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Appena infatti ebbe Renzo passato l'angolo di via Tadino, il giorno appresso, e preso a diritta, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che battendo e risaltando su la strada bianca e arida (questa non era asfaltata) sollevavano un minuto polverìo. Insomma, pioveva; cosa che il nostro Manoscritto aveva preveduta sin dal capitolo precedente.
Quando piove, c'è chi non esce di casa e chi apre l'ombrello. Ma coloro che si trovano per istrada senza impermeabile e senza ombrello, sono costretti a bagnarsi. Tale appunto era il caso del nostro buon Renzo, che però ci sguazzava dentro e se la godeva in quella rinfrescata. L'amore e la pioggia fanno venire appetito: questo è il proverbio che spinse Renzo ad entrare in un ristorante.
Qui converrebbe che noi dessimo una descrizione minuta del ristorante nel quale entrò Renzo: la sua altitudine sul livello del mare, la strada nella quale si trovava, con la storia della strada medesima, poi accennassimo alla disposizione de' suoi tavolini, al numero delle posate e dei bicchieri ch'esso possedeva, tracciando uno schizzo degli avventori che solevan bazzicarvi, dando un elenco dei quadri e degli specchi appesi ai mura, e riproducendo per intero la lista delle vivande che il cuoco aveva preparate quel giorno. Ma, per la fretta che abbiamo di condurre il nostro lettore alla fine del presente capitolo, nel quale diremo alcune cose di somma importanza, ci scusiamo della omissione che in tempi normali non avremmo commessa, e prendiamo licenza di avvertire che il nostro buon Renzo, quella mattina, fece una grande scorpacciata di uccelletti con polenta. Poi corse in ufficio, vi raccolse alcuni ordini, e diede una capatina in Borsa.
Siccome la pioggia spazzava la pestilenza, che gli scienziati, gli empirici ed i protofisici non avevan saputo combattere, c'era allegria in Borsa, della quale approfittò il nostro buon Renzo per imbrogliare i suoi clienti. Con alcuni dei loro nomi incominciò a compilare la lista dei venticinque che doveva, entro un mese, presentare al cardinal Federigo, per riscattare il voto di Lucia. Tornò in ufficio, firmò in fretta la corrispondenza, e si trovò finalmente libero d'occuparsi dell'amor suo, e del suo imminente matrimonio.
Prima cosa: chiedere ufficialmente la mano della figlia a Sua Altezza Serenissima Agnès Mondell de Maggianico. Stava per uscire dall'ufficio, quando vennero a visitarlo due signori in tuba e guanti gialli, da parte di don Rodrigo. Una seccatura! Non se ne ricordava nemmeno più. Li ricevette con una cortesia sobria e asciutta, dicendo che avrebbe a sua volta nominati i propri rappresentanti. Ove trovare due gentiluomini, pratici della procedura cavalleresca, ora che la peste aveva mietuto a larghe falde nella esigua schiera dei cavalieri senza macchia e senza paura? Pur si risovvenne di conoscerne ben due e li andò a trovare: un vulcanizzatore di pneumatici ed un ex-baritono, ora titolare d'una così detta scuola cinematografica. Espose i fatti, e, con dichiarazioni ferocemente sanguinarie, si affidò nelle loro mani.
Frattanto - e finché non fosse del tutto escluso che la vertenza potesse avere una conclusione cruenta - egli stimò opportuno girare al Largo da Milano. Prese a nolo una macchina senza conducente, divisando di recarsi a Pasturo, presso Sua Altezza Serenissima Agnès Mondell, cui fare la ineffabile domanda.
Pioveva sempre a dirotto, le strade erano malagevoli. Fra Sesto e Monza volò via la «capote». Fuori di Monza, su la provinciale di Lecco, partì una ruota, la quale, evidentemente, non desiderava allontanarsi troppo da Milano. Ma la macchina, così alleggerita, man mano che perdeva un pezzo, filava con maggior lena. Dopo un'altra decina di chilometri si spaccò il differenziale; poi la macchina perdette il carburatore; infine si ruppe lo sterzo. Queste inezie non gli impedirono di giungere a Pasturo in ottima salute, e in un tempo da record.
Sua Grazia lo accolse con regale benignità, permettendosi unicamente di chiedergli a quale Crociata avessero preso parte gli antenati dei Tramaglino. Renzo trasse fuori il suo albero ginecologico (che i mal parlanti chiamano genealogico) e dimostrò con prove irrefutabili che un suo antenato, Laurentius Tramagninus, per avere rimesso un ferro al cavallo del grande Goffredo di Buglione, fu da lui creato maniscalco, cioè marescalco; prese con lui parte alla liberazione del Santo Sepolcro, e al ritorno, più non sapendo che fare, fondò le colonne di San Lorenzo, dalle quali discesero i Colonna e altri nobili famiglie.
Sua Grazia fu molto soddisfatta nel conoscere che la sposa dell'ultimo de' Tramaglino acquisiva il diritto a fregiarsi del titolo comitale, a portare armi ed attributi gentilizi, poich'ella non avrebbe mai potuto consentire che il frutto delle sue viscere contraesse nozze con un villan rifatto o con un volgar plebeo. Accordò pertanto al postulante la mano e la capanna di sua figlia, degnandosi infine di chiamarlo dopo tanti imbrogli e tante traversìe, sposo promesso di Lucia e suo diletto figlio.
Mentre parlavano, in quel di Pasturo non era mai spiovuto. Ma, ad un certo punto, da diluvio era divenuta pioggia, e poi un'acquerugiola fine fine, cheta cheta, uguale uguale, mogia mogia, lene lene, quietina quietina; i nuvoli alti e radi, quali oscuri, quali meno oscuri, quali frastagliati, quali un po' meno frastagliati, e quali niente del tutto, stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano, trasparente e permeabile, morbido e vaporoso, perlaceo e madreperlaceo; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d'intorno. Come novità, c'era lì il Resegone, con quella sua aria bonacciona, con quel suo fare casalingo da vecchio buon diavolo che si annoia un poco a fare il suo mestiere, cioè d'essere la montagna più alta del lago di Lecco, dato che il Governo paga malissimo i suoi impiegati, ed egli, povero vecchio Resegone, in tanti anni di servizio inappuntabile, aveva appena messo da parte di che sbarcare magramente il lunario.
Basta; tutto andò bene. Il conte Renzo riferì ad Agnese di Maggianico la grande gentilezza del cardinal Federigo nel liberare Lucia dal voto di castità per tutta la vita fatto ne' suoi riguardi, e ora tramutato in un voto alquanto più ferreo, di castità perpetua, ne' raffronti di ben venticinque uomini. Sua Grazia, pur senza osare di muovere appunto all'alta clemenza e alla pastoral chiaroveggenza del Cardinale, trovò che, se in luogo di venticinque, il gran Federigo avesse creduto accontentarsi di dodici, sua figlia avrebbe dovuto fare minori sforzi di memoria per rammentarsi la lista degli ostaggi con cui erale proibito di aver commercio carnale, pena la scomunica maggiore e tutte l'altre sanzioni che si accompagnano al voto infranto. «Senonché, concluse Agnese di Maggianico, la clemenza del gran Federigo non ha limiti, e chissà che in processo di tempo egli non s'induca ad un notevole abbuono su la penitenza che ha comandata».
Dell'incidente e della vertenza con il signor don Rodrigo, il conte Renzo nulla disse alla venerabil Donna, per non allarmarla fuor di luogo, facendole paventare il pericolo che sua figlia potesse rimaner vedova pria che maritata. Nella qual deprecata ipotesi, un altro Anonimo avrebbe dovuto prendersi la briga di scrivere un secondo Manoscritto, sopra le vicende e le traversie del secondo sposalizio di Lucia, essendo chiaro che noi dobbiamo il più bel romanzo del Milleseicento al semplice e casual fatto della sua procrastinata nubilità. Se il primo dì fissato per le nozze, quel briccone di don Abbondio, avesse fatto il dover suo di parroco e di onest'uomo, noi non sapremmo tutte le cose belle, variate e strane che sapute avemmo; in particolar modo saremmo all'oscuro del come andò a finire l'assedio di Casale, che noi crediamo sia tutt'ora in corso, benché gli ultimi bollettini di don Ambrogio Spinola fossero tutt'altro che tranquillizzanti.
Poi Renzo andò a comprare due candele, perché i fari della macchina da noleggio, anziché proiettare luce davanti al radiatore, la proiettavan, non si sa come, sotto il carter; e nonostante l'ora inoltrata, nonostante la pioggerucola cheta cheta, mogia mogia, fina fina, il conte Renzo sostituì con due redini il volante che si era spezzato, e, fatti i debiti scongiuri a San Cristoforo, si rimise in cammino.
Tutto andò benissimo fin che si trattò di scendere, tranne che i treni non funzionavano. Ma giunto alla prima salita, il conte Renzo dovette far svegliare di soprassalto tutti i buoi della provincia, per aggiogarli a questa intrepida macchina e superare con essi la salita.
Strada facendo, scroccò un pranzo in casa di quel cotal suo conoscente; poi, verso mezzanotte, presa dal sonno, la macchina da noleggio pensò bene di andare ad infilarsi nel cortile di suo cugino Bortolo.
Questi era colui, come i nostri lettori ben rammenteranno, col quale - durante la latitanza e il mandato di cattura emesso da don Gonzalo, - il nostro buon Renzo divise con perfetta amistà l'unico paio di calzoni e la bella mogliera.
Bortolo sempre gentile, scese dal letto in pantofole e camicia da notte. Vedendo che suo cugino era zuppo fino alle midolle, per quell'acquerugiola cheta cheta, fina fina, eccetera, si tolse la camicia da notte per imprestarla al cugino; e udito che la macchina non era di sua proprietà, ma ch'egli avrebbe dovuto pagarla in caso di furto, volle assolutamente rimanere tutta la notte, coperto dalle sole pantofole, a dormire sovr'essa, per garantirsi meglio da qualsiasi tentativo di furto all'americana.
Il conte Renzo, più pro forma che per vera convinzione, credette necessario di fare qualche complimento; poi finì con cedere. E siccome in quella casa v'era un sol paio di calzoni, una sola camicia da notte, quindi un sol letto, il nostro buon Renzo dovette rassegnarsi a giacere nuovamente con la mogliera di suo cugino Bortolo.
Costei fece da prima le viste di non conoscerlo, poiché, di fatti, lo aveva per l'innanzi conosciuto sotto i panni, o senza i panni, di Antonio Rivolta; ma poi si assuefece tosto e, dice il nostro Anonimo, - «abbenché fusse alquanto fatigato della precedente notte di via Tadino, il valente giovin leccobardo si disimpegnò guari et honorevolmente dell'affar suo».
«Guari», nel linguaggio aulico del Seicento, significava «parecchie fiate».
Il che dimostra ancor più luminosamente, se fosse necessario, che la peste non è poi quel gran male che fu detto, e nulla toglie al vigor del maschio né all'ardore della femmina, sicché fia lecito concludere quel che noi sostenemmo sin dal principio: non esservi mai stata peste in Milano, tranne qualche caso sporadico d'influenza spagnola, dovuta, più che altro, alla presenza degli Spagnoli nelle cose e nel governo della città, che, se fósservici stati gli austriaci, l'avrebber detta raffreddore austriaco, e, se i francesi, mal francese.
Del perfetto parer nostro si è d'altronde professo, in un sapiente trattato che pur noi abbiamo qui sotto gli occhi, l'eruditissimo signor don Ferrante, cognito in ogni cosa della scienza e della filosofia, il quale don Ferrante, al primo parlar che si fece di peste, fu tra i più risoluti a negarla.
«In rerum natura, diceva, non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui...».
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, egli riuscì così bene a provare la non esistenza della peste, che fu il solo, in tutta Milano, a prenderla e morirne, lasciando in toto alla sua consorte, donna Prassede, la eredità fruttifera della casa di via Tadino.