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Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell'innominato, dell'Arcivescovo e del signor don Rodrigo.
Già fin dai tempi di Federico Barbarossa i leccovingi, leccoslovacchi o leccobardi che dir si voglia, godevano fama d'esser molto pettegoli. Tanto pettegoli, ch'essendo il Barbarossa disceso in Italia con l'intenzione di distruggere Milano, anziché far sosta in Lecco secondo era, al dir del Rivola e del Ripamonti, suo primitivo divisamento, prese invece il battello per quell'altro ramo del lago di Lecco che volge a mezzogiorno fra due catene non interrotte, eccetera - e fece sosta in Como.
Su la circostanza della sua dimora in Como non può sussistere dubbio alcuno, poiché lo stesso Carducci, che ogni anno vi passava per andare a Madesimo, ci racconta di avérveloci incontrato, e lo afferma in guisa che non può lasciar campo a veruna incertezza con quel suo famoso endecasillabo:
Sta Federigo imperatore in Como.
Egli non dice, né il Rivola né il Ripamonti dicono, in quale albergo fosse disceso; certo non al Plinius, perché a quel tempo non era finito di costruire; ma più probabilmente alla Barchetta, poiché tutti gli storici son concordi nell'affermare che il Barbarossa era molto amante della cucina casalinga.
Ma la ragione per la qual Federigo sostò in Como anziché in Lecco, fu storicamente questa: ch'egli sapeva essere i leccurdi, lecconesi, o leccomanni che dir si voglia, gente per lor natura così propensa al chiacchiericcio e alla divulgazione dei segreti, che, se per caso Federigo avesse posto il campo in Lecco, tutti i leccomirditi, leccofanti o leccoburghesi che dir si voglia, sarebbero partiti di corsa alla volta di Milano per avvertire i buoni e pacifici ambrosiani dell'intenzione che il Barbarossa aveva di radere al suolo ed estirpare dalla carta geografica la loro città dilettissima.
Se così poco riserbo i leccóbrogi o leccomanciuri avevano per i progetti d'un imperatore, facil cosa è intendere quanto meno credessero di doverne avere per una pulzella così poco assennata com'era Lucia, per un pescecane così poco timorato di Dio qual era il signor don Rodrigo
Frattanto il Cardinale se ne iva una per dì visitando le parrocchie del territorio di Lecco. Man mano ch'egli appressavasi, tutti i parrocchiani più in vista, chi con un pretesto, chi con l'altro, se la svignavano alla chetichella, però a gambe levate, poiché le voci su quel gran miracolo erano alquanto discordi, e chi diceva che fosse stato il Cardinale a convertir l'Innominato, chi l'Innominato a convertire il Cardinale. Poiché inoltre nessuno sapeva con esattezza quel che fosse avvenuto di Lucia, e con quale dei tre sant'uomini ella fosse alfin rimasta, ognuno, sia che avesse una moglie od una figliuola bella e temesse anch'ei di perderla per i miracoli di quel gran Cardinale, sia che avesse qualche altra ragion segreta per non desiderare intorno al proprio domicilio un agglomeramento di preti, fatto sta che ovunque si presentasse il Cardinale c'era giusto giusto di che riempirgli la chiesa coi bambini dell'asilo e con gran numero di chierici dilettanti, intonacati e ingonellati per la circostanza.
Il giorno in cui giunse a Lecco, né a Lecco, né fuor di Lecco, né in quel di Lecco era possibile veder traccia d'un sol lecchese, leccurdo o leccomitano che dir si voglia, perché, essendo di domenica, tutti ne avevano profittato (e il dottor Azzeccagarbugli fra questi) per venire a Milano e visitarvi la Fiera Campionaria.
Don Rodrigo, fulminato dalla notizia impensata, cioè che l'Innominato e il Cardinale si fosser messi d'accordo per carpirgli quel bel tocco di ragazza, se ne stette rintanato nel suo pallazzotto, solo co' suoi bravi, a rodersi le unghie per ben due giorni. Ma poiché le sue sole unghie non bastavano per una rosicchiatura protratta così a lungo, il secondo giorno egli si accinse a rodere quelle de' suoi bravi, e quando nessuno nel castello ebbe più unghie, il signor don Rodrigo decise anch'egli di partir per Milano. Là almeno, egli pensava, avrebbe avuto con chi sfogarsi e preparare le sue vendette, cioè il conte-zio, la contessa-zia, il conte-nonno, la contessa-nonna, e quella buona lana di suo cugino Attilio. Per levarsi dunque da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del calar del sole, si mise nella sua Chrysler modello 70, col Griso al volante e con altri bravi di fuori, altri davanti, una decina dietro. Per fortuna quella Chrysler non era costrutta col solito materiale delle vetture di serie, se no, con tutti quei bravi davanti, di dietro, su la «capote», sul radiatore e su gli strapontini, avrebbe certo finito con rimettervi qualche balestra.
Quando già la Chrysler stava per giungere nei pressi della Santa, don Rodrigo rammentossi ch'egli erasi dimenticatosi d'impartire un certo ordine ad altri suoi bravi ch'erano rimasti colassù nel Castello. Senza por tempo frammezzo, diede ordine al Griso di far marcia indietro. Questi interpretò l'ordine alla lettera, e rifece tutta la strada a marcia indietro, dalla Santa fino al castello del signor don Rodrigo. Ma le Chrysler sono macchine che hanno la specialità di camminare più veloci andando indietro che andando avanti. Colà giunto, il signor don Rodrigo fece salire un'altra dozzina di bravi sui lungheroni della Chrysler, e lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse poi in séguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Sennonché, appena fuori di Roma, avvenne a Catilina di sorpassare una vecchia macchina da noleggio, mollemente adagiato nella quale il panciuto e bitorzoluto avvocato Marco Tullio Cicerone stava recandosi in provincia per discutere, e naturalmente per vincere, uno de' suoi celebri processi. Catilina, che non poteva soffrire questo omaccione avaro ed intrigante, il quale difendeva tutti i lazzaroni purché lo pagassero bene, poi mandava le sue orazioni a far tradurre in tutti i licei, si divertì a dargli la polvere per ben due ore di strada, finché una panne di gomme lo costrinse a fermare. Cicerone fermò a sua volta, e bianco dalla testa ai piedi, non solo di collera, ma anche della polvere che aveva ingoiata, fu allora che, puntando l'indice contro Catilina, pronunziò la celebre frase: «Quousque tandem, Catilina, abuteris patientia nostra?».
Altri paralleli consimili noi potremmo citare a profusione, se non ci premesse di narrare quel che avvenne il giorno in cui il cardinal Federigo, proseguendo nelle sue visite pastorali, giunse al paesello di Lucia. Tutti gli abitanti eransi incamminatisi per la strada con l'intenzione d'incontràrveloci: vecchi, donne, fanciulli, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, il qual non faceva che dire: «è una babilonia; è una babilonia».
Ma più camminavano, sotto il sole picchiante e tra il polverone sollevato da tanto scalpicciar di piedi, e meno incontravano il Cardinale, per quante notizie di lui chiedessero a tutti coloro che vedevan giungere in senso opposto, con biciclette, carri da buoi, ed altri veloci mezzi di locomozione. Dopo alcune ore di marcia, i più avveduti si accorsero che avevano sbagliato strada. Nella confusione di quel gran giorno, e nel palpito della febbrile attesa, don Abbondio, come al solito, aveva perduta la testa, e volendo mostrare al Cardinale che finalmente, almeno in quella sua parrocchia, egli avrebbe incontrato qualcuno per riceverlo, il buon parroco aveva incamminata la turba dei fedeli per la strada esattamente opposta a quella per la quale doveva giungere il Cardinale.
Questi arrivò per l'appunto, e non trovò nessuno. Fece un giretto per il paese, nella speranza di poter alfine scambiare quattro parole con qualche anima viva. Speranza assolutamente vana: il paesetto di Lucia era come Casamicciola dopo il terremoto.
Stante l'afa, la disoccupazione, l'uggia di quella solitudine, il sant'uomo si risolse ad entrare in chiesa; là sedette sui gradini dell'altare, e pazientemente si mise ad attendere che almen per il vespero tornasse qualche fedele.
Ma trascorse un'ora, poi ne trascorser due, tre, quattro, e nessuno vedéndovicisi a perdita d'occhio, il Cardinale risolse di salir sul pergamo, e tenne ugualmente uno de' suoi più ispirati e magnifici sermoni. Quando si ha l'abitudine di parlare, che siàvici o non siàvici il pubblico, la cosa non ha importanza. Terminato il suo discorso, e temendo di dover passar la notte in quel paese totalmente disabitato, il Cardinale ridiscese a valle, e se ne andò per i fatti suoi.
Frattanto la popolazione rientrava, sempre capitanata da don Abbondio, il quale non faceva che ripetere: «è una babilonia; è una babilonia.» Noi riteniamo che don Abbondio avesse sbagliato strada in piena buona fede; ma il nostro Manoscritto non ci nasconde che i maligni del tempo molto sussurrarono su questo sbaglio di strada, e taluni supposero ch'egli l'avesse fatto apposta, per non dover rendere conto al suo superiore gerarchico di quel cotal matrimonio mancato e di certe berlinghe ricevute dai due bravi del signor don Rodrigo, faccenda, questa, in cui l'onesto parroco non si sentiva la coscienza del tutto pulita.
Ma il Cardinale, visto che non gli riusciva più d'incontrarsi col clero e coi fedeli nel corso delle sue visite pastorali, si mise a corrisponder co' suoi parroci per mezzo di telegrammi; e il giorno appresso, infatti, don Abbondio ricevette da lui un dispaccio col quale lo si avvertiva che le due donne, cioè Lucia e sua madre, sarebbero ben tosto ritornate all'ovile, e prendesse egli, cioè il parroco, tutte le precauzioni del caso.
Ma le precauzioni del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenute inutili; dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo raccontare.
Le due donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di vita. Lucia, ritirata in una stanzino, stava spesso alla finestra, e quando vedeva passare un bel giovine, o anche un signore anziano d'età, purché d'aspetto benestante, fingeva di nascondersi tutta ritrosa, o di chiudere le imposte, affinché quel passante avesse meglio l'impressione d'aver a che fare con una vera turris eburnea. Agnese andava un po' fuori, gironzolando qua e là, per le straducce di quell'ameno paesello, nella speranza d'incontràrvici qualche forestiero. Ma in quel giro di tempo i forestieri d'un certo linguaggio disertavano in massa gli ameni paeselli del leccoburgo e del bergamigiano, dov'era tutta grazia incontrare alcuni di quegli alamanni, con le gambe nude, una penna di gallo nel cappello, che riescono a traversare un paese intero senza spendervi il becco d'un centesimo.
Cosicché le due donne erano alquanto impensierite; l'avvenire si presentava oscuro, imbrogliato; i compaesani del sarto, per quanta fama avessero d'esser gente allegra, amante del buon desco, della dolce coltre e del lieto vivere, non si dimostravan tali verso le due tapine, che colà vivevano come in terra d'esilio. Forse perché i leccovingi, leccofanti, leccoslavi o lecco slovacchi che dir si voglia, sono sopra tutto propensi a corteggiare quelle donne con le quali non vi siano da spendere berlinghe.
Perlocché le due tapine attendevano il domani con il cuore traboccante d'ansia, e benché sperassero entrambe che Renzo fosse andato a finire in galera, o caduto sotto un camion con rimorchio, o che avesse presa la febbre gialla, pure alcune volte, più per decenza che per convinzione, le due donne facevano tra loro il nome dell'ex-fidanzato.
Il resto del tempo trascorreva in piacevoli conversare con il sarto e con la moglie del sarto. Sopra tutto il marito ne sapeva un mucchio di storielle allegre, atte a far passare il tempo, e, fra l'altre, quella di Bovo d'Antona, o de' Padri del deserto, che a noi purtroppo non son giunte, ma dovevan essere divertentissime.
Poco distante da quel paesetto villeggiava una coppia d'alto affare; don Ferrante e donna Prassede; il casato, al solito, nella penna stilografica dell'Anonimo. Era donna Prassede una donna molto inclinata a far del bene; mestiere certamente il più degno che l'uomo (in questo caso la donna) possa esercitare; ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri. Chiunque vedess'ella afflitto anche da un picciol male, donna Prassede si figgeva sùbito in capo di rimediare a' suoi guai e di fargli del bene a tutti i costi. Vedeva per esempio donna Prassede un povero cane zoppo d'un piede, per essere andato in gioventù sotto un veicolo? Donna Prassede, riflettendo che aveva una zampa men lunga dell'altre, e stimando ciò essere causa della zoppìa, zoppaggine o zoppicatura che dir si voglia, dava immediatamente ordine elle gli fossero accorciate le tre altre a parità di quella rattrappita.
Udiva donna Prassede di un cotal poveruomo che per affari andatigli di traverso fosse ridotto pressoché sul lastrico? Tosto donna Prassede, che negli affari di tutti amava mettere il becco, si precipitava presso di lui, ed entrata nella sua confidenza, gli consigliava tre numeri da giuocare al Lotto. Poiché, pensava donna Prassede, o i tre numeri usciranno, e costui sarà per tal modo sollevato dalla sua indigenza, o, se pur non usciranno, gliene potrò dare ancor tre la settimana prossima, essendo la speranza, come dicevano i Latini, l'ultima dea.
Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che in quell'occasione si diceva della giovine, le venne curiosità di vederla; sicché un bel giorno la mandò a prendere in carrozza. Agnese non era punto invitata, ma dicendo al sarto ch'era suo desiderio sorvegliare un po' la figlia e sorreggerla di buoni consigli in quel primo ingresso che faceva nel bel mondo, fece dare una rinfrescatina al suo più bell'abito, e partì con lei.
Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grande accoglienza e molte congratulazioni. Il Manoscritto non dice se le congratulazioni fossero per il suo fidanzato che batteva la campagna, o per il garbo e la destrezza ch'ella aveva saputo impiegare nel menar per il naso quel fanfarone di don Rodrigo, o per aver ella giaciuto con un uomo di 160 anni, riuscendo insieme ad intenerire de' suoi casi un arcipotente ed arciriverito Cardinale. Purtroppo assai numerose, con l'andar oltre, si rivelano le lacune del Manoscritto; ma sarebbe assai poca riverenza da parte nostra il tentare di colmarle.
Per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il Cardinale s'era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, pensando di far cosa grata al Cardinale, e ben sapendo che nessun luogo meglio della sua nobil casa poteva offrire ad un alto prelato l'occasione d'intrattenersi con una giovine, donna Prassede, che in ogni pasticcio voleva mettere il suo zampino, e mai non fallava un'occasione di poter far del bene, visto che questa giovine era già contesa fra tre o quattro uomini, de' quali il meno esigente era il suo legittimo fidanzato, s'esibì di prenderla in casa propria, dove, senz'essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar molti uomini ne' loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne avviso a Monsignore, con una lettera da lei stessa ricopiata sovra una minuta estesa dal suo letterato consorte, e che Agnese in persona si sarebbe incaricata di rimettere nelle mani del Cardinale.
Agnese, per dir vero, s'immaginava che l'invito a dimorare in quella casa patrizia concernesse lei pure; perciò la forma cortese di significarle che poteva andarsene per i fatti suoi non mancò di suscitarle un gran disappunto ma, per convenienza, trangugiò il boccone amaro senza farne le viste.
Frattanto donna Prassede aveva convocato la madre e la figlia nella biblioteca di don Ferrante, che, per essere letterato, non sapeva punto la sintassi e meno ancora l'ortografia. In cambio egli era tinto e impomatato come si addice ad un giovine poeta di sessant'anni, arcade reputato, uomo di mondo fra i più ricercati, ed incorreggibile persecutore del sesso gentile.
Scrisse egli pertanto la lettera per il Cardinale, sotto dettatura di donna Prassede, aggiungendovi quel po' po' di ornamenti stilistici e di fioretti del suo bello scrivere che bastavan per render la lettera, ad una prima lettura, press'a poco inintelligibile.
Ma pur nel fingere d'esser tutto compreso a mettere su carta ciò che donna Prassede gli veniva dettando, egli non ristava dal dardeggiare di occhiate assassine or l'astuta Lucia or la procace Agnese, così da far loro intendere che in verità non sapeva con quale delle due i suoi giovanili fuochi sessantenni sarebbero stati più pronti ad accendersi.
Estesa alfine la lettera, piegatala in ottavo, e suggellatala con l'armerìe della nobil casata, Agnese, tutta in lacrime, staccossi dalla figlia e ritornossi nel calesse che ivi avevala condotta, accompagnata sino al predellino dallo stesso don Ferrante, e non senza aver trovato il mezzo di fargli scivolare nell'orecchio, tra un singhiozzo e l'altro, il proprio indirizzo.
Frattanto il vetturino fece schioccare la frusta, e al galoppo sfrenato d'una focosa pariglia, composta d'un sol cavallo, zoppo per giunta, Agnese recossi a depositare l'ambasceria nelle mani proprie del Cardinal Federigo.
Come al solito egli stava quel giorno visitando una parrocchia, dalla quale tutti i fedeli, chi per una strada e chi per l'altra, se l'erano svignata prima del suo giungere, a gambe levate.
Il Cardinale, per l'appunto, se ne stava seduto solo soletto a un tavolino del caffè ch'era nella piazza principale, rimpetto alla Chiesa. Da una buona mezz'ora, col suo anello episcopale, egli andava battendo sul tavolino di zinco per chiamar l'oste e farsi portare una tazza di birra; ma l'oste, udito che il sant'uomo stava per giungere, si era eclissato come tutti gli altri parrocchiani, portando con sé le chiavi della cantina.
Il Manoscritto non dice di quale parrocchia si trattasse, e noi rispettiamo il doveroso riserbo dell'Anonimo. Tuttavia possiamo assicurare che grande fu il giubilo di Monsignore allorché, su la piazza della Chiesa, vide giungere a galoppo sfrenato la pariglia composta d'un sol cavallo, senza cocchiere per giunta, perché il vetturino, avendo appreso lungo la strada che il Cardinale stava quel giorno predicando in quella certa parrocchia che il Manoscritto non nomina, era balzato giù di serpe una decina di chilometri pria di giungere ad essa. Cosicché Agnese, la quale in vita sua non aveva mai guidato cavalli, si era veduta costretta quel giorno a prendere in mano le redini lasciate sul manico della martinica dall'incauto vetturino; e così, tenendo a quattro braccia le redini dell'indomabile attacco, sbucò nella piazza e comparve dinanzi al Cardinale.
Questi, galantemente, vedendo giungere una donna assai piacente, al galoppo sfrenato d'imbizzarriti destrieri, che parevan molti ma eran bensì uno solo, sorse di scatto dal tavolino ove ormai disperava di potersi far servire una birra, tese in alto l'indice e il medio di quella sua mano che il Manoscritto non dice se fosse la destra o la sinistra, e, come d'incanto, il destriero si fermò. Questo infatti passa per uno de' suoi miracoli meglio riusciti.
Agnese, che a tutta prima non credeva di trovarsi in presenza del Cardinale, se ne accorse vedendo il suo zucchetto viola e la sua sottana rossa.
Scese di carrozza, si prosternò a ginocchi, e si mise a baciare l'orlo della sottana cardinalizia.
- Orsù, adergetevi, buona donna, - le diceva il sant'uomo con la sua voce più paterna, commosso fino alle lacrime da un sì grande atto d'umiltà.
Adersa che Agnese si fu, gli occhi della madre di Lucia, (occhi di perdizione orlati di croco e di bistro) si confissero in quelli del sant'uomo, che, di prim'acchito, ebbe la tentazione d'inforcare il cavallo e di partirsene a spron battuto per un'altra diocesi. Ma riflettendo che non conviene andar contro ai disegni della Provvidenza, il Cardinale fece di necessità virtù, e con la voce più modesta che trovò disse alla madre di Lucia:
- Voi certo venite assai di lontano per udire i miei sermoni...
- Ohibò!... - fece Agnese, sinceramente scandolezzata da quella supposizione.
- Il Cardinale rimase interdetto. Decisamente la sua eloquenza, come quella d'altri celeberrimi conferenzieri, subiva un periodo di ribasso. Guardò Agnese nel bianco degli occhi, poi disse:
- Orsù, favellate; sbottonatevi.
- Non qui... - gemette Agnese, con il sospiro della gran dama che non vuol compromettersi su la pubblica piazza. Poi disse:
- Frugate nel mio seno... ma che niuno ci ascolti, e niuno ci veda, nemmeno col telescopio!...
Poi si alzò in punta di piedi per parlare all'orecchio del sant'uomo, e con un filo di voce gli disse:
- Ho per voi una missiva da parte di donna Prassede. Ma per l'amor del cielo, che nemmeno i sordi ascoltino ciò che in essa è scritto!
Il Cardinale, a quel punto, si sentì torturato da un angoscioso dubbio: «Può un uomo di chiesa frugare nel seno d'una donna, sia pure con intendimenti solo epistolari?».
Sant'Agostino, ne' suoi Sinottici, sosteneva di no, e per nessun motivo. Ma San Luca, più largo di maniche, opinava che se ciò è fatto lunge et fora dal peccato, et senza niuna intentione del peccare, cioè è fattibile, sempreché non siavi altro expediente idoneo ad hoc.
Il Cardinale, forte del licet et exequatur di San Luca, chiuse gli occhi, ed immerse due dita nel seno di Agnese. Senza pensare ad altro, ne estrasse la missiva, ne infranse il bollo gentilizio, la spiegò, la lesse.
Ma lo stile di don Ferrante presentava tali fiori di bello scrivere, che, come in tutti gli scritti dei veri letterati, non era possibile capirvi un'acca. Tornò a rileggere un paio di volte, senza miglior risultato, cosicché si risolse a pregar Agnese di sedere seco lui al tavolino dell'osteria, per vedere se, a quattr'occhi, la missiva di don Ferrante risultasse meglio decifrabile.
Fatica perduta; sicché il Cardinale si risolse a mettersi la missiva in tasca, dicendo che l'avrebbe affidata per la traduzione al proprio segretario. Frattanto batteva e ribatteva l'anello episcopale sul tavolino di zinco, nella speranza che l'oste fosse rincasato e volesse finalmente decidersi a servire quelle due tazze di birra.
Ma invece di veder giungere l'oste, si vide passare un prete in bicicletta. Era don Abbondio.
- Psst! psst!... - fece il Cardinale.
Don Abbondio, veduta la porpora, si mise a pedalare più forte.
- Ehi, dico!... - replicò il Cardinale, con quel tono di voce che non solo bastava, quando occorresse, per deviare il corso de' fiumi, ma era in ogni caso sufficiente per far cadere gli uomini dalla bicicletta. Don Abbondio mise piede a terra, e soffiando come Girardengo allorché giunge a un controllo di tappa, venne in presenza del Cardinale.
- Ce n'avete quattro su la coscienza! - incominciò il Cardinale, agitando la missiva di donna Prassede.
A quel tono minaccioso, a quell'aspetto oscuro, don Abbondio, il quale, come i nostri lettori sanno, non aveva ciò che suol dirsi un cuor di leone, inforcò di nuovo la bicicletta, con l'intenzione di svignarsela con uno «sprint» da vecchio «routier». Ma per quanto pedalasse, la bicicletta, trattenuta senza dubbio dal potere magnetico del sant'uomo, non decollava d'un mezzo centimetro.
E questo fu il secondo dei miracoli, registrati e controllati, che il Cardinale compì in quel giorno.
- Domando, - insistette il Cardinale, - se è vero che voi abbiate rifiutato di celebrare un certo matrimonio quando n'eravate richiesto, nel giorno fissato, e perché.
- Veramente, se Vossignoria Illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti...
- Siete in presenza di una madre... - lo ammonì il Cardinale, - ed è in suo nome che vi ripeterò la domanda. È il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che nella via regolare sarebbe stato vostro obbligo di fare.
- «Qui ci va di mezzo lo stipendio», - pensò fra sé don Abbondio. Macchinalmente, col pollice, tentò di far suonare il campanello della bicicletta. Ma il campanello rimase mutolo come un pesce; - e questo fu il terzo miracolo della giornata.
Dinanzi a questo atto di sabotaggio che metteva fuori uso uno fra gli organi essenziali della sua bicicletta, don Abbondio prese il suo coraggio a due mani, e disse:
- Sa lei, Monsignore illustrissimo, quanti sono gli impedimenti dirimenti?
Il Cardinale Federigo, benché fosse stato molte volte vescovo e qualche volta Papa, non li aveva mai intesi nominare. Guardò Agnese, ma questa fu lì lì per dirgli che non conosceva impedimenti di alcun genere.
Davanti alla cocciutaggine d'un simile prevosto, il Cardinale, benché fosse un sant'uomo, perdette le staffe.
- Sacco rotto! - esclamò; - è questa la maniera di fare il parroco? Che ci state a fare nel vostro ministerio, se non per maritare coloro che commettono la corbelleria di prender moglie? Non vi siete voi detto che negando i sacramenti del matrimonio a chi ve li chiede, voi favorite l'amore libero, l'adulterio, la prostituzione? Siete stato così babbeo da credere alle minacce d'un cotale signor don Rodrigo, il quale, se amava questa popola quand'era la sposa promessa d'un altro, non avrebbe cessato di amarla quando fosse divenuta la sua sposa legittima? Che avverrebbe, signor mio colendissimo, delle oneste famiglie, se tutti i parroci agissero come voi? E sapete voi qual bene ha prodotto la vostra resistenza di fronte al più elementare de' vostri doveri? Orbene, statemi a sentire. Quegli che doveva essere lo sposo, e divenire il padre di numerosi figli, suoi o non suoi, or è fuggiasco per terra d'oltremonte, con il cuore a brandelli, perseguito da mandato di cattura essendosi reso colpevole di ribellione alla forza pubblica e di attentato contro il buon costume, in un certo albergo innominabile del Ducato milanese. La sua donna, cioè colei ch'essere doveva la sua donna, virgineo fiore di bellezza e d'innocenza, ha dovuto finire col rifugiarsi nel talamo d'un uomo di 160 anni, dove le cose che può aver apprese non sono, come vossignoria vorrà concedermi, quelle che meglio si addicono alla educazione di una sposa novella. Infine la sua santa madre, qui, dinanzi a noi, in gramaglie, sen va fuggiasca di borgo in borgo, forse per ascoltare le mie prediche - sciagura, questa, ben più di tutte l'altre funesta e lamentevolissima...
Don Abbondio, pentuto e contrito, ben intendendo che la predica del Cardinale si sarebbe prolungata oltre la fine del capitolo, staccò la pompa dal telaio della bicicletta, e, inginocchiatosi nella polvere come a segno di vera umiltà, si mise rassegnatamente a gonfiare un pneumatico.
- Orsù, - concluse il Cardinale, che avrebbe accettato di ritornar semplice prete, pur di avere davanti a sé una buona tazza di birra, od anche una semplice gazosa, - qual bene avete voi creduto di produrre, così agendo? Cosa v'ha ispirato il timore, l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?».
E tacque in atto di chi aspetta.