Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
Lettura del testo

CAPITOLO XXVII

«»

CAPITOLO XXVII

 

Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta, sicché non abbiamo mai potuto dedicarvi neanche un centinaio di pagine, per darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all'intelligenza del nostro racconto, si richiede proprio d'averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiamo supporre che quest'opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n'avesse bisogno.

Abbiamo già detto che alla morte di Tarquinio Prisco, il fu Carlo Gonzaga, erede in linea direttissima di Vercingetorige e di Pipino il Breve, era entrato in possesso di Mantova; e, ora aggiungiamo, di Nizza, Savoia e Monferrato, che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar nella penna. Ma poiché la nostra penna è una eccellente Waterman, può darsi che dal suo serbatoio vengano a galla col tempo altre dimenticanze di questo genere. La corte di Madrid, che voleva ad ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e, per escluderlo, aveva bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quelle che pretendevano avere, su Mantova, un altro Gonzaga: Ferrante, principe di Guastalla (da non confondere con don Ferrante, marito di donna Prassede), su Nizza un Grimaldi, fondatore del Casino di Montecarlo, su la Savoia e sul Monferrato un certo Camillo Cavour, che si diceva incaricato da Vittorio Emanuele II di fare l'Italia.

Don Gonzalo (per chi non se ne ricordasse, questi era don Gonzalo Fernandez de Cordoba, governatore di Milano) ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatta la guerra in Epiro, come luogotenente di Pirro, re dell'Epiro, voglioso oltremodo di condurne una in alta Italia, era quello che faceva più fuoco perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzione e precorrendo gli ordini di Primo de Rivera, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di divisione della Manciuria, avendo a' suoi ordini il generale cristiano Feng; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione (cioè il diritto di pagarla a rate) dal Conte-duca, facendogli credere molto agevole l'acquisto del Congo belga, che il trattato di Versailles, col suo noto spirito di giustizia, aveva assegnato alla repubblica d'Andorra, in premio d'esser stata la sola fra le grandi potenze che non avesse preso parte alla guerra.

(Tirato il dovuto respiro al termine di un così lungo periodo), don Gonzalo Fernandez de Cordoba protestava però, in nome del re di Spagna, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito in conto corrente, fino alla sentenza dell'imperatore; il quale, trovandosi momentaneamente a Dorn, in parte per gli uffizi altrui, in parte per suoi propri motivi, non voleva saperne di riconoscere l'investitura al nuovo duca, intimandogli anzi di rilasciare in sue mani il mal tolto; lui poi, sentite le parti, rimetterebbe la successione a chi fosse di dovere, presentando ad entrambi i contendenti la propria parcella: - cosa alla quale il Nevers (che non sappiamo chi sia) non s'era voluto piegare.

Aveva anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richeliu, Erminio Spalla, Lloyd George, Walter Munerati, il dottor Woronoff, Lucrezia Borgia, il compagno Stalin, il tenore Tito Schipa, e molti altri personaggi e personagge illustri, che, per brevità, ci permettiamo di lasciare nel serbatoio della nostra Waterman. Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella e nella questione della ferrovia meridionale sequestrata dal governo di Nanchino, attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici-Condotti, contraria, per certi suoi motivi (che è meglio non indagare), alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani, come al solito, non volevan muoversi, e nemmeno dichiararsi, se prima non veniva loro concesso di mettere la «roulette» in un grande albergo del Lido; e, aiutando il duca sottomano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano, stavano sulle proteste, sulle proposte, sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers (che non sappiamo chi sia) agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti di accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla, anche perché i suoi pochi svizzeri, vestiti da guardia svizzera, avevano un calzone d'un colore e l'altro d'un altro; il che, per un esercito, non è una divisa che faccia buon effetto sul nemico.

Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato, ove già trovavasi, co' suoi elefanti, Pirro re dell'Epiro; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. Tanto è vero che i casalesi, casalgoti o casalpusterlenghesi che dir si voglia, seguitavano a dirgli di entrare quando a lui piacesse, e ad aprirgli le porte, ed a strizzargli l'occhio di sopra i merli delle mura facendogli segno di entrare: - ma don Gonzalo non entrava mai, appunto perché non credeste che nella guerra sia tutto rose: e di fatti, finché non entrava, tutti si fregavano le mali vedendolo impegnato in quel difficile assedio; ma, non appena fosse entrato, qualchedun altro sarebbe venuto a cacciarlo. La Corte spagnola, forse per nascosta gelosia di Primo de Rivera, non l'aiutava ne' suoi desideri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari, fra cui, molto spesso, lo stipendio; l'alleato l'aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna, e chi se ne fregava le mani in tutto questo trambusto erano senza dubbio i casalmicciolesi, casalernitani, o casalmamalucchi che dir si voglia. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele (prozio di Carlo Martello), così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati come prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, nonostante le mille cortesie che gli usavano gli assediati, e ciò per il fatto ch'egli era venuto quasi solo, cioè con sua moglie e con poche persone di servizio, all'assedio di Casale, e, se può esser attendibile ciò che afferma la solita malignità degli storici, per essersi egli innamorato cotto d'una bella casalpusterlenghese. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno e cornificato invece un casalpusterlenghese di più.

In questi frangenti don Gonzalo ricevette la nuova della sedizione di Milano, e vi accorse in persona.

Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de' fatti veri e supposti ch'erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s'era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l'attenzione di don Gonzalo, che, come i nostri lettori avranno compreso, possedeva un talento induttivo di poco inferiore a quello di Sherlock Holmes. Come allo squarciarsi d'un velo egli comprese che la causa di tutto, la chiave di volta della situazione, era questo maledetto Renzo Tramaglino. Per sua colpa i veneziani alzavano la cresta alla notizia della sedizione di Milano; per sua colpa era nel frattempo arrivata la notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della Roccella; per sua colpa gli studenti spagnoli si agitavano, i minatori inglesi scioperavano, gli indiani tumultuavano, gli americani rialzavano le tariffe, i tedeschi non volevano saperne di pagar le riparazioni, gli afgani deponevano il re Aman Ullah, i milanesi mettevano a soqquadro la loro piazza del Duomo: - in una parola, questo maledetto Renzo Tramaglino era una agente segreto della Terza Internazionale, una spia sovietica, un occhio di Mosca.

In tali frangenti, non sapendo che pesci pigliare, don Gonzalo, com'era sua abitudine nei momenti di grande incertezza, se ne tornò all'assedio di Casale.

Dopo questa sommaria, sebben circostanziata sintesi storica, nella quale, in difetto d'altri meriti, la chiarezza dell'esposto, la ricchezza e la precisione dei particolari varranno ad illuminare anche i più digiuni di politica estera su la estrema delicatezza di quel grande momento storico, noi crediamo di poter deporre la nostra Waterman, che per un istante si atteggiò a voler rivaleggiare con quella dei grandi storici, per ritornarcene modestamente ai fatti nostri e rimetterci sulle tracce di quel tanto calunniato Renzo Tramaglino, che più non rivedemmo da quando, fuggiasco nel reame di Bergamo, e rifugiatosi nella ospital casa di suo cugino Bortolo, con lui divideva l'unico paio di calzoni.

L'inconveniente, come già dicemmo, era questo che quando i calzoni abbisognavano al marito, per alcuna faccenda ch'egli avesse da compiere fuori dalla casa, Renzo era costretto a comparire in maniche di mutande dinanzi alla bella mogliera di suo cugino Bortolo; e siccome costei non era di sasso, e Renzo men che meno, il Manoscritto non spiega quel che accadde, ma i più intelligenti fra i nostri venticinque (milioni di) lettori non impiegheranno lungo tempo a comprenderlo.

Da un pezzo egli era senza nuove della sua fidanzata e della futura suocera; ma ben sapendo che su la loro discrezione c'era poco da fidarsi, e considerando insieme ch'egli era caduto in disgrazia, chissà poi perché, dell'illustre signor don Gonzalo, il buon Renzo si occupava di tutto, fuorché di mandar sue notizie alle due donne, anche per la buona ragione ch'egli non sapeva scrivere.

Su questo punto, cioè, se il nostro Renzo sapesse o no scrivere, il Manoscritto non è molto esplicito e si contraddice parecchie volte. Fatte, come al solito, minuziose indagini, noi abbiamo appurato che se Renzo Tramaglino non era precisamente uno stilista, pure sapeva di lettere quel tanto che basta per redigere la sua corrispondenza d'affari (beninteso con l'aiuto d'una dattilografa). Invece il suo alter ego Antonio Rivolta, non solo scriveva con disinvoltura e con eleganza, ma aveva inoltre ricevuto offerte cospicue da parecchi editori perché accettasse di scrivere le proprie Memorie, come tutti i personaggi celebri. Ora è superfluo ricordare ai nostri lettori che Antonio Rivolta e Renzo Tramaglino sono come chi direbbe zuppa e pan bagnato. Il nostro buon Renzo, più preoccupato de' suoi affari di Borsa che della gloria letteraria, non si era punto lasciato conquidere dalle lusinghe, dai sorrisi e dalle proposte degli editori che sollecitavano un suo volume di Memorie; e fu veramente peccato, perché in tal modo una grande lacuna è rimasta nelle autobiografie degli uomini illustri, che in allora facevano tanto fracasso. A quei tempi bastava per l'appunto che un signore od una signorina qualsiasi compissero l'impresa più normale, vuoi nel campo dello sport, come in quello della politica o della delinquenza, perché quindici giorni dopo tutte le librerie rigurgitassero d'un libro di Memorie autentiche scritte da questo grande personaggio. Così abbiamo le vite celebri dei campioni di boxe, dei vincitori d'una corsa di motociclette, di tutte le grandi stelle da cinematografo, di coloro che riuscirono a farsi eleggere deputati, di coloro che non vi riuscirono, di quelli che non sarebbero riusciti se avessero tentato, o non avrebbero tentato se avessero saputo di non riuscire; i libri di Memorie dei grandi alpinisti, che fecero, magari da soli, l'ascensione del Brunate Kulm; dei grandi navigatori, dei grandi esploratori, dei grandi corrispondenti di guerra, dei grandi giornalisti, scienziati, medici, ballerini, automobilisti, fantini, banchieri, sacerdoti, romanzieri, teosofi, cantanti e velocipedisti.

Se infatti Renzo Tramaglino avesse accettato di scrivere le sue Memorie, noi avremmo saputo qualcosa di più su quella faccenda dell'assedio di Casale, ch'è rimasto un punto oscuro nella storia del secolo, e avremmo inoltre i testi autografi delle numerose lettere che Antonio Rivolta, con l'aiuto della sua dattilografa, fece estendere perché giungessero in mani proprie di Agnese e di Lucia.

Ma allorquando egli poteva, con un semplice francobollo da cinquanta centesimi, esser certo che le lettere giungessero a destinazione, poiché le Poste, anche ai tempi di don Gonzalo, funzionavano discretamente, il nostro Renzo, credendo senza dubbio che il miglior mezzo per far giungere una lettera al destinatario sia quello di spedirla ad una terza persona, incominciò a indirizzare lettere su lettere a Fra Cristoforo, a don Abbondio, a un suo cugino di Maggianico, all'ufficio delle ferme in posta, al sottesegretario ai Lavori Pubblici, alla casa Michelin, al botteghino del Lotto della Città del Vaticano: e tante ne scrisse, e tante ne mandò, che qualcuna infine giunse nelle mani di Agnese.

Costei la lesse da prima tutta d'un fiato, anzi a perdifiato; non vi comprese nulla, chiamò il proprio turcimanno (parola che, dopo alquante indagini, abbiamo appurato voglia dire segretario) e fece estendere una risposta diretta a Renzo Tramaglino, sotto il nome di Antonio Rivolta; nella qual lettera, invece di mandargli i cinquanta scudi d'oro che Lucia le aveva dato incarico di rimettere al suo fidanzato, secondo i patti intercorsi fra loro, gliene chiedeva in prestito cento, acciò potesse rinfrescare un poco la propria guardaroba.

A tale richiesta, Renzantonio fece rispondere una controlettera, nella quale si parlava di tutto fuorché dei cento marenghi d'oro. Agnese, per mezzo del suo turcimanno, controbatté con una nuova epistola, nella quale riduceva la sua domanda a settanta marenghi d'oro. Antonrenzo controrispose, dando ragguagli esattissimi su la pioggia e sul bel tempo, sul raccolto dei bachi da seta e su le ultime novità letterarie; ma, quanto ai settanta marenghi d'oro, faceva come sempre orecchie da mercante. E il carteggio continuò per un pezzo, nella maniera che abbiam detto.

Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, (forse con una telefonata o con una lettera espresso) farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì una gran voglia di mandargli un accidente, e non desiderava più altro se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino (e virgolina), che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, e quando l'immagine di Renzo le si presentava, lei a dire orazioni a mente, o fare con le mani gli scongiuri più efficaci, perché la Divina Provvidenza la liberasse da quel terzo incomodo. Ma quell'immagine, come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, poiché questa immagine, scostumata com'erano quasi tutte le immagini del tempo, aveva la poco lodevole abitudine di presentarsi alle spalle. In tal modo, che la mente di Lucia non s'accorgeva d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che c'era.

Occorre sempre un tempo più o meno lungo per accorgersi di certe cose.

Però, a pensarci meno intensamente, Lucia ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata a levarle dall'animo colui, gliene diceva di cotte e di crude su quello che la voce pubblica raccontava circa le avventure milanesi e bergamigiane del famigerato Renzo.

Ben è vero che la prolifica donna Prassede aveva la bellezza di tre altre figlie da maritare, oltre le due che s'erano già accasate. Quelle tre zitelle, frattanto, le aveva ordinate monache; - era il mezzo migliore, nel 600, per trovar marito. Non fo' per dire, ma donna Prassede aveva un bel da fare, con due menaggi (chiediamo venia del gallicismo) e tre monasteri ai quali soprintendere.

Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente era in casa: ogni persona era soggetta in tutto e per tutto alla sua autorità, fuorché don Ferrante e le altre persone che vi abitavano.

Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile: poco meno di trecento volumi, tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato. Nell'astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante: - egli di fatti possedeva, rilegato in mezzo cuoio, il Doppio Pescatore di Chiaravalle. Chiunque venisse a visitarlo, egli lo intratteneva come nulla fosse delle dodici case del cielo, de' circoli massimi, de' gradi lucidi e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de' principi insomma più certi e più reconditi della scienza. Ed eran forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano (al secolo Uranio) contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell'Alcabizio (al secolo, anzi al Secolo, Selenita).

Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio, di Tito Livio Cianchettini e di Achille Campanile. Siccome però que' sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti, egli, per tenersi al corrente, si era fatto socio del Convegno e del Rotary Club, dove, con modesta spesa, poteva procurarsi il piacere di ascoltare a turno le lezioni dei filosofi più reputati. De' filosofi che non fossero accolti al Rotary né al Convegno, egli non aveva mai voluto leggere le opere, per non buttar via il tempo, diceva; né comperarle, per non buttar via i denari. Per eccezione, però, dava luogo, nella sua libreria di ben 300 volumi, a que' celebri ottantadue libri De subtilitate, ossia dell'arte di far dimagrare le donne, trattato che il Cardano, membro onorario dei maggiori Instituts de Beauté, aveva scritto, contro la teoria semplicista e antimassaggista de' peripatetici. Dello stesso Cardano, astrologo e filosofo, che, trovandosi impiegato in un garage per riparazioni d'automobili fece la scoperta della celebre «trasmissione a Cardano» (ossia d'un albero che invece di fermare e sconquassare le automobili, serve a farle muovere) don Ferrante possedeva il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, cioè il trattato dei prestiti a pegno, e il libro Duodecim geniturarum, ossia della maniera di far l'amore dodici volte, ovvero delle dodici maniere di fare all'amore.

Delle scienze naturali s'era fatto un passatempo più che uno studio. L'opere stesse di Aristotile e di Plinio su questa materia, gli parevan nulla in confronto dei Manuali Hoepli. Tuttavia, con qualche scorsa data alla Magia Naturale del Porta (bisnonno di Carlo Porta), alle storie lapidum, animalium, plantarum del Cardano (figlio di quel Cardano del quale è detto sopra), al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, di Alberto Magno (genero di Carlo Magno), a qualche altra opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili dell'Ischirogeno o dell'Idrolitina; descrivendo esattamente le forme e l'abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare (quando il fuoco è spento); come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave (sopra tutto se questa nave riceve un siluro o va contro uno scoglio); come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie (sempreché vi sia un banchiere che ne paghi il conto al gioielliere); come il camaleonte si cibi d'aria (quando non trova nessuno che lo inviti a pranzo); come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar dei secoli si formi il cristallo (e il cristallo diventi una bottiglia od un'invetriata, secondo l'uso che se ne vuol fare); e altri de' più meravigliosi segreti della natura.

Purtroppo la scienza di don Ferrante non si limitava a questo. Lettore appassionato del gran Martin Delrio (marito morganatico di Dolores Del Rio), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio (curabile con il 606), del maleficio sonnifero (vulgo: malattia del sonno), del maleficio ostile (iettatura), e dell'infinite specie, che, purtroppo, dice ancora l'Anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti (8 cilindri), il Campana, il Guazzo; i più riputati insomma.

Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? E difatti c'era nella sua biblioteca uno scaffale assegnato agli statisti, dove, tra molti di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Parata, il Boccalini, il signor Giovanni Botero e don Valeriano Castiglione, tutte persone di alta cultura e di ottima fede politica, le quali, se oggi si permettessero di scrivere le castronerie che hanno scritte, verrebbero immediatamente inviate al confino.

Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n'era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d'intervenire in affari d'onore, dava sempre torto a chi aveva ragione, e, munito del Codice Cavalleresco di Jacopo Gelli, conduceva sul terreno i duellanti, per metterli nell'impossibilità più assoluta di prodursi la minima scalfittura.

Da questo, il Manoscritto passa poi alle lettere amene; ma, appunto perché amene, noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d'andar avanti con lui in questa rassegna (ma le pare:... non sia così modesto! continui pure, la prego!...), anzi a temere di non aver giù buscato il titolo di copiator servile per noi (oh, ma cosa dice!...) e quello di seccatore, da suddividersi con l'Anonimo sullodato, (che barba!...), per averlo bonariamente seguito sin qui, in cosa estranea al racconto principale, per sfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo.

Però, lasciando scritto quel ch'è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente (ah, che peccato!...) e provvederemo a rimetterci in istrada: tanto più che n'abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de' nostri personaggi (ne sia lodato il cielo!), e uno più lungo ancora prima di trovar quelli, ai fatti dei quali certamente il lettore s'interessa di più (ma lei scherza!...), se a qualche cosa s'interessa in tutto questo, (creda, signor Anonimo: a niente, proprio a niente!...).

Fino all'autunno del seguente anno 1929 rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati; cioè rimasero per tre secoli senza che loro accadesse cosa degna di esser riferita. Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme, ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all'aria, insieme con tutti gli altri che le due donne avevano da pagare, e che purtroppo non pagavano mai.

Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, infrenabile, vorticoso, terrificante, micidiale, sterminatore, inesorabile, stritolante, precipitevolissimo, scoscendendo e sbarbando alberi (barba e capelli L. 2,50) arruffando tetti (si consiglia l'ondulazione permanente), scoprendo campanili, abbattendo muraglie (in base al nuovo piano regolatore) e sbattendone qua e i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l'erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggiere, che un minor vento vi aveva confinate (meglio il confino che la fucilazione nella schiena), e le porta in giro involte nella sua rapina (a mano armata).

Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare (ahimè!) riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po' di lontano... (se proprio non può farne a meno, ci fidiamo alla sua discrezione: faccia lei!).

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License