Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAP. IV

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CAP. IV

 

Il sole non era ancor tutto sparso all'orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico per salire alla casetta dov'era aspettato.

Pescarenico era il capoluogo più importante per chi da Lecco si recasse a Bergamo; vogliamo dire il più importante per coloro che abitavan Pescarenico. Il cielo era tutto sereno; dal qual indizio era facile presumere che, tempo permettendo, non avrebbe fatto pioggia. Man mano che il sole si alzava, dietro il monte, la sua luce (fenomeno registrato più volte dagli astronomi) si distendeva per i pendii e nella valle. Un venticello d'autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso, le faceva cadere, ahimè, per terra. Quelle ancor verdi rimanevano invece attaccate all'albero. La scena era lieta, ma la gente appariva piuttosto di umore oscuro, forse perché, la sterlina essendo salita d'un quarto di punto, quei lavoratori dei campi, quasi tutti ribassisti, vedevano i titoli di Borsa ascendere in proporzione.

Alcuni, passando, interpellavano Fra Cristoforo:

- A quanto abbiamo il dollaro, padre Cristoforo

- A 19,21 con tendenza sostenuta, figliuol caro.

- Ahimè, padre Cristoforo!...

- E il franco francese va sempre più a rotoli, figliuol caro...

- Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E chi era questo padre Cristoforo?

Orbene sappiano i miei lettori ch'egli non era affatto un agente di cambio.

Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai novanta che ai dodici anni. Il suo capo, ch'era tutto una chierica, sarebbe stato forse ricoperto di folti capelli, se una calvizie precoce non lo avesse reso tondo e liscio come una palla da bigliardo. Padre Cristoforo, evidentemente, aveva purtroppo fatto abuso di lozioni rigeneratrici. La barba, bianca e lunga, gli nasceva dove suol nascere la barba: cioè su le guance e sul mento. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra; ma talvolta sfolgoravano con vivacità repentina, come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, anzi come una pariglia di cavalli, o meglio come un tiro a quattro.

Il padre Cristoforo non era sempre stato così, appunto perché aveva meno di novant'anni e più di dodici. Una volta non si chiamava nemmeno Cristoforo, bensì Lodovico.

Egli era figlio di mercanti arricchiti, che gli avevan trasmesso, con un buon sacco di quattrini, la voglia di far parte della nobiltà. Ma la nobiltà faceva orecchio da mercante, a costui che aveva l'ambizione di potersi ricamar sui fazzoletti un leone rampante, una biscia contorta, tre anelli fissati insieme con la saldatura autogena, o qualche altra armeria del tenor di queste, che la plebe ammira nei blasoni della nobiltà.

Bocciato per ben due volte al club dei nobili, e tenuto da costoro in conto d'un personaggio di bassa estrazione, Lodovico se l'era legata al dito, e non bramava che di rintuzzar l'orgoglio d'alcuno di que' nobiluomini, tanto più ch'egli aveva un carattere cachettico.

Andava or egli un giorno per una strada della sua città, seguito dal suo fedel cane, che si chiamava Cristoforo, ed era un bel bassotto, di quelli da scavare i tartufi, lungo e sgangherato come un trenino a vapore. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, il quale s'avanzava diritto, con passo superbo, con la fronte alta, seguito egli pure da un cagnozzo che certo era un bastardo, se pur non lo era il suo stesso padrone. Tutt'e due, cioè tutt'e quattro, cani e padroni, camminavan rasente il muro, Lodovico tenendo la sua destra, l'altro la mancina. Accostati l'un l'altro che si furono, il bassotto non intendeva punto di cedere al bastardo la destra, né quest'ultimo di scansarsi nel mezzo della strada per far passare il can d'un plebeo; ed ambi e quattro ringhiavano furiosamente.

- Fate luogo al mio bull-dog inglese, che ha tanto di certificato del Kennel Club, - disse con cipiglio imperioso il signor tale, e con un tono corrispondente di voce.

- Faccia luogo il vostro bastardo! - rispose Lodovico. - La diritta è del mio bassotto.

- Co' vostri pari è sempre mia.

- Sì, se l'arroganza de' vostri pari fosse legge per i pari miei.

Frattanto il bassotto ed il bull-dog, con il vello irto e co' denti digrignati, si scambiavano feroci contumelie, facendo di tempo in tempo, su lo zoccolo del muro, qualche gocciolino di pipì. La gente che arrivava di qua e di si teneva in distanza ad osservare il fatto.

- Nel mezzo vile meccanico! - disse il bull-dog al bassotto, raspando furiosamente la terra; - o ch'io t'insegni una volta come si tratta co' gentiluomini.

- Voi mentite ch'io sia vile! - rispose il bassotto al bulldog.

- Tu menti ch'io abbia mentito!

- La tua menzogna è di andar mentendo ch'io menta nel non smentire che tu abbia mentito!

- Se io mentissi nell'affermare che tu menti, allorché dici menzogna nel dire ch'io vada mentendo, non io mentirei, ma tu mentiresti, nel non smentire ch'io abbia mentito.

Questo frasario era di prammatica, tra persone che avessero letto il manuale del Gelli.

Così andarono avanti per una buona mezz'ora, finché sul posto si furono radunate non meno di undicimila persone, compreso il Podestà, gli Assessori del Broletto, il Comandante dei Civici Pompieri e il Corpo di ballo della Scala.

- E se tu fossi cavaliere com'io sonlo, - aggiunse il signore del bull-dog, - ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che il mentitore sei tu.

- È un buon pretesto per dispensarvi di sostener coi fatti l'insolenza delle vostre parole, - ribattè Lodovico, mentre il suo bassotto rideva e crepapelle.

- Addenta un po' il deretano di questo ribaldo! - disse il gentiluomo, volgendosi al suo bull-dog.

- Vediamo! - schernì Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada che sempre teneva per precauzione al fianco.

- Temerario! - gridò l'altro, sfoderando la propria, che tutta era tempestata di gemme e di arabeschi inestimabili. Così s'avventarono l'uno all'altro, mentre il bassotto ed il bull-dog giravano in cerchio l'uno dietro l'altro, ringhiando, per annusarsi la coda; e così la pugna, oltremodo violenta, si protrasse per oltre mezz'ora. Ambi e quattro badavano sopratutto a non prodursi scalfitture guaribili oltre i dieci giorni, per evitare il carcere preventivo. Ma sventura volle che, mentre più ferveva la mischia, un filo del tram elettrico, staccatosi da quello dove scorre il trolley della pertichetta, venisse a colpir da tergo il signor tale, che sgambettando per qualche istante come un epilettico, si stese a terra morto e stecchito.

- Pera il fellone! - disse Lodovico, fra gli applausi della moltitudine; ed afferrato per la coda il suo bassotto corse in un convento a farsi frate.

Siccome nei conventi non è permesso tener cani da trifola, neppure con la museruola e col guinzaglio, Lodovico fece chiamare un sorvegliante perché lo portasse al Canile Municipale, e, con lo strazio nel cuore, in segno d'umiltà e di cordoglio, prese il nome di Fra Cristoforo.

 

 

 


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