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Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno dei tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo. Quel giorno don Rodrigo era stato de' più allegri; e, tra l'altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla Spagnola, due giorni prima: cioè scappato da Milano in automobile con una spagnola che danzava negli spettacoli Za bum.
Camminando, però si sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un'arsura interna, tantoché disse al Griso: «Questa sera prenderò un purgante».
Non aprì bocca per tutto il resto della strada. Quando furono a casa, il fedel Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, lustri lustri; e gli stava alla lontana, pensando: «Qui gatta ci Cova». Siccome il luogo degli stravizi di don Rodrigo era stato, quella notte, il Cova, tale riflessione del fedel Griso poteva dirsi quanto mai appropriata.
- Sto bene, ve'! - disse don Rodrigo, ciondolando un poco su le gambe. - Sto benone.
- Anch'io; non c'è malaccio, - rispose il Griso per dargli coraggio. - Ha forse bevuto un po' troppo; ci faccia sopra una buona dormitina.
- Metti qui vicino una campana a martello. - disse don Rodrigo al fedel servitore che stava per andarsene, - caso mai dovessi chiamarti durante la notte.
Il Griso, nel sonno, era un po' duro d'orecchio. Portò la campana a martello, e se ne andò, mentre il padrone si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Com'è facilissimo fare con le montagne, don Rodrigo le buttò via. Caso abbastanza normale in agosto, quella notte faceva un caldo asfissiante. Don Rodrigo si mise a scuotere la campana a martello purché venisse il Griso ad aprire le finestre. Il Griso, già in mutande, accorse premurosamente, e fece quello che gli si comandava. Poi se ne tornò a letto, accese un mezzo toscano, e si mise a leggere «Lo sa il tonno», di Riccardo Bacchelli, suo autore preferito. Non aveva ancora letta mezza pagina, che - toc-toc- toc - suona di nuovo la campana a martello. «Che ti pigli un canchero!» borbotta il Griso fra i denti. Si alza, infila le pantofole, mette un pigiama di seta e va a vedere cos'è capitato di nuovo a quel mamalucco d'un suo padrone. Don Rodrigo russava a pugni chiusi, fra le coltri scompigliate, con le gambe fuori dal letto. Nel volgersi e rivolgersi che faceva in quel sonno smanioso, tormentato da brutti ed arruffati sogni, aveva messo un gomito sul bottone della campana a martello, che suonava a distesa.
Il sogno di don Rodrigo era questo: (le indagini per venirne a conoscenza risultaron molto costose, ma, non badando a spese, noi le abbiamo condotte a buon fine).
Gli pareva di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovàrvicisi, che non sapeva come fossevici recato, perché in chiesa, dopo la cresima e la prima comunione, egli non éravici mai più tornato. Guardava i circostanti: eran tutti visi gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate, come se questa chiesa si trovasse in Cina, e dentro la chiesa fosse una fumeria d'oppio. Egli, gridava: «Largo canaglia!», tentando insieme di sfoderare la spada. Ma poiché la spada, stando in letto, non l'aveva, e il «Largo canaglia!» lo gridava in milanese, lingua che non è conosciuta nel Celeste Impero, quei lazzaroni, anziché scostarsi, gli si serràvanvicisi addosso, sempre più. Anzi uno, o forse una (chi poteva ben distinguere i sessi, fra quei Cinesi che avevan tutti il codino) ebbe l'imprudenza di mettergli una mano, oppure un gomito, sotto il cuore, sotto l'ombilico, nella piegatura dell'inguine, dove, ad un incirca, egli sentivavicisi una puntura dolorosa, e come pesante. E se si torceva per veder di liberarsene, sùbito un nuovo non so che veniva a puntàrglivicisi nel luogo medesimo. Quelle cinesine hanno certi mezzi per stuzzicare gli uomini, che in Europa son dei tutto sconosciuti. Infuriato, volle metter mano alla spada: ma poiché spade, come già dicemmo, stando in letto non ne aveva, giunse nondimeno ad afferrare qualche altro arnese. Le nostre più accurate indagini non son riuscite ad appurare quale arnese fosse. In quel momento gli parve che tutti quei Cinesi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non che di convesso, liscio e luccicante, che sembrava il cranio d'un cappuccino, ma era probabilmente il globo della lampada di Murano appesa nel mezzo della stanza. A tal vista don Rodrigo scoppiò in un grand'urlo, e si destò.
Impiegato un certo quel tempo, per rassicurarsi che egli era ben nella sua camera, e ben nel suo letto, si raccapezzò che tutto era stato un sogno, tutto era sparito; tutto, fuorché una cosa: quel dolore al di sotto dell'ombelico. Esitò qualche momento prima di guardar la parte dove aveva il dolore: finalmente la scoprì, ci diédevici un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
Disperato, pose mano alla campana a martello. Sùbito comparve il Griso, in una elegante veste da camera, portando sottobraccio un grosso volume del filosofo Bergson, altro suo romanziere preferito.
- Griso! - disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente sul sedere: - tu sei sempre stato il mio fido.
- Sì, signore.
- T'ho sempre fatto del bene; t'ho regalata io quella veste da camera....
- Per sua bontà.
- Di te mi posso fidare?
- Diavolo!
- Me n'ero accorto.
- Sai dove sta di casa il prof. Pasini?
- Lo so benissimo; è il dottore di casa.
- Va dunque a svegliarlo, va a chiamarlo; che venga qui sùbito.
Il Griso dovette sbagliare indirizzo; oppure non gli fu aperto, a quell'ora, in casa del prof. Pasini - Fatto sta che indi a poco don Rodrigo si vide capitare in camera un medico a lui sconosciuto, e gli si presentossi per il chirurgo-dermosifilopatico Chiodo, con due assistenti, e una lettiga rimasta in portineria, su la quale, vista l'urgenza, trasportarono don Rodrigo alla Guardia Medica.
Ma or dobbiamo andare in cerca d'un altro, che essendo il personaggio principale di questo romanzo, ha per l'appunto la delicata precauzione di starsene più che può fuor dai piedi: Renzo voglio dire, che aveva ormai deciso di vivere sotto il nome di Antonio Rivolta, sicché alfine, còlta l'occasione propizia, erasene tornato a Milano, dove dai creditori di un siriano scappato per debiti aveva rilevato un piccolo ufficio d'agente di cambio, in società con padre Bonaventura.
L'uso corrente, nel 600, voleva che i banchieri e gli agenti di cambio si stabilissero sotto falso nome, poiché, sotto il nome vero, non potevan che fallire o scappare una sol volta.
La sua ultima latitanza non era durata che cinque o sei mesi, dopo i quali, dichiarata l'inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, tanto il cardinale di Richelieu quanto Primo de Rivera facevano a gara nel mandargli salvacondotti, e fargli proposte vantaggiose perché venisse ad aprire una banca nei loro stati.
E non soltanto come abile finanziere questi alti ministri apprezzavano al giusto segno il nostro buon Renzo; vi fu un momento in cui l'uno e l'altro, persuasi ch'egli disponesse di eccellenti qualità militari, divisarono di mandarlo all'assedio di Casale. Ma Renzo pensava che durante gli assedi qualche schioppettata può sempre capitare anche nella palazzina del Comando; e dunque, tergiversando con pretesti garbati, egli faceva sì che la piazzaforte non fosse ancora agli estremi, bensì gli assediati e gli assediatori stessero tutti quanti benissimo.
Però non sgomentatevi; com'è nostro dovere allorché si tratta del protagonista, noi ci guarderemo bene dal fornire troppi ragguagli sul suo tenor di vita e su gli affari del suo banco di cambio; ci limiteremo a dire che Renzo prese anche lui la peste; si curò da sé, con un rimedio molto efficace che si vendeva in tutte le farmacie, e, dopo circa tre mesi o giù di lì, si trovò pronto a poterla prendere di nuovo.
Quando fu in condizioni presentabili, gli tornò più che mai il pensiero di Lucia. Dov'era costei? Trovavasi anch'ella per caso a Milano, senza che nulla sapessero l'un dell'altra? O forse continuava ell'ancora la sua vita poco edificante, le sue funzioni poco definibili, in villa di donna Prassede? Mistero; mistero. Erasi ella per caso involata verso estranei lidi, forse nella terra di Francia, con un nuovo amante? Godeva ella d'un lauto assegno mensile, che le passasse, nonostante la sua conversione ed i suoi 160 anni, quella birba d'un Innominato? Mistero; mistero. E cos'era poi quella oscura faccenda del voti, cui si accennava confusamente nelle epistole della suocera promessa, donna Agnese, scritte per mano del suo turcimanno? E doveva egli presentarsi a lei, quando putacaso l'avesse ritrovata, sotto i mentiti panni di Antonio Rivolta, a lei ch'era un angiolo di purezza, e nulla sapeva delle umilianti transazioni cui spesso costringe la vita politica e la professione d'agente di cambio? Avrebb'ella approvato infine, con l'animo suo di verginella ignara e tremebonda, questo mestiere dell'aver sempre le mani affondate nel denaro altrui, il quale, se può dare improvvise ricchezze, può anche talvolta costringere a fuggire improvvisamente in Grecia? Si sentiva ella disposta, per amore di lui, a chiedere ospitalità nell'Ellade al signor Venizelos? Mistero; mistero.
Ma il gran bruciore di rivederla, ed il cocente desiderio di passare alcuni quarti d'ora con lei, or che si sentiva meglio in gambe e quasi del tutto risanato, fu quello che un bel dì lo persuase a mettersi in cammino (di ferro) verso quel di Lecco, per far ritorno al paesello natio, riveder Agnese, e da lei sapere con precisione dove realmente fossesi rifugiata Lucia. Essendovi stata in quel mese, forse per causa della peste, una chiusura di Borsa delle più movimentate, con denaro scarso e riporti assai difficili per l'insolvenza di alcuni grossi operatori, e trovandosi Renzo, cioè, pardon, Antonio Rivolta, ad aver le sue casse prive di contanti ed i registri niente affatto in ordine, pensò che quello fosse il momento più propizio per far perdere le sue tracce; sicché, mosso dall'amore che dà le ali ai piedi, il nostro buon giovinotto risolse di volgere le spalle al ducato di Milano, prendendo insieme l'occasione per gettare un colpo d'occhio, dopo sì lunga assenza, su le sue piccole proprietà lasciate in quel di Lecco.
Man mano che il treno appropinquavalo a quel montuoso territorio che, dal nome de' suoi abitanti, i Leccobardi, giustamente vien detto Leccobardìa o Leccoburghese, una canzone involontaria fluivagli dal cuore, che, a un dipresso, così diceva nel suo ritmo indisciplinato e maliardo
«Buon giorno, monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo; molto più elevati delle Fiat, che hanno chiuso a 486, e delle Comit, offerte a 1322!... Buon giorno torrenti de' quali nessuno, ahimè! pensa alla copertura, ville sparse e biancheggianti sul pendio dell'ipoteca inevitabile; buon giorno vecchio albero di fico, del quale, se anche più non fòssevici, a me non importerebbe un fico!...»
Verso sera, così canticchiando, giunse in vista del suo paesello. Poiché, dopo lunga assenza; non se ne rammentava con esattezza la topografia, al primo passante che incontrò, Antonio Rivolta, con il cappello in mano, chiese con urbanità:
- Scusi: vorrebbe dirmi che tram devo prendere per arrivare alla casa della vedova Agnese Mondella?
- Crepa! - gli rispose quello screanzato, che non era punto avvezzo al parlar affettato ed al vestir ricercato dei signori milanesardi. Antonio Rivolta tirò innanzi, nella speranza d'incontrare qualche altro villico d'umore più abbordabile. Come se il cielo avesse fatto divisamento d'aiutarlo, mentr'egli stava per sperdersi in quel grande intrico di corsi, di piazze, di carrobi, di viali e di contrade intricatissime che formavano la rete urbana del suo paesello, a un certo punto vide venirviglicisi incontro un buon diavolone di prete, che, gli pareva e non gli pareva, ma doveva essere precisamente don Abbondio.
- «È lui senz'altro!» - pensò infine, benché gli sembrasse alquanto afflosciato, smagrato e deperito.
- Olà! Siete qui, voi? - esclamò don Abbondio, al veder quella faccia punto rassicurante.
- Per servirla.
- Mi sembrate un po' giù di cera, giovinotto!
- Ho avuta la peste, come ogni persona per bene. E lei, signor curato, è riuscito a cavarsela? Dall'aspetto non si direbbe.
- Sst!
- Come sarebbe a dire?
- Ah no? E come vi chiamate?
- Antonio Rivolta, per servirla.
- Ebbene, illustrissimo signor Antonio Rivolta, dopo la morte di Perpetua, pare impossibile, ma l'ho presa anch'io.
- Perpetua è morta? Vè! Non ho letto l'avviso sul Corriere. Mi spiace; avrei mandato un mazzo di fiori.
- Ahimè! sì, è morta. Per meglio dire, si è suicidata. Ah, una tragedia, signor Antonio Rivolta! Deve sapere che adesso in paese abbiamo un cinematografo. Perpetua, frequentatrice assidua del luogo di perdizione, s'innamorò follemente di Rodolfo Valentino. E quando seppe che i medici avevano assassinato il divino interprete, Perpetua, una notte, come una sonnambula, salì fino in cima al Resegone, e si buttò a capofitto.
- È un caso dei più normali tra le «vedove di Rodolfo Valentino». Pazienza! E gli altri, come stanno? Si sa niente di Lucia?
- Che volete ch'io ne sappia? È andata a stabilirsi a Milano.
- A Milano? Impossibile!
- Così raccontano... Io poi non ne so niente. - E Agnese?
- Si trova in villeggiatura nella Valsassina, a Pasturo. Ma viaggia molto, in incognito.
- E il padre Cristoforo?
- Pare che abbia messo anche lui un banco di cambio a Rimini.
- «Gli devo qualche migliaio di berlinghe, - pensò Renzo. - Non le vedrà mai più». E disse forte:
- Ma quel cotale signor don....
- Mai sentito nominare! - interruppe don Abbondio, con una faccia tosta da venditore di tappeti.
- E mi dica, don Abbondio: la peste ha fatto strage in paese?
- Strage? Ma dite piuttosto un macello, mio caro signor Rivolta! Da quando s'è aperto quel maledetto cinematografo, che io considero la vera peste del paese, le ragazze non vogliono più saperne di andare alla filanda; si pettinano alla Greta Garbo, sognano di maritarsi con un principe di mezzo sangue, come Pola Negri...
- Ma lei chi preferisce, signor curato, fra queste grandi stelle dell'arte muta?
- Ebbene, signor Antonio Rivolta, a dire la verità, io trovo che l'artista si conosce dalla maniera di dare un bacio. Le altre saranno magari più fotogeniche, ma, per mio conto, non c'è nessuna che sappia dare un bacio come Dolores Del Rio.
- Ah, che birbante d'un signor curato! E, mi dica un po': questa sera che spettacolo abbiamo?
- Ahimè! un film italiano... Cose poco edificanti!
E continuando a borbottar tra i denti quest'ultime parole, riprese per la sua strada.
Renzo, rimasto solo, entrò da un cartolaio per comperare una pianta topografica della metropoli. Voleva orizzontarsi e riconoscere dove, press'a poco, si trovasse la sua vigna. Fatti alcuni rilievi trigonometrici, riuscì a localizzarla, ed in capo ad alcune ore di ricerche vi giunse davanti. Sopra il muro di cinta, un cartellone diceva:
TERRENO DA VENDERE L. 2000 al mq.
Rivolgersi a Lecco, presso il dottor Azzeccagarbugli.
Antonio Rivolta scosse il capo, e sdegnosamente pensò: - «Roba da chiodi! Ma che paesi son mai questi dove ancora il terreno non costa che 2000 lire al metro quadrato?». S'affacciò all'apertura, diede un'occhiata in giro: povera vigna! Qua e là una marmaglia d'ortiche, rimessiticci o getti di gelsi, un guazzabuglio di farinelli, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle, d'araucarie, d'orchidee rarissime, e d'altrettali piante. Mentre guardava, qualcuno venne alla finestra, e con una blasfema leccobarda gli fe' cenno di non mettere il piede nella roba altrui.
- Eh, lassù, brutto muso! - urlò inviperito il signor Antonio Rivolta; - con chi ce l'hai? che cosa ti, prende? con chi ti credi di parlare, fetentissima ghigna di sego fritto?
- Ghigna di sego fritto a me? - gridò il fenestrante; - a me ghigna di sego fritto? Adesso vengo giù e t'accomodo io.
- Un momento!... ehi! dico!... Io sono il padrone di casa; vengo per riscuotere l'affitto.
- Questa parole sortirono il magico effetto di far ammutolire l'inquilino, che per poco non cadde dalla finestra. Poi disse, con un fil di voce
- Io ti credevo Paolin dei Morti...
- Macché Paolino d'Egitto? Io sono Antonio Rivolta, proprietario dell'immobile, e vengo per riscuotere l'affitto.
L'inquilino pensò al suicidio; preparò un nodo scorsoio, e stava per appenderlo all'architrave della finestra, quando, gettato un ultimo sguardo sul padron di casa, gli parve di riconoscere un vecchio amico. Allora saltò giù dalla finestra e gli si buttò nelle braccia, tutt'e due prorompendo in lacrime. Quegli che stava da' basso era Antonio. Rivolta; l'altro, che saltò giù dalla finestra, non s'è mai saputo chi fosse.
Tutt'e due ad una voce, parlando simultaneamente, nelle braccia l'un dell'altro, si fecero il racconto della lor vita, risalendo ai giorni dell'infanzia. Frattanto la luna saliva, con gobba a levante, sovra i monti sorgenti dall'acque, sovra le bianche cime ineguali ed elevate al cielo, in quel ciel di Leccobardìa così bello quando è bello, così splendido, così in pace.
A un certo punto Antonio Rivolta guardò l'orologio, disse all'incognito che avevalo chiamato Paolin dei Morti: - «Va a morire ammazzato!...» - e scese a precipizio, con quanto fiato aveva nelle gambe, per non perdere l'ultimo treno che da Lecco partiva per Milano.