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In ogni tempo, nella storia del pensiero, si videro finquì due elementi in contrasto. L'uno, mosso dalla pretensione d'imporre in nome d'un'autorità soprannaturale o esteriore, e all'uopo col mezzo della forza, certe dottrine spacciate come divine, o per lo meno come necessarie alla salvezza della società, negando agli uomini il diritto di discutere tali dottrine, e punendoli quando ardissero applicarvi il loro libero esame e discostarsi dal circolo prescritto; l'altro, al contrario, bramoso di assoggettare ogni autorità a quella della ragione, rivendicando o tendendo a rivendicare il diritto di esaminar liberamente tutti i dogmi e protestando contro le violenze esercitate sul pensiero umano. Da una parte, lo spirito d'autorità; dall'altra, quello di libertà o di libero esame. Se il primo si appoggia sopra certi interessi di stabilità o di conservazione, ai quali il pregiudizio e la consuetudine sono necessari, il secondo rappresenta il diritto più prezioso, più sacro, più imprescrittibile, il diritto di cercar liberamente la verità, vale a dire il diritto di usare della propria ragione e di pensare da sè stesso. Qual cosa è più incontrastabile di questo diritto, inerente alla persona umana? Sì, certo, nulla è più incontrastabile, ma nulla, a un tempo, è più apertamente negato e più violentemente compresso. Epperò quali sforzi, quali lotte, qual coraggio non abbisognarono a coloro che se ne fecero gl'interpreti! Eglino dovettero far sacrificio del loro riposo, della loro libertà e persino della loro vita! Anche la filosofia ebbe i suoi martiri, e de' principali di questi io vorrei esporre qui la storia.
Il Cristianesimo piamente conservò ne' suoi annali la memoria di coloro che soffersero persecuzioni pel propagamento delle sue idee, e che ne suggellarono col sangue le dottrine: nello stesso tempo che ad essi rendeva il dovuto omaggio, voleva proporre al mondo i loro esempi, e con questi provare la forza della sua fede. Convien lodarlo di un tal pensiero; ma il suo martirologio non deve farci dimenticare quello della filosofia. I martiri del libero pensiero non meritano forse anch'essi da noi venerazione e riconoscenza? Eglino pure soffersero e seppero morire per la loro causa, e forse il sacrifizio, a cui essi si votarono, ha qualcosa di più ammirabile. Io non vorrei che alcuno mi facesse rimprovero di abbassare studiosamente i primi a vantaggio dei secondi; amo ed ammiro l'eroismo, sotto qualunque forma si presenti; ma non è egli giusto il riconoscere che, mentre quelli erano nelle cruente loro prove sostenuti dalla speranza d'un pronto ed eterno premio, questi, benchè non sempre nella dottrina loro trovassero una tal fede, pur non furono da meno nell'immolare i propri agi e la propria vita ai loro principii? I primi, morendo, vedeano schiuse le porte del cielo, i secondi non aveano, sacrificandosi, altro scopo che di soddisfare alla propria coscienza e servire la causa del genere umano. Inoltre qual riconoscenza non dobbiamo noi ad essi, noi che cominciamo a raccogliere i frutti della messe, di cui essi gettarono la sementa, inaffiata col proprio sangue! Non crediate già che gli esempi loro non trovino più oggidì applicazione, e che sia senza utilità pratica il rammentar le prove che essi ebbero a sostenere. La libertà di pensare deve far molti progressi ancora, e per conseguenza vincere molti ostacoli e affrontare molte lotte; oggidì pure non le mancano nemici, aperti od occulti, che aspirano a soffocarla. Ecco il perchè mi sembrò utile, non potendo svolgere qui tutto il martirologio del libero pensiero, sbozzare almeno le figure principali della storia di sue persecuzioni, nell'antichità, nel medio evo, nei tempi moderni. Mi starò contento ai nomi de' più illustri; ma li ho scelti in guisa da dimostrarvi in quelle diverse figure il libero pensiero in conflitto co' diversi nemici che via via si trovò a fronte, col paganesimo greco, col dispotismo degl'imperatori romani, col fanatismo cattolico, col protestantesimo stesso, almeno con un certo protestantesimo infedele al proprio principio, e finalmente (come se, a dispetto della dottrina del progresso, il mondo fosse condannato a ritornar sempre da capo allo stesso punto) con un nuovo dispotismo imperiale, più sagacemente ordinato che quello dei Cesari, e mille volte più opprimente che il reggimento a cui esso pretendeva succedere. Per tal modo spero di rendere questo breve insegnamento, più che si possa, compiuto ed istruttivo.
Incomincio da Socrate. Egli inizia l'elenco dei martiri della filosofia, e n'è forse il più grande e glorioso. Vediamo per quali dottrine e per quali esempi meritò di bere la cicuta.
Ma prima di tutto convien sapere qual fosse lo stato filosofico, religioso, morale e politico della Grecia, ed in particolar modo di Atene, quando apparì Socrate, vale a dire sullo scorcio del V secolo e al cominciare del IV avanti Gesù Cristo.
La filosofia greca aveva già quasi due secoli d'incremento; ma, per quanto splendido fosse stato il suo esordire, o essa fuorviava in vane speculazioni intorno all'origine ed alla natura delle cose, senza ben considerare il modo che lo spirito umano doveva tenere nelle sue ricerche, e senza dare allo studio dell'uomo e de' doveri di lui la importanza che loro si conveniva; ovvero si gettava in un frivolo scetticismo, il quale riduceva la scienza all'arte di sostenere il pro ed il contra in guisa egualmente speciosa, e invece dell'amore della verità e della giustizia poneva la brama di risplendere e di acquistare ricchezze. Tal era la filosofia dominante, quella dei sofisti.
In quanto alla religione, una congerie di favole ridicole e indecenti: un Giove, signore degli dèi e degli uomini, adultero e libertino; una Venere impudica; un Mercurio, dio dell'eloquenza e dei ladri, ecc. Questa religione muoveva da lungo tempo il disprezzo delle menti colte e la incredulità del popolo, e i poeti la esponevano sui teatri ai dileggi della moltitudine; ma niuno poteva discuterla pubblicamente, e la politica, con la quale era essa immedesimata, sosteneva in ciò lo zelo geloso dei sacerdoti, perocchè anche il paganesimo ebbe la sua intolleranza, religiosa ad un tempo e civile.
De' costumi non oso parlare. Come si potrebbero solamente nominare quegli amori infami ai quali i Greci si abbandonavano senza vergogna? La donna, che riputavasi quasi indegna d'essere amata, si relegava nel ginecéo, tanto che, se si prescinda dalla cura della conservazione della specie, se ne faceva ben poco conto.
Delle istituzioni politiche toccherò soltanto: esse erano dominate dallo spirito di città, gretto, geloso, crudele, che non è se non lo spirito di casta ingrandito; e generalmente si fondavano molto più sul diritto della forza che sui principii della giustizia assoluta. Per offerirvi un esempio, fra mille, di ciò che fosse la politica esterna degli Ateniesi, trascriverò alcune linee di un lavoro testè pubblicato dal signor Bétant nella Bibliothèque Universelle2 (Una visita al tempio di Egina):
«La emula di Atene era prostrata; nondimeno la sua ombra conturbava ancora gl'implacabili suoi nemici. Pericle chiamava Egina una macchia nell'occhio del Pireo; bisognava farla ad ogni costo sparire. Nè tardò a lungo la occasione: non appena era incominciata la guerra del Peloponneso, che gli Ateniesi, col pretesto di raffermar la propria sicurezza, decretarono la confisca dell'isola di Egina. Tuttaquanta la popolazione fu bandita dai suoi focolari, e le terre vennero spartite a sorte fra coloni ateniesi. Gli Eginati esuli si sparsero miserabilmente per le città doriche. Lacedemone diè loro per asilo la città di Tireo, donde gli Ateniesi non indugiarono a cacciarli di nuovo. Se crediamo a Tucidide, quelli che restarono prigioni furono messi a morte; a detta d'altri storici, fu loro tagliato il pollice della mano destra affine di non lasciar loro che la possibilità di servire come remiganti.»
Questo è un saggio della politica esterna degli Ateniesi; quanto alla loro politica interna, nel corso stesso della presente lezione ve ne darò ben tristi esempi.
Ecco la filosofia, la religione e la politica che Socrate trovava in Atene e che egli si propose di riformare. Tal fu invero il grande ufficio a cui si diede quell'oscuro cittadino d'Atene, quel figlio dello scultore Sofronisco e della levatrice Fenarete, il quale doveva rendere famoso il nome di Socrate.
Avendo egli letto sul frontone del tempio di Delfo queste parole: Conosci te stesso, rimase colpito dal senso profondo, ma fino allora non bene inteso, di quella sentenza. Come il Verbo del Vangelo, essa era nel mondo, ma il mondo non l'aveva conosciuta. Socrate se ne fece il rivelatore. Conosci te stesso: questo detto sì semplice conteneva in germe la riforma della filosofia, e, per mezzo della filosofia, la riforma della religione, dei costumi e della politica. La conoscenza di sè stesso è difatti il principio d'ogni saviezza. Per essa l'uomo conoscerà la misura del proprio intelletto; e invece di smarrirsi in vane ipotesi, saprà tenersi nel riserbo che a lui si addice. Socrate opponeva al dogmatismo reciso delle antiche scuole e all'oltracotanza dei sofisti cotal riserbo, di cui, per odio di quel dogmatismo e di quell'oltracotanza, egli esagerava ironicamente l'espressione dicendo: Per me, tutto quello che so, è che nulla so. Ancora l'uomo, ricondotto a sè stesso, imparerà a conoscere la dignità della propria natura e l'ampiezza de' propri doveri, e potrà camminar nella vita al lume della face che avrà egli accesa nell'anima sua. Cicerone pertanto aveva ragione di dire che Socrate avea fatto discendere la filosofia di cielo in terra: egli difatti l'aveva richiamata dalle vane speculazioni ov'essa smarrivasi, allo studio dell'uomo morale, come alla prima e più importante di tutte le scienze. Ora vediamo ciò che Socrate ricavò egli stesso da cotale studio.
Imparò a non vedere nel corpo se non che uno strumento dell'anima, e per conseguenza a porre il fine della vita non nella soddisfazione dei bisogni corporali, ma nella esplicazione delle forze morali: indi quello spiritualismo pratico opposto da Socrate al grossolano materialismo de' suoi contemporanei.
Imparò esservi dentro di noi una luce che vediamo risplendere guardando in certo modo, giusta il detto di Platone, nella parte più pura e più intellettuale di noi stessi, vale a dire, per parlare senza metafore, e in termini moderni, scandagliando la nostra coscienza e spastoiando la nostra ragione.
Imparò, merce di quella stessa luce, che la distinzione del giusto e dell'ingiusto, o del bene e del male, non è, come pretendevano i sofisti, arbitraria e fondata sulla forza o su convenzioni; che sopra il preteso diritto della forza è il diritto assoluto della giustizia, sopra le leggi positive o scritte le leggi naturali non scritte, e che appunto in queste, anzichè in quelle, convien cercare il fondamento d'ogni giustizia fra gli uomini.
Imparò per conseguenza a discernere i doveri dell'uomo, le virtù ch'egli deve praticare e senza le quali non vi può essere per lui vera felicità; vale a dire, la saviezza o prudenza, che consiste nel coltivare in generale la nostra ragione e nel riconoscere i nostri pregi o i nostri difetti, per regolare le nostre azioni; la giustizia, che è propriamente l'obbedienza a quelle leggi naturali non scritte, di cui sopra toccai; la temperanza, che ci vieta di diventar schiavi de' nostri piaceri e del nostro corpo, e perciò mantiene la nostra dignità; e il coraggio, che ci rende superiori al dolore ed al pericolo.
Imparò finalmente ad innalzarsi; sulle orme di Anassagora e sulle ali della ragione, fino all'idea di un'intelligenza suprema, principio della natura e dell'umanità, invisibile testimone ed incorruttibil giudice delle nostre azioni.
Tal era in generale la dottrina morale che Socrate opponeva alla filosofia del suo tempo, e per mezzo della quale ei voleva purificare la religione, correggere i costumi, umanizzare la politica.
La sua religione è il monoteismo ed un culto essenzialmente morale, tendente ad occupare il luogo del politeismo e del materiale suo culto. La religione di Socrate non fu già esente da ogni superstizione; egli credeva nella divinazione, negli oracoli, nei sogni, nei prodigi, nell'intervento di certe particolari divinità, e anch'egli sacrificava agli dèi, certamente così per effetto di quella superstizione, da cui non aveva ancor potuto del tutto spogliarsi, come per rispetto alle costumanze della repubblica. Ma è chiaro che le divinità riconosciute da lui non erano se non i mediatori d'un Dio supremo ed unico; e se sacrificava o sugli altari pubblici o nella propria casa, ei dichiarava che le offerte più accette alla Divinità erano quelle d'un uomo onesto, e che il culto più puro che si potesse renderle, era la pratica della virtù. In tal modo egli faceva spirituale e morale la religione.
Se dunque egli non era esente da superstizione, la superstizione stessa rivestiva in lui un carattere morale. Ond'è che se egli credeva in un demone famigliare che vigilava sopra di lui, gli attribuiva in generale un ufficio tutto morale: lo avvertiva di ciò che non doveva fare, e gl'indicava così la via da tenere. Molto si disputò intorno al demone di Socrate. Gli uni vi vollero scorgere un artifizio adoperato dal filosofo per dare maggior credito alle sue parole ed effettuare più sicuramente la sua riforma; questa opinione, che farebbe apparir Socrate come un impostore, non merita nemmeno di essere confutata. Altri pensarono che ciò non fosse se non una figura, di cui Socrate si valeva per rappresentare le ispirazioni della sua coscienza o del suo alto intelletto. Questa spiegazione, più accettabile della prima, è affatto insufficiente: quando Socrate parlava del suo demone famigliare, è manifesto che egli faceva più che una semplice metafora. Al contrario altri, fondandosi sui segni ch'ei credeva ricevere dal suo demone, sugli avvertimenti profetici, che ad esso attribuiva a proposito di se stesso o d'altri, sulle estasi, alle quali talvolta si abbandonava, come gli avvenne all'assedio di Potidea, ove restò 24 ore ritto ed immoto, vollero dimostrare che andasse sottoposto a vere allucinazioni e che perciò bisognava annoverarlo fra i pazzi. Per quanto strani sembrino i fatti che si adducono, le allucinazioni di Socrate non mi paiono provate. Il certo è che, personificando, com'ei faceva, i propri sentimenti ed anche i propri presentimenti, cadeva in una illusione, procedente ad un tempo dalla loro vivacità e dalla sua credenza nell'intervento di certe potenze mediatrici fra Dio e l'uomo. Ma cotale illusione trascorreva essa, come si volle affermare, fino all'allucinazione? È cosa che per lo meno resta dubbia. Che se il fatto della allucinazione fosse provato, se si dovesse proprio accettar la conclusione che se ne cava, in questo caso direi che vi hanno follie sublimi, follie che valgono più della saviezza di persone ragionevoli, e che sarebbe da desiderare, per onore e felicità del mondo, vi fossero molti di tali pazzi. Si pensi infatti (e qui torno al punto che io voleva soprattutto far risaltare), si pensi al carattere essenzialmente morale ed ai meravigliosi effetti di questa follia! Eccetto alcuni fatti strani, che non sono neanche ben certi, il demone di Socrate non rappresenta egli il più puro e più sublime istinto morale? E se, in virtù di ciò che uno de' vostri concittadini, uno scrittore oggidì troppo dimenticato, il signor Stappfer, chiamava molto ingegnosamente una illusione di ottica psicologica3, Socrate personificava quell'istinto e lo trasformava in una specie di ammonitore divino: quanta potenza non attingeva egli da quella superstiziosa illusione per secondare la propria volontà a malgrado di tutte le resistenze e affrontare persino la morte! Pertanto la religione di Socrate, anche in ciò che serbava dell'antica superstizione, aveva una moralità ed una grandezza, non conosciute dalla religione del suo tempo.
Quindi pur la riforma tentata da Socrate nei costumi, alla quale dianzi accennai. Per operarla ei si rivolgeva specialmente ai giovani, e studiavasi di purificare in essi l'amore, ritraendolo dal corpo all'anima, o (secondo un'espressione, del cui anacronismo mi valgo, perchè fu tratta dal nome del suo maggior discepolo) platonizzandolo. L'amore così purificato ei lo faceva aiutatore della virtù e movente delle grandi azioni. Coi costumi nuovi la donna doveva anch'essa ripigliare il grado che a lei si addice. Bisogna vedere nei Memorabili e nell'Economico di Senofonte con che rispetto e con che buon senso Socrate parlava della donna e dell'ufficio suo nella famiglia, e qual grazioso ed insieme severo ideale ei formavasi della vita domestica! Nessuno n'ebbe dipoi un sentimento più vivo e più giusto; e rincresce che il suo discepolo Platone siasi a tale proposito allontanato da lui. Un linguaggio nuovo era altresì quello di Socrate intorno agli schiavi. Egli, senza ancora dichiararsi contro la legittimità della schiavitù, cerca di rialzare la condizione dello schiavo mostrandolo non meno capace di virtù e d'onore che l'uomo libero, e raccomandando al padrone di trattarlo come tale. Del resto egli colpiva il male nella sua radice, riabilitando il lavoro, tenuto dagli antichi come opera servile. «Chi chiameremo noi saggi, diceva, i pigri o gli uomini che attendono a cose utili? Chi sono i più giusti, quelli che lavorano o quelli che fantasticano, colle braccia incrociate, sui mezzi di sostentarsi?» E siccome gli si opponeva che uomini liberi non potrebbero lavorare, rispondeva: «Che! credi tu che per esser liberi nulla debbano fare se non mangiare e dormire4?».
In politica Socrate rappresenta l'assoluta giustizia, bandita come norma e misura delle leggi positive; i diritti della persona umana e della coscienza individua opposti alla onnipotenza dello Stato; lo spirito di umanità che finalmente comincia a svincolarsi dallo spirito di città. «Io non sono, diceva, cittadino di Atene soltanto, ma cittadino del mondo.» Anche qui il pensiero di Socrate precorreva al suo tempo. Non già ch'egli si desse per riformatore politico: non aspirò mai a governare lo Stato; e non sentivasi idoneo agli affari pubblici. Del resto non trattava mai la filosofia politica che dal lato morale e pratico. Perciò insegnava ai giovani, che sarebbero divenuti uomini di Stato, la temperanza e la giustizia, nel tempo stesso che dimostrava loro la necessità di acquistar cognizioni esatte intorno alla condizione ed agli affari della repubblica. Ma appunto per questo il riformatore dei costumi diveniva un riformatore politico. Gli si diede la taccia di aver parteggiato contro la democrazia ateniese, ed è vero che ne censurò talvolta vivissimamente le istituzioni in ciò che esse avevano di contrario alla giustizia ed alla ragione. «Qual follia, egli diceva, per esempio, che una fava decida la scelta dei capi della repubblica, quando non si trae a sorte nè un architetto, nè un suonatore di flauto!» Ma non censurò meno vivamente la tirannide, anche con pericolo della vita, come può farne fede quell'apologo, diretto contro i Trenta Tiranni, del boattiere che rende ciascun giorno più scarsi di numero e più magri i buoi affidatigli. La verità si è che Socrate non fu uomo di parte, ma avversario d'ogni tirannia e apostolo della giustizia e della umanità.
Voi conoscete la sostanza della sua filosofia, ed avete potuto meco misurare il progresso, di cui essa era segno nella storia della civiltà. Ora convien dire qual fosse il suo modo d'insegnare, poichè singolar cosa è che con sì semplici mezzi egli abbia esercitata tanto grande azione. Socrate non era nè uno scrittore nè un professore; non faceva libri e non teneva scuola; ma, comparendo dappertutto ove fosse gente, sui passeggi, all'Agora, nei ginnasi, nelle private case, egli entrava in discussioni o in ragionamenti con coloro che voleva confutare o persuadere. Talvolta era un sofista quegli di cui voleva confondere l'ignoranza o l'assurdità; tal altra un giovane che egli sforzavasi di ricondurre alla saviezza. Volentieri pigliava a disputare con tutti, e a ciascuno dava ottimi consigli; ma, come già dissi, preferiva avvicinare i giovani che straordinariamente amava, e nei quali eccitava una simpatia, un'ammirazione, un entusiasmo, di cui non potremmo oggidì formarci un'idea. Egli aveva generalmente due metodi: l'uno destinato a confondere l'errore e la presunzione, l'altro ad insegnare la verità. Il primo, che egli adoperava pur co' suoi discepoli, ma che applicava segnatamente ai sofisti, consisteva nel condurre il proprie interlocutore, destramente interrogandolo e forzandolo a rispondere, a contraddirsi dà sè stesso ed a riconoscere la falsità della sua opinione. Questo è ciò che altri disse l'ironia socratica. Il secondo metodo consisteva nel trarre la verità dalla mente stessa di colui al quale voleva insegnarla, per mezzo d'una serie di quesiti abilmente preparati. Socrate chiamava questo metodo l'arte di far partorire lo spirito, e perciò paragonava sè stesso a sua madre Fenarete. Ma soprattutto predicava coll'esempio. Era il modello di tutte le virtù che insegnava, e si può dire che le doveva a sè stesso più che alla bontà della sua natura. Si racconta che un celebre fisionomista, un Lavater di quel tempo, di nome Zopiro, avendo incontrato un giorno Socrate in mezzo a' suoi discepoli, esaminò il volto di lui che rendeva immagine del dio Sileno, e dichiarò che i suoi lineamenti attestavano viziose inclinazioni. I suoi discepoli a questa sentenza diedero in un grande scoppio di risa; ma Socrate li ritenne dicendo che era nato difatti con inclinazioni cattive, ma che aveva saputo vincerle colla forza della propria volontà. Certo è che la temperanza, la pazienza, il disinteresse, la devozione di lui agli amici ed alla giustizia erano ammirabili. Voglio solamente ricordare i più belli atti della sua vita. All'assedio di Potidèa salva Alcibiade, e gli fa poi decretare il premio del valore che egli stesso aveva meritato. Alla battaglia di Delio gli riesce di liberare dalle mani dei nemici Senofonte caduto di cavallo, e, come narrasi, lo porta per alcuni stadii sui propri omeri, facendo sempre testa ai nemici che lo inseguivano. Belli atti son questi di coraggio militare e di devozione a' suoi amici. Eccone ora altri non meno belli e forse rarissimi in tutti i tempi. Quando Socrate esercitava l'ufficio di pritano (i pritani erano i magistrati ogni anno scelti a sorte per dirigere i pubblici affari e le deliberazioni del popolo), i generali vincitori nel combattimento navale delle Arginuse vennero mandati dinanzi al popolo per aver negletto di raccogliere le salme degli uccisi. Era ingiusta l'accusa, perocchè i generali avevano affidata questa cura ad abili capitani, mentre eglino stessi incalzavano il nemico per rendere compiuta la vittoria; ma un violento temporale impedì ai trierarchi di adempiere l'avuto incarico. Oltracciò il decreto che convocava gli Ateniesi a dar il voto sopra tutti quei generali insieme era illegale; un editto ordinava che, qualvolta più persone fossero accusate dello stesso delitto, separatamente si trattasse la causa di ciascuno. V'era tra i pritani chi diceva che non conveniva deliberare in modo contrario alle leggi; ma dinanzi ai clamori del popolo, il quale gridava che era padrone di far quanto gli piacesse, e minacciava d'involgere nell'accusa stessa coloro che non fossero del suo parere, i pritani sbigottiti consentirono tutti a far votare, tutti dico, eccettuato Socrate, il quale dichiarò che nulla farebbe contro alle leggi. Per mala sorte la sua coraggiosa opposizione doveva essere inefficace; i generali furono condannati e messi a morte; ma in breve il popolo si pentì di non avergli dato ascolto, e ricredendosi condannò poi quello che lo aveva tratto in inganno, Callistene. Questi potè scampare dal supplizio colla fuga; tornato poscia ad Atene fu segno alla universale esecrazione, e morì nella miseria. Il contegno di Socrate sotto la dominazione dei Trenta Tiranni non fu meno ammirabile. Crizia, che era stato discepolo di Socrate, ma che da questo era stato ripreso per mal costume, trovavasi nel numero dei Trenta. Egli, per vendicarsi dell'antico suo maestro, fece proibire con una legge d'insegnar l'arte della parola. E perchè Socrate non tenne in verun conto quella tirannica proibizione, e senza tanti riguardi diceva tutto ciò che pensava del procedere dei Trenta, Crizia ed il suo collega Caricle lo fecero chiamare, e, dopo avergli interdetto in nome della legge da loro promulgata ogni colloquio coi giovani, lo minacciarono col dirgli, alludendo all'apologo del boattiere già da loro conosciuto: «Bada bene di non diminuire anche tu il numero de' buoi.» Socrate ciò non ostante continuò il suo solito tenore di vita. Anzi rifiutò, con pericolo della vita propria, di obbedire a un ordine di Crizia che gli comandava di recarsi a Salamina per catturarvi un dovizioso cittadino, Leone Salaminio, che il tiranno aveva risoluto di far perire e di cui voleva confiscare i beni. Finalmente ei solo fra tutti gli Ateniesi prese a difendere uno de' colleghi dei Trenta, Teramene, che erasene separato per orrore dei loro delitti, e che Crizia fece morire dopo averlo cancellato dal ruolo dei Trenta. Ecco la condotta e gli esempi coi quali Socrate riponeva in credito la filosofia avvilita dai sofisti. Tutti questi esempi dovevano essere coronati dalla morte più sublime. È tempo che giungiamo a tal catastrofe.
Ben s'intende quanti nemici Socrate dovesse suscitarsi con la novità delle idee a un tempo e la inflessibile equità. Prima venivano i conservatori di quel tempo, dei quali egli combatteva i pregiudizi e sconcertava le abitudini. Poi i ministri della religione pagana, di cui, a malgrado del suo rispetto pel culto del proprio paese, egli eccitava le ire mostrando a chiare note la sua incredulità circa le vecchie favole, ed insegnando una religione più razionale, più pura e più santa. Si può vedere nell'Eutifrone di Platone con quale ironia egli sapesse confutare le idee dei sacerdoti della religione ufficiale sopra la natura della santità. Che scandalo, d'altra parte, per quei sacerdoti quel demone di Socrate, il quale, secondo l'espressione del signor Stappfer, faceva della coscienza il santuario della divinità, l'interprete immediato de' suoi oracoli, e tendeva in tal modo ad abolire la loro interposizione! Eranvi pure, oltre i tiranni, dei quali lo abbiamo visto dianzi sfidare sì coraggiosamente la iniquità, i demagoghi, corruttori del popolo. Finalmente tutti coloro di cui egli aveva ferita la vanità, svelandone la ignoranza o la stoltezza.
La guerra era già cominciata colla commedia; venir doveva poi la sanguinosa tragedia per coronare l'opera. Aristofane, facendosi sul teatro il vendicatore della religione e dell'ordine dello Stato, e sfacciatamente confondendo Socrate coi sofisti, di cui questo saggio filosofo fu sempre avversario, lo aveva esposto, nella sua commedia delle Nuvole, alle risa della moltitudine. Lo rappresentava come un ateo (allora era ateismo il non credere in Giove Olimpico), e come un corruttore della gioventù, che ammaestrava i giovani a difendere del pari il giusto e l'ingiusto, a vincere ogni processo, a dispregiare e ingannare i loro parenti. Anzi va tant'oltre Aristofane, spinto da un impeto molto facile a sentirsi in tali casi, da farne una specie di mariuolo. Agli occhi di certuni è capace di tutte le enormezze chi osa soltanto allontanarsi dalle idee comuni. La commedia delle Nuvole, antecedente di ventitrè anni al processo di Socrate, ebbe ella qualche influenza sul processo medesimo e sul deplorabile suo fine? È questione che fu molto agitata. Io non posso ripigliarla qui, e mi restringerò a far notare che i due capi d'accusa diretti contro Socrate da Anito e da Melito sono per l'appunto quelli intorno ai quali si aggira la commedia di Aristofane. Infatti quai sono eglino i due capi d'accusa?
Ecco il primo: Socrate è reo di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, e d'introdurre demoniache stranezze.
Nelle Nuvole Socrate è rappresentato come non credente in Giove. «Ma dimmi, te ne prego, domanda Strepsiade, Giove Olimpico non è egli Dio?» – «Che Giove? risponde Socrate; tu celii. Giove non è.»
Secondo capo d'accusa: Socrate è reo di corrompere la gioventù.
Nelle Nuvole, Socrate è per tutto rappresentato come corruttore dei giovani.
Ben vedete che le due accuse sono le stesse da una parte e dall'altra. Ma pel poeta comico non si trattava se non di far ridere il popolo a spese di Socrate, e così di vendicare col ridicolo la religione e la morale oltraggiate; per Anito e Melito trattasi, in nome dei medesimi interessi, di mandar Socrate alla morte. L'atto d'accusa finiva con queste parole: Pena: la morte.
Il primo capo d'accusa formolato contro Socrate, e la pena domandata dagli accusatori suoi basterebbero a provare che presso i Greci eravi una specie di religione di Stato, la quale nessuno poteva, non dico offendere, ma anche solamente negar di riconoscere, senza esporsi alla morte. Già il filosofo Anassagora, di cui Aristotele disse che, innalzandosi all'idea d'un'intelligenza che governa il mondo, aveva mostrato di conservare egli solo la propria ragione in mezzo al delirare de' contemporanei; Anassagora, accusato d'empietà, non era sfuggito alla morte se non mercè la protezione di Pericle, ed era stato sbandito da Atene ove da trent'anni dimorava. Che tale accusa d'empietà non sia stata se non un pretesto, qui poco monta; essa non era perciò meno legale. Diagora di Melo, uno dei sofisti che precedettero Socrate, parimente accusato di empietà, non si sottrasse alla morte che colla fuga. Dichiarato reo e condannato a morte, fu posto a prezzo il suo capo; era promesso un talento a chi l'uccidesse, due a chi lo consegnasse vivo. In appresso Aristotele, accusato anch'egli di empietà, partì da Atene per risparmiare diceva, agli Ateniesi un secondo attentato contro la filosofia. Per tornare a Socrate, egli soccombè principalmente sotto l'accusa d'empietà. Non cercherò fino a qual punto questa accusa, esaminandola ne' suoi termini stessi, fosse fondata: che bisogno avvi di discuterla? Sì, Socrate era reo; era reo d'insegnare una religione più pura di quella de' suoi concittadini, e d'invocare un dio nuovo, un dio che parlava alla sua coscienza. Era anche reo d'insegnare ai giovani una morale, a cui le orecchie loro non erano assuefatte. Ecco il suo delitto, ecco perchè si meritò la morte; egli pagò colla vita la novità delle sue dottrine ed i servigi che rendeva alla filosofia. Si consegnò in certo modo da sè stesso come una vittima espiatoria, e sostenne il suo alto ufficio sino all'estremo con incrollabile fermezza.
Quando l'amico suo Ermogene lo stimolava di pensare alla propria difesa, rispose: «E non ti sembra egli che io me ne sia occupato in tutta la mia vita?» Ed avendogli Ermogene domandato. in qual modo: «Vivendo, riprese, senza commettere la benchè menoma ingiustizia; e questo è, a creder mio, il mezzo migliore di preparare una difesa.» Dettogli ancora da Ermogene: «Non vedi tu che i tribunali di Atene spesse volte condannarono a morte gl'innocenti, la cui difesa li aveva inaspriti, e sovente assolvettero i delinquenti, il cui linguaggio aveva mossa la loro pietà o lusingate le loro orecchie?» – «Per Giove, disse Socrate, già due volte io mi accinsi a preparare una difesa, ma il mio demone vi si oppose.» Allora avendogli detto Ermogene che il suo linguaggio era da far maraviglia, Socrate soggiunse: «Perchè maravigliarti se la divinità giudica essere più utile per me l'abbandonare la vita in questo momento?»
Le parole che Platone gli attribuisce, se non sono quelle appunto che egli proferì, certamente esprimono i sentimenti che lo informavano, e quindi meritano di essere riferite.
«Se voi mi diceste: Socrate, noi rigettiamo il parere di Anito, e ti assolviamo a patto che tu cessi le solite tue disamine... Io vi risponderei senza titubare: Ateniesi, io vi onoro e vi amo, ma obbedisco a Dio piuttosto che a voi... Fate o no quello che Anito vi domanda, io non farò mai altra cosa, quando anche dovessi morire mille volte...»
Avendo i giudici, che erano in numero di 556, opinato 281 contro Socrate e 275 a pro di lui, ed essendo Socrate perciò dichiarato reo con soli 6 voti di più, egli aveva il diritto, a forma della legge, di condannarsi da sè ad una di queste tre pene: il carcere perpetuo, l'esilio o l'ammenda; chiese d'essere mantenuto nel Pritaneo sino alla fine de' suoi giorni, come i vincitori de' giuochi olimpici o coloro che avevano reso grandi servigi allo Stato. Questa era un'ironia che doveva irritare profondamente i suoi giudici. Ond'è che dopo una nuova deliberazione lo condannarono a morte. Se l'immaginava Socrate, e vi era perfettamente apparecchiato. Ei si accomiatò da' giudici colla serenità di un uomo, che adempì il proprio dovere; e, senza dubbio, coloro che lo avevano condannato non avevano la coscienza tranquilla al pari di lui. Uno de' suoi amici, Apollodòro, gli disse, nel suo cordoglio, essere cosa intolleranda il vederlo così morire ingiustamente; ed egli sorridendo:
«Ti piacerebbe egli forse più che io morissi reo?» Gli procurarono i suoi amici il modo di fuggire dal carcere, e lo scongiurarono a valersene; egli ricusò per non disobbedire alle leggi, in virtù delle quali era condannato, benchè ingiustamente.
Aveva saputo resistere agli arbitrari decreti dei Tiranni, allorchè gli ordinarono qualche cosa d'ingiusto; non consentirebbe, per salvar la vita, a dar l'esempio della disobbedienza alle leggi regolari del paese. Accomiatò Critone, che lo supplicava di fuggire, con queste semplici parole: «Mettiamoci l'animo in pace, mio caro Critone, e seguiamo la strada che Dio ci segnò.» Era la strada del dovere e del sacrifizio quella che Socrate voleva seguire fino all'ultimo.
Quando giunse il giorno della morte, stette ragionando co' suoi amici sulla immortalità dell'anima, la quale era per lui una speranza piuttosto che una certezza, e favellò loro su questo grande argomento con la calma e la serenità di chi non avesse dovuto bere, poco dopo, la cicuta. Finalmente... ma io non posso far cosa migliore che quella di trascrivere da Platone il racconto delle ultime ore di Socrate; racconto tanto commovente nella sua veracità, e tanto grande nella sua semplicità.
«Già il tramonto del sole era vicino... Il servo degli Undici entrò, ed appressandosi a lui disse: – Socrate, io spero che non avrò da fare a te i rimproveri che faccio agli altri: tostochè io vengo ad avvertirli, per ordine dei magistrati, che bisogna bere il veleno, essi infuriano contro di me e mi maledicono; ma in quanto a te, da che sei qui, sempre ti vidi il più coraggioso, il più mite ed il migliore di quanti son venuti in questo carcere; ed io sono ben certo che tu non hai cruccio contro di me, ma bensì contro coloro che sono la cagione della tua sventura, e che ti sono ben noti. Ora, tu sai che cosa io venga ad annunziarti; addio, sopporta con rassegnazione ciò che è inevitabile. – E nell'istesso tempo si voltò dall'altra parte sciogliendosi in lagrime, e andò via. Socrate guardandolo disse: – E anche tu ricevi da me un addio! Farò quello che tu dici. – Voltandosi poscia verso di noi: – Vedete, ci disse, quale onestà sia in quest'uomo; per tutto il tempo che io sono stato qui, egli è venuto a vedermi sovente, e si è trattenuto meco; egli era il migliore degli uomini, e ora come piange veramente di cuore! Ma pur via, Critone, obbediamogli di buon animo. Mi si porti il veleno, se è triturato; se no, lo trituri egli stesso. –
« – Socrate, gli disse Critone, il sole è ancora al di sopra delle montagne, e non è ancora al tramonto; del resto, so che molti altri non pigliano il veleno se non lunga pezza dopo che lor ne fu dato l'ordine; che essi mangiano e bevono a lor talento... Onde non devi affrettarti; tu hai ancora tempo.
« – Coloro che fanno ciò che tu dici, o Critone, rispose Socrate, han le loro ragioni; essi credono che, ciò facendo, qualche cosa abbiano guadagnato: ed io pure ho le mie ragioni appunto per non far questo; poichè, l'unica cosa che io crederei guadagnare bevendo un poco più tardi si è di rendermi ridicolo a me stesso, trovandomi sì tenero della vita da volerne risparmiare quando più non ve n'è5. Or bene, mio caro Critone, fa ciò che ti dico, e non tormentarmi più. –
«A queste parole Critone fece un segno allo schiavo che stava lì appresso. Lo schiavo uscì, e dopo poco ritornò insieme con quello che doveva dare il veleno, e che seco lo portava triturato in una coppa. Tostochè Socrate lo vide: – Ottimamente, amico mio, gli disse: ma che debbo io fare? tocca a te a insegnarmelo. –
« – Non altro, gli rispose quell'uomo, che passeggiare quando avrai bevuto, fino a che tu non senta infiacchirsi le gambe; allora coricati sopra il letto: il veleno opererà da sè. – E nel tempo stesso gli porse la coppa. Socrate la prese colla più grande serenità, senza la menoma commozione, senza cambiar di colore nel volto. Ma guardando quell'uomo con occhio fermo e sicuro, come era suo costume: – Dimmi, è egli lecito di spandere un po' di questa bevanda per farne una libazione? –
« – Socrate, gli rispose quell'uomo, noi non ne trituriamo se non quanto è necessario di berne. –
« – Intendo, disse Socrate, ma è lecito almeno, ed è giusto, innalzare una prece agli dèi, affinchè benedicano il nostro viaggio e lo rendano felice; questo è ciò che io loro domando. Possano eglino esaudire i miei voti!
«Detto ciò, accostò la coppa alle labbra, e la bevve con una tranquillità e una dolcezza meravigliosa.
«Fino allora quasi tutti avemmo bastante forza da rattenere le lagrime; ma, vistolo bere e bevuto che ebbe, non potemmo più frenarci. Quanto a me, a malgrado di tutti i miei sforzi, le lagrime mi sgorgarono in tale abbondanza che mi copersi col manto il volto per piangere sopra me stesso; perocchè non già la sventura di Socrate io piangeva, ma la mia, ripensando quale amico era io per perdere. Critone, prima di me, non avendo potuto rattenere le lagrime, era uscito; ed Apollodòro, che prima aveva sempre pianto, diedesi a gridare, a urlare e a singhiozzare con tale impeto che ad ognuno straziava il cuore, eccetto Socrate. – Che fate voi, diss'egli, o miei buoni amici? Non aveva io appunto mandato via le donne, per evitare scene sì poco convenienti? Perchè ho sempre sentito dire che bisogna morir con buone parole. Calmatevi dunque e mostrate più fermezza. –
«Queste parole ci fecero arrossire e rattenemmo il pianto. Socrate passeggiava, quand'ecco ei dice di sentirsi fiacche le gambe, e si coricò supino come il servo aveva ordinato. Nel tempo stesso il medesimo uomo che gli aveva porto il veleno si appressò, e, dopo avergli esaminato alquanto i piedi e le gambe, gli strinse un piede fortemente e domandò se lo sentiva; rispose di no. Gli strinse allora le gambe, e portando sempre più in su le mani, fece a noi manifesto che il corpo si agghiacciava e s'irrigidiva; e, toccandolo da sè, soggiunse che, giunto il freddo al cuore, Socrate ci avrebbe abbandonati. Già tutto il basso ventre era agghiacciato, quando egli scoprendosi, poichè era coperto, disse (e queste furono le sue parole estreme) – Critone, noi dobbiamo un gallo ad Esculapio; non dimenticarti di compiere questo dovere6. –
« – Sarà fatto, rispose Critone; ma pensa se hai ancora qualche cosa da dirci. –
«Ei nulla rispose, e poco dopo fece un moto convulso. Il servo allora lo scoprì tutto: i suoi sguardi erano fissi. Accortosene Critone, gli chiuse la bocca e gli occhi.
«Ecco la fine dell'amico nostro, e del migliore, possiamo dirlo, degli uomini del nostro tempo, del più saggio e più giusto di tutti gli uomini7.»
Con Platone noi conchiuderemo: sì, Socrate fu il più saggio ed il più giusto di tutti gli uomini; ma con ciò non è detto tutto; egli fu uno de' più grandi maestri dell'umanità e uno dei più utili suoi benefattori: la servì colla vita e la servì colla morte. Perciò, benchè non abbia lasciato una sola linea di scritto, non vi è in tutta la storia della filosofia un nome più popolare.