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CAPITOLO XII
Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra (vuolsi alludere con ogni probabilità alla guerra tra il generale cristiano Feng e il dittatore cinese Ciang-So-Lin) era tale che molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti, e i contadini, invece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, preferivano scarrozzare in auto, vestirsi da Prandoni, fumare sigari Avana, e prendere i pasti al restaurant.
Nell'assenza del governatore don Gonzalo, ch'erasi recato a Madrid per conferire col Governo su l'opportunità di fornire finalmente la metropoli lombarda d'una stazione ferroviaria, ed inoltre per avere istruzioni sul monumento a Napoleone III, che si trovava ormai un po' a disagio nella corte del Senato, comandava la piazzaforte di Milano il Gran Cancelliere Antonio Ferrer, fratello di Francisco, quegli ch'era stato fucilato dagli Spagnoli nel forte di Montjuich, un giorno in cui gli Spagnoli non sapevano che fare.
Questo celebre Gran Cancelliere Antonio Ferrer fu quegli che fece fissare l'abburattamento del pane all'ottantacinque per cento e che sospese per un paio di giorni la vendita dei pasticcini, allo scopo di renderli più cattivi e di farne salire il prezzo. Antonio Ferrer è passato alla Storia come il manutengolo degli offellieri. Quando gli faranno un monumento gli metteranno un cannone (alla crema) nella destra, e una ciambella (col buco) di dietro.
La sera avanti il giorno in cui Renzo arrivò in Milano le strade e le piazze brulicavano d'uomini, i quali e le quali, desiderosi e desiderose come sempre di darsi buon tempo, correvano, chi a sorbir l'acqua delle nuove sorgenti minerali scoperte al Parco, chi a vigilare le grandi opere edilizie di Piazza del Duomo, chi ad affollare i cinematografi. Renzo, affittata una torpedo Chiribiri, la Rolls Royce italiana, volle innanzi tutto fare un giro per Milano, che, nel 1600, svolgeva la sua più intensa vita nel centro della Galleria. Là il popolo gridava a squarciagola:
E il Gran Cancelliere rispondeva con voce tonante:
- Circenses prohibere oportet! - il che vuol dire, sempre in fiammingo: È opportuno chiudere i tabarins.
Nella strada chiamata la Corsia de' Servi, c'era, e c'è tuttavia, un cinema detto del Corso, il quale venne inaugurato nel XVII secolo dall'onnipotente commendator Pittaluga, col celebre film intitolato Beatrice Cenci, film supercolossale di arte italiana. Renzo trovò il mezzo di entrar nel teatro senza pagare il biglietto, che costava la bazzecola di settantadue berlinghe, comprese le tasse governative.
Non era incominciata ancora la Parte Seconda, che arriva il capitano di giustizia con una scorta d'alabardieri.
- Largo, largo, figliuoli! a casa, a casa! fate largo ai capitano di giustizia! - grida lui e gli alabardieri.
Che diavolo era successo? Renzo fa per precipitarsi all'uscita, che in lombardo si dice sortita, e in fiorentino ingresso, ma la trova sbarrata dagli alabardieri che urlano:
- A casa, a casa! dov'è il timor di Dio? che dirà nostro signore? Andate a casa; da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? A casa! a casa!
Renzo non comprende assolutamente nulla, e sentendosi molestato per di dietro, respinto per davanti, asserrato per dritta, inchiodato per mancina, tenta di farsi largo a forza di gomiti, nella speranza di riuscir finalmente a entrare dalla sortita, ovverossia ad uscire dall'ingresso.
- Indietro! indietro! - gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso al lecchese, leccardo, leccovinzio o leccofante che dir si voglia, e respingendolo con l'aste dell'alabarde. Tutti urlano; è un gran parapiglia, un terribile pigia pigia; qualche prete bestemmia, qualche donna sviene, qualche altra partorisce; il capitano picchia e ripicchia; Beatrice Cenci esce dal telone per raccomandare la calma; il commendator Pittaluga l'afferra per la sottana e la ricolloca sul telone; la calca si rinserra, l'atmosfera diviene irrespirabile, le schiene entran nei petti, i gomiti nelle pance, i calcagni su le punte de' piedi, le rotule ne' buchi del naso; finalmente il leccofante riesce a salire in piedi sovra un mucchio di cadaveri.... uh! che formicolaio!
- Figliuoli!... - grida sempre il capitano di giustizia, soffiando come un mantice; - andate a casa. Giudizio figliuoli! badate bene! Siete ancora a tempo! Via, tornate a casa. Eh... eh!... che fate laggiù? Eh, a quella porta! Ohibò! ohibò! Vedo, vedo: giudizio; badate bene; è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh, eh! smettete con quei ferri; giù quelle mani; vergogna! Voi altri milanesi, che per la bontà (del vostro panettone) siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite... ah, birboni!, ah, furfantoni!, ah., figli di cagnoni! Eh, eh! ohibò! ohibò! Giudizio, figliuoli! a casa! a casa! a letto, a letto! piano signori! vedono bene che non c'è posto! Biglietti alla mano! giudizio, figliuoli! a casa, a casa! a letto, a letto! coprirsi bene!...
Come Iddio volle, il buon Renzo riuscì a sgattaiolare nella strada. Ivi la folla era più immensa e tumultuosa che mai. La coda giungeva sino in fondo a via Dante, attraversava il Parco, passava sotto l'Arco del Sempione, si perdeva nelle vicinanze di Musocco, in que' campi vaghi, ove dicevasi a que' tempi che Munerati avesse nascosto sotterra i suoi milioni.
Che diavolo era mai accaduto? Renzo non poteva capacitarsene. Allora tese l'orecchio; la gente diceva:
«Io vo; tu, vai? vengo; andiamo; se noi andassimo: se coloro fossero iti; se eglino venissero seco noi; i' tu pure; veniss'io; veniss'ella;» e così via di séguito.
Ove andava, ove dunque proponevasi di andare tutta cotesta gente? Mistero.
Il buon leccoburghese, strascinato dal torrente, era già entrato nella strada corta e stretta di Peschiera Vecchia, e di là, per quell'arco a sbieco, nella piazza de' Mercanti, ove giunto, si mise a contemplare la statua di don Filippo II, statua che non v'era più. Grande statua, con quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, che anche dal marmo imponeva un non so che di rispetto, e con quel braccio teso pareva che. fosse lì per dire: - «Ora vengo io, marmaglia!»
Peccato che una sì bella statua, capace di dire col braccio teso di simili parole, non vi fosse più. Tuttavia noi siamo in grado di narrare la storia singolare della statua di don Filippo II.
Circa centosettant'anni dopo che non v'era più, le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Brutto. Così accomodata, stette forse un par d'anni. Ma, una mattina, sul far della sera, certuni che non avevan simpatia con Marco Brutto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori e con le lingue (?) fuori, per le strade, e quando furono stracchi bene, la ruzzolaron non so dove. Chi l'avesse detto al povero Andrea Biffi, proprietario del caffè - ristorante omonimo, quando la scolpiva!
Senonché la mattina dopo, sul far della sera, la statua era sempre al suo posto. Stanco di stare in piedi, don Filippo II si era seduto in una poltrona comoda, ed aveva pregato il signor Biffi, proprietario del caffè - ristorante omonimo (durante il concerto le consumazioni vengono aumentate di due lire) perché volesse far incidere sul piedestallo il nome d'un certo G. B. Piatti, che nessuno sapeva per lo passato chi fosse né perché lo avessero monumentato, mentre ora le nostre indagini ci hanno permesso di scoprire ch'egli era il dentista di don Filippo II.
Alcune mattine dopo, sul far della sera, G. B. Piatti, stanco di stare seduto, aveva deciso di montare a cavallo; e il signor Biffi, sempre gentile coi regnanti, cancellò il nome di G. B. Piatti e vi scrisse quello di Garibaldi.
Ma frattanto venne l'estate, e con quel mantellone indosso, con quel cappellino rococò in testa, con quel leone al fianco il quale pare una zebra, quella tigre ad latere la quale pare una foca, l'Eroe dei due Mondi aveva un po' caldo, e pensò di mettersi in istato adamitico. Mandò a chiamare il gentilissimo signor Biffi, e questi, raschiato il nome di Garibaldi, intitolò il monumento al nostro maggior poeta: Felice Cavallotti.
Ma le peripezie della magnifica statua non erano ancor finite. Una mattina, sul far della sera, il signor Leonida, molestato forse dalle prime brezze dell'autunno, provvide a comandarsi una scintillante uniforme da generale di fanteria, col pennacchio in testa, lo spencer di gesso, la sciabola in mano, sebbene la sciabola, in obbedienza alle ultime disposizioni della Polizia su le armi da fuoco, risultasse mancante fin dai tempi di Ludovico il Moro. Fu chiamato il sempre cortese signor Biffi (gelato con concerto: Lire 5, tutto compreso) e, grattato il nome di Leonida, egli vi pose quello del generale De Medici, ossia del generale che inventò i fiammiferi di Stato.
Ma divenuto a sua volta impopolare, per il continuo aumento dei fiammiferi, il buon generale De Medici preferì adottare l'abito borghese; mandò a chiamare lo scultore Biffi (gelato misto, nei giorni festivi: L. 5,50, tutto compreso) e lo pregò di volerlo trasformare illico et immediate nel Conte di Cavour.
Questa volta lo scultore Biffi perdette la pazienza rifece sì la statua, secondo gli ordini di don Filippo II; ma dove gli statisti per bene sogliono mettere una buona fila di bottoni, egli non ne mise alcuna, sicché i milanesi poterono a lor bell'agio sorridere di certe distrazioni del grande piemontese, il quale provvide bensì a fare l'Italia, ma non a rimanere abbottonato, come il dover sarebbe d'ogni perfetto diplomatico.
Essendo stato l'inverno di quell'anno 1627 assai rigido, ed avendo la diaccia neve procurato i geloni al pollice destro del Conte di Cavour, questi mandò a chiamare nuovamente lo scultore Biffi, il quale comperò co' suoi risparmi un vecchio cavallo, gli fece raschiare i denti e allungare la coda, così da ridargli l'aspetto d'un vero e proprio cavallo da battaglia, ma, più non sapendo assolutamente a chi devolvere gli onori del bronzo, trasformò la sua bella statua nel monumento equestre al colonnello Missori. Il quale, non avendo mai fatto nulla in vita sua, tranne che cercar di sedurre le mogli altrui, continua lo stesso mestiere anche ora che l'han messo in monumento, e se ne sta lì, nell'angolo di San Giovanni in Conca, per far l'occhiolino dolce a tutte le belle sposine che escono dal Municipio.
Con questo elogio del signor Antonio Biffi vogliamo noi dire che Milano, fin dal 1600, è sempre stata celebre per li suoi belli e variati monumenti, li quali fanno per ciascuna piazza bella mostra di sé, con grande onore della cittade che li ospita, e per ciò si reputa la più magnifica e la meglio ornata di quante sono in Italia, et fora, o sparse per, i cinque continenti ne' quali si divide il mondo.