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Or io vedevo, nel celestiale dirupo, quella che un tempo chiamavasi la caverna de' caprifogli e degli spini.
Quando scese al guado Bernadette, la Gave de Pau scorreva sotto la rupe di Massabielle, rasente il greto selvaggio. Ma ora la sagacia idraulica dell'ingegneria canonicale aveva respinto il fiume nel mezzo della vallata e spaziose murature circondavano l'accesso alla Grotta del Miracolo. Questa non era paurosa nè profonda; nulla in sè aveva dell'antro o della spelonca, nulla dei sinistri abitácoli di uomini primordiali o di fiere scomparse; ma solo appariva per due fenditure nella roccia, che ne formavan l'entrata e l'uscita; odor rancio di candele consunte appestava l'aria sotto la volta affumicata; le labbra dei fedeli avevano intaccato e reso liscio il sasso delle pareti; nel fondo era una specie di strozzatura, dalla quale pullulava un filo d'acqua, scarso, debole, che ogni tratto s'interrompeva.
Questo era il sublime rivolo, che dissuggellò dal macigno la mano lieve della pascolatrice.
Davanti alla fiacca sorgente vacillava un triste tabernacolo ed infinite migliaia di lettere si ammucchiavano dietro un cancelletto, in una specie di natural paniere. Là in fondo erano appese ancora le grucce e gli ordigni ortopedici dei primi che furon tocchi dal miracolo, e tutta la rupe, intorno all'accesso della Grotta, se ne vestiva come d'una tragica e squallida reliquia di martirio.
I fedeli si stipavano all'ingresso, ov'era, contro il palco del predicatore, un rozzo ed enorme simulacro della Signora di Lourdes. I cristiani entravan come sonnambuli, dopo avere compresse follemente le labbra su la pietra luccicante; compivano il giro dell'angusto presepe, che doveva sanarli da ogni patimento: alcuni stramazzavano al suolo, tramortiti, nel vedere l'acqua celestiale. Venivan tolti su di peso; il lezzo era insostenibile; il cancello impediva di attingere alla divina Sorgente; le fisionomie, tra quel barlume di ceri e quella nebbia di sacra fuliggine, assumevano un non so che di orribilmente spettrale; un silenzio, non interrotto che dallo strisciar de' piedi, lasciava udire il gorgoglio che l'acqua scarsa mandava nella sua fatica di gemere; e la folla continua, pazza, pesante, muta, costringeva, dopo qualche attimo, a procedere fra le pareti anguste, fino all'uscita.
Là, pareva che l'aria del mondo ancora fosse dolce a respirarsi, come per chi esce d'improvviso da una galera sotterranea.
Ma quivi era la più turpe adunazione di carne moritura che mai si accolse davanti allo stupore de' miei occhi, e questa orribil fiera di atroci difformità circondava la Grotta del Miracolo. Come i sacri lebbrosi dell'Oriente, questi eran fatti segno all'adorazione della folla ed erano lasciati stare innanzi a tutti, proprio sul limitare della Grotta, come una larga platea di contraffazioni umane sotto il pergamo del predicatore, in attesa del miracolo.
Chi poteva reggersi era in piedi su le grucce, oppure a ginocchi; gli altri eran deposti su lettighe, barelle, sedie scorrevoli, od eran quasi murati vivi entro macchine d'ortopedìa. Quasi fossero gli attori spaventosi d'un liturgico dramma da Gran Guignol, erano lasciati soli e campeggiavano in mezzo alla folla, sinistramente percossi dal chiarore delle torce, neri di tabe, monchi delle membra, con piaghe senza nome, con viluppi di fasce onde gemeva la nera putredine, meno simili a creature che a cadaveri dissepolti.
Era scesa la rapida oscurità che fa breve in autunno il crepuscolo tra i monti; un po' di luna, fra nuvole, batteva sopra un angolo del Gave. L'odore dei timi, l'odore dei boschi pieni di ciclamini, aleggiava su la immensa folla che si andava perdendo nell'oscurità. Qualche lembo di giardino appena intravvedibile, qualche fiore nato in mezzo ad un cespuglio, facevano pensare alla vita con una specie di angoscia inesprimibile, come se la muraglia degli storpi dividesse noi per sempre dalle perdute primavere del mondo. Eravamo afferrati nel mezzo d'una umanità che non era più la nostra; eravamo anche noi sotto il pergamo del predicatore, sotto il rozzo enorme idolo dell'azzurra Signora di Lourdes, e vedevamo, sopra uno sfondo buio, nel quale brulicavano migliaia e migliaia di ceri, ardere gli occhi fanatici, le facce spettrali dei percossi da tutte le maledizioni, quelli che i medici abbandonarono ai supplizi delle tenaci agonie, quelli per cui la terra più non produce balsamo, e tanto è l'orrore che fanno, da inibire a chi li guarda il senso della pietà.
Ma essi avevano ancora la speranza di risorgere, sani e liberi, per il tocco di una virtù ineffabile, che il crogiuolo dell'alchimista non ha finora imprigionata. E questi reietti da ogni bene del mondo amavano ancora la vita; queste povere cose già pregne della tentacolare distruzione sotterranea, questi pervasi dall'amor di Cristo amavano ancor la vita; questi laceri e difformi tronchi umani, atti a servir da esperimento per i chirurghi nelle sale anatómiche, avevano ancora in mente il sole delle mattine di primavera, la fresca voce delle donne che cantano, il vino biondo che ride nei cálici colmi di stelle, tutto ciò che porta gli uomini verso il terrestre paradiso, tutto ciò che non vuole spegnersi: - e più terribilmente di noi questi uccisi amavano la vita.
Io vedevo i lor occhi malvagi, spaventati, volgersi alla Grotta fiammeggiante, cercare là dentro la salvezza, come l'avrebber cercata forse nell'inferno; e que' bracci monchi, e que' labbri tumidi, e quelle facce ove la speranza del miracolo dipingeva una specie di frenetica irresponsabilità, si volgevano a cercare su la terra quel Dio che doveva risuscitarli, quel Dio di tutte le basiliche, al quale volevano estorcere un ultimo giorno di vita.
E quivi, come nelle Arene ove si vede sprizzare il sangue rosso del combattimento, ove cadono le belle fiere inginocchiate sotto la spada ferma del trucidatore, io sentivo sopra tutto fremere la bestialità sensuale della folla, sentivo battere in me la concitazione di tutti que' nervi, che amavano sentirsi atti alla crudele forza del godimento, alla esasperata gioia della validità, mentre stavano così presso all'inguaribile dolore.
E in questo violento contrasto, che par quasi raffiguri tutta quanta la sintesi della vita, io scoprivo il senso voluttuoso della religione cristiana, che inchinò i forti verso i deboli e costrinse ognuno a guardare nel dolore altrui, come in uno specchio dove la propria calamità grandemente si fortificava. Scoverta nella rinunzia la maggior poesia della vita, essa giunse a concepire il patimento come la via del gaudio superiore, l'umiltà come un segno di forza, la fede come un elisire nel quale siano tutte le gioie dello spirito e dei sensi, congiunte. Allorchè i più grandi rivelatori prima di Cristo non avevan saputo giungere oltre il bene dell'annientamento, ecco levarsi dalle vigne di Galil il bianco Taumaturgo e dire agli uomini di tutte le terre, vestiti fosser di porpora o di rozza cánape, negli alti palazzi o nelle fredde catapecchie: - «Bisogna saper giungere alla bontà: essa è forse l'ultimo piacere della vita.»
Così parlava quest'Uomo; ed era un sensuale profondo, un vero intriso di quella ricerca d'amore ch'è il fondamentale senso della vita, un appassionato perdonatore, che in tutti vedeva la sorgente della propria gioia nè poteva dividere sè stesso dalla comunione con l'amore altrui. Egli era nel mondo come una radice che dappertutto vuol suggere, mentre sapeva egli bene che la via più fraterna è quella del pianto. Nella sua bontà infinita era la tentazione involontaria di trarre sollievo dal male altrui, nel sentirsi meno afflitto del più afflitto, nel perdonare alla vita le sue crudeltà indispensabili.
Ed egli non seppe, forse non volle, giungere all'isolamento. Questo grande medico di sventure umane, questo divino inventore di fallaci paradisi, ebbe la infantile innocenza di non sentire sè stesso infuori «dagli altri», ed amò «gli altri», e quando lo derisero, e quando lo percossero, egli seguitò a credere che il senso della vita fosse «negli altri»; e quando, da tutti tradito, ebbe una croce da ergastolano come ultimo soglio del suo regno terrestre, quando i suoi discepoli eran fuggiti e lo scherano di fazione lo punzecchiava con la lancia nel costato per affrettarne la tenace agonia, quest'uomo ch'era vissuto come un fanciullo, chiamandosi re degli accattoni e messia del popolo d'Israele, cercava in sè stesso un ultimo filo di voce per benedire i suoi codardi assassini, che vicino a lui rappresentavano il vero simbolo «degli altri.»
Eppure anch'egli aveva sentito il bisogno di veder camminare accanto a sè la bionda femmina del terrestre amore, quella che non sapeva liberarsi dall'odore delle sue fine ciprie, dal peso de' suoi fulgenti braccialetti, l'amica dei centurioni prepotenti, la danzatrice ignuda nei conviti ove spremuto rideva il grappolo delle vigne di Galaad...
E questa musica d'amore, - forse la più bella che mai nascesse dai giardini della terra fiorita - questa bianca storia della danzatrice di Mádgala e dell'Uomo di Galil, è quella che oggi ancora sentiamo nascere in noi stessi ogni volta che il nostro cuore trema, è il poema carnale dello spirito, l'eterno peso della terra, che brucia e splende nei voli della umana poesia.