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Introduzione ai Promessi Sposi | «» |
Introduzione ai Promessi Sposi
Ricorreva nell'anno di grazia 1923 il centenario d'un «vient de paraître» che fece gran chiasso nella Milano stendhaliana e foscoliana del tempo di Rosmini, vogliam dire di que' Promessi Sposi, che dopo cent'anni di mondiale rinomanza, oggi più verdi e più nuovi che mai, hanno ripreso per altra fuga di secoli, con qualche ruga onorata nella fronte, ma con un soffio giovanile nell'anima, il cammino dell'immortalità.
Conscio della grande ora, tra lo sfiatato clamore de' rettorici osanna che all'argenteo Vegliardo innalzavano tutti gli auleti di grido, i sampognari della declamazione in pubblico, gli onesti e disonesti manipolatori di prose da giornale o da romanzo, io pure, ultimo de' romantici e buon amico dei futuristi, mi ero prefisso d'entrare in quel folle brouhaha, in quell'imperversante chiarivari, col gran corno della mia scordata clakson letteraria, che dove strombetta si fa cedere il passo, per rendere, come infatti è giusto, il mio tributo alle gloriose ceneri.
Ma con tutta la buona volontà, occupato com'ero a scrivere la mia funambolica se pur fraintesa Lettera d'amore alle Sartine d'Italia, non mi riuscì di giungere in tempo col grande concerto delle onoranze ufficiali, cioè prima che, passata la festa, fosse gabbato lo santo. Checché se ne dica, nessun altro scrittore fu mai meno tempista e meno estemporaneo di me nel mettere in luce i suoi estri, sui quali, come su le generose bottiglie, non di rado si viene accumulando la onorata polvere dei cassetti.
Or eccomi giungere con ben sei anni di ritardo alle soglie del Pantheon manzoniano, per recargli questa mia corona mortuaria, un po' diversa dalle solite che vendono i mereiai di ghirlande funebri, però intessuta con quel gusto un po' alla Bakst che or sta per invadere anche i cimiteri, fragrante come nessuna di violette e di gaggìe.
Il custode non vuol saperne di lasciarmi passare; mi consiglia di mettere le violette in fresco per il prossimo centenario. Ma io gli mostro il mio biglietto da visita, reso più loquace da una moneta di grosso taglio (lire 10), ed il brav'uomo cambia fisionomia.
- Lei è l'autore di Colei e di Mimi Bluette? dell'Amleto e della deliziosa Cléo? - esclama il guardiano del Famedio. - Domando scusa; si accomodi pure.
Commosso al vedere che almeno i becchini si tengono tuttora al corrente del movimento letterario contemporaneo, gli perdono volentieri di avermi attribuita quella birbonata ch'è l'Amleto, e, per compensarlo di tanta cortesia, gli allungo un'altra banconota di taglio medio (lire 5);poi mi assido a meditare presso la gloriosa tomba.
Quest'uomo (non il custode, bensì Alessandro Manzoni) non ha bisogno d'essere presentato al pubblico. Egli è il più celebre romanziere che mai ebbe l'Italia, da che Romolo e Remo, fascisti della prima ora, ebbero l'eccellente idea di fondare su sette colli (corrispondenti a sette case cinematografiche, ora fallite) una città nominata Roma.
Senonché, per vero dire, io non avevo mai letto «I Promessi Sposi».
Mi spiego. Poiché non tutti i miei corsi di studi classici avvennero in una sala da ballo, oppure in una scuderia, come tenderebbero a far credere i miei riveriti critici, io pure, lungo la straziante odissea dei corsi ginnasiali, liceali ed universitari, avevo inteso dire che un certo signor Alessandro Manzoni aveva scritto un grande romanzo alla Walter Scott, nel quale una contadinotta per nome Lucia non riusciva mai a congiungersi in giuste nozze con un suo beneamato bifolco dei laghi lombardi, Renzo Tramaglino. Mi era inoltre capitata la sventura di doverne apprendere alcuni brani a memoria; fra questi il celebre: «Addio monti sorgenti dall'acque» - ed il famoso: «Carneade? chi era costui?».
Ma quando il mio professore d'italiano mi sottoponeva a queste crudeli operazioni chirurgiche, le quali servono a disamorare un alunno da tutto quanto è musica di alata poesia, spesso io mi contentavo d'essere rimandato al posto con un quattro in italiano orale (molto più che non mi accordi oggi la critica in italiano scritto) e, per consolarmi, preferivo leggere sotto il banco il romanzo di Elena Muti.
Sicché non trovo inesatto affermare, se anche vi fosse un po' d'esagerazione, ch'ero giunto sopra il varco dei trent'anni senz'aver letto, in quel modo che leggere si deve un libro, questi celeberrimi Promessi Sposi.
Per fortuna, durante l'inverno 1923, mi venne l'influenza. Quando il chinino e l'aspirina mi ebbero fugata la febbre, un giorno, Dio sa perché, risolsi di compiere questo gran salto nel buio. Mandai la mia donna di servizio a comperare il capolavoro manzoniano, che non possedevo nella mia biblioteca di libri quasi tutti forestieri, ed ella, udendo il mio proposito, mi guardò tramortita.
Ma non disse parola. Forse comprese che non stavo ancor bene di salute. Andò e tornò. Spese L. 9,90 per recarmi, in una edizione di 733 pagine, questa grande storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni.
C'era di che leggere per tutta una convalescenza del tifo, anziché d'una semplice influenza. Pure mi accinsi coraggiosamente alla grande impresa, con quella dolce confidenza in ogni cosa del mondo che l'uomo convalescente prova nel ritorno alla gioia di vivere.
Ah, ma che uomo d'ingegno! Ragazzi miei, figliuoli miei, confratelli e maestri miei, che uomo d'ingegno! Da persona del mestiere, da tecnico dell'arte di scrivere, da letterato, da lettore, da osservatore d'uomini, da figurinaio di tipi vivi, da narratore di storie dell'anima umana, volgetela insomma come più vi aggrada, confesso che questa lettura fu per me una rivelazione. Certo non era il mio modo di sentire le cose - e per questo appunto mi piaceva; non erano manco per sogno i tipi di personaggi fra i quali ho trascorso la mia vita fisica né la mia vita letteraria; ma, giuraddio! quanto vivi, quanto sinceri, quanto giusti, e che proposito, che finezza, che penetrazione, che grande e sincera ondata di bontà umana, sotto la quale io stesso mi pentivo di aver troppe volte avuto a che fare con fior di lazzaroni.
Mentre, dall'adolescenza, mi rimaneva il ricordo di un vecchio romanzo confuso e noioso, d'un testo di lingua accademico e pesante, d'una storia prolissa di preti e di serve, la quale a me, in allora, interessava meno che affatto, quanta lucidità invece, quanto riso e quanta freschezza, e che infinita leggera grazia del gentiluomo in lettere, il quale ove tocca incide, ma sempre medica le punture de' suoi strali, anche quando vuol ferire.
Senza dubbio il mio cervello di scrittore educato ai gusti delle più straniere e delle più nuove letterature, che nel sogno di dare una bellezza autoctona ed inimitata al bel Novecento divengono fracassatici della classicità, vedeva assai bene quanto v'era di superfluo, di prolisso, d'invecchiato, di appartenente a una sensibilità superata, spesso d'infantile e di goffo, in questo capolavoro che somigliava un po' troppo alla moda e ai modi del sito tempo, cioè di quell'Ottocento che in nessuna materia dell'arte ha brillato eccessivamente per finezza di buon gusto.
Ancorché profonda e schietta fosse in me l'ammirazione per questo genere d'arte, sana e sapida come una madia odorosa di fresco pane, il lato ironico del mio spirito, quel demone che in me sghignazza perfino quando piango, non tralasciava di farmi vedere quanto facile, quasi necessaria, fosse la caricatura d'un tal genere di arte, il quale aveva senza dubbio il difetto (o il pregio?) di mancare, almeno per noi, uomini di questo secolo nevrastenico, d'una cerebralità troppo raffinata, e che si appagava di mantenere tutte le cose, anche il lirismo al suo livello normale, cioè quietista e borghese, cromolitografico e ben pensante. Mi avvedevo che il romanzo era un po' intessuto con il procedimento dell'antologia, e contorto con abilità innegabile nel suo sviluppo, per farvi contenere molta materia per sé stessa indipendente, come la descrizione della peste, che viene dal Boccaccio e da Tucidide senz'attingere la loro involontaria potenza, o come l'episodio magnifico della monaca di Monza, che i pregiudizi del Manzoni hanno in parte sciupato. Esso, di fatti, è infinitamente più bello nella sua brutale verità storica, se anche narrato ai posteri da penne meno geniali ed ortodosse di quella del Manzoni. Pensavo che questo capolavoro ha il torto di scendere fin nei particolari minimi delle cose minime, di frugare troppo addentro nell'inutilità, di non lasciar nulla, proprio nulla, all'immaginazione, al sogno del lettore, il quale, talvolta, sarebbe ansioso di andar avanti un po' più in fretta. Ma c'è una mano cauta che lo afferra per lo stomaco, gli infligge ad una ad una tutte le discipline della pazienza fra gli altri esercizi delle cristiane virtù. Come i più bei quadri dell'Ottocento, questo capolavoro è un po' leccato, un po' manierato, un po' futile, eseguito con il procedimento della miniatura e non della pennellata prepotente; oserei dire, in forma paradossale, che l'assenza di ogni difetto è il difetto che più salta agli occhi.
Si sente insomma che questo romanzo fu scritto quando il mezzo di locomozione era la diligenza sgangherata e trabalzante, non le nostre automobili furibonde, non i nostri leggendari transatlantici che violentano l'immensità degli oceani. Si sente che questo libro fu scritto quando tutto andava piano; quando, prima di voltare una pagina, il lettore segnava in matita sul margine le sue riflessioni, talvolta i suoi dissensi con l'autore; quando insomma un libro somigliava un po' a quei ricami che le nostre nonne incominciavano al termine della luna di miele, e finivano, con assoluta puntualità, per l'anniversario delle nozze d'argento.
Ma oggi che abbiamo il radio e la radio, l'aeroplano e l'arco voltaico di diecimila candele, oggi che abbiamo il sottomarino e la superdreadnought, l'antenna del telefono senza fili e l'innesto della glandola di Voronof oggi che tutto brucia, tutto vibra, e lo scopo della vita è di accelerare il suo ritmo fino al parossismo, oggi che un'idea vale inquantoché dura per poche ore, poi si trasforma in un'altra, che a sua volta brillerà per lo spazio effimero di un secondo, oggi, la poesia per prima dovrebbe sentire il fremito di questo grande cataclisma elettrico scatenatosi sul mondo, poiché la nostra bellezza è un'altra, il nostro sogno è un altro, e per esprimere, per incidere con vera forza d'arte questa meravigliosa e pazzesca vita moderna occorre qualcosa più che il bulino dell'artefice paziente, il quale credeva sul serio di poter commuovere l'umanità con uno squarcio di prosa lirica piuttosto scadente - ultimi guizzi del più sciagurato romanticismo - sui dolori d'una contadinella che lascia i suoi monti.
Poveri noi se questa fosse ancora la nostra poesia, - o meglio, se questa fosse poesia. Rimbaud, Mallarmé, Verlaine, Gide, sarebbero dunque venuti al mondo per niente?
La verità è questa: che nel Manzoni manca il poeta. C'è il superbo foggiatore di caratteri, c'è l'interprete casalingo delle medie passioni umane, il narratore amabile, il descrittore minuto e stemperato che raramente giunge alla potenza della sintesi; c'è il modellatore di personaggi, un po' convenzionalista, che, nel creare un tipo, si preoccupa di ottenere il prototipo; c'è lo stilista, non sempre dotato d'un orecchio molto fino, ch'ebbe il torto di voler rivestire d'una toscanità posticcia la sua prosa parlata lombarda; c'è un garbato ironista, un sottile casuidico, un formidabile osservatore, - c'è infine quel vecchio gentiluomo del conte Manzoni, il quale amava passeggiare un po' assorto per le quiete strade operose della sua vecchia Milano, con una spalla che pareva divenuta più larga dell'altra per l'abitudine di tenere un braccio dietro la schiena; sempre lucido e ben spazzolato nella sua redingote nera che sapeva odore di sacrista; poi se ne andava a rovistar per lunghe ore nei manoscritti dell'Ambrosiana, e talvolta si fermava rasente il muro a notar sul polsino rimesso una rima in matita - c'era insomma il più grande narratore de' suoi tempi, ma, per quanti sforzi egli facesse, non un poeta.
Ora, se alcuno mi chiedesse quale pagina più ami di tutta l'opera manzoniana, veramente noi saprei dire. E ciò è singolare, perché in tutte le opere dei grandi v'è una pagina, almeno una pagina, indimenticabile. Quante vite non mi basterebbero per dimenticare la sera in cui muore Madame Bovary?, o quella in cui Anna Karenine traversa le vie di Pietroburgo per andarsi a buttar sotto il treno!... Ed io mi son domandato più volte: «In questi Promessi Sposi, che sono veramente uno schietto e indiscutibile capolavoro, v'è dunque un episodio, un carattere, un personaggio, che si sian impressi nel mio spirito con quella evidenza sempre più pura e più luccicante che contrassegna le immortali creazioni dell'arte?
Ebbene, se voglio essere sincero, debbo rispondere di no. Questi personaggi hanno riscossa incondizionata l'ammirazione del mediocre artefice che sono, davanti al maestoso artefice ch'egli fu; ma non ve n'è uno che abbia tocco e penetrato il mio cuore, non ve n'è uno che abbia svegliato nel mio spirito quel non so che d'indimenticabile per il quale si lega l'amore veramente umano di migliaia e migliaia d'anime alle più dolci e più vive creature dell'arte, se non a quelle, che gli apologisti delle scuole medie concordan nel chiamare le più grandi.
In verità il padre Cristoforo è un personaggio molto eucaristico, ma non mi commuove. Don Abbondio è una perfetta creazione artistica, ma, come uomo e come prete, non si può che sentire il desiderio di prenderlo a pedate. Mille volte più simpatico il capostipite della specie, l'immortale Sancho Panza. Con don Rodrigo e con l'Innominato siamo già negli albori del cinematografo, che a quel tempo si esprimeva col daguerrotipo e la litografia. Quanto a Renzo, egli non mi sembra molto persuadente, né come eroe da romanzo né come contadino. A vero dire, questo povero diavolo è il personaggio più sacrificato della commedia; comico innamorato da «pochade», messo lì a far da palo, per avere un sostegno cui attaccare la «ficelle». Lucia Mondella dev'essere stata un bel fiore di contadinotta: noi lo crediamo volentieri. Con la mossa delle sue anche da montanara, con quel po' po' di ben di Dio che certo aveva nel farsetto, con quella sua carne fragrante, di selvatichezza e la sua chioma scura ben spartita su la fronte, può aver dato l'uzzolo di volerla tutta per sé a quel ribaldo sterminator di ancelle che doveva essere, col suo pizzo alla moschettiera e la sua tracotante albagia spagnolesca, il signor don Rodrigo. Noi lo crediamo; però non partecipiamo di tali gusti. Che, con quel suo parlare sempre da pinzocchera, con quel suo biascicar paternostri, con quella sua fedeltà incaponita e dolciastra, all'acqua di giulebbe, con quella sua rettitudine così tristanzuola, che può darsi fosse di moda, sul lago di Lecco, nel 1600, non si vede bene come don Rodrigo si mettesse a far nascere tutto quel mare di guai, e il Tramaglino, in fin de' conti, non si scegliesse un'altra fidanzata.
Ciò che non mi va per il verso è d'aver inteso dire e scrivere che questa Lucia Mondella sia stata la miglior donna venuta fuori dall'inchiostro della letteratura italiana, e perfino d'aver letto che questa piagnucolosa bifolcherella debba meritarsi l'onore d'essere il prototipo della donna italiana. Eh sì! baie!... se l'Italia non avesse altre donne, staremmo davvero allegri noi, e tutti quelli che hanno passione per il bruciante sangue della donna italiana.
Resta un personaggio, il quale ci tormenta e vive allucinante nella nostra immaginazione: la Signora di Monza. Questa Signora, per mio conto, vale una dozzina di Lucie; ne vale tante, quante volte è di lei più donna, più signora, più monaca e più amante. Nella descrizione, vorrei dir paurosa, che l'invaghito Manzoni ne fa, noi intravvediamo, attraverso le cronache del tempo, la bella contessina Virginia de Leyva, principesca figlia del signore di Monza, chiusa, con il suo infuocato grembo, con i suoi perduti occhi, tra le mura d'un chiostro dove l'amore del giovane Osio la perseguita, la stringe, la vince, per condurla, smarrita e sfinita del suo carnal perdimento, prima al fallo, poi al vizio, poi alla maternità, e per nascondere tutte queste colpe, al delitto.
Sì, questa è la figura più bella del romanzo, ed è la sola cinta di vera umanità, in questo gran trionfo dei catechismo su le ragioni della vita.
So di aver sempre camminato su l'altra sponda, quelle ove il rumor del fiume troppo alto canta perché si ascolti il mormorio confuso che viene dalla riva di là. Non ignoro la forza della solitudine; mi sono avvezzo a lasciar dire il prossimo, a non avere alcun giudice, fuori di me stesso. In fondo voglio rendere al buon Manzoni un segnalato servigio. Quel suo bel romanzo, dopo soli cent'anni di gloria, è andato a finire, triste celebrità, nella fossa comune dei testi scolastici; ossia di quella immortalità per fine stagione che serve a sbucciare il cervello degli adolescenti.
Senza dubbio, nel 2930, un male stipendiato professore d'italiane lettere, davanti ad una scolaresca tutta pervasa dal fuoco di qualche altra Elena Muti, e, perché no? di qualche altra Mimi Bluette, leggerà imperterrito, grattandosi con venerazione il luccicante cocuzzolo: - «Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni...».
Ma forse uno scolaro incastigabile sussurrerà fra i banchi spudoratamente
«... mi offriva su le palme i seni azzurri, belli come il sogno, godibili come l'irrealità, mi offriva piangendo sé stessa, la gioia mortale di vivere, il sole della vita...».
È inutile: vi sarà sempre un antagonismo non conciliabile fra la bellezza che piace a noi, uomini dell'altra sponda, e la bellezza che piace ai sapienti, bollata e ratificata sovra ogni margine dalle cento stampiglie dei visti governativi. Tutto sommato, saper creare la bellezza è un torto.
Dunque pensai: - Alessandro Manzoni è stato il grande romanziere del secolo scorso. Egli non sentiva il potere della donna, ignorava i quattro quinti di ciò che può essere polvere di sogno indelirato e fumo di passante poesia; ma era un uomo di prim'ordine, buono, saggio, onesto, una cara persona in tutto il senso della parola, e, per i suoi tempi, un magnifico romanziere. Gli perdono que' suoi miagolanti Inni Sacri, per la storia della Monaca di Monza. Egli è passato all'immortalità grazie alla Chiesa, unica dispensiera di eterna gloria, sia che s'incarichi del trasporto funebre attraverso i secoli d'un'opera d'arte conforme a' suoi precetti, sia che bolli di suggelli roventi le eresie degli spiriti, liberi e le scomunicate opere dei fulgenti libertini. La Chiesa, paga di eternità l'arte che divien paladina dell'idea cattolica; non le basta che sia cristiana; vuole esattamente che sia cattolica. Dove trova un artefice che non sia del tutto un imbecille, disposto a renderle questo facile servizio, lo leva su di peso nelle sue misericordiose braccia, e lo consegna, bene spalmato di crismi e di olii santi, ai doganieri dell'immortalità. Di ciò si mostrano persuasissimi tutti coloro che hanno la prudenza di chiudere una vita infernale con quattro giaculatorie. Le conversioni alla fede più ortodossa, dopo aver detto male di Cristo e de' suoi apostoli, sono un piatto all'ordine del giorno. La Chiesa, ottima intenditrice in materia d'ogni arte, avrebbe spesso la tentazione di poter accordare i valori canonici con quelli estetici; ma siccome l'accordo non è sempre facilmente realizzabile, anzi è quasi sempre antagonistico, la Chiesa non di rado, per fini suoi di propaganda, è costretta ad ingigantire un pigmeo, o, per lo meno, a far salire su le stampelle della sua potenza un uomo di statura media.
Non diremo che questo sia il caso di Alessandro Manzoni. In lui il misticismo è sincero e il genio è dell'altezza più indiscutibile. Se però, in luogo del cardinal Federigo, egli metteva nel suo romanzo uno dei tanti vescovi donnaioli e scostumati come lanzichenecchi; se invece di convertir l'Innominato lo lasciava dannarsi ai roghi dell'inferno; se per caso Lucia si fosse mostrata un po' meno scontrosa con quel ribaldo sacripante di don Rodrigo; insomma, se pur lasciando il suo romanzo tal quale, vi avesse aggiunto qualche pizzico di umanità più vera e meno apostolica, c'è da giurare che il buon Manzoni sarebbe andato a finire nella gran caldaia ove ribolle il genio di coloro che non servon né alla Chiesa né allo Stato, né ai fini dell'immortalità scolastica, né a quelli de propaganda fide.
E non diremo affatto che questa intransigenza della Chiesa cattolica sia un male. Anzi è un bene. Il vero capolavoro, cioè l'opera d'arte di carattere troppo eccezionale, è dannoso alla specie umana. Questa ha bisogno di capolavori onesti e quieti, che non siano pericolosi come fili ad alta tensione, che non distruggano i principi fondamentali della vita mediocre; effetto pressoché inevitabile di tutto ciò che arde come il radio puro.
Ma frattanto, il nostro povero Manzoni, fuori dalle scuole, non trova più nessuno che lo legga per suo piacere. Ed invece abbiamo ancora migliaia di persone che leggono, senz'essere pregate da nessuno, La cena di Trimalcione, I Ragionamenti di Pietro Aretino, La vita del Benvenuto Cellini. Dunque lo scrittore più geniale dell'Ottocento si è ridotto a lasciarsi leggere unicamente dagli alunni che lo aborrono, quanto aborrono i teoremi di Euclide, oppure dai sapienti fugatori di polvere, che trascorrono la loro inutile vita a ponzar postille od a preparar conferenze applaudite da quattro portoghesi negli istituti di alta cultura.
Sinceramente io trovo che il destino del Manzoni è da compiangere, tanto più che non si merita una così nera sorte. Come collega di mestiere, venuto al mondo in un secolo dove le idee su l'importanza e su la qualità della gloria incominciano a farsi più chiare, affermo che il buon Manzoni è degno di sorte più lieta che non sia quella d'andar a finire nelle cartelle degli alunni ginnasiali, fra qualche buccia di castagna secca e le caricature del professore d'italiano.
Parlando ancora una volta come uomo del mestiere, ossia come fabbricante patentato di questi balocchi per vetrina da libraio che si chiaman romanzi, affermo che il mio collega Manzoni è un narratore principe, uno scrittore agile nonostante la molta zavorra, e che il suo romanzo è magnificamente costrutto, sebbene i suoi pregiudizi eucaristici lo abbiano costretto a produrvi qua e là dei guasti, e mettervi a profusione toppe e zeppe, sproloqui e pistolotti, de' quali era certo meglio far a meno.
Così pensando, così ragionando su la ben mediocre ventura degli uomini cui è data l'immortalità, quando i freddi vaniloqui degli oratori di grido infestavano la pace del glorioso centenario, un bel dì, camminando per quella mite Piazza San Fedele, dove quest'uomo, che fu il miglior de' cristiani, volge, con la man sul coccige, il dosso alla Chiesa, e venendo in quell'altra piazza dei Belgioioso, chiara e calma, ov'è la sua casetta di mattonelle rosse, fedele santuario d'una laboriosa umiltà, mi venne lì per lì un'idea, buona o pessima che fosse: rifare la storia d'amore del Manzoni con lo stile del cantore di Bluette.
Questa era l'idea originaria. Come si vedrà, l'ho di molto modificata in séguito. Ma io pensavo quel giorno - «Perché non togliere da questo bel romanzo quel che v'è di troppo invecchiato, quel che v'è di goffo e di stantio per noi spiriti sarcastici, figli kiplinghiani e debussiani del romantico Ottocento? Perché non ricollocare la vecchia storia di Lucia Mondella su le tepide ginocchia delle nostre belle donne innamorate dell'ultimo jazz, alle quali ben si addice il poema di Maria Maddalena o la folle canzone paradisiaca della dorata Yvelise? Egli aveva - e lo dice con sì garbata ironia - venticinque lettori; io ne ho, senza mia colpa, molte volte centomila; e questo per la ragione che l'indiavolato Charlot ha molti più ammiratori che lo scombussolante Einstein, sia perchè, da un lato, è un poco più divertente, sia perché, dall'altro, è fors'anco più grande, profondo e veritiero filosofo.
Se dunque - pensavo - io riprendo in mano la celebre storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, poi la riscopro e la rifaccio di bel nuovo, come s'io dovessi render gradite a' miei contemporanei le cose tutte che il Manzoni narrò, egli, se non avrà vantaggi, non ne avrà pure alcun torto, mentre, dal mio narrare invaghiti, molti andranno a rileggere l'autentica storia manzoniana.
Ad ogni modo questa mi parve la sola maniera, per me degna, di onorare il centenario del grande Vegliardo. Senonché, all'atto pratico, l'idea si dimostrava ineseguibile. Ed invece, come spesso accade, nel rivolgersi che fa il cervello intorno ad un progetto seducente, il proposito, iniziale si vestì d'altri panni e cambiò natura. Migliore senza dubbia quest'ultimo. Esso non tange l'opera quale il maestro l'ha congegnata, e, per un sentiero più discosto, giunge al risultato medesimo.
Recatomi dunque alla sua tomba, con quella famosa corona di violette e di gaggìe, - rimasi a lungo seco lui in istretta confabulazione, parlandogli dello stato in cui versano le nostre lettere e della gran boria che oggi impera tra i piccoli avventurieri del Parnaso, in luogo di quella grande modestia ch'egli pose nella sua vita letteraria ed intima.
Buon gentiluomo del vecchio stampo, nato di sangue patrizio, esperto, per aver a lungo dimorato a Parigi, della sottile grazia di spirito ch'è prerogativa de' Francesi, egli mi ascoltava senza risponder motto, increspando con un lieve sorriso la sua fina bocca d'umorista, e scuotendo tratto tratto, con pensosa bonarietà, la sua vecchia testa grigia.
Dopo avergli dette senza veruna piaggeria quelle parole di forte ammirazione che sentivo per la sua opera, non gli nascosi affatto i miei gusti di decadente rimbaudiano e mallarmista, né gli seppi tacere che, a mio modesto giudizio, la poesia va sentita ed espressa come appunto la sentirono Baudelaire e Firdusi, Laurent Tailhade o Rachnân Kayil.
Egli non mostrò di scandalizzarsene affatto, e questa sua tolleranza mi diede coraggio. Méssagli la corona fresca un po' più da presso, perché sentisse il buon odore delle violette e delle gaggìe, gli spiattellai tutta d'un fiato qual'era la mia malefica intenzione, cioè d'immergere la mia mano sacrilega nell'opera maggiore della sua vita.
Com'è naturale, mi aspettavo di vedere il morto sorgere in piedi per lo sdegno.
Nulla di tutto questo. Neanche una esclamazione di collera o di protesta, ma una pausa di lungo silenzio, durante la quale, confesso, mi batteva un po' il cuore. Poi l'argenteo Vegliardo si rizzò a sedere nella sua cassa da morto; e lì per lì mi sembrava d'aver a che fare con un uomo giovine.
In quel momento mi ricordai del suo vecchio cameriere Vismara, il quale, morto il Conte, aveva preso servizio presso il direttore del collegio dov'io feci qualche studio; sicché alle volte mi serviva la cena, quand'ero invitato alla tavola del Direttore, l'uomo più puro e più santo ch'io abbia mai incontrato nel mondo: - il professor Pietro Tosetti.
Quel buon vecchio Vismara, con la sua faccia spugnosa da cocchiere di casa nobile, sbarbato il labbro ed il mento, ma con due voluminose fedine che sembravan le code di due gatti soriani seduti schiena a schiena, diceva sempre: - «Il mio signor Conte Manzoni...» Sicché io dissi pure: - Ebbene, che ne pensa lei del mio progetto, venerato signor Conte?
Questi volle forse godere della mia trepidazione, perciò prese il giro della risposta un po' alla lontana. Guardò il mio cappotto rossastro, pregno del polverone di lunghe strade maestre, intriso di macchie d'olio dell'automobile, e, per un istinto supremo di pulizia, si fece via la polvere del sepolcro dalla sua perfetta e quasi liturgica redingote nera. Poi disse:
- Ho letto Colei: non c'è male; ho letto Maddalena, Bluette, Raggio di sole, Yvelise, Azyadèh: non c'è male. Quello che non mi va è... Ma perché dovrei farle delle critiche? Gliene fanno già tante, povero figliuolo! Sì: lei scrive come scriverei forse anch'io, se fossi nato un secolo dopo. Credo che non mi occuperei forse troppo di certi argomenti che lei mostra di tenere in esagerata considerazione; ma ciò è dovuto al fatto che la natura mi ha permesso di considerare la vita sotto un punto di vista più calmo. Però gli argomenti non sono quelli che contano, quando c'è uno scrittore. Lei vede bene che tutta la mia gran faccenda è stata, cosa? - la semplice storia d'una contadinella. Oggi ho sentito che a lei fanno il torto, molto ingiustificato per dire il vero, di lasciarsi leggere anche dalle sartine. Si consoli, caro amico; lo dicevano anche a me, a' miei tempi. E dicevano di peggio: che avessi depredato il peggiore Walter Scott, falsificato il Cervantes, e che scrivessi in dialetto lombardo, senza conoscere nemmeno l'ortografia. Ma li ricorda lei quelli che ciò dicevano?... Tamquam tabula rasa! Ed io, come vede, a un secolo di distanza dal parto del mio scombiccherato capo d'opera, ho ancora l'onore di ricevere la visita del più bizzarro e più scriteriato ingegno che abbia in Italia, tra la sua produzione punto rimarchevole, il XX secolo.
- Di che?
- Di nulla. Ma lei mi solleva lo spirito! È il primo complimento che ricevo da un collega, dopo aver dato il pane spirituale alla mia generazione, dopo essere stato il solo poeta, buono o pessimo, che seppe toccare il cuore della stirpe quando l'Italia era in guerra.
- Ah, mio caro amico, se lei è ancora così fanciullo da credere che si giunga impunemente a far tremare in tutte le anime d'Italia il nome di Mimi Bluette, le faccio i miei complimenti: vuol dire che lei non è un incartapccorito, e può ancor regalare a questa meravigliosa amante una sorella minore.
- Lei mi fa l'onore di crederlo, caro Conte?
- E perchè dovrei non crederlo, signor calunniatore delle sartine d'Italia, io che di libri, se permette, me n'intendo un poco? Il mio vecchio libraio, l'ultimo superstite degli antichi editori milanesi, la casa Guindani e Bossi, quella ch'io ben ricordo quando la Galleria s'illuminava ancora col gattino, la stessa che più tardi mise al mondo Fogazzaro, mi manda ogni fin di mese le «ultime novità» della stagione, oltre un fascio enorme di riviste, le quali si vanno moltiplicando come i pani della Bibbia; mentre sono abbonato, lei mi crede? a tutti i giornali di qualche rispetto.
- Ebbene, Conte, che ne pensa?
- Ah, signor mio, lei vorrebbe farmi parlare un po' di troppo! Dica a ciascuno che venga qui da me; a quattr'occhi, se interrogato, potrò far conoscere il mio modesto parere. Fosse pur negativo, lo esporrò senza tergiversazioni. Ma non è mio costume dir male de' libri altrui, come si usa fare in Italia a tutto spiano. Penso, in linea generale, che se il vostro borioso Novecento intende continuare di questo passo, costringerà noi ottocentisti, che già eravamo accusati d'essere in decadenza, d'ammirare persino e di prendere sul serio quel poetucolo dell'abate Parini... Ehm! ehm!... - tossì tosto il faceto Vegliardo; - non creda, per l'amor del cielo, ch'io gli voglia male, o che non sappia stimarne al giusto peso il preclaro ingegno. Ma quel suo poemetto, scusi veh!, da precettore di buona famiglia, che, come satira, fa cascar dal sonno, e come valor di endecasillabi non ha niente a che vedere con quelli del Foscolo e del Monti; i quali, entrambi, avrebbero potuto essere grandi poeti se avessero avuto qualcosa da dire....
- Sottoscrivo! sottoscrivo pienamente!
- Oh, ma diamine, signor mio colendissimo... che razza di spropositi mi fa lei dire! Noi letterati, messi appena su l'argomento dei libri che scrivono i nostri confratelli, perdiamo súbito le staffe. Pessimo vizio, e che fa grave disonore alla professione dell'uomo di lettere. Lei avrà capito, spero, che ho detto ciò per farle intendere quanto faccia cattiva impressione l'udire un letterato che dice corna, o peggio le scrive, a carico d'un altro letterato...
Dovetti ridere di questa cavatina da maestro, - che mi rivelava lo spirito e la lepidezza dell'illustre Vegliardo.
- Veniamo al quia caro Conte. Vuole o non vuol concedermi ch'io rimaneggi da capo a fondo il suo bel romanzo, valendomi degli stessi personaggi e dello stesso argomento, per cucinarli, beninteso, a modo mio, così da far ridere tutti coloro che in Italia si occupan di lettere, ma sopra tutto i più devoti manzoniani?
- E perché no, mio caro amico? È ben possibile che lei mi renda un servizio, mentre nuocermi non può affatto. Quando un romanzo celebre cade in dominio pubblico, non vengon forse tutti i rabberciatori di scene a trarne libretti d'opera, e tutti i fabbricatori di pellicole a cavarne soggetti per cinematografo? Che danno in fondo ne patisce l'opera d'arte? Nessuno. Anzi, tutto questo rumore di orchestre e di manovelle cinematografiche non serve che ad accrescerne la popolarità. Badi che non le dico ciò per confonderla con un librettista o con un cinematografaro!... Tutt'altro. So benissimo che lei è un artista profondamente sincero e coscienzioso - uno scrittore di razza, come suol dirsi oggi; - e sono ben lieto che alle nozze di platino de' miei Promessi Sposi intervenga un anfitrione il quale me li farà brindare a Champagne e metterà magari le calze di «voile», o di seta artificiale, su le caviglie un po' massicce della mia povera Lucia Mondella.
- Vede, caro Conte, com'è facile andare d'accordo con gli uomini d'ingegno!... Lei penetra mirabilmente le mie intenzioni. Voglio «novecentizzare» - mi scusi la barbara espressione che non ho risciacquata in Arno, (poiché piuttosto mi accusano di risciacquare i miei panni stilistici nella vecchia Senna) il suo bel romanzo, che, fra gli altri suoi meriti, contiene anche in sé una farsa meravigliosa. Volevo, da principio, ritoccare, alleggerire, ad uso del bel Novecento, il suo grande, romanzo, che le untuose mani dei seminaristi e le macchie d'inchiostro dei banchi scolastici hanno un po' intristito. Ma compresi che ciò non era possibile, mentre poteva sembrare in ogni modo grande sicumera e somma irriverenza. Invece, il togliere da una vicenda seria una commedia faceta è cosa che già si è fatta varie volte in letteratura, e che non tange né lede minimamente l'integrità dell'opera d'arte quale fu pensata e scritta dal suo autore. Siccome non v'è dubbio che i soliti malcontenti troveranno qualcosa da ridire, ho voluto innanzi tutto prendere il suo parere, poiché, se la cosa a lei spiacesse, io son pronto a buttar sul fuoco il travaglio non lieve che ciò mi è costato e la grande vena di buon umore che vi ho profusa, direi senza volerlo, perché la fiaba giocosa era già tracciata, come le dissi, nel viluppo del racconto, e visibile con forte rilievo agli occhi d'un umorista.
- Lei dice, signor mio, qualcosa di molto profondo e di schiettamente vero. Non v'è grande opera d'arte quale non proietti da sé, come un'ombra, la propria caricatura. Più perfetta è quest'opera, più facile parodiarla mentre la cosa riesce pressoché impossibile con le opere mediocri, nelle quali manca il forte contrassegno dell'individualità, come nelle fisionomie sbiadite. E poiché io stesso (lei forse lo ha compreso) fui sopra tutto ironista - ironista, se vuole, compassato e prudente l'eccesso - nello scrivere il mio romanzo vedevo sopra tutto uscirne, sotto il correre della penna, la sua caricatura. Questo senso della comicità fondamentale che si racchiude nelle cose umane e in quelle dell'arte di quel nulla che divide la bellezza dalla sua contraffazione, è appunto quel dono vigile di autocritica, il quale da un lato sorregge, dall'altro dispera i genuini artisti. Per star fuori dalle nostre lettere, pensi alla: Venere di Milo o al Davide di Michelangelo. Nulla di più puro o di più perfetto mai diede l'arte umana: eppure l'ultimo dei caricaturisti, delineando semplicemente la loro ombra, non farà nessuna fatica a tracciarne la caricatura. Si provi quel medesimo a far ciò con una statua da dozzina, la quale è già per sé stessa una caricatura, e la sua impresa fallirà il segno.
- Dunque lei mi dà licenza, Maestro, di alterare le linee del suo capolavoro, di mischiarvi tutti quegli ingredienti che a me paresser opportuni, di fare insomma quel che Aristofane fece con la filosofia di Socrate, o, per cercare esempi meno lontani, quello che in Francia si fa correntemente, non appena i «révuistes» s'impossessano d'un grande successo librario o teatrale?
- Non solo io le do questa licenza, - con la preghiera di chiamarmi Conte, se vuole, ma non Maestro, perché oggi il titolo di «Maestro» è usurpato da gran numero di persone, che, oltre a non aver mai insegnato nulla a nessuno, purtroppo non han nemmeno imparato mai nulla da nessuno; -non solo dunque io le accordo questa licenza, ma aggiungo che io per primo mi divertirò moltissimo a leggere i miei vecchi Promessi Sposi ridotti su lo stile di Cléo dalla sua penna d'indiavolato «révuiste».
- Per Di... ndirindina se ho letto Cléo! E mi chiami Conte, la prego, non Maestro. Ho letto Cléo, mi sono divertito mezzo mondo, e trovo, non per farle un complimento, che questa è satira feroce.... altro che quella del Parini!
- S'immagini, Conte-Maestro, che quasi tutti l'hanno trovato un libro per stagione balneare...
- Che le importa? Li lasci dire. Vada avanti per la sua strada, e non si preoccupi di quel che dicono i giornali. Meno ancora di quel che mormorano le birrerie con salotto letterario, dove i caposcuola in erba sperano di crearsi discepoli col prezzo di un cedro-menta al selz. Lei sappia ad ogni modo, se questo può farle piacere, che, ancor giovine come ora la vedo, lei già gode miglior stampa al mondo di qua, cioè nel mio, che in quello di là, dove lei ora si è messo a rovesciare un romanzo nuovo per ogni quarto di luna.
- Che vuole, Conte-Maestro!.., abbiamo la crisi libraria!... In mezzo a tante chiacchiere e convegni che fanno editori e scrittori, io credo che l'unico mezzo per attenuare la sfiducia irremediabile che nel pubblico si è venuta formando contro il libro, sia quello di fabbricare coraggiosamente una nuova letteratura. Il pubblico invade i cinematografi e diserta le librerie. Ogni famiglia di borghesi o d'operai spende all'anno somme notevoli per vedere Charlie Chaplin e Pola Negri, mentre non versa, nemmeno a torcerla con le tanaglie, un soldo al libraio. Ragione? Molto semplice. Il cinematografo diverte, il libro annoia. Il povero pubblico fu truffato per anni ed anni da scrittori che oggi fanno i rappresentanti di biciclette, da editori che rilegavano in volume... sotto il nome di romanzo, i bollettini statistici e i numeri del Lotto. Questa è la crisi libraria. D'altra parte i giornali più reputati seguitano a dedicare colonne, scritte in famiglia, a libri dei quali è impossibile con tutta la buona volontà giungere in fondo; ed invece a stroncare od a tacere di quelli che per lo meno si lasciar leggere. Le ditte rispettabili, che non hanno mai frodata la propria clientela, son diffamate dai giornali e boicottate nelle librerie, in favore dei parti estratti col fòrcipe dal ventre di certi lumaconi, che, a sentirli quando sputan sentenze, si direbber tanti dantealighieri. Questa è la crisi del libro. Gli editori badano a stampare chi tiene recensioni di lettere in qualche giornale influente, oppure chi si è recato a declamare qualche birbonata nelle sale di un grande azionista. Quando non sanno più come fare, in mezzo a tale imbroglio inestricabile, si rivolgono al Governo, quasi che Mussolini potesse, fra gli altri suoi miracoli, obbligare il popolo italiano a comprare i libri degli editori che si dicon fascisti, e degli squadristi giunti al Campidoglio con la famosa vettura del Negri. Questa, Conte-Maestro, è la crisi del libro.
- Eja! eja! signor mio colendissimo! Lei dice bene. Fate che il pubblico torni a trovar piacere nel leggere un libro, e la crisi del libro sarà mitigata. Ma non bisogna farsi troppe illusioni. Nella vostra tumultuosa ed esasperata vita moderna la letteratura va perdendo credito. Si volle farne una professione, capace di risolvere il problema economico per migliaia e migliaia di cervelli medi, i quali, insieme con la gloria, pretendevano anche di posseder l'automobile, di giuocare a baccarà, di mantenere una donna...
- No, scusi: di farsi mantenere da una donna...
- Sorvoliamo, sorvoliamo, signor mio colendissimo!... - e la corda si è strappata. Si cominci a non pretendere che si vendano tutti i libri: questo è il solo mezzo per venderne alcuni. Vede: quand'io licenziai le stampe de' miei Promessi Sposi, non pensavo manco per sogno che a cent'anni di distanza qualcuno se ne ricordasse ancora. Nessuno più di me fu davvero malcontento di questo romanzetto, col quale trovai la gloria. Fui dieci volte sul punto di lasciarlo incompiuto; e quando poi mi dissero che lo avevo scritto in buono stile da droghiere ambrosiano feci la cosa più sciocca della mia vita: mi recai a Firenze, credendo in buona fede che a Firenze si parlasse italiano, o per lo meno, ch'io potessi apprendere il fiorentini.
- E dove, se non a Firenze, Conte-Maestro, il nostro idioma è meglio parlato?
- Ah, lei vuol turbarmi ancora con la questione della lingua? No, grazie! L'italiano è una lingua bisbetica; i Toscani la parlar in un modo, i Piemontesi in un altro, i Romani in un altro ancora. Dire quale dei tre abbia ragioni migliori da vendere, non è impresa facile, perché vi sono tante loquele quante sono le province, tante opinioni quanti furono e saranno gli scrittori. Per vero dire, ammiro lei che se n'infischia di tali quisquilie, e adopera l'italiano dei grandi poeti misto a quello dei grandi alberghi, cioè quel sol linguaggio che, per essere inteso da tutti, può vantare un vero diritto d'italianità.
- Io credo, Conte-Maestro, che la questione della lingua sarà risolta da un umorista.
- Sì; come tutte le altre, che si trascinan da secoli senza soluzione, nella nostra penisola. Un umorista, il quale insegni la gioia del riso a questo popolo che non ama lo scherzo. Esso finge di tollerarlo, ma in verità se n'offende. L'italiano è permaloso. Ha paura sempre che lo si prenda in giro. Teme, quando lo fan ridere, che alcuno lo ritenga uno sciocco. La facezia come fine a sé stessa, il piacere tanto caro ai Francesi, e che lo fu similmente ai Greci di far finire tutte le cose più serie nella scintillante vanità di una canzonetta, non è arte che assecondi l'istinto grave dell'italiano, il quale si dimentica d'aver dato al mondo alcuni fra i più grandi umoristi, dal Boccaccio al Goldoni, senza contare i poeti burleschi del Cinque e del Seicento; senza contare ancora la creazione delle maschere e della commedia giocosa, ch'è tutta nostra. Dunque, se co' miei personaggi e col mio intreccio lei ha fatto qualcosa di simile, avrà solo continuata la tradizione degli italici maestri del riso, e ben meritato da tutti quegli spiriti liberi da pregiudizi ai quali avrà procurato un po' di buon umore. Quanto a me, nel leggere la sua spumeggiante Cléo, le confesso che mi sono divertito mezzo mondo.
Non sapevo più se fare un salto nella tomba per abbracciare il mio collega Manzoni, o se riscrivere da capo a fondo la mia «pochade» manzoniana, per renderla degna dell'applauso che il grande Lombardo a priori le attribuiva. Gli dissi:
- Ella ben sa, Conte-Maestro, che noi viviamo in un tempo di danze negre. La musica de' xilófoni e della batteria di jazz è quella che meglio scandisce la irrequieta e paradossale dissonanza che produce, nel suo frastuono creatore di potenza, la vita moderna. La donna si emancipa; nel recidere le sue chiome non fa un sacrificio alla moda, bensì capovolge con virile coraggio una millenaria concezione della femminilità. In questa vita che non è più quella dei nostri antichi, l'arte ha un obbligo tassativo: trovare le forme che le consentano di ridivenire un riposo dello spirito. Tra queste forme, una è il riso; l'altra, la più eterna, è il pianto.
- Ve n'è ancor una, signor mio riverito: quella che fa pensare a Dio.
- Ma questi uomini per i quali tutto è materia, e che hanno cercato di risolvere con una formula chimica perfino Dio, non crede lei, Conte-Maestro, che facciano tanto strepito, e accendano tante luci, e assaltino lo spazio e l'onda con tante macchine infernali, appunto per non sentire il fragore universale della vita che passa? della vita che in ogni istante li uccide? E non crede lei che l'uomo, verso l'altro uomo, abbia sopra tutto un dovere: quello d'aiutarlo a trovare qualche gioia fugace, qualche ilarità passante, in questa vita che si compone di polvere?
- Non lo credo, mio giovane amico; non lo credo. Quando lei avrà finito di scorrazzare attraverso tutte le chimere del mondo, si accorgerà forse che val meglio lasciare dietro di sé il piccolo seme d'una pannocchia di grano, che una grande serra d'orchidee; belle fin che lei vuole, costose fin che lei vuole, ma irrimediabilmente sterili, Perciò, lei doni pure a Lucia Mondella i fiori ubbriacanti e purpurei del mortifero oppio, ma io la ringrazio d'aver portato a me questo mazzo di semplici violette.
Un sorriso di calma eternità orlava la bocca dell'argenteo Vegliardo; e la bara tornò a suggellarsi nel fedele silenzio dei secoli.
G.d. V
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