Guido da Verona
I promessi sposi (parodia)
Lettura del testo

CAPITOLO XXXII

«»

CAPITOLO XXXII

 

Divenendo sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 maggio, deciso nel Consiglio dei Decurioni di ricorrer per aiuto al Governatore. I nostri lettori sanno dove costui trovavasi. Ricevette gli ambasciatori con grande cortesia, e, per far loro cosa grata, chiese al comando degli assediati di conceder loro una passeggiata, con relativo banchetto, entro le mura di Casale. Egli si astenne dal prendervi parte, affinché non si dicesse che Casale aveva capitolato, o ch'egli aveva capitolato: due cose del paro impossibili. Quanto alla peste, alla petizione di fondi all'altre faccende che sarebbero state nelle competenze sue di Governatore, don Ambrogio Spinola si scusò con belle parole, tanto da levarseli di tra i piedi, e li consigliò di rivolgersi al Gran Cancelliere Ferrer, persona intelligentissima e pronta sempre a trovar rimedi eccezionali.

Costoro tornarono, e la peste riprese il suo corso. Ciò vuol dire che di peste vera e propria non se n'aveva manco l'ombra; ma erano frequenti i casi d'insolazione, la febbre del fieno, la raucedine, la perdita dell'appetito, e, più dolorosa fra tutte, la stitichezza. Di tanti malanni, popolo e nobiltà eran concordi nel dar la colpa agli untori. Si cominciaron con veder di malocchio i così detti Instituts de Beauté, ove si ungevan le donne con tutti gli unguenti, pomate, cosmetici possibili ed immaginabili, poi le si dipingevano, le si smaltavano, le si intridevano d'acque diaboliche d'ogni sorta, e, secondo la moda del tempo, si radevano ad esse le ascelle e le sopracciglia. Giova notare che questo vizio di radersi le ascelle, invalso anche in taluni giovinetti che di maschile avevan soltanto il nome, vizio che produce una irritazione cutanea la qual spesso luogo a screpolature e foruncoli, fu la causa prima che il bacillo della pretesa peste venisse a localizzarsi sotto l'ascelle. Ma fate comprendere ciò, a gente superstiziosa, e che vedeva untori dappertutto! Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovare di sozzo e d'atroce. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava egli stesso per complice, per untore. Il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo.

In verità eravi senza dubbio qualcuno, anzi un gran numero di gaglioffi, che notte e giorno andavano spacciando qualcosa; questo qualcosa non era un unguento fatto con rospi, od altri insetti, od altri mammiferi immondi, ma era una polverina bianca, d'aspetto innocente come il bicarbonato di soda, e che però costava prezzi esorbitanti: la cocaina. Essa non fa venire la peste, ma impedisce momentaneamente di sentirne il peso a chi per caso l'avesse. Così, mentre da un lato si accusavano e lapidavano i pretesi untori, dall'altro facevano affari d'oro gli spacciatori di cocaina.

Il buon Federigo non si era fermato gran tempo nel grado di monsignore, sollecitatogli, come i nostri lettori ricorderanno, dalla buon'anima di don Gonzalo. Per la nona volta, contr'ogni sua volontà, era stato nominato Cardinale. Già i Decurioni, il Senato, i commissari della Nobiltà e della plebe, erano andati molte fiate a seccarlo, perché, a scongiurare peste e malefizi, consentisse a far passeggiare per la città in solenne processione i resti di San Carlo Borromeo. Il buon Federigo resistette per un pezzo, ma infine dovette cedere. Tre giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il giorno stabilito, la processione uscì, all'alba, dal Duomo. Federigo sperava che, data l'ora antelucana, i milanesi dormissero ancora, ed egli potesse cavarsela con un giretto per Santa Radegonda, via Bossi, via degli Armorari, e conseguente ritorno in Duomo, risparmiando al povero San Carlo un sopraluogo interminabile nei nuovi quartieri affinché, oltre la fatica, non avesse l'impressione di trovarsi a Berlino, a Lipsia o a Monaco di Baviera. Ma, per il gran caldo che faceva, metà dei milanesi eran già balzati fuori dalle coltri; gli altri, con la speranza di poter prendere il fresco in piazza del Duomo, non s'erano coricati ancora. Federigo dovette rassegnarsi a fare a piedi tutto il giro della città, dietro il sarcofago dov'eran le ossa ed il teschio del grande San Carlo, un po' somigliante all'ultimo degli Aztechi. Ma più avanzava di carrobio in carrobio il buon Federigo, e più maturava nel suo animo la decisione di farsi retrocedere ancora una volta a semplice prete. Passato mezzogiorno, San Carlo, e con lui Federigo, furon rientrati finalmente in Duomo.

Ed ecco che il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presuntuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Il povero San Carlo non c'entrava per nulla; eran conseguenze del caldo e del radunarsi di tanta gente. Ma, in fin dei conti, per indagini da noi esperite, e facendo le dovutissime tare alle consuete esagerazioni del Manoscritto, l'eccesso delle morti di quel giorno 12 di giugno, rispetto all'indice di mortalità della settimana precedente, non fu che di sette persone. E i sette morti in più erano stati vittime d'un disastro edilizio. Nel quartiere di Porta Comasina stavasi ultimando un edilizio di cemento armato, già venduto per appartamenti prima d'essere costruito, e perciò compiuto in 22 giorni; ma non appena vi fu entrata a dimora la portinaia, prima inquilina, lo stabile giudicò il suo peso eccessivo, e risolse di abbattersi fino alle fondamenta.

Ad ogni modo fu creduto opportuno ricorrere all'istituzione degli apparitori e dei monatti, su le origini e le funzioni de' quali si è molto disputato, benché risulti abbastanza chiaro che si chiamavano apparitori gli agenti municipali incaricati di distribuire la polverina topicida, e monatti gli accalappiacani.

Dove la peste fece grandissima strage fu tra gli ecclesiastici; dei quasi ottantamila fra tonsurati e monaci che allor contava Milano, ben otto passarono a peggior vita in breve spazio di tempo: ma tutti quanti erano in età superiore agli anni settanta.

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License