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Marco Porcio Catone, Erennio littore e Detti.
(Catone indossa il laticlavio, tunica di lana bianca,
partita sul dinanzi da una larga striscia di porpora. Toga bianca di lana.
Petaso in capo, che deporrà nello entrare. Capegli rossi e crespi. Calzari di
cuoio.
Erennio ha tunica bigia, e toga. Capegli lunghi e barba. Fasci senza scure,
nella mano destra, appoggiati sull'òmero. Una verga bianca nella mano
sinistra.)
(di dentro)
Per tutti gli Dei dell'Averno, che sì ch'io t'ho a conciar come meriti, matricolato furfante!
(entrando, sempre rivolto indietro)
Non ammetto scuse. Fammene un'altra di queste e dal servizio della tua padrona ti mando difilato a girare la màcina.
È dura cosa, la màcina; io la conosco.
Ah, non badare, Tito Maccio! Del resto tu avevi il debito. Chi non paga di borsa paghi di persona.
(in disparte)
Così sta scritto.
Ma vedi questi bricconi! Se la va di questo passo in Roma, tra un anno, o due, bisognerà darsi alla macchia.
Con chi l'hai tu?
Col mio servo, per Bacco, o, a dire più veramente, col servo di mia moglie. Una perla, quando io l'ho comperato! Ed ecco, me l'hanno guastato anche lui! Ah greci! Chi ci libera dai greci! Noi li abbiamo vinti; essi ci ammorbano. L'è una vera peste ellenica. Ieri parto, lasciando la casa sana. Torno, e già c'è penetrato l'inimico. Figùrati Valerio.... Ohè, Valerio![58]
(che era andato verso la fauce a curiosare nel peristilio, torna sollecito)
Son qua.
Figùrati; entro in casa e trovo il servo di mia moglie che usciva. Si tira da un lato, il manigoldo, e con la sua voce sguaiata mi sfrombola un chere despòtu; mi saluta in greco! A me! Ma dove le imparano, dico io? Perfino Erennio, il mio littore, ha impallidito dallo sdegno. Non è egli vero?
La lingua dei padri è sacra, come il diritto dei Penati di Roma.
(da sè)
Bravo, il littore! O non pare una delle Dodici Tavole?
Ma! Eppure egli c'è in Roma della gente che se ne dimentica, gente a cui non è più sacro il Campidoglio, gloria e amore dei nostri antichi, nè i numi laziari, nè i laziari costumi. Grecheggiano! È la loro manìa. Nulla distingue più i giovani romani educati in Roma, dai giovani greci educati in Atene. E il vecchio spirito romano se ne va, cede di contro all'alito di questa genìa, la più perversa e intrattabile del mondo, la quale non ha dato, che cicaloni, spaccamonti, acchiappanuvole.[59]
Ti concedo Leonida. Ma abbiam mestieri di andare per fuoco da loro, noi che ci abbiamo il tempio di Vesta? Leonida! Leonida! Io ti oppongo Quinzio Cedicio, tribuno militare nella prima guerra punica, che salvò l'esercito romano, tratto in agguato, in una stretta di Sicilia. Toccava alle nostre armi la sorte di Caudio, e con peggiore vergogna, poichè, gl'inimici stavolta erano cartaginesi. Che fa Cedicio? Piglia con sè pochi animosi, si tira addosso tutto l'impeto dei nemici, cade crivellato di ferite sopra un monte di cadaveri; intanto, l'esercito romano sfila e si salva. Ora, io lo dimando a te; che cosa ha fatto Leonida, più di Cedicio? Rispondi!
Io non lo so; ma so quello che hai fatto tu;.... una sciocchezza!
Che cosa borbotti anche tu? Tu che vai sempre a cercarmi in Grecia gli argomenti delle tue commedie?
(da sè)
(a Catone)
Dei buoni! Ma i poeti, nelle commedie, fanno tutti così. Spacciano i fatti loro come avvenuti ad Atene,[60] acciò la favola paia più facile a mandar giù.... Piace il greco? Diamo alla commedia il sapor greco; ma sia romano l'amaro; questo è l'essenziale. Tu sai quel che dicono gl'intendenti di me; che mi son gittato il pallio greco addosso, ma alla scapestrata, così che di sotto mi scappa d'ogni parte la toga.
Ed è più degna portatura, la toga! Ah, giuro a Saturno, e ad Opi, vecchi dèi paesani; o ci casco sotto, o sradico fin le ultime barbe di questi cialtroni da Roma.