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CAPITOLO X
Vi son de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è simile ad un fiore appena sbocciato, il qual s'abbandona mollemente sul fragile stelo, pronto a concedere le sue flagranze alla primaria aria che gli aliti punto (?) d'intorno. Tal era l'animo della sposina (così si chiamavan le giovani monacande) il giorno in cui fece le sue nozze con il velo di religiosa.
Gertrude aveva presa una cotta per il suo esaminatore, detto il vicario delle monache; per tal fatto, nel rispondere alle sue domande, ella diveniva estremamente pallida.
- Vediamo, vediamo, signora sposina, - le domandò il vicario delle monache; - da quanto tempo le è nato cotesto pensiero di farsi monaca?
- L'ho sempre avuto, rispose Gertrude, gonfiando il seno con un profondo sospiro.
- Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Gertrude fu lì lì per isvenire, abbassò estremamente la voce, gli mormorò all'orecchio:
- Mio bel vicario... la dolce speranza che voi veniate ogni tanto a visitarmi,...
Il vicario delle monache finse di non aver udito. Continuò imperterrito il suo interrogatorio, lisciandosi il pappafico, ch'egli portava dove i bergamini, bergamesi, bergamotti, o bergamigiani che dir si voglia, usano portare il gozzo.
- Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche passione contrariata? qualche instabile capriccio?
- No, no, - rispose precipitosamente Gertrude, la cagione è quella che vi ho detto.
Allora il vicario delle monache espresse la sua gran sentenza
Così è fatto questo guazzabuglio del cuore umano.
E venuta licenza di tenere il capitolo, Gertrude fu accettata monaca; però nella votazione, cui partecipavan solamente le sorelle, si trovaron due palle nere, che mai non si seppe di chi fossero.
Tra le altre distinzioni e privilegi ch'eran concessi a Gertrude, per compensarla di non poter essere badessa, c'era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del convento era contiguo con una caserma di cavalleria, dov'era un tenente che il Manoscritto nomina sotto il nome di Egidio, e che le nostre particolari indagini ci permettono d'identificare per il tenente Gian Paolo Osio, scellerato di professione, uno dei tanti che in quei tempi, e co' loro attendenti, e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano fino a un certo punto ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il suo colonnello, uomo dal pugno di ferro, lo aveva mandato in distaccamento a Monza per punirlo d'aver osato guadagnargli una forte somma al poker, durante una partita furibonda che si tenne al Club la notte prima del Gran Premio di Milano, vinto da Ortello, del nobile De Montel, davanti a Piceau del barone de Rothschild.
Questo colonnello, che il Manoscritto non nomina, fu il primo a stabilire, con una innovazione abbastanza ardita, che le caserme di cavalleria dovesser sorgere in vicinanza dei conventi di monache, affinché i soldati e gli uffiziali prendessero amore alla vita di caserma, e, quando saltasser la barra, non andassero in luoghi pericolosi a compromettere il prestigio dell'uniforme. Uomo di gran senno, benemerito dell'arma di cavalleria, beneviso all'autorità ecclesiastica, dappertutto ove c'era un converto egli distaccava per turno uno squadrone del suo reggimento; così le grandi manovre accadevano di notte; la migliore armonia regnava tra il potere del brando e il candore del soggolo monastico.
Quanto al tenente Gian Paolo Osio, che d'or innanzi nomineremo Egidio, egli era uno scellerato come già si è detto: gran giuocatore, cattivo pagatore, indebitato fino agli occhi, intrepido cavaliere, irresistibile seduttore, sempre in mezzo agli scandali, facile di sciabola, pronto a tutte le ribalderie, ma così ben fatto di membra e così forte nello stare in arcioni, che tutte le donne andavano pazze d'un si bel cavaliere.
Or avvenne che il tenente Egidio, il quale s'annoiava a morte nella guarnigione di Monza, da una finestrina che dominava il cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì per ozio, allettato anziché atterrito dall'empietà dell'impresa, un giorno osò mandarle un bigliettino dolce, cui la sventurata rispose.
Da quel giorno, anzi da quella notte, le cose precipitarono, e Gertrude potè a suo bell'agio concedersi gli spassi per i quali si era monacata. Ogni giorno, di nottetempo, o, in altri termini, ogni sera circa le ventitré, il bell'Egidio con un cestino infilato nel braccio, in cui erano provviste da bocca ed alcune bottiglie dello Champagne di cui era rappresentante il suo colonnello, saltava il muricciuolo del convento (questo salto non era all'atto pericoloso, trattandosi di sessanta centimetri), e saliva, adocchiato invano dalle altre monache, nell'appartamento della Signora di Monza.
Le cose, già da un pezzo, filavano ch'era un piacere. La Signora, soddisfatta dal bell'Egidio ne' suoi appetiti più che legittimi, prese un carattere dolce e piuttosto lasso, che incantava tutto il monastero. Nessun incidente in quel giro di tempo, tranne il piccolo episodio di una conversa, la quale, avendo cicalato un po' troppo su gli amori della Signora di Monza, fu trovata murata viva, il che vuol dire murata morta, nel fondo di un pozzo. Ma, per dir vero, non fu trovata affatto, né viva né morta, né in quel pozzo né in altri dei dintorni, per quante ricerche se ne facessero un po' dappertutto, e perfino a Meda.
Più tardi si seppe che questa conversa, innamoratasi pazzamente di un turco, il quale faceva commercio di. tappeti orientali fabbricati a Monza, un bel dì, anch'ella di nottetempo, era fuggita con il sua giovine turco, e, per compiere il suo dovere di conversa, si era convertita all'islamismo.