Guido da Verona
Sciogli la treccia, Maria Maddalena
Lettura del testo

59

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«Se mio padre non si fosse occupato di politica, sarebbe stato, per lui e per me, una gran bella cosa. Quella sua manìa di tenere discorsi alla Camera dei Lordi assottigliò la sua ricchezza e gli fece perdere il miglior tempo della sua vita.

Mia madre morì otto giorni dopo l'anniversario del mio settimo compleanno; mi ricordo che poco tempo innanzi, tornando da una recita al teatro di Corte, mi aveva regalata una bambola vestita con i ritagli d'un suo abito di broccato. E questa bambola, che si chiamava Jade, portò la sventura nella nostra casa; perchè, dopo la sua entrata, molte gravi cose vi accaddero.

Non ho mai veduta una donna bella come fu mia madre. dove nacqui ne parlano ancora; le avevano dato il soprannome di Contessa Fata. Anche mio padre era un uomo bellissimo; però molto più vecchio di lei. Era stato ufficiale nelle Colonie; poi si era messo a far l'agricoltore, infine si era dato alla politica.

Avevamo un grande castello, nell'alta Scozia, presso un vecchio borgo, dove tutti, come noi, eran cattolici.

Dopo la morte di mia madre fui messa in un educandato francese nei dintorni di Parigi, e vi rimasi fin verso i quindici anni. Era una specie di clausura, fredda e severa, dalla quale ogni giorno più sentivo il bisogno di evadere. Quando feci ritorno al Castello, mio padre, assorto nella politica, non poteva occuparsi della mia educazione. Lord W., mio padre, apparteneva ad una famiglia di antichi immigrati; portava il nome d'una vecchia gente normanna che passò il Canale non saprei dire in qual secolo. Certo il nome che voi conoscete non è il mio. Per questa sua fedeltà verso la terra de' nostri antichi egli desiderava che mi fosse data una educazione in parte francese; a tal uopo fece venire da Bourges una istitutrice che gli avevano raccomandata.

Questa fu Mademoiselle Odette. M'insegnava, oltre la letteratura francese, anche il pianoforte, il ricamo, la cucina e la buona educazione. Per mancanza d'altri maestri, il diácono Ralph, ch'era da poco venuto nel borgo, m'insegnava la storia sacra e profana, l'aritmetica, la botanica, il disegno, la letteratura, l'economia politica... non so bene quante cose m'insegnasse, con la sua voce dolorosa come la tentazione, il diácono Ralph! Così, verso i diciassette anni, ebbi tutta l'erudizione che occorre ad una signorina patrizia per trovar marito.

Il diácono Ralph non pareva niente affatto un prete; c'era nella sua fisionomia qualcosa di malvagio e di splendente. Nessuno lo amava; nessuno conosceva bene in qual modo fosse capitato lassù. Forse vi scontava una punizione inflittagli dal clero, una specie di esilio che poteva durare per anni. Era un uomo bello e temibile, ancor giovine, con uno sguardo pieno di fredda inquietudine, la bocca luminosa ed impura. Forse non aveva più di trentacinque anni; ma le rughe incise nella immobilità della sua faccia pallida gli davano quel segno di forza che si vede nella maschera dei criminali e degli asceti. Quand'egli, con una voce equilibrata, un po' lenta, muovendo le palpebre de' suoi occhi freddi come l'argento, mi spiegava perchè fu mandato al supplizio frate Savonarola, io, senz'ascoltarlo, guardavo le sue piccole mani.

Avevo allora diciassette anni.

Mlle Odette era nata a Bourges, nel Barry, ed i suoi discorsi cominciavano spesso con questa frase: «Chez nous, dans la maison de mon père...» E parlava di questa «maison de son père» come se veramente si trattasse della culla d'una dinastia. Quando venne al Castello aveva quasi ventotto anni; era una creatura deliziosamente fina, piena di seduzione, di freschezza e di leggiadria. Non già che fosse molto seria, tutt'altro!... Ma i suoi dentini bianchi e le sue lunghe trecce bionde, il suo camminare a piccoli passi, e non so qual grazia leggera contenuta in ognuno de' suoi movimenti, attraevano la simpatia di chiunque la guardasse, anzi portavan un soffio di vita giovine in quel nostro vecchio Castello, dalle stanze per noi troppo solenni ed in parte anche disabitate. M.lle Odette suonava il pianoforte con vera maestrìa; cantava molto bene le sue vecchie canzoni di Francia; nei prati del parco giocava con me al volano come se avesse ancora la spensieratezza d'una fanciulla di vent'anni.

Una sera, verso l'ora del pranzo, mio padre fece chiamare M.lle Odette nella grande biblioteca ov'egli teneva i registri della sua infelice amministrazione, e la fece chiamare in forma dirò così ufficiale, mandando il vecchio domestico James a dirle che Lord W. aspettava M.lle Odette nella sua biblioteca.

Odette mi prese per mano, e scendemmo. Faceva quasi buio. Le tende si gonfiavano. I due finestroni aperti verso il parco lasciavano entrare a folate il vento serale, in cui pareva gocciolassero le resine dei pini. Lord W., mio padre, stava seduto alla sua scrivania, con i due gomiti su la cartella, e súbito m'accorsi che la mia presenza inattesa gli dava una certa preoccupazione.

- Asseyez-vous, Mademoiselle Odette, - disse mio padre. Poi soggiunse: - Madlen pouvait très bien ne pas descendre avec vous.

Poichè la sua osservazione rimase priva di risposta, Lord W., mio padre, mise in ordine alcuni scartafacci ch'erano su la scrivania, poi cominciò, con una voce monotona, questo grave discorso:

- Ma situation financière n'étant31 plus aussi brillante qu'elle était autrefois, j'ai le devoir de réduire32 nos dépenses, afin de ne pas entamer la fortune de ma fille... - Poi si confuse, arruffò le parole in modo che non si comprendeva bene cosa volesse dire, e la conclusione fu questa: che M.lle Odette dovesse cercarsi un altro servizio, poichè, per mille ragioni non del tutto comprensibili, era opportuno che M.lle Odette se ne andasse via da casa nostra.

Mi ricordo che M.lle Odette non rispose parola; solo si coverse la faccia con un braccio, e pianse, io, su per le scale, vedendo piangere Odette, cominciai a piangere anch'io.

Non so bene cos'accadde: certo è che M.lle Odette non andò via. Non fece neanche i bauli; rimase triste qualche giorno, poi ricominciò a ridere. Dopo quel giorno Lord W., mio padre, non parlò più di allontanarla da casa nostra, ed anzi, quando vedeva M.lle Odette, la sua lunga faccia scura si rasserenava come per incanto.

Il vecchio James, grigio, un po' curvo, ringhioso, testardo e fedele come un cane da guardia, sempre agghindato nella sua decrepita livrea filettata di giallo, non poteva soffrire «quella francesina», come la chiamava lui, ch'era venuta a comandare in casa d'altri ed anzi era stata ammessa, contro ogni regola della tradizione, alla nostra così deserta mensa familiare. La sua antipatia per «la francesina» era tanto acerba e così poco giustificata, che un bel giorno pensai di domandarne a lui stesso la ragione. Ora, quel giorno, io dovevo costruire una certa gabbietta per un grillo che mi avevano regalato; e, benchè mi fossi tagliuzzate le dita nell'acuminare legnetti e piuoli, era tempo sprecato, la mia gabbia mal connessa certo avrebbe lasciato scappare il grillo. Così mi rivolsi all'esperienza del vecchio James, che in quel pomeriggio un po' caldo si era seduto sotto il portico interno a prendere il fresco.

- Ora vengo, miss Madlen, - rispose il vecchio James; - lasciátemi solo togliere la marsina, perchè non si sciupi. Andremo nel parco e vi costruirò la gabbia per il grillo. Ma il grillo dove l'avete?

- L'ho chiuso in un cassettone.

- E gli avete dato qualcosa da mangiare?

- Sì, gli ho dato da mangiare.

- Cosa gli avete dato?

- Sotto un vaso ho preso un verme; poi tre mosche.

- Ah, che sciocca! non sapete nemmeno cosa preferiscono i grilli!

Poi, quando fummo nel bosco, egli scelse con molta cura i ramoscelli che gli occorrevano e cominciò piano piano a costruire la casa per il grillo. Faceva le legature con piccoli vincigli di solide stoppie; mentre lavorava, mi domandò:

- E «la signorina francesina» dov'è, che non la si vede?

- Ora è su in camera, e sta rinfrescando i miei pizzi.

Il vecchio James sogghignò, e mi fece vedere tutti i suoi grossi denti gialli. - Ah! ah! se la passa bene in casa nostra, quella civetta che Dio la maledica!

Io gli domandai: - James, perchè siete sempre così sgarbato con la povera Odette?

- La povera Odette!... Ah! grazie! Per fortuna che voi siete innocente! Ma quando lo sarete un po' meno, anche voi domanderete alla «francesina» cosa fa la notte invece di dormire... - Poi si dette un gran colpo su la bocca, onde punirsi dell'aver parlato, e finì la costruzione della casa per il grillo.

Ma quelle sue parole mi fecero d'un tratto indovinare molte cose. Io dunque mi proposi di scoprir da me sola cosa faceva «la francesina» invece di dormire, e, venuta la notte, in punta di piedi uscii dalla mia camera, mi recai dietro l'uscio della camera di Odette. Accostai l'occhio alla serratura; tutto era spento, non udii che il suo respiro addormentato.

Vi andai la notte seguente. Fra le connessure dell'uscio, per la toppa della serratura, filtrava una luce che nell'oscurità pareva intensa. Udivo parlare sottovoce. Io, non so perchè, mi sentii così male, così male, che per un momento ebbi l'impressione di sentirmi piegare le ginocchia. Stavo su le mattonelle co' piedi scalzi; avevo molto freddo, i miei capelli sciolti mi cadevano su la faccia, su gli occhi. Poichè il cuore mi batteva troppo forte, con ambedue le mani mi compressi il petto, e forse allora per la prima volta, con una specie di paurosa gioia mi accorsi de' miei seni nascenti.

Mi piegai, misi l'occhio alla serratura; ma per la disposizione dei mobili nella stanza non potevo riuscire a vedere che una finestra chiusa, il lavabo, una poltrona e solamente un pezzo del grande copripiedi rosso. Vedevo però assai bene, sotto le coltri, la forma del corpo di Odette, dalle ginocchia in giù, muoversi...

Non saprei dire perchè, rimasi avvinta, ferma, piena di un'angoscia mai provata. Mi drizzai, volli fuggire; non potevo. Ancora dovetti piegarmi e paurosamente guardare. Il copripiedi stava per scivolare dal letto; era sconvolto, arruffato; la forma del corpo di Odette non si muoveva più. Le sue ginocchia, i suoi piedi, sollevavano appena la coltre; qualcun altro, che doveva essere più in , si mosse, discese, camminò, se ne andò per un uscio interno. Avesse aperto quello dietro il quale io stavo, e non avrei nemmeno avuta la forza di muovermi, per fuggire.

Tornò il silenzio; il silenzio profondo, assoluto, nella stanza, nel corridoio, nella casa addormentata. Passò un tempo del quale non ho memoria, poi vidi Odette scendere dal letto, cercare le pantofole, venire verso il mezzo della camera, fermarsi davanti al lavabo, versare acqua nei catini.

Ora la vedevo splendidamente, nella cruda luce. Non aveva sopra di che i suoi lunghissimi capelli sciolti, i suoi capelli arruffati, stupendi, gonfi e lucidi, che le scendevano sino all'anca, impigliandosi e gonfiandosi ad ogni movimento su le perfette forme del suo corpo. Io, veramente, non avevo mai creduto che Odette fosse così bella, e poichè non avevo ancor mai veduta una donna del tutto nuda, guardavo lei, come se vedessi una cosa per me nuova nel mondo.

Si lavava con minuzia e con attenzione, respirando forte; la sua faccia mi sembrò piena di stanchezza, di sofferenza, d'irritazione. S'incipriò, si fece la treccia, mise una bella camicia di fino batista; prese uno specchio, lo sollevò davanti ad un altro per guardarsi la nuca. Nella camicia trasparente vedevo così delinearsi la profondità dell'ascella oscura e nascere, come un forte bócciolo gonfio di gioventù, il seno impetuoso, che produceva una bella ombra nella tela fina.

Volli andarmene; anzi pensai: - «Ora devo andarmene. È tardi; fa freddo; anche Odette fra poco spegnerà il lume...»

Invece non potevo. Ero , sempre , curva, incatenata. Ed allora, senza bene intendere quel che facevo, d'un tratto la mia mano si alzò fino alla serratura, cercai di girare la maniglia, feci rumore.

Odette venne all'uscio; vedendomi, s'impaurì. - «Che hai, Madlen? che fai?...» - Parlava sottovoce, turbata, con il suo respiro caldo. Io non risposi. Mi toccò la fronte, i capelli. Io non risposi. «Che fai, Madlen?...» Solamente i miei occhi piangevano, mentre non piangeva la mia gola, non la mia bocca, non io. «Perchè sei venuta, Madlen? Stai male?...» - «Sì...»

E con tutta la mia debole forza m'avvinsi a quel suo braccio nudo. La trascinai. Venne con me, nella mia camera. Il mio letto era sconvolto. Mi coricai. La feci sedere su la coltre. Tenevo le sue mani, le sue braccia, le sue spalle. Avevo terribilmente voglia, non so perchè, di baciare la sua bocca. Le misi un braccio intorno al collo, intorno alla nuca, la sua bella nuca scintillante... Così la piegai, la costrinsi ad affondare il capo nel mio guanciale...

Dormimmo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

In quella stanza era un trofeo d'armi; una immensa tavola nuda, macchiata d'inchiostro, logora dai tarli; due vecchi armadii, qualche sedia di velluto, un braciere pieno di cenere.

studiavo. Le finestre davano su la corte. Un vecchissimo cavallo di mio padre vi camminava tutta la mattinata. James lo teneva per la briglia. Si chiamava Ramir. Aveva, credo, vent'anni. Era stato il preferito hunter di mio padre, e gloriosamente aveva galoppato per tutta la contea. Negli ultimi anni lo attaccava qualche volta il fattore al suo barroccio, per farsi condurre ai mercati vicini; ma ora il barroccio stava nella rimessa con le stanghe all'aria, carico di ragnateli. Piuttosto che vendere Ramir, mio padre si sarebbe fatto amputare un braccio. Benchè non l'adoperasse mai, James doveva tutte le settimane lucidare la vecchia sella. Così, a furia di strofinarla, si era spelacchiata. E Ramir, ben satollo di fieno maggengo e di avena soffice, calpestava i ciottoli della corte, cacciandosi via le mosche. Io gli portavo zucchero e pane; Ramir, col suo muso bianco, mi sporcava di schiuma le camicette. Quando giungeva il diacono Ralph per impartirmi la sua lezione, sempre udivo il vecchio James dirgli:

- Salga pure, signor diacono; la piccina è su che lo aspetta.

Mi chiamava «la piccina», sebbene già di mezza fronte superassi la sua. Quando si è state piccole nelle braccia di un vecchio uomo, per quest'uomo non si diventa grandi mai.

James, nella corte, faceva interminabili discorsi al furbo Ramir. Questi, ogni tanto, gli metteva il muso contro la spalla. Stando sempre insieme, seguitando a girare così, tutte le mattine, ormai da lunghi anni, erano giunti a somigliarsi un poco, l'uomo ed il cavallo; avevano qualche volta gli stessi movimenti. Tac... tac-tac-tac... e ogni tanto un inciampo.

D'improvviso il diacono Ralph entrava. La sua faccia pallida e fredda non sorrideva mai. Si toglieva il mantello; mi guardava. Anzi mi guardava con attenzione, quasi volesse indovinare se avevo quella mattina l'anima pura. La sua statura un po' troppo alta s'irrigidiva qualche volta vicino alla mia; si fermava, come se in tutte le sue membra, in ogni suo movimento, fosse una specie di pericolo. Poi, d'un tratto, mi diceva quasi con ruvidità: - «Perchè vi siete lavata i capelli?» Oppure: - «Cos'è questo profumo che ora portate

Io, con un singolare disagio, non gli rispondevo nemmeno. Però diventavo rossa. Il diacono Ralph aveva due crudeli occhi, troppo virili, troppo accesi di fiamma interiore. Spesso ero costretta, senza una ragione palese, a chinare i miei. Quando mi guardava, io provavo con irritazione la gioia d'esser bella. Fu il primo uomo davanti al quale m'accorsi del peso che avevano i miei capelli splendenti, della forma che aveva il mio corpo giovine.

Quando non sapevo una cosa, egli s'irritava straordinariamente. Diceva: - «Non va! non va! - e si alzava, camminava per la stanza. Era troppo alto; non portava i capelli abbastanza corti, per un prete. Poi mi spiegava lentamente quello che non avevo compreso.

Ma queste sue lezioni diventavano di giorno in giorno più faticose; non per quello che m'insegnava, ma per la sua presenza, per quel che v'era d'innaturale, di assorto, quasi di temibile in lui.

Veniva la mattina, quand'ero da poco levata. I miei capelli brillavano; io lo sentivo; le mie mani profumate, se per caso toccavano la sua veste, vi lasciavano, come ali di farfalla, un po' di cipria.

Qualche volta mi pareva che i suoi occhi si avvincessero alle mie nude caviglie. Di primavera le tre finestre aperte mandavano su a vampate, nei raggi del sole, il profumo nuovo delle violette. Spesso un colpo di vento scompigliava d'improvviso tutte le pagine de' miei libri. Ed io ridevo. Egli no. Egli seguitava a parlare, impassibile, un po' curvato su me. Qualche volta il suo respiro mi toccava le mani. Ciò mi dava noia. Quasi di nascosto le ritraevo. Allora i suoi occhi diventavano scuri. A poco a poco la sua voce mi girava intorno, come si gira intorno ad una preda. Quest'uomo di trentacinque anni, questo mio educatore, questo prete, aveva una faccia consumata, non saprei dire se dal vizio, dall'astinenza o dal dolore; sembrava intelligente: forse non lo era; sembrava un malato, un incatenato, un soggiogatore di uomini costretto a servirli, un distruttore di obbedienze curvato a fatica sotto il giogo dell'umiltà. Non mi parlava quasi mai di religione.

Io non ero più innocente. Avevo già peccato, da me stessa, e pensando all'amore. Quando le mattine erano calde, o molto profumate, e i miei capelli, scuri, biondi, pesavano più del consueto, qualche volta la sua voce, così vicina al mio respiro, mi dava una specie di soffocazione; sentivo la sua presenza pesare su me, come una forza la quale tentasse di coricarmi, e v'eran momenti ne' quali mi toccava rovesciarmi all'indietro, chiudere gli occhi, un po' sopraffatta...

Egli se ne avvedeva. Diventava pallido. Cessava d'improvviso dal parlare. Io pure. Si taceva. Tra quel silenzio sentivo nascere in me stessa il buon odore della mia nudità.

Una mattina - (era quasi l'estate, faceva caldo, le praterie si muovevano, gonfie di profumo e di rumore) - una mattina io stavo scrivendo su quella tavola nuda, ruvida; egli era presso me, contro lo spigolo, e guardando la mia scrittura, con lentezza, con chiarezza mi dettava.

Il sole entrò. A poco a poco invase la tavola. Giunse al mio gomito. Avvolse il mio braccio. S'impadronì della mia spalla. Fasciò la mia nuca. Toccò la mia guancia... Dovetti ritrarmi.

Così gli ero più vicina. E il sole camminava. Dopo qualche istante illuminò di nuovo la mia mano, prese tutto il mio braccio, m'entrò nella bocca, rise ne' miei occhi... Dovetti ancora muovere la seggiola, sottrarmi a questo raggio che mi voleva, a questo fulgore che sempre più mi sospingeva, lentamente, verso il diacono Ralph.

Quando fui di nuovo tutta nell'ombra, i miei occhi lo guardarono. Mi pareva di essere quasi nuda; il riflesso del sole mi rendeva trasparente. Le mie braccia calde, la mia gola viva, il mio seno gonfio di respiro, aspettavano quasi con impudicizia la irritata gioia di sentirsi offendere...

Mi piegai; strinsi i gomiti; mi raccolsi tra le mani la faccia. Ora non vedevo più il sole. Ma lo sentivo a poco a poco salire, invadermi, abbracciarmi, ubbriacarmi... era in me, ne' miei sensi, nel colore de' miei vivi capelli, entrava, m'irradiava tutto l'essere, mi empiva di estate l'anima...

E poichè i miei polsi erano congiunti, sentii che una mano li strinse, li piegò, mi curvò, smemorata, nella fiamma del raggio di sole...

Quando capii che le mie vene troppo gonfie di primavera stavano per inginocchiarmi, tutta viva, tutta ebbra, sotto il potere della sua bocca, risi, risi, ancora ebbi la forza di ridere, nel sole, come una pazza...

Non mi fece male. Se ne andò come un ubbriaco. Disse a mio padre che avevo tutto imparato. Non lo vidi più.

 

 





31 Nell'originale "n'etant". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



32 Nell'originale "réduire". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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