Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAPITOLO XXVIII

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CAPITOLO XXVIII

 

Dopo quella sedizione del giorno di San Martino o del seguente, parve che l'abbondanza fosse tornata in Milano come per miracolo. A San Martino, giorno consacrato per il pagamento degli affitti, la maggioranza dei padroni di casa, gente pochissimo timorata di Dio, intendeva rincarare le pigioni, o minacciava di sfratto coloro che, giuocando su l'interpretazione dei Decreti, non volevano saperne di andarsene, e tanto meno di subire aumenti.

Ciò non ostante i fornai, gli offellieri ed i pasticceri esponevano panettoni in quantità, infischiandosi altamente del fabbisogno nazionale di farine bianche.

Ed ecco che il 15 di Novembre Antonio Ferrer, nostra vecchia conoscenza, De orden de Su Excelencia (frase in idioma spagnolo, che significa: per ordine di Sua Eccellenza) pubblicò una grida, con la quale si ordinava la guerra senza quartiere ai topi, cause fondamentali di tutti i disagi economici, generatori di pestilenze e carestie, - sotto pena, in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all'arbitrio di Su Excelencia (che, in spagnolo, significa: Sua Eccellenza).

Per muovere guerra ai topi s'era immaginato un composto, detto di mistura, ch'era confezionato appositamente dai laboratori chimici municipali, e che, deposto sui comignoli delle case, sui davanzali delle finestre, o nelle cantine, fra le damigiane del buon vino, aveva il singolar potere di sterminare gli odiati roditori, a qualunque profondità si trovassero.

Beninteso questo farmaco topicida veniva a costare un occhio della testa; il Municipio lo produceva, ma i cittadini dovevano comperarlo.

Comperarlo è nulla; essi dovevano anche pagarlo. Non tutti erano persuasi che convenisse andare in rovina per sterminare i topi, coi quali, sin dai tempi del Vescovo Ambrogio, e anche da prima, i milanesi erano sempre vissuti in ottima intelligenza. Se Antonio Ferrer, d'ordine di Su Excelentia (che in ispagnolo vuol dire quel che si è detto) intendeva sterminare i topi, affar suo! Ma che pretendesse addossare ai buoni cittadini milanesi lo sproporzionato costo del farmaco municipale, questo è un altro di manche paio. Il Consiglio dei Decurioni, sentito il malumore della città, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al Governatore l'impossibilità, per i cittadini, di sostenere un simile onere.

Il Governatore andò su tutte le furie; mise fuori una serqua di tali bestemmie, che, per essere state pronunziate in lingua spagnola, noi crediamo opportuno di non riferire. Bestemmiò per quattordici giorni di séguito, poi, il 7 dicembre, mise fuori una grida, con la quale fissò il prezzo del farmaco topicida a lire dodici il moggio (sia che sotto ci fosse la fiaccola, o non si fosse) e a chi non volesse pagare intimò la perdita della cittadinanza e una multa equivalente al quadrato della distanza, in lire, fra Marte e Saturno, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla galera, all'arbitrio di S. E., secondo la qualità dei casi et delle persone.

Le città vicine, saputo dello straordinario buon mercato al quale, in Milano, si vendeva lo sterminatore farmaco topicida, accorsero in processione a Milano per comprarlo, producendovi un affollamento che gli alberghi, assai antiquati, non erano in grado di ricevere; e, di conseguenza, un principio di carestia. Don Gonzalo, per riparare a questo inconveniente, mise fuori un'altra grida, con la quale stabiliva una tassa di soggiorno sui forestieri, e proibiva di portar fuori dalla città farmaco topicida per più di venti soldi ad personam: pena la perdita della cittadinanza italiana, e venticinque scudi, et in caso di inhabilità, di due tratti di corda in pubblico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all'arbitrio di S. E.

Come si vede, l'Eccellentissimo signor don Gonzalo non ne faceva una di giusta. Cosa nel frattempo fosse avvenuto dell'assedio di Casale, noi non sappiamo, perché il nostro Manoscritto nol dice; fatto sta che il 22 dello stesso mese (non si capisce veramente perché così tardi) don Gonzalo pubblicò un'altra grida, nella quale non diceva nulla di nuovo, fuorché avvertire che, in caso di inhabilità, i due tratti di corda sarebbero tre.

Non è prudente rompere le scatole ai topi. Don Gonzalo doveva accorgersene a sue spese. O, per meglio dire, a spese della misera cittadinanza. Sua Eccellenza, con la mente tutta presa dall'assedio di Casale, e poco esperto, evidentemente, in materia di rattologia, credeva che bastasse dichiarar la guerra ai topi e far approntare un farmaco apposito perché l'infinito popolo dei domestici roditori accettasse la propria distruzione, come l'avevano subita fatalisticamente i pellerossa del Nord America o gli Aztechi del generale Pizzarro. Ahimè, eccellentissimo don Gonzalo, quale error fu il tuo, e quanto gravi le conseguenze! Mentre da un lato i cittadini sabotavano il nuovo farmaco, gli accorti roditori si guardavano bene dal mangiarlo. Fattasi passare la voce l'un l'altro che questo municipal nutrimento poteva procurar loro seriissimi disturbi gastrici, i roditori non toccavan più cibo che non fosse cotto e cucinato a dovere; anzi, seguendo in ciò un esempio che ad essi veniva da celeberrimi imperatori e generali della storia, essi non toccavano cibo se prima, quel medesimo cibo, non era stato gustato e digerito da persone di loro conoscenza.

Conseguenza dunque immediata delle balorde gride di Ferrer si fu questo: che se prima dello stato di guerra gli umili roditori si contentavano di roder legno e di spappolarsi tutti gli avanzi che rintracciavan ne' cortili o nelle chiaviche, ora una banda sterminata di consumatori famelici, disdegnando l'avvelenato farmaco, si buttava insolentemente su le vettovaglie cittadine, producendo un rialzo fantastico di tutte le derrate, e la carestia di esse.

Don Gonzalo, non sapendo più che pesci prendere, va a passare otto giorni all'assedio di Casale, poi rientra, e mette fuori un'altra grida. In questa grida egli non diceva nulla di nuovo, però avvertiva che, in caso di inhabilità, i tre tratti di corda sarebbero quattro.

Non era allegro l'aspetto di Milano a quel tempo, come, del resto, non è troppo allegro nemmeno oggi. I forestieri, visto l'insuccesso del farmaco topicida, se l'erano data a gambe levate, portando in salvo tante provvigioni quante potevano, nel timore che qualche altro governatore intendesse imitare lo sciagurato esempio di don Gonzalo. I milanesi più facoltosi, e tutti quelli che avevano un mezzo decente per filare all'inglese, erano partiti in treno, in auto, e perfino in bicicletta, chi per gli sports invernali, e chi per tentare la fortuna al Casinò di San Remo. Lo spettacolo della città, invasa da orde di topi famelici, e de' suoi abitatori semideserta, era davvero desolante.

Ad ogni passo botteghe chiuse, con la scritta: «Si riapre dopo le feste» oppure: «Chiuso per inventario», o, non di rado: «Chiuso per lutto di famiglia».

Le fabbriche in gran parte deserte; le strade popolate o dai vigili, che in elmetto coloniale nonostante la stagione assai rigida cercavano invano di animare la circolazione, dando il passo libero a immaginari veicoli. I nuovi carrozzoni dei trams, a sportelli automatici, con un carrello che continuamente concerti non inferiori quelli del Quartetto, esponevano il cartello: Completo, quando riuscivano a raccattare cinque o sei passeggeri.

I taxi (verdi) ogni tanto abbassavano la bandiera, sebbene vuoti, e cambiavano posteggio per ingannare il tempo. I tre lumi rossi dei semafori stradali stavano accesi mezz'ore intere, per cercar di fermare più gente che potessero; ma i pedoni, nonostante le innumerevoli scritte ripetute un po' dappertutto: Pedoni a sinistra, preferivano starsene in casa per difendersi dalla guerra dei topi. Ma ciò che il Manoscritto non chiarisce è il seguente problema: cioè se un pedone, quando sia chiuso casa propria, possa ancora chiamarsi un pedone. A nostro umile giudizio, egli è tutt'al più un pedone quando sta in piedi, non quand'e seduto.

Il Cardinale Federigo, che, per la ennesima volta nella sua carriera ecclesiastica, dal grado di arcivescovo si era fatto retrocedere a semplice prete, interpellato da don Gonzalo, sul dal farsi per sovvenire agli estremi della cittadinanza, fu del parere che convenisse mandar via gli Spagnuoli e chiamare gli Austriaci. Don Gonzalo, che su questa materia non ammetteva gli scherzi, scrisse al Papa di promuovere Federigo almeno monsignore, e, avute assicurazioni in proposito, partì per l'assedio di Casale.

Ma i topi, che fin quando nessuno si era curato di loro, vivevano piuttosto ritirati, senza causare il minimo disturbo alla cittadinanza, ora invece - occhio per occhio, dente per dente - conducevano contro la città di Milano e contro i suoi governanti una offensiva in piena regola. Organizzati su piede di guerra, armati e comandati a puntino, correvano in frotte poderose per ogni angolo della città, scalavano gli edifici, assediavano gli appartamenti, entravano per le finestre, per le scale, per tutti i pertugi che ad essi consentiva la loro modernissima rete di trincee sotterranee e comunicanti, stabilite secondo gli ultimi dettami della più perfetta arte militare. Sembra evidente, benché l'Anonimo non lo dica, che i topi cittadini, relativamente scarsi di numero, avessero chiesto rinforzi a quelli della campagna e dei borghi circonvicini. Fatto sta che un simil numero di topi raccolti insieme non si era mai veduto, prima di tal frangente, in nessun luogo della terra; e ingrossati senza tregua, oltreché dall'arrivo continuo di schiere dal contado, anche da una intensa campagna demografica, il loro numero cresceva di giorno in giorno con una rapidità spaventosa, cosicché non era più possibile salvarsi dalla loro invasione trionfante.

I residui della cittadinanza, impauriti, si asserragliavan nelle case; ma invano. I topi entravano dappertutto; apparivano, sparivano fulmineamente, dopo aver fatto man bassa d'ogni ben di Dio. Un tale se ne stava tranquillamente consumando la sua parca cena, e un topo gli entrava nella minestra. Leggeva un giornale, per consultare i bollettini giornalieri della guerra contro i roditori, e un paio di essi, sfacciatamente, gli mordevano il basso dei calzoni, gli rodevano le cinghie delle scarpe, tentavano, i più audaci, di strappargli di tasca persino il portafogli. Stava costui dormendo, la notte, al fianco della sua legittima consorte, e udiva costei d'improvviso risvegliarsi con altissime grida, perché un topo di mole considerevole, violando la santità dell'alcova e il segreto del talamo coniugale, aveva persino tentato di recare offesa alla donna addormentata. Era un flagello di Dio, un finimondo, un disastro da perdervi la ragione. Topi dappertutto, ne' luoghi pubblici e nei privati, notte e giorno, senza requie, senza quartiere, senza speranza di liberazione.

Il medico Alessandro Tadino, che a quei tempi stava appunto costruendosi la strada omonima, inventò una speciale minestra, con la quale sperava d'ingannare i topi e di avvelenarli insidiosamente, dopo averli adescati con l'appetitoso profumo dell'ambrosiana pancetta. Fatica perduta, tempo sprecato: i topi, o non mangiavano la minestra, o, mangiandola, ne divenivano più grassi e più numerosi.

Poiché d'altronde pare ormai dimostrato che siano i medici ad inventare e propagare tutte le malattie, senza le quali essi non avrebber ragione di vivere al mondo, risulta con certezza che questo medico Alessandro Tadino sarebbe stato un de' primissimi artefici, forse involontario, della grande epidemia di «spagnola» che in quel giro di tempo, coi primi venticelli della primavera, venne per l'appunto a scatenarsi su la sciagurata città di Milano. Il medico Tadino tenta invano di scagionarsi nel suo Ragguaglio dell'origine et giornali successivi della gran peste hispagnola, contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano, etc, nell'anno infausto 1648, ragguaglio che d'ogginnanzi avremo parecchie fiate l'occasione di citare andando avanti.

Il medico Tadino, ignorante com'erano i medici del suo secolo, chiama peste un semplice morbo influenzale, che a quel tempo fu chiamato «spagnola» perché a Milano dominavano gli Spagnoli; nome che da quel tempo rimase universalmente a tutte le affezioni del genere, qualunque sia il dominio politico al quale un paese colpito risulti sottomesso. Tranne in Ispagna, dove i superbi «hidalgos», per giusto orgoglio nazionale, non vogliono all'atto saperne di dare il loro nome ad una malattia così pericolosa, e contro la quale nulla assolutamente può la scienza dei più provetti esculapi. Ma errerebbe chi credesse che fosser questi i soli flagelli scatenati a quel tempo su la misera città di Milano. Topi, carestia, febbre spagnola, non erano in verità che una porzione dei mali congiurati per distruggere la opulenta e in altri tempi felicissima capitale della pianura lombarda. Come spesso avviene, quando in un luogo si sta male, e i disagi e lo tribolazioni vi imperversano, tutti vogliono accorrervi; poiché l'uomo, a dir vero, è siffatto animale che talor cerca il tormento e il pericolo come il suo più raffinato piacere. Basta infatti che in un dato luogo vi sia un vulcano, perché su le pendici di esso fioriscano a centinaia gli ameni paesetti e le ville di piacere, spesso città grandi e potenti, quando la semplice logica parrebbe consigliare che tutte queste costruzioni meglio si potrebber fare qualche chilometro più in . Così avvenne di Ercolano e di Pompei; che furon sepolte sotto le lave dell'irritato Vesuvio. Ma noi crediamo di sapere che Roma imperiale fece apposta a costruire le due città in quei luoghi, per poter distruggere gli abitanti di Ercolano e di Pompei, che assolutamente non volevano saperne di lavorare, e anche perché i posteri, dopo molti secoli, potessero divertirsi a rimetterle in luce. Questi non sono i soli esempi del nostro precedente asserto. Non v'e chi non sappia che navigando su gli oceani si corre il serio pericolo di andare a fondo; ma vi son popoli interi che seguitano a preparar navi una più grossa dell'altra per traversare gli oceani in piena tempesta e assicurarsi il dominio dei medesimi, colando a picco, in media, una volta per settimana. Non potrebbero costoro starsene tranquillamente su la terraferma? Pare di no. E, quasi ciò non bastasse, l'uomo, che la natura ha provvidamente costrutto senz'ali, perché non corra il rischio di cadere a capofitto, si affanna per esempio a costruire una specie di grosso camion aereo come il Conte Zeppelin, per fare il giro del mondo a un'altezza fra i trecento e i duemila metri, quando è tanto più comodo, più semplice, ed infinitamente più economico, girare la terra in un buono «sleeping-car», per chi non possa addirittura trattenersi pacificamente a casa sua. Con ciò noi crediamo di aver dimostrato che il pericolo, il disagio, il rischio della pelle, attraggono l'uomo anziché farlo fuggire.

E difatti, non appena si seppe, attraverso i giornali svizzeri, che a Milano infuriava l'invasione dei topi, la mancanza di viveri e l'epidemia di «spagnola», tutti fecero a gomitate per ammucchiarsi a Milano, dove, nel frattempo, si era inaugurata la prima Fiera Campionaria. Non si è bene appurato ancora se a generare una tal serie di pubbliche calamità fossero i topi, il medico Alessandro Tadino, la Fiera Campionaria, o, come il nostro Manoscritto ritiene più probabile, tutte queste cause riunite insieme. Certo si è che a quel tempo due grandi medici, il nominato Alessandro Tadino e Senatore Settala, figlio del celebre Ludovico, membri entrambi del Comitato della Sanità, lavoravano a tutt'uomo per iscoprire nuovi morbi, e sperimentarli su la pelle della cittadinanza, e, come conseguenza ultima, trovare il mezzo di guarirli. Senonché a presidente del Comitato di Sanità, avevan messo, come sempre avviene, un ex-armatore del porto di Genova, trapiantatosi a Milano per sfruttarvi il movimento marittimo della darsena di Porta Ticinese, «omo illibato e di molta bontà dice il Tadino, ma che, di materia medica, se ne intendeva come un capitano di lungo corso può intendersi dell'industria dei pizzi».

Sotto la sua sapiente guida successe che i topi presero alla lor volta la «spagnola»; i militi del re di Spagna e di Primo de Rivera, non potendo ammalarsi della «spagnola» per ragioni di nazionalità infermarono d'altri morbi svariati, che le cattive lingue del tempo attribuivano alle donne di costumi facili affluite a Milano con la fondata speranza di far buoni affari durante la Fiera Campionaria; la carestia toccò il suo più alto vertice, tanto che fu necessario che don Gonzalo tesserasse, con altrettante gride, il pane, il sale, il pepe, il tabacco e gli altri generi di prima necessità; gli alberghi, non sapendo come e dove allogare tanta impreveduta affluenza di forestieri, ne mandarono alcuni al pubblico macello, ed altri ne accasarono al Lazzaretto, che verso quel tempo finiva appunto d'essere costruito, a tutte spese dell'Anonima Pittaluga, con l'intenzione di aprirvi un grande cinematografo. Requisito dall'autorità podestarile per farne un luogo di ricovero e di pronto soccorso, il comm. Pittaluga intentò causa al Comune di Milano, causa che dura tutt'oggi, senza che nessuno al mondo possa prevedere come e quando andrà a finire.

Fatto sta che nel Lazzaretto di Milano i forestieri e i senza tetto si trovavano benissimo. Camere ben aerate, servizio inappuntabile, cucina scelta, riscaldamento centrale, bar e salone di lettura aperti a tutte le ore, una orchestrina di tango e di jazz fatta venire espressamente d'oltre Atlantico, per emulare quella, già un po' sfessata, di Bianco Bacicia. Tutti coloro che potevano venir ammessi al Lazzaretto Palace vi si trovavano così bene, da non volerne più uscire che morti. L'affluenza alle porte del Lazzaretto era enorme; vi succedevano scenette su le quali il Ragguaglio fornisce particolari esilaranti, e il bagarinaggio dei biglietti d'ammissione fioriva su tutta la Scala.

Ogni cosa dunque sarebbe andata per il meglio, nonostante i topi, la carestia, la congestione dei senza tetto, l'epidemia di «spagnola», se, a turbare alquanto le faccende, non fosse intervenuta, come al solito, la politica.

I nostri ben amati lettori avranno la compiacenza di rammentarsi ch'era aperta a quel tempo la successione al ducato di Mantova. Similmente osiamo sperare che i nostri lettori non abbiano dimenticato come, fra l'alterne fortune d'una guerra aspra e densa di sorprese, il Governatore don Gonzalo stringeva sempre d'assedio la resistente città di Casale. Nessuno poteva capire perché mai egli non v'entrasse, tanto più che i casalesi, casalinghi o casigliani che dir si voglia, non domandavano di meglio; e, aprendo all'assediante le porte della città quant'eran larghe, passavano le loro giornate su gli spalti delle mura facendogli cenno di decidersi finalmente, di rompere gli indugi, e d'invadere l'assediata piazzaforte. Meno di tutti lo capiva il cardinale da Richelieu, che tanto per dare una lezione al temporeggiante don Gonzalo, aveva levato d'assalto la città forte della Roccella. Egli sperava di decidere con questo esempio don Gonzalo a penetrare in Casale. Per facilitargli le cose, aveva anche abboracciata alla meglio una pace col re d'Inghilterra, il quale si trovava preso tra l'incudine e il martello del nazionalismo egiziano, della concorrenza commerciale nordamericana, della disoccupazione interna sempre più bolscevizzante, e, nel vicereame delle Indie, dalla rivolta di Gandhi, il quale, per stare tranquillo, o meglio, per agitarsi senza dar disturbo a nessuno, richiedeva sempre un maggiore contributo di rupie da parte delle autorità britanniche.

Noi siamo davvero seccatissimi di dover nuovamente infliggere ai nostri lettori un altro specchietto (assai riassuntivo) delle condizioni storiche e politiche d'Europa in que' tempi; ma, se ciò omettessimo, nessuno riuscirebbe a capire per quale straordinaria serie di contrasti abbia dovuto passare il famoso matrimonio di Renzo e Lucia.

Presa dunque la Roccella, che al pari della fortezza di Casale domandava solo di arrendersi all'insolente e battagliero Cardinale, questi non ebbe più che un pensiero: volare in soccorso del duca di Nevers (che noi non sappiamo chi sia).

Qua capita in scena il conte di Nassau, altro personaggio a noi del tutto sconosciuto, il quale, una bella mattina, si sveglia con l'idea che i nuovi stati debbano esser dati in mano a un certo Ferdinando, e avverte per mezzo di un telegramma, che, ove ciò non avvenisse, egli stesso avrebbe mandato un esercito ad occuparli. Il duca non era affatto alieno dall'accedere ai desideri del signor conte di Nassau; ma richiedeva per il suo sgombero una commissione che, né il conte assai spiantato, né lo stesso re di Francia intendevano pagargli. Dinanzi a tali ingiustificate pretese, il cardinale di Richelieu, che come tutti gli uomini di chiesa non aveva il denaro facile, prende con il re di Francia, e, verso i primi di marzo, cala in Italia alla testa di un potente esercito. Il duca di Savoia, testardo come ogni buon piemontese, non intende lasciarlo passare. avviene uno scontro, nel quale i Piemontesi vincono, ma i Francesi passano lo stesso. Dopo la battaglia, il Savoia ed il Richelieu si mettono d'accordo; mandano a dire al Cordoba che faccia il santo piacere di levare l'assedio da Casale, se no avrebbero invaso il Ducato di Milano. «Ma come?!... esclama don Gonzalo; se sono diciott'anni che tengo l'assedio a Casale per incarico del Duca di Richelieu? Che novità son queste?». E corre al telefono per chiedere ulteriori informazioni, non senza aver incaricato l'Achillini di scrivere al re Luigi il celebre sonetto: Sudate, o fuochi, a preparar metalli.... e un altro, con cui l'Achillini esortava il re di Francia a portarsi subito alla liberazione di Terra Santa. Ma il re di Francia, amante de' suoi comodi, e innamorato, a quel che narravisi, della Venere nera Josephine Baker, rispose all'Achillini che facesse il favore d'incaricare di quella spedizione un certo Goffredo di Buglione.

Il cardinale di Richelieu, richiamato a Parigi dallo scandalo di Madame Hanau, pianta in asso baracca e burattini, per ritornare precipitosamente su le rive della Senna. Ne approfitta un certo Girolamo Soranzo, inviato de' Veneziani, quegli che più tardi inspirò a Felice Cavalletti i celeberrimi versi:

 

……………………………perché in essa Soranzo

dee la sposa vici Cantici condur lo sposo a pranzo.

 

Mentre quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando si avvicinava dall'altra; in Italia era un tale andirivieni d'eserciti che non era più possibile comprendere per chi, o contro chi combattessero. Uno di questi eserciti, salito in funicolare a Brunate, vi aspettava di calar nel Milanese. Un altro aveva occupato Villa d'Este, e, senza dubbio, era quello che stava meglio. Un terzo, Dio sa come, di battaglia in battaglia, era finito a Salsomaggiore. Altri eserciti eranvi al Campo de' Fiori, a San Pellegrino, a Stresa, a Cannero, sul lago d'Iseo, e un altro, composto in gran parte di elementi dannunziani, a Cargnacco sul lago di Garda.

Tutti questi eserciti avevano come unica meta La Fiera Campionaria di Milano. Il medico Alessandro Tadino, uno dei conservatori della Sanità (erano sei, oltre il presidente: un cancelliere di Pretura, un dentista, un maestro di musica, un negoziante di tappeti, un veterinario e il medico Tarlino) fu incaricato dal Tribunale, come racconta egli stesso, di rappresentare al Governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava alla città, se tutti quegli eserciti vi si ammassavano, per andare all'assedio di Mantova, come s'era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare ch'egli avesse una gran smania d'acquistarsi un posto nella storia, e perciò era egli rimasto ben 18 anni all'assedio di Casale; ma, (come spesso accade) la storia non conobbe, o non si curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria: la risposta che diede al Tadino in quella circostanza.

Egli rispose «che non sapeva che farci».

Poi aggiunse che dove si sta in tre si può stare anche in quattro; perciò benvenuti fossero i quindici o venti eserciti di tutte le potenze d'Europa, se ciò avesse potuto servire a maggior lustro della Fiera Campionaria di Milano.

Ma questa risposta non suonò del tutto gradita al ferreo Primo de Rivera, che, con un telegramma cifrato, destituì don Gonzalo dalla carica di governatore di Milano.

Questo fulmine a ciel sereno colse il povero don Gonzalo, mentr'egli, non sapendo più che pesci pigliare, stava in preparativi di partenza per recarsi all'assedio di Casale. Da buon spagnolo, egli era un poco fatalista; accese una sigaretta, e disse, con brevità lapidaria: «Caramba.

Comandò la sua carrozza di gala, mise in rango i suoi trombettieri, diede una mancia (non molto lauta) al portinaio del Palazzo di Corte, e s'apprestò ad uscir da Milano per il corso di Porta Ticinese. Poco esperto in geografia, egli credeva che di si andasse in Ispagna.

Faceva male i suoi conti, povero don Gonzalo! Il suo corteggio non era ancor giunto all'altezza delle colonne di San Lorenzo, che già incominciarono le prime avvisaglie di tumulto popolare. Preceduto da una guardia d'alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan séguito, il povero don Gonzalo incominciò a ricevere un paio di sassate sul cappello. Don Gonzalo, senza perdere la calma, incitò i suoi trombetti a suonare Adagio Biagio, canzonetta che in que' tempi faceva grandissimo furore. Senza dubbio egli riteneva di rendere con ciò omaggio allo spirito cavalleresco e musicale de' milanesi, placando la lor minacciosa ostilità con una canzonetta che godeva del favore pubblico. Mal gliene incolse, povero don Gonzalo. I torsoli di cavolo, i ciottoli, un subisso di fischi e di contumelie, piovvero e scoppiarono da ogni parte intorno al carrozzone di gala del governatore destituito.

- Adelante Pedro, si puedes!... diceva egli sottovoce al suo cocchiere, sperando che i pomodori, le patate fradice, i cocci di vasi da notte e gli altri proiettili d'ogni genere non lo conciassero in guisa che gli fosse poi mestieri affidarsi alle cure del medico Alessandro Tadino (quegli che guariva tutte le malattie solleticando con una penna di pavone le membrane interne del naso) prima di comparire in uniforme di gala, con pennacchi e decorazioni, dinanzi al suo legittimo sovrano.

Come Dio volle, anche questa volta, egli stesso, al pari del suo Gran Cancelliere, se la cavò con un grosso spavento; i milanesi non hanno l'animo sanguinario, e questo governatore, in fondo, aveva procurato loro tanti malanni, che, pur fischiandolo e bersagliandolo d'immondizie, sentivano per lui una certa riconoscenza. Infatti, per quanto cattivo sia un governatore, egli è sempre migliore di quello che verrà dopo.

A succedergli venne inviato il signor marchese Ambrogio Spinola, il quale, non appena insediato nel nuovo comando, partì immediatamente per l'assedio di Casale..

Frattanto l'esercito alamanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto, aveva ricevuto l'ordine definitivo di recarsi all'impresa di Mantova. Colico fu la prima terra che invasero que' demoni; si gettarono poi sopra Bellano; di entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.

 

 

 


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