Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAPITOLO IX

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CAPITOLO IX

 

L'urtare che fece la barca contro la proda scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa come se si svegliasse.

Dove il padre Cristoforo li avesse diretti, è in verità un gran mistero. Il prezioso incunabolo da cui è desunta la presente Istoria non fa menzione del luogo dov'erano diretti i tre fuggitivi, con la santa compagnia. Anziché nominare apertamente il sito, l'incunabolo reca tre asterischi. Per spiegare cotesti tre asterischi, gli storici milanesi, i geografi, gli eruditi e i decifratori di palinsesti dell'intero mondo, specialmente quelli affricani, cavillarono e indagarono per più di un secolo. Poiché tuttavia nell'incunabolo è detto che per quel luogo passa il Lambro, e altrove che c'è un arciprete, noi deduciamo senz'altro che fosse Monza.

Nientemeno che Monza! Come i lettori ben vedono, un luogo che si trova giusto giusto agli antipodi rispetto a Lecco; luogo inospitale, funestato dalle febbri malariche e dalla mosca tsè-tsè, luogo dove scorrazzano in libertà branchi di elefanti selvaggi, con la proboscide coperta da cappelli di paglia, e dove l'esploratore che vi si azzardi può considerarsi a priori un uomo scorticato vivo.

I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza poco dopo il levar del sole, e tosto chiesero tre camere con bagno al Monza Palace. Mentre Lucia si svestiva per tuffarsi nell'acqua, Renzo guardava per la serratura. Egli, che in vita sua non aveva mai preso un bagno, credette che la vasca fosse un giaciglio di novissima foggia, e vi si pose a dormire. Sennonché, nel sonno, avendo egli girato per inavvertenza un rubinetto, l'acqua della doccia gli si mise a piombar su la pancia, prima calda, poi fredda, poi viceversa, il che si chiama doccia scozzese. Ma di acqua poteva scenderne quanta il ciel volesse, Renzo non si svegliava. E nemmeno quando la vasca fu piena, quando la stanza fu piena, quando mezzo albergo fu inondato, Renzo non si svegliava. Fu allora che, messa in acqua una scialuppa, e risalite le scale a forza di remi, il direttore del Monza Palace venne a pregarlo di chiudere il rubinetto.

Purtroppo la sorpresa più grande del disgraziato Renzo non fu quella di, risvegliarsi in un bagno, ma fu quando gli presentarono il conto d'una mezza giornata al Monza Palace. Discutere sui prezzi sarebbe stata cosa di pessimo gusto; egli non osò farlo; ma non diremo con quale strazio l'infelice Renzo dovette metter mano al libretto degli chéques, per tirare un vaglia su Fra Bonaventura da Lodi, agente di cambio.

Per solito, al «bureau» dell'albergo, gli chéques venivano rifiutati senz'altro - chéques are no alloved. - Ma veduta la firma: - Renzo Tramaglino - il segretario e il direttore gli fecero tanto di cappello. Sennonché l'infelice Renzo s'era preso un tale spavento di quelle tariffe, che per decise di ricoverare la fidanzata e la suocera nel convento della Monaca di Monza, dove le sopraddette si presentarono, munite delle credenziali di padre Cristoforo, mentre il Tramaglino decideva di recarsi a cercar fortuna nel Ducato di Milano.

Chiamato un taxi, condusse le due donne al convento; poi si fece accompagnare col medesimo alla stazione, e quando l'impiegato gli chiese dove intendesse recarsi, il lecchese, o lecchino, o lecchigiano che dir si voglia, rispose imperturbabile:

- Buenos Aires.

- Non ferma, - rispose l'impiegato, e chiuse lo sportello.

Renzo, piuttosto contrariato, uscì sul piazzale della stazione, dove tosto si vide avvicinare da un bel pezzo di monzese, monzina, monzasca o monzigiana che dir si voglia, la quale, parlando in fiammingo gli disse:

- Chillu sta uno quaglione ca me fra mmorì o' core tanto sta nu bellu ciccirillu?

E perdutamente gli si mise al braccio, per condurlo a visitare l'Esposizione delle (sue) Arti Plastiche e Decorative, aperta il giorno e la none nei boschetti del Parco di Monza.

In quel frattempo il padre guardiano, letta ch'ebbe la missiva del padre Cristoforo, sbirciò con un'occhiata accogliente le due donne, e, per la prima, cioè Lucia, nulla trovò da ridire, ma per l'altra fece una smorfia significativa, come se aspirasse una presa di tabacco.

Tratta quindi Agnese in disparte, le rivolse alcune interrogazioni, alle quali ella soddisfece, e, tornato verso Lucia, disse ad entrambe: - Donne mie, io tenterò, ma non vi nascondo che la casa è già molto affollata...

AgneseLucia riuscivano ad intendere questo linguaggio del padre guardiano. Il frate riprese: - Bene, io vi conduco subito al monastero della Signora. State però discoste da me alcuni passi, perché la gente si diletta di dir male, e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero se si vedesse il padre guardiano per la strada in compagnia di donne forestiere.

Lucia arrossì; Agnese non mancò d'osservare che anche all'estero, come nel leccoburghese, la donna è costretta, quando viaggia sola, a circondarsi di mille precauzioni.

- La Signora, - disse ancora il padre guardiano - è una monaca; ma non è una monaca come l'altre. - Non è che sia la badessa o la priora, che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani; ma è della costola d'Adamo, e dispone di tutta la casa comandando a bacchetta.

Introdotte nel monastero, le due donne furon ammesse nel parlatorio, e tosto guardaron in giro, per veder dove fosse la Signora cui fare il loro inchino. Ma il parlatorio era deserto. Solo dopo alcun tempo videro una finestra di forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo, e, dietro quelle, una monaca ritta.

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta e sfiorita, e, direi quasi, scomposta. Sotto una benda bianchissima, due neri sopraccigli, rasati alla moda, si ravvicinavano con un rapido movimento; due occhi, fortemente neri anch'essi, e un po' troppo dipinti, si issavano talora in viso alle persone con un'investigazione superba, talora si chinavano in fretta come per cercare un nascondiglio. Si sarebbe detto che questi occhi fossero azionati da un motorino invisibile, come quelli dei fantocci viventi che in certe vetrine danno al pubblico esibizione dei miracoli d'una crema per la barba; in verità potevano dirsi lo specchio dell'anima.

- Reverenda madre e Signora illustrissima, - disse il padre guardiano; - queste sono le due donne che aspirano a ricevere asilo nel monastero.

- Accostatevi, quella giovine, - comandò la Signora, facendo un segno a Lucia. - Siete voi la protetta del padre Cristoforo?

- Reverenda madre e Signora illustrissima... - balbettò Lucia, ripetendo le parole del padre guardiano, ma senza ardirsi di compiere la frase.

- Reverenda Signora, - intervenne prontamente Agnese; - questa per l'appunto è mia figlia, nominata Lucia, che il buon padre Cristoforo si degna raccomandare alla vostra alta benevolenza.

La Signora squadrò d'alto in basso le due donne, poi disse in cuor suo (ma il pensiero fu visibile dall'atto delle labbra): - Non perde il suo tempo quel vecchio rammollito!

Questa frase, l'altero portamento, i profumi audaci che impregnavano la bella persona, le sue unghie lucenti come fredde ònici, rosse come i capezzoli delle nutrici longobarde, un non so che di appassionato e di consapevole nella forma della sua bocca, orlata d'un'ombra dolcissima che accentuava la fiammante porpora impressavi dalla matita sanguigna, la nobiltà e la e la dolcezza delle sue forme, che, a colpo sicuro, non eran quelle di un corpo intristito dai digiuni della virginal penitenza, davano chiaramente a dividere che questa celebrata Monaca di Monza non si contentava solo di portare cilici e di sgranare paternostri, ma, come quasi tutte le religiose di quel gentilizio convento, aveva, se non un presente grave d'inquietudini, certo un passato burraschevolissimo.

Converrà dire che nel Milleseicento i costumi in uso tra le spose del Signore non erano quali i profani potrebbero attribuire a donne divise e partite dal mondo; anzi l'abito non impediva che ogni sorta di licenza fosse consumata, dentro e fuori le mura del chiostro; cosicché, se mai fu monasterio dove le dissolutezze del carnale commercio regnassero e primeggiassero su le speculazioni dello spirito, questo, della Monaca di Monza, era, tra i dissoluti conventi dell'epoca, certo dissolutissimo.

Ben s'appose il padre Cristoforo inviando la giovine Lucia sotto le ali di cotanta Donna; poiché la nostra Lucia, non nata di nobil lignaggio, e leccoburghese per soprammercato, abbisognava tuttora d'un corso celere di perfezionamento, prima di buttarsi a cuor perduto nella gran vita di quella Milano del Milleseicento, ove il signor don Gonzalo perdeva invano il suo tempo a lanciare editti contro la sfrenatezza dei costumi. A ciò dunque provvide la Signora di Monza, accogliendo Lucia, con la madre, nel suo convento.

Sarà pertanto opportuno che noi diamo al lettore alcuni schiarimenti su la storia di cotesta eccezionale monaca, e sui costumi ch'ella aveva introdotti nel suo convento.

Era essa l'ultima figlia del principe ***, magnifico gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Le nostre personali indagini ci hanno permesso di scoprire che i tre prudenti asterischi del Manoscritto son per nascondere don Martino de Leyva, principe di Monza. Poiché sua moglie, gran dama nel termine più esteso della parola, ed onestamente aliena dal ricorrere alle premure d'un ostetrico, si permetteva, ogni nove mesi, di regalare al proprio consorte un nuovo pegno dell'amore altrui, e poiché da vari anni, questi neonati appartenevano tutti al sesso femminile, don Martino finì con averne abbastanza, e preso consiglio dal proprio amministratore, decise che a partire dalla gravidanza in corso tutti i rampolli ulteriori dei de Leyva sarebbero destinati a vita monastica. Appunto nacque Gertrude, e nacque con un temperamento così monacale, che a sei anni aveva già un amante. Il Manoscritto, coi soliti sottintesi, non ci a conoscere chi fosse; ma pare fosse il suo bàlio, cioè il marito della donna che l'aveva allattata. Se il peccaminoso congiungimento debba aver nome di semplice adulterio, oppur d'incesto, è cosa in merito alla quale gli esperti della materia non si sono trovati d'accordo. A parer nostro, se balia è colei che fa le veci di madre, balio è colui che fa le veci di padre; dunque il congiungersi con il proprio bàlio, o padre putativo, se incesto proprio non è poco ci manca. Dai sei ai dieci anni Gertrude corruppe tutti i valletti e gli scudieri che affollavano la casa del principe; non parliamo degli amici di famiglia, e persino de' bottegai circostanti, poiché Gertrude ne fece strage.

Don Martino si rivolse allora per consiglio al Cardinale Arcivescovo, il quale approvò la risoluzione di metterla in convento, poiché, disse, una fanciulla di carattere così espansivo e di nervi tanto sensibili non poteva esser che monaca. Nonostante la sua giovane età, fu dunque risoluto di collocarla nel monastero dove l'abbiamo veduta, il qual monastero già da tempo era celebre per aver tra le sue mura le più belle donne di Lombardia. La badessa e le direttrici del convento esultaron nel vedersi offrire una principessina autentica, la quale avrebbe accresciuto il lustro, la fama e le ricchezze del lor convento. Non appena entratavi, Gertrude fu chiamata per antonomasia la Signorina, fin quando, all'età di undici anni, ella partorì il primo figlio; e fu allora che da quelle monache, anziché la Signorina, venne chiamata la Signora.

Il disgraziato don Martino incominciò a grattarsi i capelli che gli restavano. Se tutte le sue figlie si mettevano ad avere la prolificità della madre, egli poteva dirsi un uomo rovinato. Venne a Monza, e fece una scenataccia alla madre badessa, dicendo che se Gertrude avesse avuti altri figli prima dei vent'anni, egli avrebbe sporto reclamo alle superiori autorità ecclesiastiche.

Frattanto si fece consegnare questo primogenito, lo avvolse accuratamente in un paio di giornali, e giunto con la sua Trikappa alle porte di Milano, lo buttò nel Redefossi.

Il neonato prese un raffreddore, ma non ebbe altre conseguenze gravi. Uscito dal Redefossi, domandò ad un vigile dove stesse di casa don Martino del Leyva, e saputo che l'ebbe, il povero don Martino si vide capitare anche questo figlio tra i piedi, proprio all'istante in cui meno se l'aspettava.

 

 

 


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