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CAPITOLO XXXVIII | «» |
Una sera, Agnese, tornata ormai da Pasturo al paesello natio, sente fermarsi un legno all'uscio. Va a vedere, e trova che alcuni monelli, giuocando nella contrada, avevan buttato un pezzo di legno contro il suo uscio.
- «La smettete o no, brutti mocciosi?» - dice Agnese ai monelli, in linguaggio fiammingo; raccoglie quel pezzo di legno e lo butta sul fuoco.
Ma doveva essere la sera degli incidenti. Quel tizzo non aveva ancor terminato di ardere, che Agnese ode fermarsi qualche altro proiettile all'uscio. Va a vedere, e questa volta è Lucia, che arriva senza farsi precedere da un telegramma, in uno di quei «vis-à-vis» a due cavalli che si usan ancor oggi nella ricca e potente città di Milano, per condurre al Municipio i cortei matrimoniali. Cocchieri con stivali alla scudiera e calzoncini bianchi, finimenti di gala e doppio mantice rialzato; due cavalloni monumentali, specialisti di matrimoni, di funerali e di battesimi; guanti bianchi e livree filettate servizio particolare dell'Anonima.
Il conte Renzo, arrivato a Milano su la sola carozzeria da noleggio, essendo il motore caduto nel Lambro, aveva giurato di non più valersi d'automobili senza conducente. E, da provvido uomo d'affari, visto che gli equipaggi gli sarebbero stati necessari per la cerimonia del suo maritaggio, aveva trattato un vantaggioso «forfait», compresa la gita della sua fidanzata presso la madre. Siccome nel «vis-à-vis» c'era posto per quattro, e, volendo, anche per sei, mentre la spesa non era maggiore, Lucy, ovvero Lucette, ovvero Lucia, aveva proposto a donna Prassede di accompagnarla, per fare una scampagnata. Ma la povera donna Prassede piangeva sì dirotte lacrime al pensiero che la indiavolata Lucy dovesse abbandonar la sua casa, di cui ella rappresentava l'ornamento più vezzoso e più redditizio, che per tutto il lungo percorso, tenendosi il fazzoletto agli occhi, ella non vide il paesaggio.
A quel tempo (si era nel 600) le strade non erano di bitulite, e sebbene i cavalli dell'Anonima, nel 600, camminassero un po' più spediti che non camminin ora, le due donne impiegaron ben due giorni e mezzo per compiere il tragitto impervio che da Milano viene fin colassù.
Quando giunsero, piovigginuccolava. Il Resegone, povero cristo, era costretto a prendersela tutta su le spalle, e non aveva neanche un'impermeabile. Quel ramo del lago di Como, non si sa bene cosa facesse, perché da quel sito non lo si vedeva.
Lucia era vestita da sposa; tutta in bianco, le scarpine bianche, la cintura bianca, il velo bianco, e i fiori d'arancio. Quando i compaesani la videro mettere il piede giù dal montatoio, si adunaron tutti quanti intorno al «vis-à-vis» dell'Anonima, gridando: «Viva la sposa!...», e chiedendo i confetti, che Lucia buttava a piene mani.
Erano per l'appunto quei confetti, che, dopo il legno, si eran venuti a fermare contro l'uscio di Agnese. Quando costei venne su la soglia, e vide la figlia in quell'apparato nuziale; rimase come di stucco. Le occorse un buon quarto d'ora per rimettersi; ma in quel momento scorse donna Prassede, sempre col fazzoletto su gli occhi, e tornò a rimanere di stucco.
Entrate in casa tutt'e tre, non si erano ancor sedute, che capita un altro incidente. Per la terza volta si sente fermarsi qualcosa, o qualcuno, all'uscio. Agnese va a vedere; è Renzo che arriva da Milano, con suo cugino Bortolo, in un altro equipaggio dell'Anonima.
Questa volta, grazie al cielo, hanno un paio di calzoni per uno.
Agnese, come un sol uomo, si butta nelle braccia del genero, che, per non lasciarsi soffocare dall'emozione, torce il naso. I cavalli dell'Anonima allargano le gambe e inondano il selciato. Quel povero Bortolo, tutto commosso da una tal scena di amor familiare, non si accorge di quei torrenti e rischia di rovinarsi un paio di scarpe nuove. Donna Prassede, non sapendo in seno a chi piangere, si butta in quello di Bortolo, e singhiozza da fendere i sassi.
Ma tutto questo è nulla, in confronto della scena di commozione che avvenne, quando, entrata nella casa di Agnese, la biancovestita Lucia si trovò in presenza del suo fidanzato. Le parole che disse furono addirittura ineffabili.
- Vi saluto; come state? - mormorò, a occhi bassi, senza scomporsi.
- Sto bene quando vi vedo, - rispose il giovine, con una frase di cui egli fu il creatore, e che, da quell'istante, passò in repertorio.
A tali accenti donna Prassede non seppe resistere; si slacciò il busto, e giù a piangere dirotto.
- Il nostro povero padre Cristoforo... - disse ancora Lucia.
- Me l'aspettavo, pur troppo!... esclamò Renzo. - Ma, come si fa? Centosette anni non son molti e non son pochi... Una volta o l'altra bisogna pur morire...
Donna Prassede, udendo ch'era morto padre Cristoforo, mette la testa sopra una caldaia, e giù a piangere che Dio la manda.
Ma Renzo era così innamorato di Lucia, che, di qualunque cosa si parlasse, mettiamo anche di concimi chimici, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Qui il nostro Manoscritto cita una immagine, che, sebbene c'entri come i cavoli a merenda, noi ci facciamo un dovere di riferirla tal quale. Come que' cavalli bisbetici (dell'Anonima) che s'impuntano, e si piantan lì, e alzano una zampa, e poi un'altra (e poi tutt'e quattro insieme) e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di muovere un passo; e poi tutto a un tratto prendon l'andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l'ore gli parevan minuti, (e i minuti gli parevan secondi; e i secondi gli facevan dire: «Oh, che barba!»).
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i concerti per lo sposalizio. A dirigere la musica dei cori sarebbe forse venuto il maestro Mascagni.
Come al solito egli trovò don Abbondio immerso nella lettura della «Vergine a 18 carati» del signor Pitigrilli, suo romanziere preferito. Don Abbondio fece un orecchio nella pagina, e stette a sentire quel che voleva costui.
- Signor curato, - Renzo gli disse, con, un certo fare tra burlevole e rispettoso, - le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c'è; ma questa volta sarei a pregarla di far presto.
Don Abbondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a tintinnire, a tirinlungheggiare, a tintinnabulare; tantoché Renzo gli disse:
- Ho inteso; lei ha ancora un po' di quel mal di capo. Ma senta, senta...
E in un orecchio gli confidò la grande notizia, che già correva per tutte le bocche, a Milano. Don Rodrigo, non ancora ben guarito della peste, era venuto a diverbio, in un locale innominabile, per ragione di donne, con un giovane conte, che il giorno appresso, in un duello all'ultimo sangue, lo aveva trapassato da parte a parte.
- Uhm... - fece don Abbondio: - è solo morto o anche sotterrato?
- Fu accoppato ieri nel pomeriggio; i funerali avranno luogo domattina.
- Ne riparleremo quando avrà sopra due metri di terra, -concluse don Abbondio; - perché vi sono molti casi di morte apparente; sopra tutto in duello.
Il nostro buon Renzo nulla trovò a ribattere, e fece ritorno alla casa di Agnese. Ma era destino che quella sera mezza Milano si desse convegno lassù. Stavano per mettersi a tavola, quando si ode fermarsi un altro veicolo davanti all'uscio di Agnese. Costei va a vedere, ed ecco due eleganti signori che scendono da una lussuosa automobile, facendole un profondo inchino.
- È questa la casa di Sua Grazia, Agnès Mondell de Maggianico? - domanda il più anziano dei due.
- Per servirli, miei signori. Ed Agnès Mondell sono io stessa; questa è la casa del mio defunto consorte.
I due gentiluomini si sprofondano in nuove riverenze, poi presentano alla regal Vedova i loro biglietti da visita: - «Signor Tale, vulcanizzatore di pneumatici»; «signor Cotalaltro, ex-baritono, direttore della scuola cinematografica Excelsior».
- Mi compiaccio di aver fatta la loro conoscenza - disse Agnese. - E di chi cercano, miei signori?
- Del conte Renzo Tramaglino.
- Oh, miei cari amici! - esclamò Renzo, accorrendo.
- Che nuove mi portate? Ci si batte?
- Sì, ci si batte, - fecero i due con un tono lugubre. - Tutto è fissato per domani alle 14. Le condizioni dello scontro sono molto severe; mettetevi in regola con la Santa Madre Chiesa e provvedete a stendere due righe di testamento. Senza dimenticarvi di noi... - aggiunse il vulcanizzatore di pneumatici.
A tal notizia fulminea il conte Renzo Tramaglino rinculò, indietreggiò, sempre traballando, finché andò a sedersi nel camino. Agnese di Maggianico dette un urlo, e svenne. Il cugino Bortolo, sempre gentile, incominciò a sbottonarsi i calzoni, temendo che Renzo si fosse bruciacchiati i suoi. Donna Prassede, che pareva non avesse più lacrime, prese invece tutti i tovaglioli ch'eran su la tavola, e li inzuppò di pianto. La sola che rimaneva tranquilla e pressoché sorridente era Lucia, la quale non poteva credere sul serio a tanta fortuna, cioè che le accoppassero il fidanzato.
- Qui ci sono i verbali, - dissero i due gentiluomini; - e depositaron su la tavola un grosso fascio di documenti, dei quali intrapresero la lettura, che durò due ore.
Giunti al termine, i due si rasciugarono il sudore, e fecero seguire una lunga pausa. Non si udiva che il russar di Bortolo, ch'erasi addormentato. Le lacrime di donna Prassede scorrevano sul pavimento; Agnese, per ingannare la noia di quella lettura, si era messa a fare la calza.
- Non c'è che un contrattempo, - disse infine il vulcanizzatore di pneumatici.
- Però assai grave, - passeri l'ex - baritono.
- Quale? - domandò con voce d'oltretomba il nostro buon Renzo, che già credevasi nel regno dei più.
- Noi, come vedete, disse il vulcanizzatore, - abbiamo esteso questo mucchio di verbali, firmati e controfirmati in piena regola, dopo animatissime discussioni coi nostri avversari e dopo aver spulciato, riga per riga, tutto il Codice Cavalleresco. Ma quando lo scontro, per comune accordo, fu reso inevitabile, noi siamo venuti a sapere che don Rodrigo sarebbe morto già da un mese, portato via dalla peste, ch'egli ha sempre avuto allo stato cronico. È dunque impossibile ch'egli si trovi, domani alle 14, sul terreno. Questa è una grave seccatura.
- Gravissima! - sottolineò l'ex-baritono.
Il conte Renzo Tramaglino balzò in piedi coi pugni chiusi e coi denti digrignati
- Ah, fellone! - gridò. - Morire pria ch'io l'uccidessi?... È un'indelicatezza!
Bortolo, che dormiva sotto la tavola, svegliatosi di soprassalto balzò in piedi anch'egli, rovesciando la tavola, la zuppiera, i bicchieri, i verbali di scontro. Sua Grazia Agnese di Maggianico smise di fare la calza; donna Prassede di piangere. Lucia svenne.
Ma Renzo, tornato in sé, accese una sigaretta. Ne offerse una per ciascuno a' suoi due testimoni, poi domandò loro con un far curioso
- Allora spiegatemi, vi prego, come ho fatto ad avere un diverbio, seguito da regolar sfida, con un individuo morto da un mese.
- Questo è nulla, dissero ad una voce il vulcanizzatore e l'ex-baritono. - Discussioni coi morti se ne hanno parecchie. Ma diteci piuttosto come faremo, domani alle 14, a scendere sul terreno contro un individuo che ha già resa la sua bell'anima a Dio.
- Perdo in un sol colpo la più tenera delle mie colombe, e due clienti, - gemeva donna Prassede, ricominciando a piangere con lagrime di fuoco.
- Si tratta evidentemente, - disse il cugino Bortolo, sempre gentile - d'un caso affatto nuovo, che il Codice Cavalleresco non prevede.
- È per l'appunto la nostra opinione, - ammisero i due esperti di cavalleria. - Perciò, non sapendo come fare, noi siamo frattanto venuti a rendervi conto del nostro operato.
- E i due testimoni avversari? - domandò Renzo.
- Hanno deciso di similmente recarsi presso il loro primo, e riferirgli del come svolsero il loro mandato.
- Ma se il loro primo è sotterra?
- Saranno andati sotterra; questo non ci riguarda.
- Insomma voi ritenete che il mio onore sia salvo e ch'io possa ritenere d'aver ucciso l'avversario in duello, di piè fermo, con la nuda spada alla mano?
- Non ancora, - fecero i due. - Noi, domani, alle 14, puntualmente, scenderemo sul terreno. Attenderemo per tre quarti d'ora, anche per un'ora. Se il morto non si presenterà, faremo constatare la sua assenza da vari testimoni, poi dichiareremo chiusa la vertenza con squalifica dell'avversario, per non esserci presentato sul terreno all'ora stabilita.
- Vi ringrazio, - disse Renzo con voce baldanzosa. - Adesso andrò a fare un po' d'esercizio in sala di scherma.
- Sì, ma non troppo, - raccomandò il vulcanizzatore, -perché l'eccesso d'esercizio fa perdere l'elasticità.
- E mi raccomando, - aggiunse l'ex-baritono, - per questa notte, fate il letto ben lontano dalla vostra fidanzata.
Lucia divenne rossa come le nespole del Giappone, che sono gialle, ma che si posson dipingere di rosso. Poi guardò in cielo e disse: Fiat voluntas tua!...
Voleva ella dire che purtroppo non c'era più rimedio, e doveva proprio sposare il suo diletto Renzo? Voleva ella dire che desiderava, tra gli altri regali di nozze, una «Fiat»? Su questo punto, come su tanti altri, il Manoscritto dell'Anonimo non è preciso. Ahimè!... le più belle storie del mondo, per belle e variate che siano, finiscono sempre con un matrimonio.
Infine si misero a tavola. Ma la minestra era divenuta un po' fredda. Il cugino Bortolo, sempre gentile, si diede premura di riscaldarla.
Ma vana era la speranza di aver tranquillità quella sera. Non avevano ancor messo il cucchiaio fra i denti, che un altro veicolo viene a fermarsi davanti all'uscio di Agnese. Sua Grazia si alza e va a vedere: questa volta era un pedone. Con una serie interminabile di «Con permesso? con permesso! Non si disturbino! Mi facciano la carità!...» entra don Abbondio.
La notizia recata dai due esperti di cavalleria si era, Dio sa come, diffusa per tutto il paesello, borghi e sobborghi circostanti; sicché, dalla circonvallazione al centro animatissimo, non era che un solo discorso per tutte le bocche: la morte di don Rodrigo. Chi diceva che fosse morto di peste, chi in duello; ma tutti dicevano, con un respiro di sollievo: «Pace all'anima sua!».
- Allora, - insisteva don Abbondio, quando gli ebbero fatto posto e apprestata una scodella di minestra, - allora siete proprio ben sicuri che il nostro riverito e colendissimo don...
- Gliela do come frumento secco, - fece il vulcanizzatore di pneumatici.
- Lei può piegarla in quattro e dormirci sopra, - ribadì l'ex-baritono, che già adocchiava il curato con l'intenzione di proporgli una scrittura per cinematografo.
- Qua un bicchiere, signor curato! - diceva Bortolo, sempre gentile.
- Così avrò il piacere, la consolazione, di maritarvi proprio io, - esclamò don Abbondio, strizzando l'occhio ai due sposi promessi.
- Lei sa bene che siamo venuti fin quassù appunto per questo, - rispose Renzo.
- Gli è che troverei giusto fare prima un pellegrinaggio al Cimitero Monumentale; e pregare lungamente su la tomba di quel nostro eccellentissimo signor don Ro... Ro... Ro...
- Rodrigo, - fece il cugino Bortolo, sempre gentile.
- Siete poi ben sicuri che sia proprio morto, come tutti affermano in paese?
- Ma sì, ma sì! - gli risposero in coro molte voci.
- E magari di peste, poverino...
- È morto prima di peste, poi in duello, - dichiarò il vulcanizzatore di pneumatici.
- Io non mi fido troppo di quelli che muoiono due volte, - osservò don Abbondio. - Però, se voi ne siete ben sicuri, farò suonare le campane a morto.
- Vada per le campane a morto, - rispose Renzo. - Ma questo matrimonio per quando lo fissiamo?
- Ecco la gran testa calda! esclamò don Abbondio. - Non mi lascia nemmeno il tempo di darne parte sùbito a don Federigo.
- Chi è don Federigo? - domandò Agnese.
- Don Federigo, - rispose don Abbondio, - è il nostro cardinale arcivescovo, che Dio conservi.
- E perché dunque lo chiamate con un semplice don?
- Il nostro santo Federigo, stanco forse degli onori della porpora, e intendendo con ciò dare un esempio d'umiltà a noi parroci, che siamo in grande agitazione per chiedere aumenti di stipendio, oltre il diritto di prender moglie, ha mandate al Papa le proprie dimissioni, e si è riordinato semplice prete.
- Oh, il sant'uomo! - esclamò una ignota voce femminile.. - È l'undecima volta che ricomincia la carriera ecclesiastica!...
Chi era colei che così aveva parlato? Da qual profondità scaturiva la ignota voce?
Venne fatto il conto dei personaggi d'ambo i sessi lì presenti, e si accertò che oltre Agnese, Lucia e donna Prassede, v'era una quarta donna, anzi una signora, una mercantessa di Milano, grande amica di Lucia (s'erano conosciute, pare, in un cinematografo) della quale noi amanuensi, forse distratti dal continuo affluire di gente nuova in quella sera, memoranda, negligemmo o scordammo di dar notizia. Ella per l'appunto, era venuta con Lucia e con donna Prassede nel «vis-à-vis» dell'Anonima; i suoi abiti la mostravano per una cittadina compita e di classe agiata; ma poiché non disse parola dal principio alla fine di tutti questi avvenimenti, noi, fra tanta confusione, dimenticammo di notificare al lettore la sua presenza; - omissione senza dubbio assai grave, benché tutto si sarebbe svolto in ugual modo, anche s'ella non avesse creduto di dover disturbarsi, venendo appositamente da Milano. Il più stupito ne fu il cugino Bortolo, che, da quando ebbe udita la sua voce, più non sapeva staccarle gli occhi di dosso. Fenomeno abbastanza frequente, e che i Francesi chiamano «coup de foudre».
Fervevano i conversari, le libazioni, e si stava preparando il caffè, quando un altro pedone si ferma davanti all'uscio di Agnese. Costei va a vedere, e questa volta si tratta d'un uomo a cavallo, gran signore nel portamento e nell'aspetto, il qual si toglie il cappello piumato e fa un grande saluto alla Serenissima vedova, che, ancora una volta, rimane di stucco. Tanta cortesia, i guanti alla moschetti era, il pizzo e i baffi alla Cirano di Bergeracche, i merletti che uscivano dal suo giustacuore, le staffe d'oro massiccio, gli speroni tempestati di brillanti, il cavallo impomatato e lustrato a cura de' più sapienti profumieri, tutto dava e divedere il cavalier di gran mondo, l'uomo avvezzo fin dalla nascita a veder chiunque prostenarsi davanti al suo passaggio.
Agnese gli fé cenno di entrare come se fosse in casa propria, e il nobile visitatore, piegandosi in due per non prendere una zuccata, entrò a cavallo. Bortolo, sempre gentile, corse a tenere la briglia; il cavaliere mise piede a terra, e il cavallo si sedette in disparte.
Chi era mai questo tardivo e magnifico visitatore?
Non andò guari che lo seppero. Era il marchese di ***, dice il nostro Manoscritto.
Noi abbiamo, come al solito, esperite le più costose indagini per appurare il casato e procurarci la carta d'identità di questo nobile personaggio. Non siamo riusciti a nulla, se non ad accertare che le tre stellette con cui egli è citato nel manoscritto, e che certo facevano parte delle sue armerie, figurano anche nell'etichetta di un celeberrimo cognac francese, il cognac Martell, detto anche Tre Stelle. Per ciò, d'ora innanzi, nomineremo quel nobile cavaliere sotto il suo nome veridico, ossia marchese di Cognac Martell.
Lucia, che da gran tempo aveva perduta l'abitudine di vivere in mezzo ai bifolchi ed alla gente di ceto medio, vedendo quel nobil cavaliere si era tosto ringalluzzita; aveva estratto dalla borsetta il «crayon Dorin» e se lo passava su le labbra, dandosi una specchiatina e rinfrescandosi con un po' di cipria. Lo stesso marchese di Cognac Martel, ed il suo cavallo eziandìo, sembrava non avesser occhi per altri che per Lucia.
Tutto questo, naturalmente, faceva un grande piacere a Renzo, da quel fidanzato moderno e senza pregiudizi ch'egli era.
Ma cosa mai volesse, a quell'ora, in casa di Agnese, il marchese di Cognac Martelli, è quello che or tosto vedremo.
Egli si rivolse per primo a don Abbondio, cui disse:
- Vengo a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.
- Non ho il piacere di conoscerlo, - fece don Abbondio.
- Come?!... - esclamò il Marchese, con una punta di sdegno: - v'è ancora un parroco in Leccobardìa che non conosca il cardinal Federigo?
- Mi avevan detto, - fece con umiltà don Abbondio - ch'egli fosse stato promosso di recente a semplice prete.
- Que sì, hombre!... - dichiarò il marchese di Cognac Martell, il quale tradiva, con questi accenti, la sua origine spagnolesca. - Ma non potè rimaner prete più di una settimana, che il Papa, di motu proprio, lo retrocesse illico et immediatim a cardinale.
- Oh, il sant'uomo! - esclamò la mercantessa di Milano. - È la undecima volta, ch'egli si fa retrocedere a semplice cardinale!
Tutti guardarono colei che aveva così parlato, e per la seconda volta si accorsero che v'era, tra gli altri, una mercantessa di Milano.
- Vengo inoltre, - disse il marchese di Cognac Martell - per concedermi l'onore di baciar la mano alla gentilissima Lucy Mondella, che ho qualche volta intravveduta per le vie di Milano, e che mi accorderà d'ora innanzi l'ambito privilegio d'essere il suo vicino di campagna.
Mise un ginocchio a terra, e quel che disse fece: ossia baciò la mano della gentilissima Lucy Mondella.
Questa, per il piacere, divenne tutta rossa come le olive in iscatola; - le quali sono verdi, o anche nere, ma si possono dipingere di rosso.
- Son venuto inoltre, - continuò il marchese di Cognac Martell, mentre il suo cavallo assentiva muovendo leggermente la coda, - per stringere rapporti di continuata amicizia con il conte Renzo Tramaglino, a torto perseguitato dal nostro precedente governatore don Gonzalo, ma al quale porto, per conto di don Ambrogio Spinola, le più sentite scuse, e la revoca del mandato da cattura.
Il conte Renzo si levò in piedi, e con un sorriso amabile ma compassato, come si conviene tra gentiluomini,, strinse la mano al marchese di Cognac Martell.
- Sono venuto infine, - proseguì questi, - per rendere a Cesare quel ch'è di Cesare. Tutto il territorio di Lecco, Resegone compreso, entra d'ogginnanzi nel paniere nuziale di Lucy Mondella, che potrà disporne a suo talento, dividerlo, alienarlo, darlo in bucato, trasmetterlo ai propri eredi, con e senza l'altura di Canterelli, ove dormono le ossa del celebre notaro, dottor Azzeccagarbugli. Beninteso, - aggiunse il marchese di Cognac Martell - io mi farò il piacere di ricevere qualche volta, con marito e senza, la mia bella vicina di campagna nel mio castello, dove sarà frattanto celebrato, questa domenica, il lieto banchetto nuziale che coronerà finalmente l'unione delle due grandi stirpi leccobarde: i Mondella e i Tramaglino.
«Ma chi può essere costui?» - pensava il cugino Bortolo, sempre gentile, che, vedendo il cavallo tirar fuori, la lingua, suppose potesse aver sete, e gli offerse un bicchiere di vino.
- Grazie; sono astemio, - rispose il cavallo. - Come se avessi accettato.
Il cugino Bortolo, senza scomporsi, tracannò d'un fiato il bicchiere; poi disse a mezza voce, con aria poco persuasa: «Un cavallo astemio?... Questa è la prima volta che vedo un fenomeno simile. Peggio per lui! - concluse il cugino Bortolo; poi tornò a domandarsi: - Francamente amerei sapere che razza di personaggio può essere costui».
Il mistero doveva essergli svelato indi a poco, allorché il marchese di Cognac Martell, nobile fino alla punta dei piedi, e spagnolo d'origine per soprammercato, concluse tutto il suo dire con queste parole rivelatrici
- Tali furono le volontà estreme del mio defunto prozio don Rodrigo, del quale io sono l'erede per fidecosmisso, che Dio se l'abbia in gloria!
- Allora egli è proprio morto?... - osò mormorare don Abbondio.
- Per volontà dell'Altissimo egli è assurto a miglior vita, - sospirò il marchese di Cognac Martell, cavandosi di tasca la fotografia del defunto, su la quale depose un bacio. Intanto le sue gote si rigavano di lacrime, quelle del cavallo eziandìo, e donna Prassede, che aveva sino allora soffocati i singhiozzi, scoppiò in un dirotto pianto.
Allora tutti si misero a ginocchi, e recitarono le preghiere dei morti. Frattanto il marchese di Cognac Martell sussurrava parolette amorose all'orecchio di Lucia, domandandole per quale dono ell'avrebbe consentito a cedergli la sua prima notte di matrimonio: jus primae noctis. Ma poiché Renzo aveva l'orecchio teso, e, come un salutare monito ad entrambi, non faceva che aprire e chiudere il suo temperino a serramanico, Lucia, pur cantando i salmi per il riposo dell'anima di don Rodrigo, fece comprendere al piacente marchese di Cognac Martell che non avrebbe potuto rispondergli senza prima interpellare il suo fidanzato.
Allora il marchese, ch'era evidentemente un uomo avvezzo agli usi di mondo, fece cadere una borsa gonfia di berlinghe sotto il naso del conte Tramaglino, il quale, siccome stava tutto assorto in orazioni, potè credere che gli fosse inviata dal cielo ad opera di don Rodrigo, che, per l'appunto, lo aveva istituito suo erede universale.
Ricevute le berlinghe, il conte Renzo si sentì assalire da un famoso mal di capo. Questo mal di capo divenne così martellante, ch'egli dovette scusarsi con tutta la compagnia, - dicendo ch'era costretto a ricoverarsi nell'ospedale di Lecco, dove, se i dolori non fossero scemati, si sarebbe fatto fare la trapanazione del cranio.
Sorretto e accompagnato dal cugino Bortolo, sempre gentile, ma al quale non era sfuggita la borsa gonfia di berlinghe, salì pertanto nel secondo «vis-à-vis» dell'Anonima, e scese verso Lecco. La mercantessa di Milano ripartì in auto con l'ex baritono e col vulcanizzatore di pneumatici. Il cavallo, visto che don Abbondio stava mettendo giù le sue reti per debellare le vedovili resistenze di Agnese, offrendole, se il Manoscritto non mente, la successione di Perpetua, mentre il marchese di Cognac Marteil faceva telefonare al Castello perché il Griso venisse a prenderlo con la Chrysler modello 70, - il cavallo, dicevamo, vista che l'ora si faceva tarda, pensò andarsene passo passo verso la scuderia, sferrando calci ogni qualvolta incontrava qualcuno, per il timore che, gli portassero via le sue staffe d'oro massiccio.
Dopo qualche tempo Agnese e don Abbondio si ritirarono al pian di sopra, mentre Lucy Mondella ed il marchese di Cognac Martell salivano nell'automobile del Griso. Questi era un po' invecchiato; la peste gli aveva lasciato qualche trascico doloroso, ma era pur sempre un conducente di prim'ordine.
- Tu es la mi niña!... el mi primero y ultimo amor!... - diceva perdutamente il marchese di Cognac Martell su la bocca della dolce Lucy, mentre l'automobile del Griso li trascinava, un, po' ansante, verso il talamo che si sarebbe infine maculato, dopo trentotto capitoli (ciascun de' quali forma un volume per sé stesso) del suo travagliato onor virgineo.
Ma la cosa più sorprendente di questo singolar romanzo, è forse questa: che il marchese di Cognac Martell giura ancor oggi per tutti i suoi santi, che, fra le cento vergini «de Castilla y de Aragon» da lui immolate, nessuna eralo così occlusamente quanto la vergine Lucy, della nobil casata dei Mondella, stirpe gagliarda e montagnarda, per la quale è vero il proverbio: «Buon sangue non mente».
E noi rendiamo onore a questi cavalieri di Castiglia, pronti ad uccidere in singolar tenzone chiunque toccasse con una piuma la dama del loro «corazon», ma che poi non amavano perdersi in questioni di millimetri, fedeli all'esempio ed alla buona fede romantica dell'immortale don Giovanni Tenorio, che tanto amava le donne da credersi da esse amato, e da saper abbellirle di tutte le sue proprie illusioni, poiché, in fin de' conti, se l'errante cavaliere don Chisciotte sferrava battaglie contro i mulini a vento, l'errante amatore don Giovanni spesso levava d'assalto le porte già fuor dai gangheri e già più d'una volta violate, nessuno mai essendo siffattamente il primo, quanto colui che in sì dubbia materia, tale ardisce riputarsi con perfetta buona fede.
La domenica appresso furon celebrate nel maniero di don Rodrigo, adesso appartenente al marchese di Cognac Martell, le nozze di Renzo con Lucia, per le quali tanto inchiostro fu speso, e tanti imbrogli furono architettati, ma che alfin si conclusero in letizia, e tutti ci trovarono il lor tornaconto, tranne i poveri morti, che però stanno meglio di noi.
Da quel momento, tutto si mise a filare come sopra due rotaie. Coloro che avevano avuta la peste, ora crepavano di salute; chi n'era uscito immune sperava di procurarsela, poiché la peste, come si è dimostrato, porta fortuna. Ma, passata la festa gabbato lo santo, dice un vecchio proverbio; e la peste quando ha deciso di andarsene, non la si riacchiappa nemmeno ad inseguirla con un motore a valvole in testa. Siccome poi scrittori hanno presa l'abitudine di descriverla, e ci appioppano tante frottole da screditare una delle malattie più simpatiche, è bene che la peste si lasci un po' desiderare, e non si faccia descrivere più d'una volta per secolo.
Prima che finisse l'anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura. Non si comprende perché avesse tardato tanto, ma può anche darsi che il marchese di Cognac Martell, nell'applicare il suo jus primate noctis, si fosse ingannato meno di quello che non abbiano supposto, nel corso della presente istoria, i lettori maligni e le lettrici che nel leggere un libro vedono il peccato anche dove non c'è.
Se fosse stato un maschio, gli avrebbero dato nome Giuseppe; ma era una bambina, e la chiamarono Maria. In verità sudarono molte camice a scoprire per lei questo nome abbastanza raro, del quale, dopo accurate indagini, trovammo due soli precedenti: Maria Korda e Mary Pickford. Poiché in inglese Mary vuol dire, press'a poco, Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant'altri, di tutt'e tre i sessi. Agnese li portava in giro in carrozzella, e Renzo volle che imparassero a leggere e scrivere, a andare in bicicletta, e a saper dire a memoria, senza l'aiuto d'un vigile, in quali strade di Milano è lecito fermarsi con l'automobile.
Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure, che invano gli editori più illustri. tentavano di fargli scrivere. «Ho imparato, - diceva -, a non portare in collo il boa della contessa Maffei; ho imparato che non vi sono, in Borsa, buone azioni e cattive azioni, ma che il dannoso, per l'agente di cambio, è la stazionarietà; ho imparato a non tenere in mano, il martello delle porte, a non attaccarmi un campanello al piede, come usavano gli sconci monatti, a non farmi passare un anello nel naso, e non mettere le dita nel medesimo; ho imparato a non prendere a nolo le macchine senza conducente, a non provocare in duello i morti, a non spendere i soldoni con il collo lungo, e a non credere che si possa, da un giorno all'altro, levare d'assedio la città di Casale; ho imparato che «adelante Pedro», in ispagnolo vuol dire: «Va indietro Pietro», e che un uomo, per quante sciocchezze faccia da scapolo, non ne fa mai una tanto grossa come quando prende moglie. Ho imparato cent'altre cose ancora, e vi domando scusa se è poco».
Quanto a Lucia, con l'andar degli anni divenne un po' troppo rotonda, e non era più la forosetta che faceva sdilinquir di madrigali in carta monetata gli amici di donna Prassede, nella casa di via Tadino. Era però sempre un bel tocco di brianzolarda, e, quando le domandavano se avesse trovata la felicità vicino al suo Renzo, ella rispondeva con un sospiro: «Ah, mon Dieu!...».
Siccome, tra i suoi conoscenti, non v'era nessuno che intendesse le lingue forestiere, Lucia, sempre arrendevole di carattere, si dava a spiegare quel che aveva inteso dire con quella frase in purissimo «argot».
E diceva: - Il mio Renzo non è certo uno stinco di santo; ma chi mi dice che un altro non sarebbe ancor peggio? E perché lamentarsi? perché arrabbiarsi?... La vita è breve...
Questa conclusione, benché trovata da una semplice donna leccobarda, che forse non aveva il cervello di Leonardo da Vinci, a noi è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.
La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata.
Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
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