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Quel toro fu prodigioso: quattro cavalli uccise, altri due ne mandò via scuciti come tabarri da mendicante.
Infine le trombe suonarono «la suerte de banderillear». Gli furon messe due paia di «banderille», ma piuttosto male, perchè il toro correndo scuoteva la testa, onde riusciva pressochè impossibile collocare i pungiglioni come l'arte classica del torneo prescrive, una per parte, a qualche pollice dalla nuca. Il toro, messo in furore da quegli aculei pungentissimi, si avventava di qua, di là, cozzando a vuoto nei mantelli, stramazzando su le ginocchia e talora fermandosi deluso nel mezzo dell'Arena, con la fauce spalancata, la lingua pendente, bavosa e nera di convulsione, gonfia di dolore, con orrendi muggiti.
Le trombe allora suonarono la messa a morte. Bombita, col suo drappo di porpora e la bellissima spada serrata nel pugno invincibile, si presentò con brio davanti al pulvinare, si scoverse il capo, tese in alto il braccio e brindò il toro ad una persona che non vidi nè potei scoprire chi fosse, ma certo un alto dignitario, forse il presidente medesimo delle corride, oppure una famosa bella donna. E pronunziò le parole di rito, con le quali si vota in olocausto il proprio sangue pur di compiere il sacrifizio del toro.
Con una mossa elegante lanciò verso il pubblico il suo piccolo tricorno, insegna e nobiltà del torero, poi, con le labbra un po' serrate, il celebre scannatore s'avanzò di fronte all'avversario, verso il mezzo dell'Arena.
Egli non aveva paura del toro: - questo era evidente, poichè da oltre quindici anni, e senza retrocedere3 d'un passo, ne aveva messi a morte un gran numero di migliaia. Ma invece aveva paura della moltitudine, la fiera più temibile che sia nella creazione, la tiranna delirante, implacabile, che consacra e sconsacra gli eroi.
Certo in quel momento egli aveva paura della propria fama e paventava l'idolatria di quella immensa gente, davanti alla quale non gli sarebbe stato mai lecito dare una botta ingenerosa o fare un passo indietro. Poi sentiva nell'anfiteatro la presenza di molti suoi avversari, fra quelli che lo davano per vecchio ed intimidito, mentre sorgevano gli astri nuovi dei prodigiosi adolescenti Belmonte e Gallito Chico.
Nella terra di Spagna si professa il proprio espada come altrove una fede politica; ognuno pensa che il bene uccidere dia fortezza di bene morire; le donne amano i maestri di spada e il popolo canta chi meglio colpì.
Accerrime fazioni custudiscono la rossa gloria dei più intrepidi, e battezzato col sangue dei tori da combattimento esce dai selvaggi anfiteatri l'eroe nazionale. Poi dappertutto si trovano a decine que' certi «laudatores temporis acti», che a nessuno più, dopo Guerrita e Fuentes, vollero si attribuisse la gloria della vera tauromachìa. Ed inoltre, il pubblico di tutte le Arene spagnole, in ciò davvero cavalleresco, pretende verso il toro la più assoluta e generosa lealtà: oltre che uccidere, bisogna dare la4 bella morte, bisogna colpire diritto e senza inganno, poichè, se i cavalli son materasse da cornate, non si ammettono invece per il toro le strazianti agonie.
Fossero i nemici alle porte della capitale, un bel colpo di spada, confitto sino all'elsa nella dura cervice, un colpo dirittamente piantato nel mezzo del cuore e che in pochi attimi tragga di vita l'animale, basterebbe a mandare in delirio questo popolo circense, che perpetua con sè nel mondo l'anima del cavaliere Don Chisciotte.
Nello sfacelo di una immensa grandezza, due sole cose rimangono per la Spagna inesorabilmente sacre: il Crocifisso e la spada.
Così non v'è fama che basti ad impedire il pubblico dileggio, quando colui dal quale ci si attende una giostra da Paladino di Francia combatta per disavventura con lo sgraziato procedere di un domatore da serraglio. Questo pubblico, il quale fa tanti sacrifizi per recarsi ogni giorno di corse alla «Plaza de toros», non dimentica il prezzo elevato che si vuole dagli impresari anche per un'umile «tendido de sol», nè scorda le sei o settemila pesetas che un buon espada si guadagna giornalmente per uccidere due quadrati maschi de' più famosi allevamenti. Sicchè il presentarsi davanti al toro è sempre un gioco a prezzo di vita, non tanto per le sue corna crudelissime quanto per lo spettacolo che convien dare di sè.
Parecchi anni addietro avevo già veduto Bombita combattere nelle Plazas di Siviglia e di Madrid; ora, nel rivederlo, già più non mi pareva il medesimo. Su quest'uomo impavido era passato il trionfo; l'applauso lo aveva logorato come logora il fuoco delle bevande troppo forti. Mi diede l'impressione d'un uomo il quale ormai si sentisse impari alla propria grandezza e tuttavia non potesse far a meno del delirio popolare, dell'ovazione frenetica, del suo nome gridato al cielo, quando la fiera vinta s'inginocchiava nel rantolo dell'agonìa.
Asciutto, smilzo, pallido, nel costume damaschinato che lo serrava come un guanto, le calze candide, le sottili scarpe da ballerino, il fazzoletto di seta che gli usciva dal taschino del bolero, consapevole in ogni gesto, in ogni mossa, d'una eroica memoria di sè, grazioso, agile, attento, era sì quel Riccardo Torres che vidi, per così dire, ballare il minuetto coi terribili tori di Veragua e di Miura; ma in lui si vedeva ora, sotto la pelle arida e rasa, tutto il fascio dei muscoli tendersi con nervosità, e negli occhi fermissimi, sotto il cranio ben pettinato, la paura, sì, la paura della propria gloria, confitta nella sua temerità come un terribile chiodo.
Là intorno, fra quelle ventimila persone che gremivano l'anfiteatro, così curvate verso di lui, così protese a vigilarlo, ch'egli forse ne sentiva battere contro il suo polso le tumultuose vene, là in mezzo, tra quella bianca voragine di facce umane, v'eran le donne che gli avevano mandato lettere d'amore, gli uomini che lo avevano portato su le spalle nei giorni di trionfo, i bimbi che giocavano al toro chiamandosi Bombita, v'eran gli emuli ed i nemici, v'era infine la storia che lo guardava.
La sua fatica era quella di scordarsene, di non considerare quegli spalti gremiti se non come uno sfondo necessario e lontano, quasi come una specie di formicolante velario, che per lui tornerebbe ad essere umanità quando le fanfare inneggiassero alla ben data morte.
Ma non poteva; era evidente che non poteva. Un piccolo spasimo, d'ira o di nervosità, contraeva la sua faccia smorta.
Ed allora mi piacque osservar quest'uomo, che aveva contro sè, non le corna rosse dell'animale insanguinato, ma il potere, la tirannìa, la febbre di ventimila uomini che lo volevano applaudire. Mi piacque l'istante magnifico nel quale dimenticò e si vinse.
Fermo, il toro lo guardava. Col fiocco della coda, simile ad un lungo scudiscio, si batteva minaccioso i fianchi ansanti. Teneva il muso basso, con le narici dilatate, quasi volesse fiutare l'espada e misurare l'attimo della terribile cornata. Non era tra loro più spazio che quello d'un braccio teso, d'una lama diritta.
Bombita battè col piede la terra, quasi per chiamarlo a sè, poi, con baldanza, come si srotola una bandiera, sciolse la sua «muleta» fiammeggiante. Stavano soli, di fronte: l'uomo, sottile come un serpente, il toro, quadrato e sinistro nella sua poderosa immobilità.
E pareva che l'uomo gli dicesse: - «Chinati e guarda. Vedi questo specchio rosso? Ha il colore del mio sangue. Uccidimi, se puoi!»
E come se lo specchio rosso l'avesse in verità abbacinato, ecco, d'improvviso, con una furia belluina, il toro si avventò. Ma l'uomo non fece che sollevare il suo piccolo drappo rosso, inflettere un fianco, ed il lembo del panno strisciò leggermente su la fronte ricciuta dell'assalitore.
Inginocchiatosi nella vanità dell'urto, l'animale battè il muso nella polvere; si volse, irruppe contro l'espada, il quale, per schivarlo, non fece altro che piegare leggermente fino a terra il ginocchio sinistro.
Poi fu tutta una danza serpentina, circoscritta nel raggio di pochi metri, l'uomo fra le corna del toro, di qua, di là, da tergo, di fianco, di fronte, - fantastica ridda e maravigliosa: il toro con tutta la sua forza, l'uomo con tutta la sua temerità.
Poi gli mise una mano su la fronte, quasi per dirgli: - Férmati! - e il toro, esausto, si fermò.
La folla, da tutte le gradinate, proruppe in un applauso delirante.
L'uomo, il piccolo uomo arcato e snello, sorrideva stringendo le sue labbra sottili. Poi di nuovo, palleggiando la sua «muleta», si mise a correre di qua, di là, trascinandosi appresso il toro; e correva con quel movimento ritmico, tortuoso, al quale si abbandonano i pattinatori nell'eseguire un «balancé».
Veramente pareva questa una danza leggera e folle su l'orlo di un pericolo vertiginoso; finchè, dopo mille giri, di colpo l'espada si fermò. E senza nemmeno volgere il capo, sollevate ambo le braccia, inquartato il fianco, distaccato il piede, lasciò che le corna formidabili sfiorassero la sua giubba luccicante.
Ancora una volta, per pochi millimetri, la morte gli era passata vicino, l'espada ne rideva.
- ¡Hombre! - fece Lord Pepe, - que fino!
Madlen ansava leggermente; ma si mise a ridere.
Adesso ancora stavano di fronte, la bestia e l'uomo, proprio davanti a noi. Tre volte l'animale, fermo su gli appiombi, chinò la testa, e tre volte Bombita, appoggiando l'elsa della spada fra la bocca e il mento, prese la mira. Ma invano; poichè l'indocile bestia ogni volta gli rompeva contro, sferrando cornate. Allora bisognava ch'egli ricominciasse a giuocar di mantello, a rigirarlo, di qua, di là, per fargli abbassare la testa e poter riprendere la mira.
Nell'atmosfera dove tanta folla respirava si fece un silenzio trepido e grande, mentre i fotografi correvan nel corridoio circolare lungo la palizzata per tramandare ai posteri uno fra que' mille colpi di spada che resero celebre il taurómaco Bombita.
L'arte insegna due mezzi per uccidere: o da piè fermo, aspettando l'animale che nel balzo da sè medesimo s'inferra; o correndogli addosso, evitandone la cornata e piantandogli per il mezzo della nuca la spada nel cuore. Il primo de' due colpi - «matar recibiendo» - è quanto mai pericoloso nè si può praticare se non di fronte ad alcuni tori che usino combattere in modo assai regolare. Ma, comunque si uccida, una sola spada è ben raro che basti. Così le folle gridano d'entusiasmo quando la prima stoccata spegne istantaneamente la bestia inferocita.
Ora Bombita, scelto l'attimo che gli parve opportuno, fece due passi avanti, spinse tra le corna lo stocco, diede il colpo, l'abbandonò. Ma il toro ingannevole s'era di súbito raddrizzato; la spada non penetrò che di alcuni póllici, e scossa via dall'animale infuriato cadde, rimbalzò nella polvere.
Bombita si guardò la mano. Si guardò la mano, come se il corno l'avesse punto. No: aveva perduta l'ovazione.
Un grave silenzio, poi qualche fischio, qualche lazzo. I suoi labbri si serrarono ancor più; e ricomparve nella sua faccia arida, ne' suoi lineamenti contratti, «la paura».
Da capo mantiglie, passi, giri, scambi, ronde.
Il colpo di stocco aveva tuttavia lacerata la cotenna del toro, già purpurea per lo strazio de' molti aculei, ed ora ne sgorgava sangue a fiotti, che pullulava nero e grumoso, macchiando la terra.
L'animale caparbio non voleva abbassare la fronte, anzi non faceva che scuotere il capo con un muggito lamentoso, torcere il collo, aprire le fauci, quasi tentasse di leccarsi con la nera lingua le ferite.
Allora, velocemente, Bombita prese la mira, scattò, colpì.
Questa volta la spada rimase confitta, ma solo a mezza lama, e nei sobbalzi del toro l'elsa tentennava.
Un mormorio di protesta salì, serpeggiò, corse per tutte le gradinate; dalla irrequieta folla partivano acuti sibili; taluno incominciò per dileggio a battere mazzi di chiavi dentro latte di petrolio.
I mantellieri frattanto cercavano di far girare il toro, perchè la spada mal confitta inasprisse la ferita ed il capogiro spegnesse più celermente la sua tenace vita. Ma il toro non cadde nemmeno a ginocchi, anzi, con una impetuosa falcata, corse addosso agli uomini. Tre di questi si appesero alla barriera; il pubblico, indignato, ruppe in assordanti fischi.
Bombita, nervosamente, afferrò la terza spada.
Sciorinando la sua «muleta» in guisa da ravvolgere come in un laccio l'elsa tentennante, riuscì a divellere quel ferro che non aveva ucciso. Poi si mise con rabbia davanti alla bestia ferita, mirò pochi secondi, scagliò diritto e fulmineo il suo terzo colpo di spada.
Il toro gli spruzzò di sangue la mano ed il viso. Bombita, lentamente, si avvicinò all'avversario.
Questa volta il colpo era stato profondo, giusto, mortale.
Cominciò la enorme bestia a dare indietro, con certi orribili singhiozzi agónici che gli empivano la bocca d'un vomito rosso; poi, di schianto, cadde su le ginocchia, soffiò nella polvere, tentò invano di risollevarsi, rotolò boccheggiante.
Le trombe, con alti squilli, salutarono la vittoria dell'espada.
Volentieri gli furon perdonate dal pubblico le due lame che non avevan ucciso. Quel fantastico padiglione di migliaia d'uomini si piegò verso la lizza come un corpo solo. L'aria fremeva d'applausi, nereggiava di cappelli e di berretti lanciati come ventole a piè dell'espada. Tre pariglie di mule impennecchiate entravano a schiocco di frusta galoppando nell'Arena, per trascinar via le carogne del toro e dei cavalli, che sparivan torcendo verso il pubblico i loro musi convulsi dall'orribile agonìa.
Fermo davanti al pretorio, la mano la cappa e la spada su l'agile fianco, due passi oltre la schiera de' suoi uomini di mantello e di pica, Riccardo Torres - Bombita - innalzava il trofeo della vittoria: l'orecchia recisa del toro.
Tutta quanta la moltitudine stava protesa verso quell'uomo pallido, ed il clamore dionisiaco della folla in delirio s'attorcigliava intorno alla sua gagliarda flessibilità, come se il pugno fermo dell'uccisore sollevasse dinanzi a tutto il popolo una gloriosa bandiera.