Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAPITOLO XXXV

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CAPITOLO XXXV

 

S'immagini il lettore la casa di donna Prassede, verso il tocco, in una sera della morta stagione. Il nostro Antonio Rivolta aveva dovuto penare non poco per farsi aprire, e quel malandrino d'uno «chauffeur», malcontento forse della mancia non lauta, lo aveva piantato , davanti al portone sbarrato, senz'aspettare che gli aprissero. E gli era occorso un fattaccio. Si sa che in tempi di pestilenza, con tutte quelle dicerìe di untori, di polverizzatori, di gente che con filtri ed altri ammennicoli spargeva a bella posta la morìa, i sospetti nascon da un nonnulla, dal gesto più innocente, come fu quello di Antonio Rivolta, che per vero miracolo non fece la miseranda fine del barbiere Gian Giacomo Mora. Una vecchia l'aveva sorpreso, mentr'egli, con la mano sul battente (in quella casa non c'era campanello, per evitare le sorprese della Polizia) poteva dar l'impressione, ad un osservatore prevenuto, ch'egli lo stesse ungendo. In verità come la famosa Presidentessa aveva l'abitudine di mettersi a strofinare e lucidare tutti gli ottoni che trovava, non era da escludersi che il nostro Antonio Rivolta potesse avere il vizio di ungere i battenti dei portoni. Così credette la vecchia, superstiziosa al massimo grado, e che, in un battibaleno, diede l'allarme. Incominciò ella ad urlare, con quanto fiato aveva nelle vecchie canne

- L'untore, dagli! dagli! dagli all'untore!

Fu, in pochi secondi, un aprirsi, un chiudersi, di usci e di finestre, con urli, strilli, bestemmie, imprecazioni, mentre la strada si popolava di gente in camicia da notte, armata di randelli, spiedi, bernaschi ed altre armi casalinghe; la qual gente si andava sempre più stringendo addosso al malcapitato, per fargli perdere quella maledetta abitudine di ungere i portoni.

Il nostro Antonio Rivolta si vide perduto. Non aveva in tasca che un temperino, ma lo sfoderò coraggiosamente, disposto a vender cara la sua pelle. Con le spalle contro l'usciuolo del portone, un braccio teso innanzi con la lama sfoderata, che brillava nell'oscurità, l'altro piegato nella guardia di «boxe» per far scudo a sé stesso il meglio che poteva, Antonio Rivolta, già colpito da un nugolo di sassolini e d'immondizie d'ogni genere (la strada era asfaltata, e quei cani idrofobi non avevan ciottoli a disposizione) vedeva ormai suonata la sua ultima ora, quando, automaticamente (oh, prodigi dell' ingegneria moderna!) l'usciolo contro il quale stava raggomitolato si aperse, poi si rinchiuse, ed egli, nel frattempo, aveva fatto un magnifico ruzzolone all'indietro, trovandosi per tal modo sano e salvo sotto l'androne del palazzo di donna Prassede.

Fuori si udiva tuttora la canaglia urlare: - «L'untore!... Dagli all'untore!...» - ma lo sportello grazie al cielo era chiuso, e potevano urlare, quei cani, finché trovassero qualcun altro da conciare per le feste.

Dopo dieci minuti tutta la via Tadino russava di bel nuovo, saporitamente.

Qual era stata la mano provvida, che, dalla finestra, vedendo il pericolo imminente nel quale si trovava il povero giovane, fece scattare il bottone automatico del portello, che lo salvò miracolosamente? Il Manoscritto non lo dice, ma noi crediamo di saperlo.

Fu Lucia, che, disoccupata quella sera, e sperando di procurarsi un cliente, aveva premuto il bottone provvidenziale che salvò il povero giovine dalla canèa sanguinaria. Chi non vede in questo atto provvido «la Forza del Destino» (che però è in tre atti) non è un amatore di musica, e non conosce di quali divine avvertenze, di quali sublimi risorse può disporre la potenza dell' amor ricambiato.

Altri cronisti dell'epoca sostengono che se Lucia avesse mai supposto di salvare, con quel bottone automatico, il suo buon Renzo, non solo non lo avrebbe mai premuto, ma gli avrebbe anzi rovesciato addosso, dalla finestra, un secchio d'acqua bollente.

Lasciamo che que' cotali cronisti la pensino come a lor talento; noi stiamo ai fatti come accaddero, e vediamo in essi il dito della Provvidenza, o, per quei lettori che fossero maomettani, la mano di Fatmah.

Donna Prassede, che stava in quel momento a cena con alcune delle sue colombelle, fu assai disturbata da quel gran fracasso nato per istrada, proprio davanti alla sua porta, e fece il muso duro al tardivo cliente sconosciuto, che, fra l'altro, poteva essere un, agente della Polizia. Ma rassicurata su questo punto dal suo aspetto di buon villico, gli disse un mucchio di sgarberìe circa le martellate che aveva date nel portone, poi, addolcitasi, gli fornì precise istruzioni, per un'altra volta, sul modo di farsi aprire.

Alcune ragazze lo guardavano, buone e quiete come pecorelle, sperando ognuna di essere la prescelta. Ma egli non si decideva, e seguitava a rotolare quel suo Borsalino da una mano all'altra, senza dir motto. La sola ch'egli cercava non era tra le presenti; forse giaceva con altri; già il nostro Antonio Rivolta, geloso all'eccesso, meditava un fatto di sangue. Purtroppo, nel capitombolo, il temperino a serramanico era rimasto fuori dal portello, ed il nostro buon villico non disponeva di altre armi per uccidere un ipotetico rivale.

- Embè! La si decida! - fece donna Prassede, - perché a quest'ora non è il caso di tenerci troppo col cuore sospeso.

Antonio Rivolta, mezzo intontito, guardava le procaci ragazze, guardava la padrona della casa, e non sapeva decidersi a chiarire lo scopo della sua visita. Infine puntò l'indice verso donna Prassede, che nonostante la molta cipria lasciava trasparire su le gote assai carnose qualche filo di barba, e disse timidamente:

- Con voi.

- Con me?... - fece la matrona, trasecolando, mentre le ragazze scoppiavano a ridere. - Ma non è possibile mio bel signorino! - Si guardò nello specchio, gonfiò esageratamente il suo matronal seno, si diede una lisciatina ai folti e nerissimi sopraccigli, trasse un bel sospiro e mormorò: - «Io sono una signora per bene».

- Volevo dire, - spiegò Antonio Rivolta - che ho da parlare con voi, se veramente siete la famosa donna Prassede.

- In persona, per servirla.

- Ed io sono venuto a domandarvi se non avete fra le vostre pensionanti, o frequentatrici della casa, una certa...

In quel momento una tenda del salotto si scostò, e Lucia, detta Lucette o Lucy, colei che per esser la più leggiadra e la più ricercata aveva l'ordine di apparire come ultima, si mostrò su la sorta d'uno di quegli usci, guardò il forestiero, aperse le braccia, dette un piccolo grido, e si rovesciò semisvenuta in una poltrona, balbettando: - Ah, mon Dieu!...

Quel grido, quello svenimento, misero tutta la casa in iscompiglio. Le compagne le furono intorno, chi a spruzzarle la fronte d'Acqua di Colonia, chi a metterle sotto il naso boccettine di sali inglesi. Donna Prassede perdeva addirittura la testa; prendeva un asciugamano e lo metteva sul pianoforte; toglieva da un sopramobile un vasetto da fiori e voleva darne da bere a Lucy l'acqua sporca, credendo fosse camomilla; diceva a questa e a quella di andarle a prendere il suo flacone d'acqua antisterica; glielo portavano, e, con l'acqua antisterica, si metteva a frizionare le ginocchia di Lucy, la quale ogni tanto, tirando un calcio negli scossoni dello svenimento, la faceva ruzzolare per terra. Fifi, la cagnolina mops di donna Prassede, abbaiava con una sua voce di falsetto, stridula e dispettosa; nel colmo dell'emozione fece anche pipì sul tappeto; il che mise addirittura fuori dai gangheri la pazienza di donna Prassede.

- Andiamo! cosa fate , voi, con quella faccia da mamalucco! Rendetevi utile a qualcosa, visto che venite qui a far svenire le mie ragazze. Bel tomo! Rasciugate almeno.

- Con cosa? - domandò il nostro Antonio Rivolta, guardandosi attorno.

- Non avete in tasca un fazzoletto? Eh, diamine! Quando si recano tanti disturbi in casa di gente per bene...

Antonio Rivolta si mise a ginocchi sul tappeto, e stava per rendersi utile, quando, gli parve e non gli parve, traverso l'uscio aperto che dava nell'anticamera credette riconoscere un tizio, venuto su in quel momento, a cui le ragazze andavano incontro festose, buttandogli le braccia al collo. «È lui? Non è lui?...».

Dal pizzo, dall'aria tracotante, dalle prime parole che disse, dal nome che gli davano le ragazze, più non rimase ad Antonio Rivolta alcun dubbio. Era lui, quel desso, quel birbante, quel sopraffattore, quel pescecane, quel ladro in guanti gialli, quel signorotto manigoldo che aveva mandati i trecento franchi a don Abbondio, perché questi non celebrasse il famoso matrimonio, lui in carne ed ossa: don Rodrigo.

A tale vista, Renzo - cioè Antonio Rivolta - che stava per inzuppare un fazzoletto con le lacrime di Fifi, mandò un urlo bestiale, scattò in piedi con gli occhi iniettati di sangue, fece atto di estrarre il temperino a serramanico (ch'era rimasto fuori dal portello) e si dispose a farla finita una volta per sempre con questo rivale fortunato, che alfine la Nemesi greca metteva in balìa della sua vendetta.

Don Rodrigo, buon fisionomista, aveva sùbito riconosciuto il suo avversario; vedendolo venire cavanti, portò una mano alla tasca posteriore dei calzoni, certo per estrarre una rivoltella.

Stava per scoppiare una tragedia; Lucy, ch'era mezzo rinvenuta per le frizioni d'acqua antisterica alle ginocchia, svenne un'altra volta, definitivamente. Le altre ragazze, addossate ai muri, nascoste dietro le tende, si coprivano gli occhi con l'orlo della sottana. Donna Prassede, congestionata, paonazza, non trovava più voce per dare ordini, e tracannava il resto dell'acqua antisterica.

Fu un lampo; i due antichi avversari si trovaron di fronte, ormai decisi a non darsi più quartiere.

- Voi, qui, signore? - fece Antonio Rivolta, con un tono di fredda cavalleria, ma insieme di cocente disprezzo.

- Io, se vi garba, - rispose don Rodrigo. - Ma non ho il piacere di sapere chi siete.

- Meglio lo saprete quando la mia mano vi avrà stampato su le guance róse dal tarlo l'orma delle sue dieci dita.

- Se voi avete dieci dita per ogni mano siete allora un palmipede.

- Può darsi; ma i palmipedi pari miei non ragionano coi gaglioffi pari vostri se non a colpi di stocco e di spada. Vi prego di tenervi a mia disposizione: liquideremo questa faccenda con una partita all' ultimo sangue.

- Così sia! - rispose con voce plumbea Don Rodrigo. - Sebbene ancora indisposto, per aver avuta di recente la peste...

- Io pure l'ho avuta, - dichiarò lealmente il cavaliere Lorenzo Tramaglino.

- Voi millantate, signore! La peste non incomoda i poltroni pari vostri.

- Asino riunto, pidocchio rincivilito! Oserete voi ripeterlo quando saremo in campo chiuso?

- Orsù! questo colloquio ha durato abbastanza!

- Buon per voi, - disse il leccobardo, - che il rispetto verso la donna de' mie pensieri non mi consenta di farle vedere, qui, sùbito, come son fatte le vostre interiora.

- Ohimè! - rispose don Rodrigo; - ella già le conosce a menadito. Ma queste nobili dame attendono; vediamo di non procurare ad esse più gravi disturbi.

- Volete ch'io mi ritiri? - domandò, con perfetta cavalleria, il cavalier Tramaglino.

- Preferisco ritirarmi io stesso, poiché il medico mi consiglia di non rimaner fuori troppo tardi la notte.

- Posso accompagnarvi sino all'uscio?

- Grazie, volentieri.

- Prima voi...

- No: prima voi...

- Passiamo insieme.

E giunti sul pianerottolo, con un saluto accigliato si separarono.

Don Rodrigo non era ancor fuori dal portello, che Renzo corse ad una finestra verso strada, per dirgli ancora qualcosa.

- Vi avverto, se doveste accopparmi, che farò testamento in vostro favore.

Don Rodrigo si volse, guardò in su, gli soffiò un bacio su la punta delle dita, poi - cavalleria per cavalleria - dichiarò:

- Ed io, comunque vadano le cose, vi nomino, sin d'ora, mio erede universale.

- Obbligatissimo!

- Non c'è di che.

- Buonanotte!

- Buonanotte!

 

 

 


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