Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAPITOLO XXIX

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CAPITOLO XXIX

 

Qui, tra i poveri spaventati, troviamo persone di nostra conoscenza.

Chi non ha visto don Abbondio il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi, e de' suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. «Vengono, son trenta, son quaranta, son cinquanta, son sessanta, son settanta, son ottanta, son novanta mila; son diavoli; sono ariani; sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna; devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui»: tali eran le voci che passavano di bocca in bocca.

Lascio a voi d'immaginare con quale mal di pancia, per quell'intrepido cuor di leone, o vaso d'argilla (senza imballaggio) che noi conosciamo essere il nostro don Abbondio. Senza por tempo frammezzo, prima di tutti e più di tutti, quando ancora gli Alamanni stavano di dalle Alpi, nella lor nuvolosa terra d'Alamagna, don Abbondio aveva coraggiosamente risoluto di darsela a gambe. Ma, nella scelta del luogo dove ricoverarsi, vedeva ostacoli insuperabili e pericoli dappertutto. I monti non eran sicuri: già s'era saputo che i lanzichenecchi vi s'arrampicavano come gatti; il lago era grosso; tirava un gran vento; oltre a questo, la più parte de' barcaioli erano passati al nemico; il resto, con le lor barche, si eran messi a far servizio di corriera per le strade provinciali verso l'interno, traslocando coloro che scappavano. Come facessero a far camminare le barche per le strade provinciali, è cosa che il Manoscritto non dice. Don Abbondio, non sapendo a qual partito apprendersi, piagnucolava come un fantolino, e se ne stava tutto il giorno aggrappato alle sottane di Perpetua, nelle quali si rasciugava il naso e le lacrime.

- Che diàmine, reverendo! La mi si tolga un po' di tra i perpendicoli! - gli diceva Perpetua col suo miglior accento toscano. - Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venirmi tra i corbelli a piangere e a impicciare!

Ciò ch'ella tuttavia non diceva, ma che le dava quella baldanza e quel fegataccio sano, era la speranza segreta che un de' robusti lanzichenecchi s'innamorasse di lei perdutamente, poiché, con gli abitanti della valle d'Introbbio, lecchigiardi o leccoslovacchi che dir si voglia, aveva dovuto ormai dimettere ogni speranza.

Don Abbondio, lasciato solo, correva alla finestra e si metteva a piangere come un vitello.

- Oh, povero me! - gemeva egli. - Fate questa carità al vostro povero curato, di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino, una torpedo Fiat, o, nel peggior dei casi, una moto con «sidecar»! Volete lasciarmi in man dei cani, a ricevere il martirio? Oh, che gente! Oh, che gente!

Ma poiché nessuno gli dava retta, egli se ne tornava in cerca di Perpetua.

Stavano tra queste irresolutezza, quando entrò Agnese, con l'aria di chi viene a fare una proposta importante. Ella era divenuta grossa almeno del doppio, essendosi cuciti nel busto i cinquanta marenghi d'oro deil'innominato.

La proposta che fece Arnese fu di andare tutt'e tre insieme a rifugiarsi nel castello dell'Innominato; e tale proposta venne accolta a bracciaperte dal curato e dalla sua donna di servizio, che, fra mille progetti, non avevanci ancor pensato. Senza por tempo frammezzo, si misero in fila indiana e partirono per il castello dell'Innominato.

Siccome la strada era lunga, si fermarono a scroccare un pranzo in casa di quel sarto che già aveva ospitato Agnese e Lucia, quando costei fu rapita in Hispano-Suiza e passò la notte nel castello dell'Innominato. Questo sarto, che non mancava di rendere minuti servigi a chiunque gli capitasse tra i piedi, nella speranza di poi ricevere una ordinazione d'abiti, s'incaricò di provveder loro un barroccio, il quale, come Dio volle, li condusse al famigerato castello.

Giunti furono alla spianata la quel fronteggia il gran maniero, una sorpresa novissima li attendeva. Su la facciata del feodal castello campeggiava una scritta luminosa, che a lettere cubitali diceva

 

INNOMINATO BELVEDERE KULM

CUCINA OTTIMA

SERVIZIO INAPPUNTABILE

SI FANNO PENSIONI DA NON TEMERE CONCORRENZA

 

L'Innominato, dopo la conversione, trovandosi e corto di quattrini e vedendo quella gran ressa di gente che fuggiva dinanzi all'alamanno, aveva pensato di trasformare il suo castello in un albergo - pensione di prim'ordine. A quel che dicevasi, faceva affari d'oro. I clienti affluivano in sì gran numero, ch'egli aveva dovuto allogarli persino nelle scuderie, mentre il famoso destriero trascinava l'omnibus dell'albergo a piè della valle, per raccogliervi le torme di forestieri. Il Griso, con una livrea comperata d'occasione, adempiva all'ufficio d'automedonte, nonché d'interprete e segretario dell'albergo. Ma se tutto correva liscio finché si trattava di scendere a valle per raccogliere i forestieri che vi si davan convegno, le cose cambiavan d'aspetto, quando, per la scabrosa e malagevol erta, si trattava di far risalire il carrozzone. Per solito accadeva che i forestieri fosser costretti a scendere, per spingere a braccia la diligenza che portava i loro bagagli. Per solito arrivavano alla cima un po' trafelati. Il proprietario del luogo, vestito in marsina, e con la pianta dell'albergo sotto il braccio, aspettava i clienti sotto il portone d'ingresso, con quel sorriso mellifluo e stilizzato che distingue i proprietari d'albergo allorché vedono giungere l'omnibus pieno.

Scorgendo Agnese, don Abbondio e Perpetua, l'Innominato, assai fisionomista, comprese trattarsi di forestieri d'alto bordo, e subito diresse loro la parola in un francese ultraparigino, scusandosi di non avere camere libere, se non due letti in due abbaini, che si trovavano alle due ali opposte del castello. Ma fosse colpa della sua pronunzia o dell'agitazione in cui erano i tre fuggiaschi, nessuno mostrò di comprenderlo; perciò l'Innominato si mise a parlar tedesco, poi inglese, ed infine scappò fuori con un «Porco sciampino!», che fu compreso a meraviglia dai tre forestieri.

Invitati a declinare le loro generalità, per riempire le schede richieste dalla Polizia, il nostro buon parroco, un po' confuso, perché sprovvisto di carta d'identità, scrisse velocemente, un «Don Abbondio et M.me» che fece arricciare il naso al titolare dell'albergo. Quanto ad Agnese, ella non fece che presentare il suo biglietto da visita, listato di nero, su cui era scritto: «Agnès Mondello. - Veuve de S. A. S. leprince Mondell de Maggionico.

Leggendo questo alto nome, il viso dell'innominato si rischiarò, e guardata meglio la sua ospite si risovvenne di averla già veduta, nella casa del sarto, nell'anticamera dell'Arcivescovo, oppure altrove. Si profuse in grandi inchini, si mise a trattarla di «Vostra Grazia» e, trascurando affatto il povero don Abbondio et M.me, accompagnò la sua principesca ospite nella stanza migliore del castello.

Don Abbondio, rimasto in attesa nella «hall», si sedette in una poltrona a dondolo, pregando Perpetua di dargli la scosserella. In quel momento cinque o sei forestieri, ospiti dell'Innominato Belvedere Kulm, rientravano da una passeggiata, confabulando tra loro in lingua ostrogota. Al solo vederli, con quelle scarpe chiodate, quelle fasce verdi, quelle facce camuse, que' crani rasati e tagliuzzati, don Abbondio dette un urlo sviscerato, balzò dalla sedia a dondolo, che andò a sbattere sul naso di Perpetua, e infilatasi la sottana tra le gambe, si mise a fuggire per i corridoi dell'albergo, urlando con quanto fiato aveva in corpo

- Son qui gli alemanni! son diavoli! son ariani! son anticristi!...

Infilò il primo uscio che trovò aperto, e capitò nella stanza di una miss inglese, che, in costume adamitico, stava lavandosi tutto il corpo con uno spazzolino da denti immerso in un bicchiere d'acqua, non essendovi altro impianto balneare nel castello.

La visita di quella nudità fece rimanere don Abbondio di stucco; la miss inglese, sdegnata per quella irruzione d'un sacerdote cattolico, infilò un paio di pantofole, e senza curarsi d'altro scese, per fare le sue proteste al «bureau». Tosto accorse l'Innominato, che, secondato dal Griso e da altri impiegati dell'albergo, si adoperò a chiarire l'equivoco, adducendo che l'alto prelato, uso a vivere nelle undicimila stanze del Vaticano, si era semplicemente sbagliato di camera.

La miss inglese, alquanto rappacificata quando seppe trattarsi d'un alto prelato, ritornò nella sua stanza e s'immerse con voluttà nel bicchiere d'acqua che le serviva come vasca da bagno.

La sera tutti quanti si trovarono riuniti nell'armeria del castello, e ballarono sino a tarda ora.

 

 

 


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