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Ora che sono passati dinanzi a noi i nani che il Medioevo celebrò fra le armi e gli amori, diamo un rapido sguardo alle schiere innumerevoli di altri nani, dalle quali derivarono le strane figure di quelli.
Spesso, nelle mitologie di antichissime genti, si trovano sotto forma di nani o di fanciulli i miti più possenti della luce. Altri numi che dimoravano nel misterioso mondo sotterraneo, nelle caverne profonde, o negli abissi del mare, i padroni del fulmine, i fabbri divini che lavoravano i metalli, i nemici della luce, i padroni del fuoco malefico e terribile che arde nei vulcani, e molti numi sapienti, che insegnarono agli uomini arti diverse, se non appartennero sempre al popolo dei nani, furono i progenitori, per così dire, di molti nani di un ordine inferiore, sottoposti alla loro potenza o indipendenti. Spesso troviamo anche nei nani le anime degli antenati e i numi del focolare; e poiché erano così diverse le qualità di tutti questi esseri strani creati dalla fantasia del popolo, possiamo anche vedere in essi le immagini del bene e del male, gli spiriti benefici cari agli uomini, o quelli perversi che amavano le tenebre; la forza dell'intelligenza e dell'astuzia messa di fronte alla potenza brutale dei giganti. I nani più antichi da noi conosciuti vengono celebrati dalla poesia indiana, dove si trovano in grandissimo numero; ed ha molta importanza nella mitologia dell'India la trasformazione del dio Vishnù in nano. In essa si vuole vedere il simbolo del sole che, al suo apparire, illumina appena il cielo con la prima luce debolissima dell'alba, e non manda calore, ma poi, rapidamente, appare sfolgorante e diventa padrone del cielo, del mare e della terra. In ogni modo Vishnù, nella sua trasformazione, dà prova di un'astuzia che sarà poi il retaggio di tutti i nani. Il dio Indra e altri numi lo avevano indotto a mutarsi in nano, per ingannare i numi perversi e vincerli. Avendo quella meschina apparenza, Vishnù chiese agli Asuri il terreno che bastava perché potesse giacervi sopra e attraversarlo con tre passi. Appena l'ebbe ottenuto, assunse rapidamente proporzioni gigantesche: con un passo occupò la terra, con un altro l'atmosfera eterna e col terzo il mare, riuscendo a vincere Bali, il quale, avendo conquistato tre mondi, spaventava Indra con la sua potenza. I tre passi di Vishnù celebrati nel Rig-Veda e nel Mahâbârata gli fecero dare il nome di Trivikrama o Trigradiente. Questi tre passi potrebbero anche essere il simbolo del viaggio diurno del sole, quando sorge dall'Oriente, giunge allo zenit, e discende all'Occidente.
Credo si possa trovare un ricordo di questi tre passi famosi di Vishnù, dopo tanti secoli, anche nei canti epici nazionali che i Finni ripetono ancora nel loro triste paese. Certamente, il racconto che si trova su quest'argomento nel Kalevala è ben diverso da quello indiano nell'apparenza, ma se pensiamo ai personaggi tutti mitici del canto, ai mutamenti inevitabili che ha dovuto subire l'antichissima leggenda, nell'essere ricordata fino ai nostri giorni per mezzo della tradizione orale, non dovremmo stupirci di tale differenza. E certamente, nel canto del Kalevala in cui è palese il trionfo di un nano sulle tenebre, si trova uno dei ricordi più vivi di quelle tradizioni che i Finni portarono dall'Asia nella nuova patria, verso il sesto o il quinto secolo, e che li collega in un'origine lontanissima a quelle grandi famiglie di popoli indoeuropei dai quali differiscono per la lingua.
Si dice dunque, nel Kalevala, che il grande eroe Väinämöinen andò nell'isola in mezzo al mare, sulla terra senz'alberi. Egli visse lunghi anni in quell'isola senza nome e su quella terra sterile, meditando su chi avrebbe seminato i campi.
Pellervoinen,49 il giovane figlio dei campi, doveva seminare l'isola, ed egli si mise all'opera. Gettò i semi sulle pianure e le paludi, sulla terra e le rocce. Gettò i semi dei pini sulle colline, degli abeti sulle alture, delle brughiere sulle spiagge, e piantò nelle valli gli arboscelli. Poi fece crescere nei luoghi umidi le betulle, in quelli sabbiosi gli alni, nelle terre irrigate i salici, in quelle paludose i giunchi, nei campi aridi i ginepri e sulle rive dei fiumi le querce.
Tutte le piante seminate dal nume crescevano. La quercia soltanto, che era l'albero sacro al dio supremo Jumala, non era cresciuta e non aveva messo radici. Dopo qualche tempo, il vecchio eroe Väinämöinen andò a vedere l'albero divino, che era sempre senza radici. Allora quattro vergini e cinque giovani fidanzati si slanciarono fuori dal seno delle onde, falciarono l'erba alta e formarono con essa una collina. Turso, il perfido genio delle onde, sorse dal fondo del mare e incendiò l'erba ammucchiata.
Da quella cenere doveva germogliare la ghianda della quercia, e già la bella pianta, il virgulto verde, apparve brillando come una fragola, e dal suo tronco si partiva un doppio ramo. I suoi rami si allungarono, la sua cima salì fino al cielo, i suoi rami invasero lo spazio; l'albero fermò gli uccelli nel loro volo, interruppe la corsa delle nubi, oscurò la terra ed il sole.
Allora il vecchio eroe si mise a riflettere seriamente e disse: – Non vi è nessuno che possa sradicare la quercia e abbattere il bell'albero ? La noia scenderà sugli uomini e i pesci nuoteranno difficilmente, se la luna non brillerà e il sole nasconderà la sua face.
Ma nessun uomo, nessun eroe si presentò per strappare la quercia ed abbattere l'albero, che aveva cento rami.
Il vecchio disse: – O donna, o madre mia Luonnotar, tu che mi hai nutrito, manda qui una delle potenze delle acque, perché abbatta la quercia e distrugga l'albero fatale, liberando le vie del sole e i raggi della luna.
Un uomo, un eroe si slanciò dal fondo delle onde. Non era né fra i più grandi, né fra i più piccoli. Era alto come il pollice di un uomo.
Un elmo di rame copriva la sua testa e gli scendeva fin sulle spalle. Portava stivali e guanti di rame, ed una scure di rame gli pendeva sul fianco. Il manico di questa aveva la lunghezza di un pollice e il ferro era grosso come un'unghia.
Alla vista di quell'uomo, di quell'eroe, il vecchio Väinämöinen incominciò a meditare e disse: – Chi sei tu, che ti presenti come un uomo? Chi sei, povero miserabile? Non vali più di quanto valga un morto, non sei più bello di un essere privo di vita!
Il piccolo uomo del fondo del mare, l'eroe delle onde rispose: – Sono un uomo come tutti gli altri, un piccolo eroe del popolo del mare. Vengo per abbattere la quercia e fare a pezzi il bell'albero.
Il vecchio disse: – Non sei stato fatto per abbatterlo! Ma già l'uomo, l'eroe, aveva preso altra forma. Egli batté potentemente la terra col piede, e innalzò la fronte nelle nubi. La barba gli ondeggiava fin sulle ginocchia, e i capelli fino alle calcagna. L'eroe si mise ad affilare la sua scure con sei, sette pietre, poi si slanciò con i suoi passi leggeri; fece un rapido passo sulla spiaggia sabbiosa, ne fece un secondo sulla terra bruna, e un terzo fino alla quercia fiammeggiante, che colpì subito con la scure. Al terzo colpo il fuoco uscì dall'acciaio; Panu50 fuggì dal tronco, la quercia vacillò, e l'albero immenso si curvò verso la terra. Così tre colpi erano bastati per abbattere il gigante; le radici erano dalla parte dell'oriente, la cima si piegava verso il nord-ovest, i rami deboli verso il mezzogiorno, e i rami grossi verso il nord.
Colui che prese un ramo dell'albero ebbe per sé una felicità eterna; colui che staccò un mazzo dalla sua corona ebbe un amuleto eterno; colui che ne colse una sola foglia sentì accendersi nel suo petto un amore eterno. L'eroe tagliò l'albero in mille pezzi e li disperse sul mare, sulle onde che li portarono via come navi leggere. Appena l'albero meraviglioso fu abbattuto, il sole e la luna ritrovarono libero lo spazio per mandare i loro raggi; le nubi per continuare la loro corsa nel cielo; l'arcobaleno si dispiegò, i campi divennero verdi, i boschi incominciarono a crescere e gli uccelli a cantare!51
Troviamo anche il dio Brahma sotto piccolissima forma, quando, seduto sopra una foglia di loto, medita passando sugli abissi del mare. Dopo la morte di Brahma, quando le acque coprono tutto il mondo, Vishnù, con l'aspetto di un piccolissimo bambino, naviga sopra una foglia di fico, e succhia nel mare il latte col dito del suo piede destro. I Bâlakhilja, genii che hanno la grossezza di un pollice, sono settantamila, e vennero generati dai capelli di Brahma.
Anche il dio Krishna, al quale vennero attribuite tutte le imprese di Vishnù, si trasformò in nano come lui, e con tre passi, essendo divenuto Hari, cioè Vishnù nella sua forma di nano, con i capelli luminosi, percorse il cielo, l'atmosfera e la terra. Nel Mahâbârata, Krishna è anche il protettore del gregge, e come Ercole uccide il toro.
In questo poema si racconta pure che gli dèi, spaventati dalla potenza del gigantesco e malefico lupo Vritra, che il dio Indra non riusciva a vincere, andarono sulla cima del Mandura a parlamento, per chiedere aiuto al gran Vishnù. Questi, che aveva già preso possesso del mondo con i tre passi famosi, disse agli dèi di usare l'astuzia e non la forza per vincere il mostro immane.
Indra seguì quel consiglio, e dopo che ebbe stretto amicizia con Vritra, l'uccise a tradimento col fulmine, nel quale si trovava lo spirito di Vishnù.
Com'egli cadde, per l'immenso giro
Del ciel sorrise un lucido sereno,
Soffiò pel mondo un ricreante spiro,
L'antico ritornò vivere ameno,
Ad onorare il grande Indra si uniro,
Gli esseri tutti di che il mondo è pieno,
Presso il grand'Indra corsero frequenti
Jaksi, Gandarvin, Raksasi, serpenti.
Questi Jaksi sono «semidei al servizio di Cuvera, dio delle ricchezze. Essi sono i genii che più si avvicinano ai nani e gnomi della mitologia germanica, mentre i Raksasi (i Recken o Giganti dell'Edda) hanno forza gigantesca, sono a metà fra il cannibale e il vampiro, e figurano nel Mahâbârata e nel Rig-Veda come spiriti maligni operanti nelle tenebre».52
Indra era pentito di avere ucciso a tradimento il nemico dei numi, e sentiva anche un profondo rimorso per aver prima dato la morte ad un Bramàno, il quale era intento a compiere un'opera di penitenza. Non potendo trovar pace, andava errando alla ventura, ed ora viveva come un serpente, ora scendeva nella profondità dell'acqua, e mentre con l'anima oppressa e colpevole fuggiva ai confini del mondo, nessuno sapeva dove si trovasse.
Quando Indra disparve in quei luoghi strani per espiare la sua colpa, la terra, orba del nume, rimase nella desolazione, e si spogliò degli alberi e delle selve, mentre l'arsura disseccava i fiumi, i laghi e le fontane. I numi erano spaventati, e non avendo in mezzo ad essi chi fosse capace di reggere lo scettro di Indra, stabilirono di darlo al migliore degli uomini, che si chiamava Nahùsa, ed era pietoso, buono e saggio.
Nahùsa accettò, per sua sventura, e quando ebbe la signoria su tutte le cose, una grande superbia si destò in lui, che se la godeva sempre in qualche nuovo piacere, finché gli avvenne un giorno di vedere la bellissima e gentile Saci, moglie del dio Indra. Egli volle fare di lei la regina dei numi, e le chiese di sposarlo. Saci, sempre fedele allo sposo fuggitivo, respinse con disdegno l'offerta di Nahùsa, ed implorò contro di lui l'aiuto del nume Brahaspàti, che rappresentava la potenza magica della preghiera, e che l'aveva unita un giorno al gran dio degli dèi. Il nume confortò la dolente, le promise che avrebbe rivisto Indra, e che non sarebbe mai stata costretta a sposare Nahùsa. Ella doveva intanto fingere di acconsentire alle nozze col re aborrito e chiedergli solo un indugio, che le sarebbe stato accordato.
Saci si presentò tremante innanzi a Nahùsa, il quale accolse con gioia la dea dal bellissimo sorriso, che aveva il volto raggiante di una eterna giovinezza. Ella tremò nell'udire la voce maledetta del nume, e gli disse che accettava il suo destino; chiedeva soltanto che le venisse concesso di cercare notizie di Indra. Se non le fosse riuscito di averne, sarebbe divenuta moglie del re. Nahùsa cedette alle preghiere della dea, e le accordò quanto chiedeva. Saci tornò presso Brahaspàti, mentre Indra, vedendo che Nahùsa occupava in modo così indegno il trono da lui abbandonato:
Invisibile errava a la ventura,
E solingo, aspettando il suo momento.
Saci invocò la dea della notte Astromanzìa, che s'appressò a lei e promise di condurla nel luogo dove si trovava il re dei numi. Saci la seguì, e dopo che si furono aggirate a lungo per le foreste ed ebbero valicati molti monti e superate le creste dell'Himalaja, videro dal lato boreale un vasto mare, ed un'isola coperta di piante strane.
Vi era nell'isola un lago, nel quale, in mezzo all'acqua purissima, cresceva una famiglia di ninfèe:
E proprio in mezzo al lago era a vederse
A sommo l'acque ampio e sorgente un vallo,
Ove addensate le ninfèe diverse
Sorgean e alto tra quelle un loto giallo,
Nel cui capace stelo un varco aperse
Astromanzìa e addentrossi a visitallo;
Addentrossi, e scoperse il re del cielo
Tra le fibre annidato in quello stelo!
Come del loco l'ospite divino
Vide presente in corpicel sottile,
Astromanzìa pur essa in più piccino
Corpo mutossi con magia simile.
Saci salutò con alte lodi ed umilmente lo sposo, e quando gli ebbe raccontato quello che era accaduto dopo la sua scomparsa, l'implorò affinché la liberasse dell'odioso Nahùsa e si decidesse, lui che era l'uccisore dei Giganti, a riconquistare il suo regno immortale.
Indra le rispose che a nulla valeva il suo coraggio contro Nahùsa, il quale, per i doni fatti ai numi, aveva acquistato una forza fatale. Era dunque necessario usare l'inganno per trarlo a perdizione. Saci doveva indurlo con le preghiere e con la promessa del suo amore ad aggiogare al suo carro i santi Risci. Questo sacrilegio avrebbe causato la perdita di Nahùsa. Intanto il nume Brahaspàti mandò il gran dio del fuoco Agni, che era il più antico e famoso dei vati, alla ricerca di Indra. Agni lo cercò inutilmente sulla terra e nel mare, e in ultimo entrò nel lago dove:
Si stava il forte Sacra53 e sopra e sotto
Frugando le ninfèe, gli venne fatto
Di scoprir dove il dio si era ridotto.
E a Brahaspàti ritornò issofatto,
E del gran re dei Numi il fece edotto,
Che piccino piccin si nascondea
Tra le fibre sottil d'una ninfèa!
Quando i numi seppero dove Indra si celava a tutti gli sguardi, andarono a supplicarlo di crescere, e lodando le sue gesta l'indussero a riprendere il suo aspetto di nume, per vincere con la grande potenza i suoi nemici. Nell'udire le lodi dei numi, Indra crebbe:
Con le sue forze e i suoi segni ammirandi.
Mentre si ragionava tra i numi del modo che si doveva tenere per togliere a Nahùsa la sua potenza, giunse in mezzo ad essi il gran romito Agastia, il quale raccontò ad Indra in che modo il superbo, cadendo dal cielo, era stato punito dei suoi delitti. Il romito insistette perché Indra ritornasse trionfante nella sua reggia divina, e intorno al nume gridarono evviva:
Gli dèi contenti e insiem con essi i cori
Dei Maharsi, ed i Mani, e i santi Naghi,
E le Ninfe celesti coi cantori,
E Racsasi, e folletti, e spirti maghi,
Le Apsàrase ed i genii protettori
Dei torrenti, dei rivoli e dei laghi,
E quei de la montagna e quei del mare,
dopo il saluto dei quali Indra riprese, accanto alla moglie diletta, il governo dei tre mondi.
Ora, siccome in Vishnù, trasformatosi in nano, troviamo l'astuzia, questa non manca neppure a Indra, che non crede di poter vincere con la forza Nahùsa, e ordisce con la moglie un inganno che deve causarne la rovina. Egli ha anche ucciso a tradimento il mostro Vritra, e può non solo divenire piccolissimo nell'aspetto, ma anche rendersi invisibile.
Come abbiamo visto, in questo breve episodio del Mahâbârata troviamo il ricordo che doveva diffondersi tra le genti indoeuropee della trasformazione in nani di Vishnù e di Indra, numi possenti e signori della luce che nel mutato aspetto hanno certi caratteri che li avvicinano alla grande famiglia dei nani. Tuttavia, vediamo pure tutto un popolo di nani di ordine inferiore, compagni di altri spiriti, che animano con essi ogni cosa nella natura.
Quest'apparizione dei nani nell'episodio di Nahùsa ha una grande importanza. Essa ci prova che le loro immagini erano popolari in tempi lontanissimi in mezzo alle genti arie; e l'illustre professore Kerbaker, il quale ci ha dato con le sue splendide ottave la prima traduzione italiana di quest'episodio, ci dice che appartiene a quella sorta di narrazioni che gli Indiani hanno distinta col nome di Itihâsa, come derivate immediatamente dalla tradizione popolare, ed elaborate il meno possibile dall'arte dei poeti compilatori, e che perciò ci danno un'idea approssimativa di quel che fosse nell'India antica la mitologia volgare.54
Sotto forma di nano troviamo anche il possente nume del fuoco Agni, il quale, al pari di Indra, era spesso invocato come il gran nume creatore di ogni cosa, o come la luce che illuminava il cielo come il lampo o la fiamma del focolare. Agni conosceva tutte le cose, la sua sapienza era infinita, ed egli conteneva in sé gli altri numi, come la circonferenza di una ruota contiene i suoi raggi. Spesso veniva unito con Indra, e si credeva che entrambi reggessero l'universo. Poiché le fiamme salgono verso il cielo, Agni fu creduto messaggero dei numi, come l'Erme dei Greci. Piccolissimo nel momento della sua nascita, estendeva in un attimo la sua terribile potenza sulla terra. Dissero i poeti che era bello vedere il suo aspetto meraviglioso, poiché il suo volto lucente era splendido come l'oro. Il suo fulgore era pari a quello dei lampi che illuminavano il cielo. Le sue armi erano luminose, possenti e terribili, ma non si doveva mai fidare nella loro bontà. Egli si estendeva come le onde del mare, e con la lingua divorava le foreste.
Nella piccolezza di Agni possiamo trovare l'immagine della favilla dalla quale hanno spesso origine spaventosi incendi. Egli era anche il protettore di tutte le case, il padre, la madre, il fratello ed il figlio di tutti i suoi adoratori. Si credeva che Agni allontanasse il male dagli uomini mentre erano in vita, e poi conducesse le loro anime nel mondo invisibile. Non invecchiava mai, ed era il più giovane di tutti i numi. Come il nume Krishna in una sua forma più recente, aveva il dorso nero.
Qualche volta, nel loro aspetto di nani, i numi maggiori dell'India perdevano la forza; ma conservavano sempre una grande sapienza, e anche quando divenivano invisibili nel fumo, nelle nubi, nell'acqua, nei fiori, non cessavano di vedere e di conoscere ogni cosa. E pare che gli antichissimi poeti arii si siano compiaciuti nell'immaginarli spesso con quell'aspetto, forse perché era per essi il simbolo migliore per rappresentare certi momenti della loro vita e certi fenomeni della natura.
In qual modo questi nani dell'antichissima poesia aria tornarono ad apparire in quella del Medioevo, trasformati ma ancora riconoscibili? I poeti delle nuove genti, che si raccoglievano nella dignità di nazioni, trassero forse le loro immagini dalle semplici leggende popolari, in uno spontaneo e nuovo rifiorire di poesia, o si limitarono a lasciarci una riproduzione in parte modificata di canti ripetuti da secoli in mezzo ad essi, e ricordati senza che le loro genti avessero mai cessato di celebrare fra le altre gesta dei numi e dei padri anche quelle dei nani?
Credo che quest'ultima ipotesi sia la migliore, benché, come ho già notato, le leggende diffuse in mezzo al popolo abbiano anche avuto la loro influenza sull'animo dei poeti. L'esempio della Russia, della Finlandia e delle isole Fàroer ci mostra come l'antica poesia possa durare lungamente in mezzo alle genti con la sola tradizione orale. Poi sappiamo che i Germani, quando vennero sottomessi dai Romani, ripetevano canti nazionali. In questi ricordavano certamente le epiche imprese dei numi e degli eroi, ed in egual modo le cantavano i Celti ed altre genti barbare. Ma se a noi non manca il filo che unisce le immagini mitiche della poesia medioevale con quelle onorate dalle antichissime genti, mancano invece i documenti che potrebbero farci risalire, per una serie non interrotta dal canto medioevale fino al primo colorirsi delle immagini apparse allo sguardo dei padri, che dovevano lasciare ai figli tanta eredità d'immortale poesia, e che saranno sempre per noi gli Indiani, finché non ci venga dimostrato, con chiarezza, che da un altro grande centro si sparsero le tradizioni poetiche e mitiche delle genti indoeuropee.
Così, possiamo affermare che il ricordo degli antichi miti celebrati nei canti epici o lirici rimase in mezzo alle genti del Medioevo, acquistando nuovi elementi che li trasformarono in parte. Anzi, avvenne che nel volgere dei secoli le passioni terrene, l'amore, l'ambizione, il desiderio ardente della gloria le resero con frequenza tanto umane che si confusero con personaggi storici. Ma quanti vati divini a noi ignoti celebrarono la loro gloria? Quanto meraviglioso fiorire di poesia, quante canzoni ispirate, che ebbero, come il canto d'Orfeo, di Väinämöinen, di Horand, la potenza di commuovere le foreste secolari, i monti, le valli, il mare, furono obliate dai posteri?
Questa mancanza di continuità nelle conoscenze che abbiamo intorno alla poesia delle nazioni, ci fa trovare delle lacune nella storia poetica di certe mitiche figure, che non è possibile né alla forza dell'ingegno, né alla tenacità del volere di riempire. L'immagine medioevale ci appare, come ho già detto, trasformata, già confusa con altre, ma non abbiamo assistito alla sua trasformazione in ogni particolare, come Dante assistette a quella di Cianfa e di Agnello nella bolgia infernale. Qualche volta abbiamo visto sopra un fiore una crisalide, che ci è apparsa più tardi sotto forma di farfalla, splendida per la bellezza e la varietà dei colori; e non ci è stato concesso di osservare con occhio curioso il mirabile mutamento. Ma è già molto per noi di essere nella condizione di chi, dall'alto di una cima sublime, può seguire con lo sguardo le linee di un paesaggio meraviglioso. Vi sono in questo paesaggio cime inaccessibili, sulle quali non si potrà forse mai studiare il terreno, le piante, i fiori; ma esso nel suo complesso, non visto mai da altre genti, è visibile intorno a noi, ed è stata lunga, ardua, faticosa la conquista della cima, sulla quale è stata poi innalzata la bandiera che celebra uno dei trionfi del pensiero moderno.
In uno dei tre fratelli Ribhus, famosi nella poesia e nei racconti indiani, troviamo, se non un nano, un fanciullo che compie opere meravigliose ed ha una sapienza sovrumana. Questi tre fratelli erano artefici di opere bellissime; ma il minore, quello che sembrava un fanciullo, era più degli altri sapiente e ingegnoso. Uno di essi serviva Indra come operaio, un altro serviva tutti i numi, ed un altro Varuna, dio della notte. Credo che vi sia una certa relazione fra essi ed i Cabiri adorati dagli Etruschi e dai Greci, dei quali discorrerò più tardi; e come doveva avvenire a questi Cabiri, che furono confusi con parecchi numi principali dell'Olimpo greco, i Ribhus indiani furono spesso confusi con Indra.
Questi tre fratelli si ritrovano con nomi diversi nel Rig-Veda, e intorno ad essi si moltiplicarono i racconti: molti di questi sono ancora popolari in Europa. Fabbricavano le coppe dei numi, e ciascuno di essi ne aveva una in mano; il maggiore dei fratelli sfidò gli altri, dicendo che non avrebbero saputo fare come lui due coppe con una di esse. Il secondo disse che ne avrebbe fatto tre, il terzo ne fece quattro e vinse la gara.
Il nume del fuoco Tvachtari, che è il vulcano dei Veda, lodò il mirabile lavoro.
Nei tre fratelli, che prendono forma di nani in certe leggende sparse nel mondo, si vuole vedere il simbolo dei tre momenti più importanti dell'opera di Indra, quando trovò le vacche (le nubi) chiuse in una caverna, quando le liberò, e quando inseguì e vinse i ladri. Essi potrebbero anche rappresentare i tre passi di Vishnù. Con arte mirabile, i Ribhus riuscirono a fabbricare la vacca (l'Aurora), alla quale diedero la qualità di Proteo, e che fu chiamata strega e incantatrice.
Nella traduzione o parafrasi turca di un racconto indiano, troviamo una delle tante varianti della storia dei tre fratelli. Il primo è molto sapiente, il secondo fa un cavallo che percorre in un giorno lo spazio che gli altri percorrerebbero in trenta; il terzo è valente arciere. Essi vanno alla ricerca di una fanciulla sparita di notte dalla casa del padre, e che certi spiriti hanno trasportata sopra una montagna, in un'isola dove nessuno può approdare.
Il primo dei fratelli indovina in quale luogo si trovi la fanciulla; il secondo crea un animale meraviglioso che può trasportarli nell'isola. Quando vi giungono, il terzo libera la fanciulla e la conduce dal padre; e poi si accende la solita gara tra i fratelli che vogliono sposarla. S'intende che vince il minore.
In un'altra variante della leggenda i fratelli sono quattro, e lavorano l'uno dopo l'altro un pezzo di legno. Il primo gli dà la forma di una donna, il secondo la colorisce, il terzo la perfeziona, il quarto le dà la vita. Essi disputano per sapere chi la sposerà. Un savio dice che i primi due sono stati il padre e la madre della fanciulla, il terzo è il sacerdote, il quarto deve essere suo marito.
Fra le novelle popolari della Russia, sono innumerevoli quelle in cui si parla dei tre fratelli, e l'ultimo ha sempre la parte più importante nella narrazione.
In una di queste novelle, il terzo fratello, il quale possiede una borsa che si riempie da sé appena è vuota, ruba al secondo la tabacchiera, dalla quale escono innumerevoli soldati e il mantello che rende invisibile chi lo possiede.
Per un caso strano, nel Popol vuh, dove sono raccolte le credenze più antiche dei Quitché, si parla di tre fratelli, l'ultimo dei quali, a giudicare dal nome, deve essere piccolissimo, poiché così gli antichi popoli americani chiamavano il dito mignolo. Questi tre fratelli rappresentano «lo spirito dei cieli», e hanno creato ogni cosa: il primo, chiamato Cakulha-Hurakan, è forse un mito del lampo; nel secondo, Raxa-Cakulha, si vuole ritrovare l'immagine dello splendore della luce. L'ultimo, detto Chipicakulha, sarebbe «il balenare del lampo». La parola chip, nella lingua dei Quitché, è usata per indicare l'ultimo, il più piccolo dei ragazzi o il dito più piccolo. Quando in questi tre miti raccolti insieme si vede la forza terribile delle tempeste, si chiamano Hurakan. Questo nome mette una certa relazione fra essi e Cabrakan, mito del terremoto.55
Spesso, in altre mitologie, vediamo certi numi compiere opere meravigliose quasi subito dopo la loro nascita, dando prova di avere una forza soprannaturale. Poi crescono rapidamente, e si mostrano in tutta la loro bellezza.
In questi fanciulli dobbiamo trovare il ricordo delle antichissime trasformazioni del sole, del fuoco e di altri numi in nani. Presso i Greci Apollo, Eracle, Erme diedero prova del loro senno e della loro forza mentre vagivano ancora nella culla; e se ebbero soltanto aspetto di fanciulli, questo avvenne perché si conservava un ricordo confuso delle vicende di certi miti antichissimi e del loro significato; o meglio ancora, perché ripugnava troppo al genio dei Greci di dare un aspetto primitivo e deforme ad Apollo e ad Erme, che erano per essi l'immagine della bellezza perfetta, e ad Eracle, che rappresentava la forza della persona, tanto pregiata fra le stirpi greche.
Così, avviene che Apollo fanciullo, quattro giorni dopo la sua nascita, uccide il serpente malefico, servendosi delle frecce fabbricate da Efesto, che possono essere i raggi del sole che vincono l'oscurità della notte, o il fulmine che squarcia la nube, dalla quale, come già notai, deve discendere sulla terra la pioggia benefica. Poi Apollo cresce rapidamente, poiché appena ha bevuto l'ambrosia le fasce non possono più contenerlo; egli domanda allora l'arco e la cetra. Eracle bambino è assalito dai serpenti, che Giunone manda contro di lui, e li uccide mentre si trova ancora nella culla. Erme fanciullo ruba ad Apollo cinquanta giovenche, e mentre è in fasce viene costretto dal nume a seguirlo nell'Olimpo, dinanzi a Giove, che ride nel vederlo.
Il fabbro Ilmarinen, che ha tanta importanza nell'epica dei Finni, nacque di notte, sopra una montagna di carbone, tenendo in mano un martello, e crebbe così presto che il giorno seguente costruì la sua fucina. Appena questa fu pronta, egli andò a cercare in una palude vicina «un germe di ferro, un seme di acciaio», per essere poi in grado di compiere i suoi meravigliosi lavori.56
Quando nacque in Russia l'eroe Volga, nel quale si vuole trovare il ricordo di una divinità misteriosa delle genti slave, la terra umida tremò, il mare divenne tempestoso, il pesce s'immerse nell'abisso, l'uccello volò nella nube, i cervi fuggirono al di là delle montagne, e le fiere si dispersero nei boschi. Volga crebbe con rapidità portentosa. Subito dopo la sua nascita parlò, e la sua voce rimbombava come il fragore del tuono. Conosceva tutte le astuzie, tutte le arti della magia, sapeva tutte le lingue, e capiva anche quelle degli uccelli, delle fiere e dei pesci.
Il Superlatif delle leggende popolari, maledetto da una fata nana che aveva offesa, è condannato a diventare sempre più piccolo, tanto da poter essere chiuso in un cassetto. Essendo finita per lui la triste influenza della maledizione, diventa rapidamente un gigante. Si vuole trovare nel famoso Gargantua di Rabelais una forma umoristica di Superlatif, nella sua trasformazione da nano in gigante.57
Secondo un racconto di Cicerone, il genio Tagete, che aveva l'aspetto di un fanciullo, balzò fuori dal solco fatto dall'aratro mentre un contadino lavorava la terra, nel territorio di Tarquinia. Nel vederlo, il contadino si mise a gridare per la meraviglia; la gente accorse, e ben presto tutta l'Etruria si raccolse intorno al fanciullo. Questi parlò lungamente al popolo, ed i suoi ammaestramenti furono scritti. Essi formarono la base della scienza degli aruspici, e formarono, secondo Cicerone,58 gli archivi degli Etruschi.
La dottrina bandita in quel modo dal fanciullo fu, a quanto pare, il codice religioso più antico dell'Etruria. Negli scritti redatti da Tarconte, nelle parole del piccolo legislatore si trovavano la teoria religiosa dei lampi e dei fulmini, i precetti che dovevano essere osservati per la fondazione delle città ed altre leggi. Fra i libri di Tagete si annoveravano anche quelli acherontei (Sacra Acheruntia), che contenevano la dottrina dell'espiazione, dell'apoteosi e i riti che dovevano far ritardare il compimento del destino.59
Qualche volta, anche la strana divinità asiatica che rappresentava la luna veniva raffigurata con l'aspetto di un fanciullo. Questo nume, che si ritrova pure nel culto dei Fenici, era adorato nella Tracia e nella Frigia, e pare che di là i Romani ne abbiano portato la conoscenza anche sulle spiagge della Bretagna. Esso fu pure trovato in Sardegna fra certi idoli strani, creduti opera dei Fenici. Parecchi anni or sono, una statuetta di questo nume fu scoperta in Normandia, e si credette che fosse uno di quei piccoli geni senza carattere determinato che servono spesso di ornamento nell'architettura romana; poi si capì che aveva portato sul capo la mezza luna. Questo nume fu chiamato «Mèn» dai Celti, ed immagini simili alla sua sono state rinvenute in Tracia.60
La bassa statura di Ulisse e la sua grande astuzia possono in qualche modo avvicinarlo a certi nani famosi della poesia indiana. Ulisse arriva appena alla spalla di Agamennone ed a quella di Menelao. Ma nessun mortale può essere astuto più di lui nell'ingannare la gente. In quest'arte così triste è esperto al pari di Vishnù, di Indra, di Regin, di Alberico, di Laurino e di tanti altri nani. È anche ladro come molti di essi, che meritarono questo nome nascondendo agli sguardi degli uomini il disco del sole e la luce, sotto forma di anelli d'oro e di tesori, e la bella fanciulla incoronata di fiori che sorride alla terra durante la primavera. Così, Ulisse ruba con Diomede i cavalli di Reso, che erano:
Una neve in candor, nel corso un vento,
ed anche il Palladio fatale, prima che venisse compiuto l'agguato del cavallo, che doveva trarre Ilio all'estrema rovina e unire eternamente i due amici, che nell'Inferno insieme:
Alla vendetta vanno come all'ira.