Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
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CAPITOLO XXXI

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CAPITOLO XXXI

 

La peste o febbre spagnola, che il Tribunale della Sanità aveva temuto potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma giunse fino a Caltanisetta. Noi ci limiteremo a descriverne gli effetti nel milanese, che, altrimenti, questo romanzetto de' Promessi Sposi, anziché in un sol volume, dovrebb'essere in ventiquattro, né la vita nostra, con l'estensione che in man nostra prendono tutte le cose da nulla, basterebbe ad estenderli.

Noi non avremmo saputo da che parte incominciare a descrivere la peste di Milano (quella, s'intende, che scoppiò furibonda in seguito alla chiusura della prima Fiera Campionaria) se, da Tucidide al Boccaccio, ad alti prosatori italiani ed esteri di minore importanza, la peste non avesse dato luogo a magnifici esempi di bello scrivere, dai quali appunto noi ricaveremo, in parte, queste circostanziate notizie. Il resto lo ricaveremo da un libercolo che il giorno appresso a quelle d'Ognissanti avemmo la gran ventura d'acquistare per pochi soldi sovra il banchetto d'un pontremolese alla Fiera di Sant'Ambrogio, che il nostro Manoscritto dice esser stata la madre di quella campionaria. Di questo libretto, per essere iscritto in latino, a vero dire noi non avremmo capito un'acca; ma un nostro nipote, alunno del secondo corso ginnasiale, si diede la pena di tradurcelo, motto per motto, con l'aiuto d'un «bigino»; e noi, com'è di rigore tra gente onesta, rendiamo a Cesare quel ch'è di Cesare.

Il libretto si intitola: «Josephi Ripamonti canonici - scalensis chronistae urbis mediolani. De peste quae fuit anno 1630. Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas».

Il nostro nipote ha così tradotto: «Peppino Ripamonti, abitante in via Canonica, corista della Scala, conosciuto «urbi et orbi» per tutta Milano. Della peste che ci fu a Milano nel 1630, e che faceva venire il mal di testa».

Dal citato Ragguaglio del medico Tadino, da quello del protofisico Ludovico Settala, poi da questo trattatellone del Ripamonti, in 5 tomi, che hanno valore bibliografico, e che ci avvenne di comperare per poche monete, noi desumemmo tutte le notizie che qui riferiremo, dopo averle ordinate, sceverate, ripulite dal superfluo e dall'immaginario, nonché vagliate al confronto d'altri testi secondari, dovuti alla penna di scrittori meno importanti, o di medici meno celebrati.

Però la nostra convinzione ben assoluta e profonda, appoggiata su fatti che la scienza moderna per indiscutibili, si è che la peste di Milano, sopratutto quella descritta dal Tadino e dal Ripamonti, non sia mai esistita. Il nostro Manoscritto, che le beve grosse in fatto di politica, non ha mancato di prendere un gambero colossale su questo argomento di natura scientifico-sanitaria. Dunque la nostra opera sarà quella di raddrizzare il pregiudizio popolare, che attribuisce a queste descrizioni della peste il valore di assoluti documenti storici.

Non è la prima volta che in Italia, come in altri paesi d'Europa e delle cinque parti del mondo, una popolazione sanissima, tutelata e curata con tutti i più moderni sistemi dell'igiene, s'immagina di essere colpita da morbi fierissimi, e per un volger diffondersi di raffreddori dovuti alle intemperie della stagione, o per uno spesseggiare di disturbi viscerali dovuti all'abuso nei mesi estivi di bibite raggelate e di frutte nocive, ne fa un tal chiasso e ne prende un siffatto allarme, che i giornali stessi, per mezzo de' loro più brillanti cronisti di salute pubblica, si vedono costretti ad intervenire nella faccenda. Star male o star bene, non è in fondo che un'opinione. Lo stesso grande Einstein ci ha ormai luminosamente dimostrata la teoria della relatività, suprema legge che regna in tutte le cose dell'uman vivere, tanto più in quelle della salute pubblica. Del resto i medici, ogni tre o quattr'anni, come fanno i sarti con le stoffe ed i maestri di ballo con le danze, mettono di moda una nuova malattia. Se così non facessero, il lor mestiere andrebbe al fallimento, e il lor commercio, con quello de' chimici e de' farmacisti, non conterebbe tra i più fiorenti. C'è dunque la malattia di moda, come c'è la canzonetta di moda, l'autore di moda, il taglio de' capelli e la calzatura di moda. In quello sciagurato 1630 la malattia di moda fu semplicemente la peste. Non era, per ciò, più grave delle altre. Ma le persone eleganti, e, di mano in mano, anche le meno favorite dal censo, fino agli strati più bassi della popolazione, per poco che avessero un disturbo qualsiasi, trovavan necessario dire che avevano la peste. Per chi dubitasse della versione un po' azzardosa che noi sosteniamo, sarà opportuno citare qualche esempio.

Or non è guari un povero cane randagio, ricordandosi d'essere un cane, diede un morso in un polpaccio ad un passante che gli aveva camminato sui piedi. Costui si mise a strillare come una pescivendola, benché se la fosse cavata con un buco nei calzoni. Egli affermava di esser stato morsicato da un cane idrofobo. Quel che avvenne, voi lo sapete.

Tutti i cani, per quanto inoffensivi, e per quanti servigi avesser reso all'uomo, furono tenuti in sospetto legale d'idrofobia. La rabbia dei cani divenne il discorso del giorno. Contr'essi furono escogitate le misure più barbare, le persecuzioni più assurde. Si condusse una vera campagna contro l'idrofobia (che non era mai esistita) coi sistemi più adatti per far diventare idrofobi, oltre i cani, anche i proprietari e gli amici di essi. Morale della favola: qual è il cristiano il quale ogni tanto non si lasci cogliere da un accesso di rabbia? Ma se questa viene ad un povero cane, ecco mettersi in moto tutto l'apparato della forza pubblica, per combattere un'epidemia che non c'è.

Gli esempi possono moltiplicarsi. Un fanciullo, su la Riviera di Levante, si addormentò d'un sonno che non era quello dell'innocenza. Il suo piccolo cuore seguitò a battere per un paio di giorni, poi questo fanciullo morì di congestione cerebrale. Siccome in Africa esiste una malattia consimile, che viene chiamata malattia del sonno, i medici vollero sezionare il cervello di questo bimbo, per vedere se dentro vi trovassero per caso la mosca tsè-tsè. Tosto i giornali svizzeri, che in questa materia sono i meglio informati del mondo, e che, all'avvicinarsi della stagione estiva, si sentono presi da un interesse sviscerato per la salute pubblica degli stati circonvicini, si diedero a narrare con abbondanza di particolari che in quell'anno l'Italia, disertata dalle rondini e dalle cavallette, era stata furiosamente invasa da un ciclone di mosche tsè-tsè. I tranquilli villeggianti si addormentavan nell'accendere un sigaro, e cadevano morti stecchiti. I bambini, succhiando il latte della loro nutrice, passavano a miglior vita stando appesi alla loro mammella.

Dovremo insistere in questi esempi, ai quali ognuno può aggiungere il frutto della propria esperienza personale? Sarebbe, da parte nostra, un abuso di discrezione consumato contro la pazienza del lettore, il quale, rileggendo Cervantes, rifletterà senza dubbio all'episodio di quel tipo amenissimo che aveva la strana fissazione d'essere trasformato in un uomo di vetro. Egli non era trasparente; ma chi avrebbe mai potuto persuaderlo a non credersi tale?

Con ciò noi crediamo di aver data, per affinità, una versione abbastanza plausibile della peste di Milano nel 1630. La Lombardia, sotto il giogo spagnolo (giogo per modo di dire, perché i governanti si limitavano a fare in ispagnolo le fesserie che più tardi vennero fatte in italiano) certo non brillava nelle provvidenze atte a garantire la salute pubblica. Se v'era un giardino, lo estirpavano; se v'era un corso d'acqua, lo ricoprivano; se la vita d'un quartiere scorreva tranquilla, vi entravano ricostruttori e speculatori di terreni a rinnovarlo; e con la polvere delle demolizioni, il puzzo dell'asfalto, il fragore degli autobus e dei trams elettrici, la mancanza assoluta di verde, il rincaro smodato degli affitti per ogni quartierino piccolo e malsano, l'adulterazione di tutte le vivande che servono al consumo giornaliero, la sofisticazione dei vini e di tutte le bevande, la vita nell'ambrosiana metropoli era divenuta un tale inferno, che, per resistere a tanti flagelli, bisognava senza dubbio possedere una salute di ferro.

Ma torniamo al nostro racconto, e non curiamoci più d'entrare in polemiche su la genesi del terribile morbo.

L'inventore della peste, se è vero quel che si racconta, fu San Carlo. Per l'appunto un'altra pestilenza, scoppiata cinquantatrè anni avanti, veniva nominata la peste di San Carlo, è un grossolano errore quello di attribuirne l'invenzione al protofisico Lodovico Settala ed i più razionali perfezionamenti al medico Tedino. L'uno e l'altro fecero del loro meglio per fomentare e sviluppare il contagio; ma vi riuscirono solo imperfettamente,.

Fu bensì il protofisico Settala che il 20 d'ottobre, nel Tribunale della Sanità, riferì come, nella terra di Chiuso, un tale si era messo in letto con un potente raffreddore, e, chiamato un medico, questi opinò che convenisse tenerlo gin osservazione poiché in India infieriva la peste.

Nonostante questo allarme, non fu presa veruna risoluzione, come si ha del Ragguaglio del Tadino.

Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Questa volta il Tribunale della Sanità risolve senz'altro di rompere gli indugi. Nomina un Commissario, che, per la circostanza, fu scelto nella persona d'un valentissimo restauratore di quadri, e lo spedisce a Como, con l'incarico di prendere colà un medico e di portarsi con lui a visitare i luoghi indicati. Ma il commissario e il medico (che, per la circostanza, era un dentista) sbagliano battello, e invece di andare a Lecco e Bellano, vanno a Tremezzo e Cadenabbia. Ivi, condotta una rapida inchiesta, ma sopra tutto cenato e bevuto abbondantemente, tutt'e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciarono persuadere da un vecchio et ignorante barbiere del luogo, che quella sorte de mali non era Peste». Quanto ai cattivi odori che i due Commissari sentirono sui luoghi, essi eran dovuti alle emanazioni autunnali del lago. Tornarono, e riferirono al Tribunale della Sanità; il quale, in seduta plenaria, se ne stropicciò le mani.

Ma il 14 di novembre, continuando le notizie di decessi in India e altrove, sempre lo stesso restaurator di quadri ed il suo dentista-aggiunto ebbero incarico dal Tribunale di presentarsi al Governatore, il celebre Ambrogio Spinola, ed esporgli lo stato delle cose. Per ciò fare, dovettero naturalmente recarsi all'assedio di Casale. Il Governatore li accolse, come suol dirsi, coi guanti, e pochi giorni dopo emanò una grida, con la quale annunziava uno spettacolo pirotecnico; per onorare la nascita del principe Carlo, primogenito di Filippo IV.

Per vedere questo grande spettacolo pirotecnico affluirono a Milano molti forestieri: tra questi, entrò il primo che v'introdusse la peste, per averla egli già avuta numerose volte in Alamagna, in Francia, in Inglaterra, in Elvetia et in altri luoghi ancora, tanto è vero ch'egli visse in ottima salute fino all'età rispettabile di anni novantasei e mezzo - dopo la quale età non è ben certo ancora ch'egli sia morto, ma se ne perdono le tracce. I dotti e i cronisti ancor oggi disputano su chi egli fosse. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovati; secondo il Ripamonti un Pier Paolo Locati; altri dicono che fosse un tipografo, certo Mario Bruneri, ed altri ancora un certo prof. Giulio Canella.

Sia come si sia, noi propendiamo a credere che fosse quest'ultimo; poiché entrò questo fante sventurato e portator di sventura con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alamanni e balcanici; nelle qual vesti c'era la peste. Andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di Porta Orientale, dove trovò da far bene. Appena arrivato, s'ammalò. Aveva la passione di recarsi la notte nei camposanti, e rubarvi il portafogli dei morti. Sorpreso in flagrante, fu arrestato e condotto al Manicomio. i medici gli scoversero un bubbone sotto l'ascella (località ove per solito non è l'uso di portare i propri bubboni); ma esso, a quanto pare, non gli diede alcun disturbo, che anzi gli servì a farlo riconoscere dalla moglie sua, o d'un altro, che lo ritirò in casa propria, lo curò, lo amò, lo nutrì, gli fece partorire alcuni figli, e seco volle tenerlo finché visse, cioè per alcuni secoli, poiché vive ancor oggi.

Il secondo a portare la peste, fu, com'è ovvio, Mario Bruneri; il terzo Pier Paolo Locati, il quarto, colui che a torto si ritenne il primo: Pietro Antonio Lovato. Dopo costoro i contagiati non si contan più; ma il tragico bilancio di quell'anno (1629) pur si chiude con un forte avanzo delle nascite su quelle degli anni precedenti; ossia 1121 in più dell'anno precedente, e morti, 840 di meno.

Di peste insomma se ne vedeva così poca, e tutti erano siffattamente adirati dei continui sforzi d'alcuni medici autorevoli per lanciare un flagello in cui nessuno credeva, che il malumore «della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe» scoppia contro il corpo sanitario, a capo del quale troviamo sempre quelle due nostre conoscenze il medico Tadino e il protofisico Ludovico Settala, al quale ultimo ora s'aggiunge il figlio suo, per nome Senatore. Ormai costoro non potevano attraversar le piazze senz'essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. Il popolino li dichiarava nemici della patria: «pro patriae hostibus» dice il Ripamonti. Ma nostro nipote, che frattanto è stato promosso al terzo corso ginnasiale, accusa il Ripamonti di aver commesso, con questa dizione, un errore di latino, mentr'egli sostiene (e noi diamo a lui man forte in questa credenza) che il popolino li chiamasse «menagrami».

Ne sa qualcosa il protofisico Ludovico Settala, poiché un giorno, mentre andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarvici intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo; i portantini, vedendo la mala parata, misero giù la bussola, con dentro il protofisico, e se la diedero a gambe, gridando: «Molla! molla!». Per fortuna presso v'era un taxi; il protofisico vi saltò dentro, e questi partì in terza, fendendo la calca. Questo protofisico, per dire la verità, ne aveva già fatte più che Bertoldo. Ancor prima che gli venisse la fissazione della peste, aveva egli avuta quella delle serve che avvelenavano il loro padrone, riuscendo, co' suoi consulti, con le sue perizie, co' suoi referti medico-legali, a mandare in galera, o anche sul rogo, un buon numero fra le serve più galanti e più amorose di Milano. Fra queste una, rimasta celebre, Berta Tosetti, venne torturata, tanagliata e bruciata come strega, perché il suo padrone pativa strani dolori di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei.

Ma sul finire del mese di marzo (1630), cominciarono, prima nel borgo di Porta Orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le morti di coloro che rimanevan vittime d'investimenti da parte delle automobili e dei camions; o, anche se non morivano, eran presi da gravi disturbi, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni che vengon per solito a chi cade sotto un veicolo. Questi incidenti, sul principio, venivan solo a quelli che rimanevan vittime d'un automobilastro; ma in séguito, per forza di contagio, venivano anche a coloro che non eran nemmeno usciti di casa. Siccome non è possibile pensare che le automobili investissero la gente a domicilio, è chiaro che se costoro infermavano di lividure, bubboni e d'altrii malanni, doveva trattarsi della peste. Gli stessi professori ch'eran stati contrari al parere del protofisico e del protomedico, incominciavano con grattarsi la testa. Non sapendo come cavarsela, essi ammisero che, se non peste, v'era almeno un poco d'influenza, e furon d'avviso che questa fosse stata generata dai topi, cresciuti in un numero stragrande dopo la guerra ad essi dichiarata. Il Lazzaretto rifiutava gente; i Decurioni non avevan soldi per farne costruire un altro, bensì cercavano di far denari per via d'imprestiti, d'imposte; e, di quel che raccoglievano, davano un po' alla Sanità, quasi nulla ai poveri, una parte ai propri amici e parenti: il resto tenevano per sé.

Con il diffondersi giornaliero dell'influenza, febbre spagnola o peste che dir si voglia, cresceva il malumore di tutti contro il protofisico Settala e contro il governatore Ambrogio Spinola. Questi, al minimo sentor di tumulto (i nostri lettori lo avranno già compreso) partiva per mettere l'assedio a Casale; ma l'altro, già vicino agli ottant'anni, con prole numerosa, e non avendo cittadi cui stringere in un cerchio di ferro e di fuoco, prese una risoluzione estrema, e, nella speranza che lo lasciassero infine tranquillo, prese anch'egli la peste. Similmente la comunicò a sua moglie, a due figliuoli ed a sette persone di servizio. Fiorentissime dovevan essere le condizioni di questo protomedico, il quale, in tempo di generali strettezze, poteva tenersi ben sette persone di servizio.

Ma l'esempio civico ch'egli diede, adattandosi a prendere la peste, lui con tutta la sua famiglia, merita di esser ricordato. Beninteso il grande medico ed uno dei figliuoli ne usciron salvi; gli altri moriron tutti, non di peste, ma, con l'andar tempo, di morte naturale. Questo è nondimeno chiaro esempio che, se un uomo di circa ottant'anni può prendere la peste e guarirne così radicalmente da essere in istato, se il volesse, di passare a seconde nozze, la peste non è poi quel flagello che si reputa, e non dovrebbe aver dato luogo a tanti malanni quanti ne fece.

Ad aggravare le cose venne un telegramma del re Filippo IV al suo Governatore, per avvertirlo ch'eran scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai costoro fossero capitati a Milano. Questo telegramma, con pace all'anima sua, trovò il Governatore all'assedio di Casale. Telefonò al suo Gran Cancelliere, e fece affiggere il telegramma sotto la Galleria. La folla, eccitatissima, si avviò incolonnata verso il Consolato francese, poiché ormai tutti sanno, e non per primi, come di tutti i mali che accadono di qua dalle Alpi, la causa precipua è sempre la Francia. Sarebbero certo andati a ridurre in cenere il Consolato del signor Poincaré, se, strada facendo, non si fossero accorti che stava per concludersi, all'Arena, l'arrivo del Giro d'Italia. Prima lo sport, poi gli untori; a far giustizia penserebbero un'altra volta.

Ma, nemmeno a farlo apposta, ecco che la sera del 17 maggio ad alcuni sfaccendati era parso di vedere persone, in Duomo, andar ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a' due sessi; ragion che diede luogo a un gran tumulto, nel quale volevasi addirittura metter fuoco al Duomo. Pare in verità si trattasse d'un falegname e d'un verniciatore, commessi dalla Reverenda Fabbrica a riparare i buchi e le sbrecciatile che nell'assito divisorio avevano prodotto i due sessi; ma quando la fantasia popolare parte a cavallo sur un pregiudizio, non v'è chi la fermi, con luce di fatti né con argomenti palesi. La folla entra nel Duomo, ne trae fuori panche, scanni, confessionali, tutto ciò che di legno vi si trova, e li brucia. Siccome allora, dinanzi al Duomo, non v'era quello spazio libero che pare appositamente destinato per chi voglia dar fuoco ad enormi cataste di legname, la vampa si comunica ad altre case circostanti, e ne nasce l'incendio della «Rinascente».

La mattina seguente un nuovo, e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti dei cittadini. In ogni parte della città si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi con delle spugne. Questi segni cabalistici, dov'erano intelligibili e decifrabili, pareva dicessero: «Astronomi stupidi! La terra non gira! Paneroni

Figurarsi quel che accadde! Que' cotali segni e quelle sibilline iscrizioni eran forse da una ventina d'anni, ma nessuno vi aveva mai badato. Le unzioni, come dice il sempre benemerito marchese colombi, si fanno o non si fanno. Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell'unzione, deride o più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d'aver veduto quell'impiastramento e lo descrive, «.... et nos quoque ivimus visere. Maculati erant sparsim inaequaliterque manantes, veluti si quis haustam spongia saniem adspersisset, impressivitque parieti: ed ianuae passim, ostiaque aedium eadem adspergine, contaminata cernebantur».

Abbiamo fatto chiamare il nostro nipote, perché aiutasseci nella traduzione; ma egli aveva piantato in asso gli studi classici per diventare capitano d'una squadra di foot-ball. Così noi pure mai sapremo di che natura fossero quelle macchioline che si scorgevano dappertutto sui muri; è nostra opinione che, dove non si trattasse di catrame il qual serve per i marciapiedi, si trattasse invece di quella pasta o colla, per l'appunto biancastra e giallastra, che serve per incollare ai muri i cartelli di pubblicità, gli avvisi dei cinematografi e le altre variopinte «réclames» che tappezzavano le città del '600.

Milano, già agitata, ne fu sottosopra; i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; essi, non credevano affatto alla possibilità, di contagio, il qual dovesse derivare dall'innocentissimo scherzo di alcuni belli spiriti; senonché temevano, che le lor case venissero segnate come infette dalla credulità popolare, e potesse scemarne il valore degli affitti. È da quel tempo che venne in vigore l'uso di mettere su alcuni edifizi l'avvertimento: Vietata l'affissione.

Una terza ipotesi, che noi riferiamo per semplice dovere di cronaca, è questa: si trattasse di gente che, durante la sera e la notte, contrariata dalla straordinaria mancanza di comodi luoghi vespasiani venuta a verificarsi nella città di Milano con l'abolizione di quelli che un tempo onoravano gli angoli di quasi tutte le strade, e conseguente apertura di rifugi sotterranei, che però erano scarsi, a distanza di alcuni chilometri l'un dall'altro, sicché, se pur riuscisse al paziente discoprirli, il più delle fiate gli avveniva di trovarli, dopo il calar del sole, ermeticamente chiusi; per il qual modo ben era possibile, nella dotta e opulenta città di Milano, soddisfare ai propri bisogni corporali se non entrando ad ascoltare il concerto in qualche birreria, - è dunque nostra opinione potesse trattarsi di gente che, per deplorazione d'un simile stato di cose, e per fare una grande manifestazione pubblica agli occhi del Gran Cancelliere e del successore di don Gonzalo, avesse prescelto i portoni, i muri, le saracinesche, gli zoccoli delle case patrizie e di commercio, a far l'uffizio dei luoghi ad hoc, che veramente scarseggiavano, affinché ognuno intendesse la sovrana urgenza e necessità nella quale venivano a trovarsi i milanesi di veder ripristinate le lor vetuste edicole, ed insieme fosse palese come, nella gran febbre di ricostruzione che tutta scoteva la città rinnovellantesi, fosser dimenticati que' soli edifizi, dei quali, da un sesso e dall'altro, da secolari come da monaci, più tempestiva era sentita l'urgenza.

 

 

 


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