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Gli artefici più valenti – esperti nel lavorare le spade degli eroi, le corazze che mandavano faville al sole, gli elmi d'oro e d'acciaio con le lunghe criniere ondeggianti ed i cimieri adorni, gli scudi coperti di fregi d'oro e di bronzo sulle settemplici pelli taurine, le coppe preziose nelle quali i sacerdoti e gli eroi libavano agli dèi, ed i gioielli che adornavano le antiche donne più belle del sole – non ebbero mai fama simile a quella degli artisti divini, che lavoravano i metalli in certi paesi misteriosi o nelle fucine sotterranee dove ardeva il fuoco dei vulcani. Uno dei più illustri fra questi artisti è Efesto, che non cessava mai di compiere opere mirabili, fra le quali vanno annoverate il carro del sole, la corazza di Diomede, le armi e lo scudo di Achille, lo scettro ed il trono di Giove, i seggi dei numi, i palazzi dell'Olimpo, e le vaghe ancelle:
...tutte d'oro e a vive
Giovinette simili, entro il cui seno
Avea messo il gran fabbro e voce e vita
E vigor d'intelletto, e delle care
Arti insegnate dai Celesti il senno.61
Efesto, dopo la lunga dimora nel mare dove fu gettato dalla madre, che voleva celare il suo piede deforme, ebbe la sua fucina di bronzo massiccio sulle nevose cime dell'Olimpo. L'adornavano le stelle, ed egli lavorava presso il fuoco avvivato nel fornello dal soffio di venti mantici. Più tardi si disse che la sua fucina si trovava in Lenno, dove era un vulcano molto attivo nell'antichità, ed in ultimo, confuso col latino Vulcano, lavorò anche presso il fuoco dell'Etna con i suoi Ciclopi.
Il Preller suppone che l'antica arte figurativa abbia rappresentato Efesto in forma di nano, essendo largamente diffusa la tendenza ad immaginare sotto questa forma i numi del fuoco, del fulmine e dei regni sotterranei della terra. Infatti, sopra un antico vaso greco,62 si vede un'immagine di Efesto, molto piccolo pur avendo la barba, vicino a Dioniso, che l'ha ubriacato per farlo tornare nell'Olimpo dalle sue fucine sotto l'Oceano.63 Più tardi venne rappresentato come un fabbro robusto, ma gli restò sempre il difetto nel piede, argomento di riso per i numi, e che non doveva essere il solo in lui, poiché Omero ce lo presenta anche come un mostro con le gambe sottili e vacillanti. Pare che questa deformità di Efesto sia un simbolo del muoversi delle fiamme e del guizzare del lampo.64
Vi è chi vuole ritrovare in Efesto il dio del fuoco Agni,65 altri sono di contrario parere, e lo avvicinano di più a Tvashtar, mito della folgore presso gli Indiani, ed artefice valente. In ogni modo, Efesto mostra spesso come Agni una grande sapienza, e questa lo fa trovare qualche volta in relazione con Minerva. Nella Teogonia di Esiodo, pare che Efesto sia l'immagine del lampo e del fulmine. Come tale, spacca con la sua scure la fronte di Giove, dalla quale esce Minerva armata. Insieme col sapere, troviamo in lui anche la prudenza, quando esorta la madre a non opporsi al volere di Giove, e mentre fa da coppiere ai numi raccolti nell'Olimpo, le ricorda la triste scena avvenuta quando il nume crudele lo scagliò nel vuoto dall'alto delle soglie divine. – Allora, – soggiunge Efesto:
...un giorno intero
Rovinai per l'immenso e rifinito
In Lenno caddi, col cader del sole
Dalli Sinzi raccolto a me pietosi.66
Questa caduta può essere l'immagine del fulmine che viene lanciato sulla terra da Giove, il quale infuria nell'aria fra le nubi che ha radunato.67 Efesto rappresenta anche i fuochi sotterranei, ed essendo questi malefici al pari del fulmine, poiché le eruzioni vulcaniche cagionano gravi danni agli uomini, vi è nelle opere sue una triste influenza, che si ritrova in quelle di quasi tutti gli altri miti del fuoco sotterraneo e del fulmine. Egli è anche vendicativo ed astuto, e ne diede prova lavorando il seggio d'oro sul quale Giunone rimase legata con lacci invisibili che egli solo poteva sciogliere, e la rete con la quale involse Ares ed Afrodite.
E poiché il fuoco che arde misteriosamente nella terra destava tanto terrore e la sua forza parve così grande, Efesto, padrone di quel fuoco, fu pure creduto come Agni il grande artefice dell'universo; e nell'estendersi del suo culto acquistò in certe regioni un'influenza superiore a quella di Vesta, che rappresentava il fuoco domestico.
Tvashtar, il gran fabbro indiano, faceva le armi dei numi e quelle degli spiriti maligni, e spesso prendeva forma di leone. Volendo vendicarsi del dio Indra, che gli aveva ucciso un figliuolo, creò il mostruoso Vritra, strappandosi una ciocca di capelli e gettandola nel fuoco. Egli, dunque, non si dilettava soltanto nel fare opere d'arte mirabili, ma creava anche mostri orribili.
Fra tanti altri numi del fuoco e del fulmine, che si trovano in tutte le mitologie, il malvagio Loki scandinavo si avvicina molto per la bruttezza ad Efesto; è perfido, e si compiace nel fare dispetti ai numi. Egli è strettamente unito al mondo sotterraneo ed ai nani, poiché è figlio di un malvagio elfo nero, e viene anche chiamato elfo. Al pari dell'eroe Högni, col quale il Simrock ritiene che sia confuso, e che ha tanta parte nel poema di Gudrun, nei Nibelunghi, nel Waltharius e nella Saga d'Helgi, è l'immagine di elementi malefici e terribili.
Invece, il fabbro Ilmarinen, che ha quasi il posto d'onore nel Kalevala dei Finni, e che dopo aver compiuto fatiche gravi al pari di quelle d'Ercole sposa finalmente la bellissima fanciulla amata, è ben diverso nell'aspetto da Efesto e da Loki. Egli era coperto di polvere e lavorava chino sull'incudine, quando sua sorella Annikki, la bella vergine, gli disse, entrando nella fucina:
– Lavori senza tregua il ferro; hai passato tutta l'estate e tutto l'inverno per mettere i ferri al tuo cavallo. Hai impiegato giorni e notti per costruire la slitta mirabile che ti dovrà servire quando andrai a cercare una sposa in Pohjola, ed ora un uomo più astuto, più illustre di te, va a rapirti la fanciulla che ami, la tua fidanzata. Ora Wäinämöinen naviga sul mare azzurro, nella sua nave dalla prora d'oro e dal timone di rame, per andarti a rapire la sposa!
Il fabbro, vinto da un dolore infinito, lasciò cadere il martello e promise alla sorella di farle degli anelli, tre paia di orecchini e sei cinture in forma di catene, purché facesse riscaldare subito per lui l'acqua del bagno e gli preparasse del sapone morbidissimo.
Mentre Ilmarinen, curvo sull'incudine, lavorava gli oggetti promessi alla sorella, questa fece riscaldare l'acqua e preparò gli abiti che egli doveva indossare. Ilmarinen, divenuto bellissimo quando il suo volto non fu più coperto di fuliggine, indossò la tunica azzurra con la fodera gialla, una pelliccia ornata di mille bottoni e cento ricami. Mise anche i guanti d'oro lavorati dai Lapponi, coprì con l'elmo i suoi capelli d'oro, fece distendere sulla bella slitta una pelle d'orso ed una pelle di lontra, e ordinò ad uno schiavo di attaccare alla slitta il migliore dei suoi cavalli. Sul collare del cavallo fece mettere sette uccelli con le penne azzurre, che potessero attrarre col dolcissimo canto gli sguardi delle fanciulle; poi, tenendo le redini e frusta, seduto sulla pelle d'orso nella slitta d'acciaio, sferzò il cavallo dalla criniera di lino e partì per andare da colei che da tre anni era la sua fidanzata.
Più tardi, Ilmarinen seppe fare nella sua fucina una fanciulla d'oro, ma non ebbe il potere di darle quella vita e quella sapienza che Efesto aveva dato alle belle fanciulle d'oro che sorreggevano nell'Olimpo i suoi passi vacillanti!
La bella sposa d'Ilmarinen, per la quale aveva sospirato per sei anni, fu dilaniata dalle belve che il suo perfido servo Kullervo aveva condotte nella stalla, invece del gregge che gli era stato affidato da lei. Il fabbro Ilmarinen pianse amaramente la sposa. La pianse mattina e sera, senza mangiare e senza dormire, e la seppellì nella terra. Per un mese lasciò immobile il martello, mentre il silenzio regnava nella fucina.
Per quattro mesi il fabbro pianse la sposa, poi raccolse nel mare delle spighe d'oro e dei covoni d'argento, raccolse cataste di legna su trenta slitte, fece con la legna il carbone, e lo trasportò nella sua fucina.
Egli prese l'oro e l'argento, che gettò nel fuoco della fucina, e comandò agli schiavi, ai giovani salariati, di soffiare. Questi soffiarono con ardore, senza avere guanti alle mani e berretti sul capo. Ilmarinen si mise a lavorare perché voleva farsi una sposa d'oro, una fidanzata d'argento.
Gli schiavi si mostravano pigri soffiando, i giovani pagati non avevano forza. Ilmarinen afferrò il mantice, soffiò tre volte, e guardò per vedere quello che il fuoco aveva prodotto.
Una pecora dal vello d'oro balzò in mezzo ai carboni, ma Ilmarinen non si rallegrò. Il lupo avrebbe certamente desiderato la pecora, ma il fabbro voleva una sposa d'oro. Egli gettò la pecora nel fuoco con altro oro ed argento, e gli schiavi ripresero a soffiare. Un'altra volta venne meno la loro forza; Ilmarinen prese il mantice, ed un puledro balzò dalle fiamme. Il lupo si sarebbe rallegrato nel vedere il puledro, ma il fabbro lo gettò nelle fiamme con altro oro ed argento, e gli schiavi ripresero a soffiare. Finalmente una fanciulla balzò fuori dai carboni. Essa aveva la testa d'argento, il corpo d'oro ed era bellissima. Altri si sarebbero impauriti nel vederla, ma il fabbro Ilmarinen si rallegrò.
Egli prese a lavorare col martello la sposa d'oro, e lavorò di giorno e di notte. Le fece i piedi, ma questi restarono inchiodati sul suolo, le fece le mani, ma queste non si mossero. Le fece le orecchie, ma queste non udivano, le fece una bella bocca, e questa non parlava, le fece gli occhi, ma non vedevano.
Ilmarinen non volle per sua sposa la gelida creatura senza vita, e la portò a Wäinämöinen, sperando che volesse farne la sua sposa eterna. Ma il vecchio gli domandò perché gli portava quel fantoccio d'oro, e l'ammonì, dicendogli di gettare di nuovo la sposa nel fuoco: i giovani non dovevano cercare una sposa d'oro o una fidanzata d'argento, poiché lo splendore dell'oro non riscalda, e l'argento luminoso è freddo.
Kousnetz, il fabbro divino degli Slavi, così affine al Tvashtar indiano, è anche capace di fabbricare nella sua fucina il destino degli uomini; ed è strano davvero quello che fabbrica per l'eroe Sviatogor, nel quale troviamo uno dei miti più antichi della Russia. Sviatogor, specie di Titano fortissimo, è dunque costretto a sposare una giovane che dimora in un regno presso il mare. Egli parte con l'intenzione di uccidere la fidanzata impostagli dal fabbro.
Questa giace da trent'anni in una capanna: è orribile, e la sua pelle somiglia alla corteccia dei pini. Sviatogor ferisce col coltello la donna mostruosa, mette vicino a lei una moneta, forse perché possa pagare quel tributo richiesto dai numi infernali in mitologie diverse, e parte.
Ma una fanciulla bellissima esce dalla ruvida pelle nella quale era chiusa fin dalla sua nascita, e va nella Montagna santa. Sviatogor l'incontra, si accende d'amore e la sposa, senza riconoscere in lei l'antica fidanzata. Ma nel giorno delle nozze vede al collo della sposa la moneta lasciata vicino a colei che aveva ferita!
Intorno ad Efesto si raccolse un popolo di altri numi, che furono quasi tutti di un ordine inferiore, ma egualmente esperti nel lavorare i metalli, e molti dei quali erano nani, come furono più tardi i piccoli fabbri delle montagne, che lavoravano le spade e le armature degli eroi nelle misteriose fucine in Bretagna, in Germania, nella Scandinavia, e presso il lago di Garda.
Fra tutti quei numi, ebbero grande importanza i Cabiri, ai quali si rese un culto misterioso sulle coste della Troade, nelle isole del mare della Tracia, e nell'Etruria. Vennero detti figli di Efesto e di Cabeire, figlia del vecchio Proteo, famoso per le sue trasformazioni, che rappresentano gli improvvisi mutamenti del mare. La relazione esistente fra i Cabiri ed il fuoco, del quale Efesto è il simbolo, e quella fra essi ed il mare, personificato nella mutevole figura di Proteo, avviene perché furono creduti dagli antichi Greci i geni dei vulcani del mare di Tracia. Ad essi erano consacrate le isole di Lenno e di Samotracia, ed il loro culto, con i suoi misteri, vi era celebrato con grande solennità.
Pare che anche i Cabiri abbiano avuto in certi casi aspetto di nani, ed Erodoto, che vide alcune delle loro imagini in Memfi, le paragonò a quelle degli dèi nani creduti dai Fenici protettori della navigazione, e dei quali mettevano le effigie sulle prore delle loro navi. In tempi relativamente meno antichi, anche i Cabiri furono invocati come protettori della navigazione, e qualche volta confusi con i Dioscuri.68
Fu tanto misterioso il culto reso ai Cabiri, che non può riuscirci di conoscerlo in modo chiaro, ma poiché i metalli che lavoravano con tanta maestria sono nascosti nelle profondità della terra, vi era nei misteri di quel culto una certa somiglianza con quello di Persefone, di Ade ed anche di Demeter;69 anzi, nella Beozia si aggrupparono, per così dire, intorno a questa dea, che venne chiamata Demeter Cabiria. Nel suo tempio in Tebe potevano entrare solo gli iniziati ai misteri cabirici, dei quali si fa risalire l'origine agli antichissimi Pelasgi; anzi, pare che questo culto, che si ritrova anche in Etruria fin da tempi lontani, metta in stretta relazione gli Etruschi per le loro origini, con i Pelasgi Tirreni di Samotracia.70 I Dioscuri furono confusi con i Cabiri dagli isolani del mare Egeo, poiché si dava il loro nome a quelle fiammelle elettriche che appaiono spesso sugli alberi delle navi, e che ora sono dette comunemente «fuochi di Sant'Elmo». In quel loro aspetto di fiamme, esse erano congiunte ai numi del fuoco. I Cabiri vennero creduti possenti e cattivi, e si disse che nel fondo del mare alimentavano le fiamme dei vulcani. E poiché i metalli non si possono lavorare senza il fuoco, dei quali erano padroni, si credette che fossero stati i primi fabbri. Uno dei loro templi in Lenno era vicino a quello di Efesto, e spesso venivano onorati insieme. Erano anche padroni del fulmine, e punivano i profani che osavano entrare nei templi dove si celebravano i loro misteri. Si diceva che i soldati macedoni entrati nel loro tempio in Tebe, dopo che Alessandro ebbe presa quella città, furono colpiti dal fulmine.
I Telchini, mirabili artefici, furono creduti figli di Poseidone. Non avevano piedi, potevano mandare la neve e la pioggia sulla terra e cambiare aspetto a loro piacere, come altre divinità del mare, mostrandosi ora come uomini, ora come pesci o serpenti. Avendo Poseidone podestà sul fuoco eterno, che mandava dalle profondità del mare nelle isole dove ardevano i vulcani, anche i Telchini erano in relazione con quel fuoco, e lavoravano i metalli. Erano anche nani crudeli,71 e regnavano sull'isola di Rodi, di formazione vulcanica. Si disse che furono poi costretti dai figli di Elio ad abbandonare quell'isola, ma prima di lasciarla l'innaffiarono con l'acqua dello Stige, rendendo per lungo tempo il terreno infecondo. Essi ebbero fama di maghi, e fabbricarono l'arpa di Crono ed il tridente di Poseidone. Come i Ciclopi, furono valentissimi nel lavorare le armi, e si disse pure che avevano costruito i templi più antichi di Rodi. Una corporazione di artisti valorosi prese il loro nome. Questi conservavano gelosamente il segreto delle proprie arti, e lo trasmettevano ai loro figli di generazione in generazione.
Già nell'Odissea72 si dice che Atena ed Efesto insegnarono le arti agli uomini, e Platone espresse la stessa idea. A cagione di questo ufficio comune che ebbero la dea della sapienza ed il dio del fuoco, il nome dato in Rodi ai Telchini, dei quali Efesto era il patrono, fu pure dato ad Atena.73 Anche Apollo Rodio fu rappresentato come un Telchino.
Si disse pure che i Telchini avevano membrane fra le dita, come gli uccelli acquatici, e così si trovano anche in relazione col mito delle donne cigni, che è uno dei più belli di tutta la poesia orientale, ed in tempi lontanissimi fu immagine delle nubi.74 In Rodi erano adorate anche certe ninfe chiamate Telchine; e Pausania racconta che nell'Arcadia si faceva vedere un luogo nel quale Poseidone era nato, e lo avevano educato i Telchini! Questi erano anche un mito dell'azione che compiono sulla terra i raggi solari.
Anche i Coribanti e i Dactyli del monte Ida, che vediamo con frequenza raccolti intorno alla dea Cibele, furono creduti lavoratori esperti di metalli e nani, in certi loro aspetti; e si vuole che il Kabalos greco sia molto vicino ai Goblins inglesi ed ai Koboldi germanici.
Pare che i Cabiri, i Coribanti, i Telchini della Grecia, quando vengono considerati come artefici, siano in stretta relazione con i Ribhus, dei quali ho già parlato, con i Takschakâh, ed altri numi o genii dello stesso genere che si trovano nelle più antiche tradizioni dell'India. Ma non dobbiamo dimenticare che i Greci crearono anch'essi molte immagini mitiche, e trasformarono in gran parte quelle che si ritrovavano nelle antichissime traduzioni dei loro padri.
In mezzo a questa folla di numi strani, quelli che dovettero nelle loro origini sembrare più piccoli al popolo credulo e ignorante furono certamente i Dactyli, ai quali si rese un culto anche in Grecia. La loro origine si ritrova in India, nei Dakachak, i dieci uomini forti detti anche giovani instancabili, che aiutavano il nume del fuoco Agni e rappresentavano le dieci dita dei sacerdoti che accendevano il fuoco! In Grecia si credette che i Dactyli avessero inventato l'arte di lavorare i metalli e insegnato agli uomini altre cose utili. Si diceva in Cipro che ad essi si doveva la scoperta del ferro,75 ma ignoro se esso si dolse amaramente, quando per la prima volta i fabbri della Grecia lo misero nel fuoco! Sappiamo invece che il fabbro Ilmarinen, dopo che l'ebbe trovato in una palude della Finlandia, lanciò su di esso una specie di maledizione, e non si lasciò commuovere dai suoi lamenti quando lo gettò nel fuoco.
Poco tempo prima che questo avvenisse, il ferro era nato ed aveva voluto visitare il fuoco, che era il maggiore dei suoi fratelli. Il fuoco, nel vederlo, era divenuto furioso, ed innalzandosi in modo spaventevole aveva minacciato di divorare il povero ferro. Questo, sfuggito alla sua stretta spaventosa, alla sua bocca furiosa, «si era nascosto nel fondo di una sorgente che mormorava, nelle viscere di una grande palude, e sulla cima di una roccia selvaggia, dove i cigni deponevano le loro uova». Per tre anni il ferro era stato nascosto nella palude, sfuggendo alla stretta orribile del fuoco, prima che il fabbro Ilmarinen lo trovasse. Quando il povero ferro, caduto nelle forti mani dell'eroe, sentì nominare il fuoco, si mise a tremare per lo spavento. Ilmarinen gli disse di non tremare e soggiunse:
– Quando sarai entrato nella mia fucina, diverrai spada terribile nelle mani degli eroi, e frangia per ornare le cinture delle donne. Sotto il soffio possente d'Ilmarinen, il ferro divenne una pasta e si gonfiò come la schiuma. Esso gettò allora un grido di dolore, e pregò Ilmarinen di salvarlo dalla terribile forza del fuoco. Il fabbro gli disse: – Se ti ritiri dal fuoco ti mostrerai crudele, e forse colpirai tuo fratello!
Il fuoco fece un giuramento solenne. Gli sarebbe bastato di mordere il legno, di divorare i cuori di pietra, di essere compagno del viaggiatore, anziché colpire il proprio fratello. Dopo quella promessa, il fabbro ritirò il ferro dal fuoco, lo mise sull'incudine e ne fece spiedi, lance, scudi ed oggetti di ogni specie. Egli si adoperò anche per renderlo più forte e mutarlo in acciaio. Ma la vespa Heriläinen portò nel vaso dove Ilmarinen doveva mettere il ferro per temprarlo il veleno mortale della serpe, mentre il fabbro aspettava invece che l'ape vi portasse il miele! Il ferro immerso nel veleno si ribellò, l'acciaio mancò al giuramento e colpì suo fratello; allora scorse il sangue, e scorse come un fiume.
La malvagità che si trova in molti numi del fuoco e la loro maestria nelle arti li avvicina agli spiriti perversi della mitologia persiana. Molti di questi furono vinti dal virtuoso re Thahmurath, e costretti a seguirlo. Dicesi, nel Libro dei Re, che Thahmurath, illustre esempio di virtù, volle, insieme con i più valorosi guerrieri del suo regno, punire la superbia degli spiriti cattivi e liberare con la forza delle armi la terra, l'aria ed il mare dalle opere maligne. Con possente arte di magia, caricò il malvagio dio Arimane di catene, ed essendogli montato sul dorso, andò a vedere le diverse regioni del mondo. Senza temere cosa alcuna, frenava con mano sicura il nume impaziente. Gli altri spiriti malvagi, che invidiavano la gloria del re ed erano ribelli alla sua volontà, si radunarono in numerose schiere; poi, levando alte grida per l'aria fosca, spiegarono le ali nere e proclamarono Thahmurath decaduto dal trono.
Il giustissimo re s'accese d'ira, chiuse nelle armi le belle membra, e invocando il nume che esalta i forti si slanciò, seguito dai suoi, contro l'agguerrita schiera degli spiriti maledetti. Innanzi a lui si levarono allora, corruscando orribilmente, mille e mille lingue di fuoco; la falange degli spiriti cattivi, avvolti nelle fiamme e nel fuoco, venne con lui alla prova delle armi. Thahmurath sgominò con la clava le schiere fortissime e minacciose; i Devi, che non erano stati feriti nella battaglia, porsero tremanti le mani alle catene. Coperti di fango e di sangue, con le membra aperte dalle ferite e cariche di ferro, si trascinavano al suolo. In lacrime, domandarono la vita a Thahmurath, promettendo di dargli la conoscenza di nuove arti.
Il generoso re accolse la preghiera dei vinti e volle che fossero lasciati in vita, purché gli svelassero il segreto delle arti conosciute dagli spiriti maligni. Dopo la morte di Thahmurath, il suo successore fece meravigliose invenzioni, ordinò ai Devi di mescolare la terra con l'acqua e di fabbricare i mattoni, con i quali essi, usando anche pietre e calce, costruirono ampli palazzi e terme, e portici mirabili.
La forza, lo splendore, la terribile potenza del fulmine, opera dei numi sotterranei del fuoco, si ritrovano spesso nelle spade che lavorarono per gli eroi. Ed ebbero gran rinomanza nel Medioevo quelle che furono credute opera dei nani della Scandinavia, della Germania e della Bretagna, non meno esperti dei Cabiri e dei Telchini.
Già vedemmo quale importanza ha, nella saga dei Volsunghi, la spada lavorata dal nano Regin; adesso debbo notare ancora che Snorri, nella Giovine Edda, dice che le armi dei nani erano terribili, e che essi lavorarono la celebre spada Dainsleif. Questa ha molta importanza nella leggenda di Hilde, dalla quale dovevano derivare certi racconti della Wilkina saga, e l'avventura di Hilde, che forma la seconda parte del poema Gudrun, appartenente, come già detto, al ciclo nuziale del Mare del Nord.
Snorri ci racconta che il re Högni aveva una figlia bellissima chiamata Hilde. Essendo Högni andato ad un'assemblea di re del mare, un altro re, chiamato Hedhin, rapì la fanciulla e devastò il suo regno. Quando Högni seppe questa tristissima notizia, partì con la sua flotta per inseguire Hedhin, che si era diretto verso il nord. Högni lo raggiunse presso le Orcadi, in vista di un'isola chiamata Hâey. Hilde andò a vedere il padre, e gli offrì una collana come pegno di riconciliazione fra Hedhin e lui; ma gli fece anche intendere che il suo sposo era pronto a combattere. Il re trattò male la figlia, e i due eroi sbarcati nell'isola si prepararono con i loro soldati alla battaglia. Quando gli eserciti furono l'uno di fronte all'altro, Hedhin offrì al suocero una forte somma di danaro in compenso del danno che gli aveva recato. Il re Högni gli disse che era troppo tardi, e che non poteva accettare nessuna proposta di pace, avendo già tolto dal fodero la spada Dainslef, fabbricata dai nani, che richiedeva la morte di molti uomini una volta sguainata. Essa faceva inguaribili ferite.
Hedhin gli rispose che poteva menar vanto della spada, ma non già della vittoria, non avendola ancora ottenuta. Egli aveva per costume di chiamare ottima soltanto quella spada che serviva bene il suo padrone.
Ebbe allora principio la battaglia, ed i guerrieri che non caddero sotto i ferri nemici tornarono la sera sulle navi, abbandonando i morti. La notte Hilde scese sulla spiaggia dove questi giacevano, e li richiamò alla vita, perché conosceva l'arte della magia. L'indomani, tutti ricominciarono la battaglia, e la notte Hilde tornò a risanare i morti. Avvenne pure che i soldati caduti e le armi sparse sul campo di battaglia vennero mutati in pietre; ma all'alba gli uomini tornarono a vivere, e le armi riprendevano la loro forma. Certe leggende dicono che quella lotta durerà fino al Crepuscolo dei numi. Non meno preziosa era la spada che possedeva Raoul de Cambrai. Era opera del famoso fabbro Galans, il quale viene anche ricordato in altre canzoni di gesta, fra le quali dobbiamo annoverare Fierabras, Huon de Bordeaux e Garin de Monglane. Galans apparteneva in origine alle tradizioni scandinave, nelle quali aveva il nome di Voelund. Questi era un nume possente al pari di Vulcano. Quando Raoul de Cambrai fu armato cavaliere:
Li rois li çainst l'espée fort et dure
D'or fu le pons et toute la heudure
Et fu forgie en une combe oscure
Galans la fist qi toute i mist sa cure.
Fors Durendal qi fu li esliture,
De toutes autres fu eslite la pure:
Arme en cest mont contre li rien ne dure
Itheles armes font bien a sa mesure.76
Nella Wilkina saga, il nano Alberico è stato l'artefice delle due spade meravigliose chiamate Nagelring ed Eckesahs. Egli ruba per l'eroe Dietrich di Bern (Teodorico) la spada Nagelring, venuta in possesso del gigante Grim, che doveva combattere col Veronese. Ma la figura del nano ed anche quella di Teodorico restano, per così dire, offuscate in questa saga, mentre si svolge una dolce storia d'amore fra Hilde, nipote di Artù, ed il giovane Herbot, nipote di Teodorico.
Il signore di Verona aveva udito parlare con molta lode della bellezza meravigliosa di Hilde, figlia del re Artù, e stabilì di sposarla. Egli mandò in Bretagna alcuni suoi vassalli, con l'incarico di trovare il mezzo di vedere Hilde, per sapergli dire se veramente fosse tanto bella.
La fanciulla veniva custodita dal padre in tal maniera, che non riuscì ai vassalli di Teodorico di vederla; ma essi dissero al loro signore che in ogni luogo si parlava della sua bellezza, superiore a quella di tutte le altre fanciulle.
Teodorico mandò allora sua nipote Herbort alla corte di Artù, con un seguito di ventiquattro cavalieri, per domandare in suo nome la mano della fanciulla. Il giovane portò il messaggio, ed il re gli disse che avrebbe potuto vedere Hilde solo in un certo giorno dell'anno, quando ella sarebbe andata in chiesa.
Herbort restò dunque alla corte di Artù, aspettando il giorno stabilito; e intanto seppe acquistare in tal modo la benevolenza del re, che lo fece suo coppiere.
In un giorno di festa solenne, Hilde, coperta con un fitto velo e accompagnata da molte dame, andò in chiesa; ma Herbort non riuscì a vederla in viso, poiché pareva assorta nella preghiera e non alzava il velo.
Il giovane possedeva due topi addomesticati, uno dei quali sembrava d'oro e l'altro d'argento. Egli decise di servirsene per attirare sopra di sè gli sguardi della fanciulla, e diede la libertà ad uno di essi, che corse verso Hilde e poi tornò accanto al suo padrone. La fanciulla, avendo paura del topo, fece un rapido movimento, ed il velo si aprì in maniera che Herbort potè vedere il suo volto bellissimo.
Il giovane lasciò libero il secondo topo, che seguì la via percorsa dal primo. Hilde lo guardò con meraviglia. Quando il topo fu tornato vicino ad Herbort, ella scorse il bel volto dell'eroe, e forse da quel momento l'amore s'accese nell'animo suo. Essa volle conoscere il suo nome e la sua condizione, ed il giovane le fece sapere che si chiamava Herbort, ma che a lei sola avrebbe detto altre cose di sé.
Hilde prese parte al gran banchetto, che ebbe luogo a corte dopo la messa, ed ammirò la grazia e la bellezza del coppiere, che aveva l'aspetto di un eroe. Ella pregò il padre di cederle il giovane, affinché potesse servirla e fare parte del suo seguito. Artù acconsentì, ed Herbort lasciò il palazzo del re per seguire Hilde nel suo.
Il giovane eroe mandò allo zio Teodorico dodici cavalieri, per annunziargli quanto era accaduto, e parlò subito di lui alla fanciulla. Questa gli ordinò di disegnare su una parete l'immagine dell'eroe di Verona, e Herbort ubbidì. La figura che apparve a Hilde era così brutta che ella non volle più sentir parlare di Teodorico, e domandò al giovane perché, invece di chiedere la sua mano per il signore di Verona, non l'aveva chiesta per sé.
Herbort le rispose che apparteneva ad una casa reale, ma non portava titolo di re, e per questa ragione, credendosi a lei inferiore, non aveva osato palesarle il voto più ardente dell'anima sua. Se ella si fosse piegata a non respingere il suo amore, gli avrebbe concesso una felicità infinita. I due giovani si giurarono un affetto eterno, e fuggirono. Il re Artù li fece inseguire da trenta cavalieri, ordinando al loro capo Ermanno di portargli la testa di Herbort. Questi, raggiunto con Hilde in un bosco dai cavalieri, uccise tredici di essi e quattordici scudieri. Gli altri fuggirono, e Hilde medicò le ferite di Herbort. Questi andò con la sposa alla corte di un re, ed ebbe titolo di duca.
Nel poema germanico Biterolf, nel quale si ritrova l'eroe Dietleib della Stiria, fratello della bellissima Kunhilde tanto amata dal nano Laurino, si parla anche della spada Nagelring. Questa spada vola in alto sopra due eserciti che combattono per il suo possesso, ed è poi presa da Teodorico.
Molto vicino a queste famose spade, che hanno la potenza del fulmine, è la lancia d'oro «fatta con arte e con sottil lavoro» che l'Argalia possiede insieme al velocissimo cavallo. Il diavolo maledetto evocato da Malagigi gli dice:
E quella lancia di natura tale,
Che resister non puossi alla sua spinta:
Forza o destrezza contra lei non vale,
Convien che l'una e l'altra resti vinta:
Incanto, a cui non è nel mondo eguale,
L'ha di tanta possanza intorno cinta.77
Non soltanto nelle spade lavorate dai nani, ma anche in certi famosi corni ch'essi possedettero, e che furono fabbricati dalle loro mani, dobbiamo ritrovare un simbolo del fulmine. E pare che questa loro origine sia molto lontana, poiché le corna di Indra, nella sua trasformazione in toro, non erano altro che il fulmine. Ed esse non erano soltanto terribili contro i suoi nemici, ma davano l'abbondanza di ogni bene alla terra, quando squarciavano i fianchi della nube che conteneva la pioggia, o colpivano il mostro immagine delle tenebre. Era giusto che i nani artefici del fulmine possedessero il corno meraviglioso, che doveva compiere portenti anche nella poesia del Medioevo, quando lo suonarono i cavalieri della Francia e della Germania.
Quando il malefico pastore Kullervo ebbe uccisa la moglie del fabbro Ilmarinen, si allontanò dalla sua casa e andò via trionfante in mezzo ai boschi arsi dal fuoco. Già Kullervo, il giovane che portava le calze azzurre, aveva fabbricato nei boschi il suo bel corno di pastore. Egli si mise a suonarlo allegramente, ed a quel fracasso le paludi trasalirono, la terra tremò, l'eco si mise a fremere, Quel suono penetrò nella fucina d'Ilmarinen, il quale lasciò il lavoro ed uscì per vedere colui che suonava in quel modo sulla collina e faceva tremare la terra con l'orribile fracasso. Allora l'eroe vide sua moglie nel cortile, morta e distesa sull'erba. Dopo parecchie avventure, Kullervo, che seminava sempre intorno a sé sventura e morte e fu cagione d'infinito dolore alla sua famiglia, andò a compiere un'opera di vendetta contro il dio Untamo, e suonò di nuovo il terribile corno. Servendosi anche della spada che aveva chiesto al nume supremo Ukko, distrusse Untamo con tutta la sua gente, poi appiccò il fuoco alle sue case e le incenerì. In uno di quei racconti dell'Estonia78 in cui si parla così spesso dei nani, o dei fanciulli che fanno le loro veci, si dice che il figlio del tuono aveva venduto l'anima sua al diavolo, a condizione di essere servito da lui per sette anni. Quando il figlio del tuono doveva mantenere il patto, scoppiò un violento temporale, e il diavolo atterrito gli disse che gli avrebbe lasciato l'anima, purché rapisse al nume del tuono la sua arma terribile e gliela desse.
Appena il diavolo ebbe il fulmine, lo custodì nell'inferno in una camera chiusa in mezzo a sette castelli. Ma poiché una grande siccità recava infinito danno alla terra, non potendo il dio del fulmine squarciare i fianchi della nube benefica, suo figlio gli disse dove era nascosta l'arma possente.
Il dio del fulmine si trasformò in ragazzo, e andò a servire un pescatore, in un luogo nel quale il diavolo si recava spesso per rubare i pesci. Con l'aiuto d'un mago, il ragazzo fece prigioniero il diavolo, e questi offrì loro molto danaro purché gli rendessero la libertà.
Il ragazzo accompagnò il diavolo all'inferno, per prendere il danaro promesso, e lo pregò di fargli vedere lo strumento che custodiva con tanta cura. Il diavolo andò a prenderlo, e quando se l'accostò alle labbra, poté farne uscire solo un suono simile alla voce di alcuni animali domestici. Il fanciullo, dicendo che sapeva suonare meglio di lui, prese lo strumento e vi soffiò dentro con tanta forza che tutto l'inferno tremò, e il diavolo cadde come se fosse morto. Il dio del fulmine, avendo ripreso rapidamente il suo solito aspetto, tornò in cielo, aprì le nubi, e la pioggia cadde sulla terra!
Anche Rustem, il grande eroe dell'epica persiana, ha per armi le corna di un toro, simbolo del fulmine, che scaglia contro i suoi nemici. Invece Perum, che fu per gli Slavi nume del fulmine, possedeva una chiave d'oro, con la quale apriva la terra quando voleva portare alla luce i suoi tesori nascosti e le acque prigioniere. Perum somiglia molto al Thor scandinavo ed al Taranis dei Celti, padroni anch'essi del fulmine, e si cerca di ritrovare la sua origine nel Parjanya indiano. Nel Rig-Veda si trova un inno in cui viene celebrato questo nume, che fa scoppiare il fulmine e manda la pioggia sulla terra.
Terribile come il suono del corno posseduto dai numi del fulmine era la voce del re Bravieri, già famosa nell'Ogier francese, e più celebre ancora nei testi italiani.
Nel Danese,79 si dice del re Bravieri:
A questo grido che Bravier mettea,
Sì com'io dico, era indemoniato,
Le bestie ongniuna in terra [si] cadea,
Elle gienti cadean dall'altro lato.
Il re Marsilio, che allora sedea,
Cadde rovescio, quasi ismemorato:
E tosto fecie un cienno con la mano,
Che più non gridi il re Bravier sovrano.
Già vedemmo che l'oro dei nani, nell'Edda e nei Nibelunghi, fu causa di grande sventura agli eroi che giunsero ad esserne padroni. Anche certi gioielli lavorati dai piccoli fabbri ebbero, come l'anello di Andvari, una triste fama, essendo fatali a quelli che li possedettero.
Fra questi va ricordata specialmente la collana detta «Brisinga-men», lavorata in una fucina sotterranea da quattro nani, che la diedero alla dea Freya. Nella saga di Olaf Triggvason si dice che, a causa di questa collana, Freya fu costretta dal marito Odino a rendere nemici due re potenti, i quali, dopo essere stati colpiti dalla morte combattendo, tornavano a vivere per ricominciare la lotta feroce.
Molti dotti hanno scritto intorno a questa famosa collana, opera dei nani, nella quale si vuole vedere un'immagine dell'arcobaleno, come nella cintura di Ippolita regina delle Amazzoni uccisa da Ercole, e nell'infausta collana di Armonia, opera di Vulcano, che Dante ricordò quando sul pavimento del Purgatorio vide:
Come Almeon a sua madre fe' caro
Parer lo sventurato addornamento.80
Nella Giovine Edda di Snorri si racconta che il dio Loki rubò a Freya il Brisinga-men, e si fa cenno di un canto perduto, nel quale si diceva ch'essa lo riebbe perché Heimdallr, venuto in suo soccorso, lo ritolse a Loki in un combattimento nel quale entrambi avevano preso la forma di foche.