere paladino.
Quest'è la cittade in veritade.
E Carduino disse: – Singnor fino,
Che dite voi? I' non vegio niente.

Il nano gli disse ancora di guardare certi sassi alti e grandi, che erano stati palazzi e torri. Le vie dove prima la gente passava di giorno e di notte sembravano sentieri, e tutto questo avveniva a causa dell'incantesimo. Il nano gli mostrò anche due sassi che erano stati una porta della città.

Vennero allora incontro a Carduino draghi e serpenti; egli fuggì e disse al nano:

– ...Che è quel ch'io vegio?
Draghi e serpenti verso me venire!
I' ò paura di none aver pegio.
Il nano allora gli prendea a dire:
– Tu andra' tra leon che stanno in gregio,
Draghi e serpenti e lupi fallaci,
Serpi e leopardi e orsi rapaci.

E quando tutti iscontri ne' dragoni,
Passa più oltre, e non dubitare
E' non son draghi, anzi son baroni
Di quella dama che ai singnoregiare.
Gran torme poi troverai di lioni:
Tutti son cavalier d'arme portare;
E gli orsi e cinghiar, che son sì felli
Giudici e notai s'appellan elli.

Il nano gli disse ancora: – Troverai anche cervi, leopardi e caprioli, lepri, conigli e cerbiatti che ti mostreranno tutto il loro dolore. Poi vedrai il palazzo con le torri, dinanzi al quale ti fermerai sfidando il mago. Costui, uscendo a cavallo dal palazzo, muoverà ferocemente contro di te. Dovrai essere ardito nel sostenerne l'assalto, perché è grande e grosso come un «gigante».

Il nano continuò a dire minutamente tutto quello che il giovane doveva fare per vincere il gigante e rendere inutili le sue arti malvagie; poi gli raccomandò di baciare sulla bocca, appena ucciso il mago, una grossa biscia che avrebbe visto in piazza. Egli finì col dire:

– Or va', che io t'accomando a Dio
Chetti die grazia di poter canpare,
Nella terra non posso venire io,
S'i no volessi bestia diventare
Mai non v'andò niuno, o baron pio,
Che mai indreto potesse tornare.

Appena Carduino fu andato innanzi, entrando dalla porta che gli aveva indicato il nano,

Aparve nella terra un romore
Di lioni e serpenti allor mughiare,
Che non si sarie fatto alcun sentore
Se il mondo avesse auto a perfondare
Giù nel nabisso co molto furore,
Tanti draghi e serpenti ongnun vedìa
Poco fallì c'a dreto no redia.

Giunto sulla piazza della città, Carduino vide una biscia che era piacente nell'aspetto, e portava al collo tre catene d'argento. Essa faceva «gran tempesta e gran lamento», e si rizzò sulla punta della coda, mostrando a Carduino che gli voleva parlare, dicendogli: – Baron, fa' che sia ardito e dotto.

Carduino incominciò il duello col mago, riuscì ad ucciderlo, e rimontò a cavallo per andare sulla piazza dove era la biscia, che si slanciò verso di lui. Egli non ardiva appressarsi, e diceva fra sé: – I' nolla vo baciare, – ma ricordando i consigli del nano, si fece animo, vinse il ribrezzo che provava per essa ed ebbe il coraggio di baciarla.

Il poeta ci dice ancora:

De! ode quie una nuova novella:
Che come quella serpe fu basciata
Ella si diventò una donzella
Legiadra e adorna e tutta angielicata;
Del paradiso uscita pare ella
D'ongni bellezza ell'era adornata;
E draghi e leoni e serpenti
Diventar come prima, ch'eran gienti.

La donzella ringraziò Iddio e Carduino, al quale disse: – Tu sarai l'amor mio fino.

Si può immaginare l'allegrezza che circondò Carduino nella città liberata dopo tanto dolore. Il nano vi andò subito, mentre si celebravano grandi feste.

Intanto si era sparsa la notizia dell'impresa che Carduino aveva compiuta seguendo i consigli del nano; Artù gli mandò ambasciatori per farlo tornare alla sua corte, e gli diede grande signoria.

Tornato presso Artù, Carduino perdonò gli altri nemici di suo padre, e vennero celebrate le sue nozze con Beatrice. Egli tornò nella città liberata con la sposa e la madre, seguito da molta gente, baroni e donzelle.

Il poeta finisce il racconto delle avventure di Carduino dicendo:

Lo re Artù amava il paladino
E fue de' cavalier della ventura
Il più prod'uomo e 'l più forte di corte.
Tutti vi guardi Iddio della ria morte.

Nel poema inglese in cui si tratta quasi lo stesso argomento, è molto pietoso il racconto di ciò che avvenne alla madre di Perceval. Ella aveva tenuto nascosto il giovane in una selva, non volendo che prendesse parte alle guerre ed ai tornei. Perceval uscì dalla selva come Carduino, e dopo molte avventure andò alla corte di Artù, Sua madre, credendo che fosse morto, impazzì per il dolore, e andava errando nel bosco alla ventura. Il giovane lo seppe, depose le armi, e per essere più facilmente riconosciuto da lei si coprì di pelli di capre, prima di andare alla sua ricerca. Per sette giorni Perceval la chiamò nella selva senza che gli riuscisse di trovarla; finalmente ebbe la gioia di vederla, e le venne data una bevanda che la fece dormire per tre giorni e tre notti. Quando fu desta, riconobbe il figlio e l'abbracciò ringraziando Iddio.

Fra i nani della poesia cavalleresca, credo che abbia grande importanza il nostro Brunello, il quale, come ci vien presentato dal Bojardo nell'Orlando innamorato, è ben lungi dall'essere un volgare buffone di corte. Anzi, egli è unito da un saldo vincolo ai mitici nani più famosi, benché il poeta ce lo mostri anche con l'aspetto e con certe qualità dei folletti paesani (dei quali aveva certamente udito raccontare molte volte le gesta), o di quelli ritrovati nella poesia cavalleresca.

Brunello è piccoletto di persona, ma è pieno di malizia. E un ribaldello «Di man presto e di piè più ch'un uccello». Egli, che deve accendere tanta ira nel cuore di Marfisa, e cagionare tanto dolore ad Angelica:

È lungo cinque palma ed anche meno:
Par la sua voce d'un che 'l corno suona,
Nel dire e nel rubare è senza freno;
Va sol di notte, il non è veduto:
Corti ha i capelli, ed è nero e ricciuto.

Quando Brunello ci appare nel poema, non è che un «creato» del re di Fiessa; ma pare che il Bojardo, a dispetto della sua umile condizione, ricordi la ricchezza e la potenza di altri nani, e si lasci subito indurre da quel ricordo a fargli promettere dal re Agramante un tesoro ed una corona, che gli saranno dati purché rubi ad Angelica l'anello che rompe tutti gli incantesimi.

Brunello promette di non fermarsi mai finché non acquisti il regno promesso; e non è soltanto pronto a rubare l'anello, ma dice ad Agramante:

Vedi se vuoi che ti porti una stella,
La luna, il sole, io te ne farò sei,
Che sarà l'una più che l'altra bella:
Di tor la luce al sol mi vo' dar vanto,
Il suono all'acque, ed agli uccelli il canto.

Maravigliossi il re vedendo questo
Impiccatoardito e sì sicuro:
Egli indi per dormir si partì presto,
Che poi gli piace vegghiare allo scuro:
E benché quivi ciascun fusse desto,
Pure spiccar non gli vider dal muro
E di gioie una tasca portar piena.

Certamente non è possibile imaginare che tra le fonti dell'Orlando innamorato si trovi l'Ortnit, eppure avviene per un caso strano che il nostro Brunello, quando sale sul castello di Albracca, compia un'impresa quasi simile a quella che compì Alberico, quando sulle mura di Montabaur fece mille dispetti al re Machorel ed alla sua gente. Dopo che Brunello ebbe percorsa una lunga via, passando per monti e per valli, arrivò sotto le mura di Albracca, mentre durava il combattimento fra Marfisa e Sacripante.

Il re Agramante ricordò al nano la promessa, e questi se ne andò leggero sul castello dove erano assediati Angelica ed il padre; questo castello intorno:

A piombo, com'un muro era tagliato,

e da una parte sola aveva la salita fatta per forza di piccone; sugli altri lati:

Liscia è dal fiume la pietra e pulita,
Né vi si fa di guardia menzione,
Che con ingegno di corde o di scale
Non vi si può salir, ma sol con l'ale.

Brunello è d'aggrapparsimaestro,
Che su n'andava come per un laccio,
E tutta quella ripa destro destro
Monta, ed al muro arriva senza impaccio;
Al qual s'attacca com'ad un capestro,
Mena le gambe e l'uno e l'altro braccio,
Come s'andasse per un'acqua a nuoto,
Né per paura volse mai far voto.

Era il salire a lui tanto sicuro,
Quanto s'andasse per un prato erboso.
Poi che passato fu sopra 'l gran muro,
A guisa d'una volpe andava ascoso:
E non crediate che 'l ciel fosse scuro,
Anzi era il ben chiaro e luminoso,
Ma egli in qua e in tanto saltella,
Che giunse dove stava la donzella.

Angelica guardava verso il piano, dove Marfisa ed il Circasso avevano attaccato di nuovo battaglia, e benché molta gente si trovasse intorno a lei, Brunello si fece palese e all'improvviso le tolse l'anello.

E non l'arebbe la donna sentito,
Se non che si lasciò vedere in faccia,
E con l'anel che tolto l'ha di dito,
Verso 'l sasso correndo il fante spaccia,
Il sasso, dico, dov'era salito:
Dietro tutta la gente è posta in caccia;
Angelica piangendo si scapiglia,
E grida, aimè, tapina, piglia, piglia.

Piglia, piglia, gridava, aimè tapina;
Ché rovinata son se non è preso,
Ognun per far piacere alla reina,
A lei l'avrebbe portato di peso:
Ma giù per l'alto muro e' già rovina,
E per la pietra se ne va sospeso;
Poi per la pietra va mutando il passo,
Come per gradi, e giugne al fiume basso.

Pare di vedere Alberico inseguito dalla gente del re Machorel, che schernisce tutti e fugge! Come il Malabruno dell'Huon de Bordeaux e come Andvari, Brunello sa nuotare senza confondersi.

Perché l'acqua sia grossa, alta e corrente;
Egli era com'un pesce a notar uso,
Nulla di lui si vede, né si sente:
Aveva fuor dell'acqua solo il muso,
Par un ranocchio, e va quietamente:
Guardan que' del castello in ogni lato,
E nol vedendo, il credono affogato.44

Brunello ruba anche il cavallo a Sacripante, la spada a Marfisa, e la spada e il corno a Orlando; quel corno tutto lavorato:

D'oro e di perle e di diamanti adorno.

Invano Marfisa, adiratissima, prende a inseguire il nano e spera di raggiungerlo:

Ma quel mal topolin non tien le poste,
Lasciandola appressar va lento lento,
Di poi la pianta, e fugge com'un vento,

ed egli mangia, beve e ruba le coppe agli osti, e fa i più strani dispetti a Marfisa, e ride come rideva Malagigi, quando rubò la spada e il destriere a Rinaldo, da lui addormentato con uno strano beveraggio.45 Finalmente, «per finir l'istoria», Brunello giunge al mare, e trovando pronta una nave va a Biserta, consegna l'anello ad Agramante, che lo incorona con le proprie mani e gli il regno di Tingitana, con gran doti e privilegi.

Il pensiero del nuovo regno non impedisce a Brunello di adoperarsi con l'astuzia per togliere Ruggiero dalle mani di Atalante. Egli fa incominciare al re ed ai suoi il torneo, che deve indurre Ruggiero a uscire dal giardino dove lo tiene chiuso Atalante, e l'alletta con la vista delle belle armi e del destriere, che egli chiede con insistenza.

Invano il vecchio si oppone:

Il giovinetto già s'è cinto il brando,
E guernito di maglie e piastre fine,
E per la briglia il destriero afferrato
Sopra d'un leggier salto s'è gittato.46

Brunello, dunque, avendo acquistato con la corona l'alto grado, che al pari di altre sue qualità l'avvicina tanto ai nani più famosi del Medioevo, non è soltanto consigliere del re, ma le armi ad un eroe, e vince con l'astuzia. E questa sua impresa ha anche una certa relazione con quella che compì Ulisse, quando mostrò la spada al giovinetto Achille in Sciro, dove la madre:

Trafugò lui dormendo in le sue braccia.47

Come cade dall'alto Brunello, quando nell'Orlando furioso è legato da Bradamante che gli toglie l'anello! Egli, che nell'Innamorato conserva ancora qualche cosa dell'antica grandezza epica dei nani famosi, anche nella sua nuova parvenza di folletto, ha nel Furioso:

Gli occhi gonfiati e guardatura losca,
Schiacciato il naso e nelle ciglia irsuto48

come certi mostruosi nani buffoni di corte! La sua potenza è finita, come quella di Alberico nell'ultima avventura del re Ortnit. Con la gloria della cavalleria è anche caduta quella dei nani possenti e forti come numi!





40 Tom. XXX, p. 66.



41 Merlin, Roman en prose du XIII siècle, publié par Gaston Paris et Jacob Ulrich. Tom. second. Société des textes français.



42 Ho potuto conoscere di questo nano soltanto quello che ne dice il Rajna nelle Origini dell'epopea francese, e nella sua descrizione di un Codice Trivulziano, pubblicato nella Romania, VI, p. 357.



43 Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XVII. Dispensa CXXXV. I cantari di Carduino, giuntovi quello di Tristano e Lancielotto quando combattettero al petrone di Merlino. Poemetti cavallereschi pubblicati per cura di Pio Rajna.



44 XXXIV, 39.



45 Morgante, X, 79.



46 Orlando innamorato, XLV, 58.



47 Purgatorio, IX. Vedremo che si vuole anche avvicinare Ulisse alla schiera dei nani.



48 Orlando furioso, II, 72.



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