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Già dall'immenso anfiteatro scoppiava nell'aria un frenetico battimani. Guardai l'orologio; erano le quattro e cinque minuti. Nella vecchia Spagna, ove tutto procede alla mercè di Dio, la sola cosa che davvero cominci all'ora esatta sono le corse di tori. Può esser festa giorno di lavoro, che l'Arena comecchessia rigurgita; chi ha denaro, lo spende volentieri per il suo posto in una gradinata di «sombra» o di «sol»; chi non ne ha, porta qualche straccio al Monte, oppure ad uno qualsiasi fra quei cento «montini» privati, che pullulan nelle città spagnole quanto le rivendite di tabacco. Ma una persona che si rispetti non può far a meno d'accordarsi ogni tanto lo spettacolo d'un bel colpo di spada.
Tutta la vita civile si ferma quando un torero celebre mette il piede nell'Arena.
Entrare in uno di questi anfiteatri, allorchè son gremiti e l'entusiasmo li solleva, significa retrocedere con la memoria verso qualcosa che il mondo civile non conosce più, significa ritrovare l'uomo affacciato con voluttà verso il crudele spettacolo della sua barbarie primitiva.
Bisogna tuttavia comprendere questo gioco selvaggio per potersene lentamente inquinare come d'un malvagio vizio; bisogna che in ciò, come in tutte l'altre passioni della vita, possa il nostro cuore veder splendere un poco d'ideale. Quando per la prima volta entrai nell'Arena di Barcellona e rabbrividendo assistetti a questo inglorioso eccidio, a questo inumano strazio di miserabili carcasse equine, veramente avrei voluto poter io solo avventarmi nell'Arena e di mia mano crocifiggere agli spalti quel branco di forsennati macellai.
Ma dopo quel giorno lontano, - che ancora splende nella mia confusa memoria, e splendeva, o limpida Barcellona, su te, nell'alta fiamma, la nera torre di Montjuich - (calmi, con bianche ville, su te fiorendo splendevano i poggi del bel Tibidado, dolce collina tua) - dopo quel giorno lontano, quanti e poi quanti caddero sotto i miei occhi un po' assorti, cavalli e tori senza numero, nella insanguinata polvere!...
A poco a poco il mio cuore di barbaro vinceva ogni misericordia umana, l'odore voluttuoso del sangue mi esasperava come un vino ubbriacante, il piacere della carne dilaniata, il rantolo della bestiale agonia, come un piacere torbido e selvaggio lentamente s'impossessava di me.
Ho finito io pure con rassegnarmi al pensiero che quei poveri animali seviziati, vecchia carne da randello e da macello, in fondo riuscivano a comprarsi con un breve supplizio la pace definitiva; ho pensato che in fondo la mia pietà era quella d'una femminuccia, e che il toro, sia cadesse nell'Arena fra la schiuma e la gloria del combattimento, sia d'un colpo d'ascia su la cervice nei recinti dei pubblici ammazzatoi, era in ogni caso un animale da ingrasso e da mannaia, predestinato alle cucine dell'uomo...