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Nella passata lezione abbiam visto il libero pensiero perseguitato nella persona di Socrate dalla tirannide religiosa di Atene; trasportiamoci ora dal mondo greco al romano, al tempo degl'imperatori: vedremo la filosofia in lotta col dispotismo dei Cesari, e parecchi de' suoi rappresentanti cader vittime dell'indipendenza del loro spirito e carattere. Se in loro non si perseguita più specialmente, come in Socrate, il diritto del libero pensiero in materia religiosa (benchè la religione ufficiale del tempo s'intrometta essa pure, come vedrete, in un modo che sarebbe veramente comico, se non fosse odioso), si perseguita il non meno sacro diritto del pensiero indipendente in materia politica, il diritto della coscienza di fronte alle pretensioni della onnipotenza imperiale. Ecco ciò che gli stoici, dei quali intendo parlare oggi, mirabilmente rappresentarono, ed ecco ciò che pagarono colla propria vita. Anch'essi sono dunque martiri del libero pensiero, poichè questo non si esercita soltanto nel campo della religione e del culto, ma in quello pure della politica e del governo. Non avvi autorità, religiosa o civile, che in ogni caso quello non abbia il diritto di discutere; e ogni volta che le leggi della coscienza sono oltraggiate, esso ha il dovere di difenderle ad ogni costo.
Ma per ben apprezzare la bellezza degli esempi che gli stoici diedero al mondo, bisogna farsi una giusta idea di ciò che era allora il governo del mondo, il cesarismo. Si è tentato a' giorni nostri di riporlo in onore rappresentandolo come necessario, esaltandone i benefizi, attenuando o negando i suoi delitti. Questa era una delle tesi favorite di Napoleone I, e la cosa era naturalissima; egli difendeva i suoi modelli; ed è ancor naturale che quella tesi abbia oggidì nuovi fautori8.
Io non ho bisogno di discutere fino a qual segno il cesarismo fosse allora necessario, nè se i benefizi della sua amministrazione in Roma e nelle provincie fossero così grandi come si dice; in quanto a' suoi delitti, son troppo patenti e troppo scandalosi, e perciò la tesi, a cui accenno, non merita di essere sopra questo punto discussa. Lasciamo pure che i nostri novelli apologisti del cesarismo dieno a tali orrori, ai delitti di Nerone, per esempio, contro suo fratello e contro sua madre, il nome di difficoltà di famiglia, e passiamo oltre. Basta rammentare che cosa era il cesarismo. Si può di primo tratto definire in due parole: il cesarismo è l'onnipotenza assoluta nelle mani d'un capo d'esercito.
Ora, un'istituzione che mette tutti i poteri nelle mani di un sol uomo, non già come la dittatura in tempo di repubblica per superare una crisi momentanea, ma per governare gli uomini in perpetuo; che dice all'uno: «Tu sarai l'assoluto padrone della libertà, dei beni, dell'onore, della vita di tutti gli altri;» e a tutti gli altri: «Voi farete, pena la morte, quanto ordinerà il beneplacito del vostro imperatore;» che fa così del primo più che un uomo, una specie di dio, ma un dio falso, e degli ultimi qualche cosa men che uomini, cioè schiavi, un armento; una cotale istituzione, qualunque sieno i nomi che ostenta di conservare, e le forme sotto cui si traveste, è per se stessa una mostruosità, un attentato alla umanità, un delitto di lesa umanità, e se riesce a stabilirsi definitivamente, produce due inevitabili effetti: degrada a poco a poco tutti gli uomini, sui quali stende il proprio impero e finisce col perdere la società stessa che pretendeva di salvare. Vedete come sotto il dispotismo dei Cesari la corruzione piglia adagio adagio tutti i cittadini romani, sì fieri per lo innanzi; quanti ve n'ha che resistano? E vedete ciò che divenne in fin de' conti Roma nelle mani de' suoi salvatori; preda dei barbari. I nostri apologisti del cesarismo dicono che i Cesari ritardarono di 400 anni almeno il dissolvimento di Roma; io dico invece che operarono a tal fine per 400 anni. Il cesarismo produce anche un terzo effetto, quasi tanto certo quanto gli altri due, un effetto riguardante la persona stessa del Cesare, ma che necessariamente si fa sentire nella società, di cui l'imperatore è il dispotico padrone: genera la follia, e che follia! Voleste fare d'un uomo una specie di dio: si vede da ultimo che ne faceste un miserabile forsennato. Salvo pochissimi che seppero resistere alla vertigine, gl'imperatori romani furono veri dementi, e dementi della peggior qualità. Tali sono Caligola, Nerone, Vitellio, Domiziano e tanti altri. È questo un tema che io raccomando alle meditazioni del dotto medico, membro del Corpo legislativo dell'impero francese, che fece già un libro sul demone di Socrate, vale a dire, secondo il suo modo di vedere, sopra la follia di Socrate; egli troverà qui un altro genere di follia che non manca d'importanza.
Ecco che cosa era quel cesarismo che vorrebbesi riporre in onore oggidì per farcene più docilmente accettare la copia. Or bene, questa peste gli stoici combatterono con ogni loro possa, anche a rischio della vita. Io domandava testè quanti cittadini romani aveano saputo resistere alla tirannide imperiale: ve ne furono, e furono gli stoici. Questi almeno protestarono con le lezioni e con gli esempi contro la servilità e la depravazione generale. Se gli esempi restarono inefficaci, ci offersero però sempre un consolante spettacolo. L'animo si sente confortato vedendo quei caratteri che nessun dispotismo ha la forza di piegare, e nessuna corruzione può intaccare, i quali soli rimangono ritti, quando intorno a loro s'infiacchiscono e si degradano tutti. L'umana dignità non è dunque tutta perduta! Accanto a quel gregge senza nome vi han dunque uomini ancora! Si prova qui un sentimento simile a quello del viaggiatore, il quale, gittato dalla tempesta sopra una spiaggia deserta, dopo essere lungamente andato errando e senza speranza in un paese che crede disabitato, scorge finalmente la impronta di piede umano. Hominum vestigia agnosco.
Ma prima di riferire gli esempi che gli stoici porsero, io vorrei darvi un'idea del carattere e dell'ufficio della loro dottrina, acciocchè sappiate in modo generale almeno qual era la filosofia che temprava tali caratteri e produceva tali esempi, e quali servigi essa rendeva all'umanità.
Per gli stoici, come per Socrate, il più importante dei rami della filosofia è la morale, ed il fondamental principio della morale è il vivere conformemente a quella natura ragionevole e libera che ci distingue dai bruti. Questo è l'unico bene che abbia un valore assoluto; tutto il resto, sanità, ricchezze, grandezze umane, non ha che un valore relativo, ed è un nulla in confronto di quel verace bene che consiste nell'onesto. Quindi il disprezzo degli stoici pel piacere e pel dolore. Certo la dottrina loro su questo proposito era eccessiva; ma, come notò molto bene il Montesquieu, essa non eccedeva se non nelle cose, nelle quali vi ha grandezza. Perciò, come pur ebbe a notare quell'acuto e imparziale scrittore, non vi fu mai dottrina morale, i cui principii fossero più degni dell'uomo e più valevoli a formar gente dabbene. Qual dottrina infatti più valevole a formar gente dabbene, e, al bisogno, eroi e martiri, di quella con che dicevasi all'uomo:
Summum crede nefas animam preferre
pudori,
Et propter vitam vivendi perdere causas9.
E non crediate che la virtù stoica si restringesse a tutelare nell'individuo la dignità umana, senza darsi pensiero degli altri uomini; ve ne fareste un concetto non pieno nè preciso. Il Montesquieu, che non mi stanco mai di citare, la giudica bene altresì quando soggiunge: «Mentre gli stoici reputavano cosa vana le ricchezze, le grandezze umane, il dolore, gli affanni, i piaceri, non erano intenti che a operare per la felicità degli uomini, ad esercitare i doveri della società; pareva che reputassero quello spirito sacro, che credeano essere in loro, una specie di Provvidenza favorevole che vegliasse sul genere umano. Nati per la società, credevano che loro destino fosse faticare per essa; non già a carico di essa, in quanto che le ricompense loro erano tutte in se stessi; e, felici per la sola filosofia loro, pareva che la sola felicità degli altri potesse aumentar la propria.»
Tal cosa mi conduce al secondo punto che io voleva indicare, l'ufficio cioè della filosofia stoica nel mondo ed i servigi ch'essa rese all'umanità.
Questo ufficio fu duplice, ed è notevole che in ciò lo stoicismo riassunse, continuò ed ampliò l'opera incominciata da Socrate. Infatti, suo ufficio fu difendere e spargere nel mondo, da una parte, l'idea dell'unità di Dio, il monoteismo, opposto al vecchio politeismo greco, e, dall'altra, l'idea dell'umanità, opposta allo spirito di città. Questa seconda idea, al pari della prima, lo stoicismo la esplicò, la mise in piena luce, e ne trasse le applicazioni che essa comporta.
Dello stoicismo è veramente giusto il dire ciò che il Voltaire disse del Montesquieu: «Il genere umano aveva perduto i suoi titoli; ed esso glieli restituì.» Invero, dove e quando la grande idea dell'unità e della dignità del genere umana era essa stata insegnata e praticata? Platone ed Aristotele, quei luminari dell'antichità, non si erano, a malgrado degl'insegnamenti di Socrate e del loro sommo intelletto, sollevati fino a tal punto. Quella idea apparisce finalmente e brilla di tutto il suo splendore nella dottrina del Portico: questa proclama l'eguaglianza naturale di tutti gli uomini e la fratellanza del genere umano. L'uomo, quale lo stoicismo vuole che sia, si associerà co' suoi simili mediante il vincolo della carità, e gli altri uomini riguarderà come facenti parte naturalmente della stessa famiglia al par di lui10; riconoscerà che non è rinchiuso nelle mura della città, ma che è, secondo il detto di Socrate, ripetuto da Cicerone, un cittadino del mondo intiero, come se il mondo intiero non formasse che una città sola11. Ed ecco la dottrina che altri accusa d'essere una dottrina di decadimento! Ma da quando in qua il progresso è egli diventato decadimento? Già il dissi: lo stoicismo fu principalmente una scuola di morale; e appunto facendo della morale il fine della filosofia, e fondandola sui principii che dianzi ho ricordati, le fece fare meravigliosi progressi. Ne sieno testimoni le grandi idee da me indicate. Lo stoicismo non si contentò di proclamarle nella loro generalità astratta, ma ne curò le applicazioni sociali; e se non gli fu dato di operare una radicale riforma nei costumi e nelle istituzioni del suo tempo, vi esercitò almeno una salutare azione. Comunque sia, esso gittò nel mondo preziosi semi, i quali, sebbene cadessero sopra un terreno ingrato, non dovevano andare perduti.
Io piglierò per esempio due punti: la famiglia e la schiavitù, perocchè lo stoicismo difese mirabilmente la causa di quei due oppressi dell'antica società, la donna e lo schiavo. Esso applicava all'unione dell'uomo e della donna il suo gran principio dell'eguaglianza dei doveri e dei diritti. Senza dimenticare, come Platone, la differenza dei sessi, ne proclamava l'eguaglianza davanti alla legge morale e davanti al diritto.
Stabiliva prima di tutto che la donna è moralmente uguale all'uomo; poi, da questa uguaglianza morale deduceva che la donna non deve essere nè la serva nè la pupilla dell'uomo, ma la sua compagna; e che, se il marito può esercitare sopra di essa una certa autorità, ha da esser questa non una potestà d'impero, ma bensì di protezione e d'amore. Ond'è che lo stoicismo, senza recar offesa alla purezza del vincolo coniugale, ma esaltandolo invece, v'introduceva l'eguaglianza che n'era esclusa dall'antico diritto romano. E le sue idee a questo proposito non furono senza efficacia sui costumi e sulle leggi; esse conservarono o ripristinarono in mezzo alla corruzione imperiale un po' della purezza antica, e ispirarono alcune disposizioni del diritto pretorio che succedette al vecchio diritto romano12.
In quanto alla schiavitù, lo stoicismo non si restrinse, come aveva, fatto Socrate, a rappresentare gli schiavi come capaci di virtù quanto i loro padroni, e a raccomandare ai padroni di trattare i loro schiavi come uomini liberi; ma condannò formalmente la istituzione istessa in nome del suo principio dell'eguaglianza naturale di tutti gli uomini. Dione Grisostomo, fra gli altri, combatte la schiavitù come quella che non ha altro principio che la forza, ed applica a tutti i proprietari di schiavi ciò che Plauto disse del prostitutore: «Voi non potete nè acquistare nè affrancare, nè ritenere in proprietà esseri che non vi appartengono. Non avendo ricevuto titolo veruno legittimo, voi non ne potete trasmettere.» Se lo stoicismo non potè ottenere dall'antica società l'abolizione di una istituzione tanto fortemente radicata e che dura anch'oggi in una parte della società moderna dopo 18 secoli di Cristianesimo, fece almeno tutto ciò che poteva per addolcire la condizione degli schiavi, eccitando su questo punto la riforma dei costumi e quella delle leggi; e qui pure esercitò una felice azione, intantochè attendeva il trionfo definitivo, allora tanto lontano, dei suoi principii.
Tali erano le massime della dottrina stoica, e tal fu il suo ufficio nell'antica società. Ora vediamo qual fosse il contegno dei savi formati da questa scuola di fronte agl'imperatori romani, che la vertigine della onnipotenza spingeva a tutti i delitti e a tutte le follie; di fronte, per esempio, ad un Nerone. Certo tutti gli stoici non si sollevarono alla medesima altezza: fra loro furono anime fiacche, la cui condotta rimase molto inferiore ai loro principii. Tal fu il precettore e troppo a lungo ministro di Nerone, Seneca, il quale onorò più la filosofia coll'alto suo intelletto che col suo carattere. Se le viltà e le infamie, di cui egli fu accusato, sono tutt'altro che provate13, e se la sua morte fu bella, non fu però la sua vita immune da debolezza, nè si potrebbe lavar da ogni bruttura la sua memoria. Ora, io cerco soprattutto eroi, e, la Dio mercè, gli eroi qui non mancano. Perocchè, come disse pure il Montesquieu della scuola stoica: «Sapea sol essa formare i cittadini, sol essa formava i grandi uomini, sol essa formava i grandi imperatori,» quando, per caso, ve ne furono. Lasciamo i grandi imperatori, e vediamo i cittadini, i grandi uomini, che lo stoicismo oppose al cesarismo.
Ecco dapprima Peto Trasea, nel quale Nerone, giusta l'espressione di Tacito, volle far morire la virtù istessa.
Questo principe aveva molte ragioni per abborrire Trasea e per volerne la morte. Mentre i senatori gareggiavano di viltà nella turpe deliberazione, a cui diede argomento il misfatto di Nerone contro la madre sua; mentre statuivano che il giorno natalizio di Agrippina fosse inscritto fra i giorni nefasti, che una statua d'oro fosse consacrata a Minerva (la dea della sapienza!) e che si collocasse presso quella statua l'immagine del principe parricida, Trasea abbandonava il Senato, il che, osserva Tacito, fu per lui una cagione di pericolo senza essere per gli altri un segno d'indipendenza. Essendosi decretati onori divini a Poppea, donna galante che aveva eccitato Nerone a dar morte ad Agrippina, e per la quale finalmente aveva poi quel principe ripudiata sua moglie Ottavia, Trasea si era assentato per non comparire ai funerali di essa, a quei funerali, in cui Nerone fece dalla tribuna l'elogio della sua consorte, vantandone la bellezza, e dicendo che aveva dato alla luce una dea. Egli schivava ordinariamente di assistere alle preci per l'imperatore, nè mai aveva fatto sacrifizio per la conservazione del principe e della sua voce divina; poichè tal era l'oggetto delle preci pubbliche in quel tempo! Schivava inoltre, al principio di ciascun anno, di dar giuramento all'imperatore, e da tre anni non mostravasi più alle adunanze del Senato. Allorchè tutti a gara correvano per condannare le vittime designate dal principe, egli tostamente protestava colla sua assenza, non potendo far di più, contro quella servilità e quei delitti, e si occupava dei negozi de' suoi clienti, ai quali poteva almeno esser utile. Tali erano i delitti di Trasea.
Un certo Cossuziano, che egli aveva fatto condannare per un'accusa di peculato mossagli dai Cilici, profittando di tutti quei torti finì d'irritare l'animo di Nerone. Egli rappresentava Trasea come un empio ed un fazioso: era insultare la religione il non riconoscere la divinità di Poppea (spernit religiones, diceva il suo accusatore); era un annichilar tutte le leggi il ricusare di dar giuramento sugli atti di Cesare e di Augusto (abrogat leges). Soggiungeva, per ispaventare il principe coi pericoli di tal condotta, che gli atti diurni del popolo romano (i giornali del tempo) non erano letti con tanto desiderio nelle provincie e negli eserciti che per sapere ciò che Trasea non faceva. La qual cosa dimostra, sia detto in breve, che gli eserciti e le provincie non erano tanto contenti dell'impero come si volle far credere, e come taluno anche oggidì sostiene, e che l'opposizione di Trasea trovava simpatie nascoste. Il silenzio universale, che il terrore faceva allora nel mondo, si tenne come un consenso universale. Cossuziano finiva pregando Nerone che lasciasse al Senato la cura di decidere fra Trasea e lui. A siffatta accusa s'aggiunse quella contro un altro fazioso dello stesso genere, Barea Sorano, che nel suo proconsolato d'Asia aveva inacerbito, dice Tacito, l'odio dell'imperatore colla sua equità: egli aveva lasciato impuniti gli abitanti di Pergamo, i quali avevano impedito che un liberto dell'imperatore, Acrate, portasse via i loro quadri e le loro statue. Nerone prefisse per le due accuse il tempo che Tiridate doveva andar a ricevere la corona di Armenia. Nel giorno che tutti i cittadini uscivano per andar incontro a quel principe, Trasea ricevette l'ordine di restare in casa. Egli scrisse a Nerone per sapere il suo delitto. Ben poteva salvare la propria vita umiliandosi davanti all'imperatore, e ciò sperava Nerone; ma ciò appunto Trasea non poteva fare. Deluso nella sua speranza, Nerone fece adunare il Senato, affinchè la causa facesse il suo corso. Trasea deliberò co' suoi congiunti se avesse a tentare o a sdegnare una giustificazione, e in questa deliberazione un giovane formato alla scuola istessa (lo troveremo fra poco nel novero delle più illustri vittime del cesarismo), Rustico Aruleno, offrì di opporsi, come tribuno del popolo, al decreto del Senato. Trasea rattenne questo zelo, inutile per l'accusato, funesto pel difensore; soggiunse che, in quanto a sè, la vita era compiuta, e ch'ei non doveva lasciar la regola di condotta che aveva da tanti anni osservata.
Bisognerebbe leggere in Tacito stesso il racconto della tornata, nella quale i senatori furono chiamati a deliberare intorno a Trasea ed a Barea Sorano14. L'ingresso del Senato era cinto da un gruppo d'uomini che lasciavano scorgere la spada sotto alla toga; le piazze e i luoghi pubblici ingombri d'altri drappelli; i senatori per entrare nel Senato passavano sotto gli occhi e fra le minaccie dei satelliti dell'imperatore; l'accusatore Cossuziano e il degno collega che Nerone gli aveva assegnato, Marcello Eprio, denunciavano in Trasea un ribelle, di cui dovevasi punire la insolenza, e nel suo genero Elvidio Prisco il complice de' suoi furori; chiedevano che più non si favorisse l'orgoglio di un uomo, il quale si rattristava del bene pubblico, si allontanava dai tribunali, dai teatri, dai templi, e che la morte togliesse costui a una patria che da lunga pezza era aliena dal suo cuore. Profondo e misterioso terrore regnava tra i senatori durante il discorso di Marcello Eprio, la cui voce, il viso e gli occhi sembravano gettar fiamme; essi non potevano non sentire rispetto figurandosi il volto venerabile di Trasea, e alcuni s'intenerivano ripensando alla giovine età di Elvidio Prisco, pronto a soffrir la pena d'una nobile parentela. Poi, l'accusatore di Sorano denunciava anche egli quell'altro ribelle, ed aggiungeva che la figlia di Sorano erasi consociata ai delitti del padre col dar denaro a certi indovini; la quale giovane, a cui l'esilio aveva tolto il consorte, compariva al fianco del vecchio padre suo dinanzi al tribunale dei consoli, e abbracciava gli altari, esclamando che non aveva invocato veruna divinità funesta, nè mandato veruna imprecazione, ma solamente voluto sapere se suo padre sarebbe salvo; che in ogni modo il padre nulla di ciò conosceva, e che se delitto vi era, essa sola avevalo commesso. Gettavasi allora il padre nelle braccia della figlia, e questa slanciavasi in quelle del padre, ma i littori, fra ambidue precipitandosi, li separavano. Poscia veniva il deposto d'un testimone venduto, d'uno di quegli ipocriti e di quei furbi che in tutti i partiti, in tutte le scuole, in tutte le religioni si rinvengono, e dei quali, secondo il detto di Tacito, bisogna diffidare come si diffida degli scellerati coperti di ignominia, la cui infamia è notoria; d'un uomo che aveva insegnato lo stoicismo a Sorano ed ora profanava quella nobile filosofia di che dava lezioni; indi, quasi per sollevare la coscienza da tante infamie, appariva il coraggio e la devozione d'un ricco cittadino di Bitinia, il quale, avendo amato e coltivato Sorano nella prosperità, non volle abbandonarlo nella sventura, e per questo fatto venne spogliato de' suoi beni e sbandito; finalmente il Senato pronunziava la sentenza, condannando a morte Trasea, Sorano e sua figlia Elvidia, lasciando loro la scelta della morte; cacciava in bando Elvidio Prisco, genero di Trasea, e ricompensava largamente gli accusatori.
In quel mentre Trasea si era ritirato ne' suoi giardini, dove aveva radunato parecchie persone d'alto grado, uomini e donne, e dove s'intratteneva ragionando col filosofo Demetrio. «Si argomentava, racconta Tacito, dalla loro pensosa gravità e dalle parole che si poteano udire, quando alzavano la voce, che ragionavano della natura dell'anima e della separazione dello spirito dal corpo.» Infine uno degl'intimi amici di Trasea venne ad annunciargli il decreto del Senato. «Gli astanti, continua Tacito15, cui ora fo parlare, si abbandonarono alle querimonie ed alle lagrime; Trasea li pregò di ritrarsi e di non esporsi a partecipare alla sorte di un condannato. Volendo Arria sua sposa, ad esempio della madre, morire insieme col marito, egli la supplicò di vivere e di non orbare la figlia dell'unico sostegno che le restava. Poscia si avanzò verso il portico. Il questore ve lo trovò quasi giulivo, perchè aveva saputo che suo genero Elvidio era solamente esiliato dall'Italia. Ricevuto il decreto, chiamò nella sua camera Elvidio e Demetrio, e si fece aprir le vene di ambe le braccia. Allora pregò il questore ad avvicinarsi, e, spargendo a terra un po' del suo sangue, disse: «Facciamo una libagione a Giove Liberatore. Guarda, o giovane, e sviino gli dèi da te questo presagio. Del resto tu nascesti in un tempo, nel quale anche il coraggio ha bisogno di grandi esempi.» Poscia, siccome la morte era lenta a venire, ed egli soffriva, si rivolse a Demetrio...»
Ma qui non posso continuare a legger Tacito, perchè il rimanente di questa sua mirabile narrazione andò perduto. Fortunatamente però ei disse abbastanza da mostrarci, coll'esempio di Trasea, come quella filosofia che insegnava a ben vivere insegnasse anche a morire.
Fermiamoci ora a quell'Elvidio Prisco che vedemmo gettato nell'esilio dallo stesso decreto che condannò a morte il suocero di lui. Egli era degno genero di tanto uomo. Nella prima gioventù si era dedicato ai più alti studi, e ciò «non, come tanti altri, dice Tacito16, per nascondere sotto pomposi titoli una ignobile inerzia, ma per dedicarsi ai pubblici negozi, rafforzandosi a un tempo contro le vicende della sorte. Egli aveva, Tacito soggiunge, abbracciate le dottrine di quei filosofi, i quali non riconoscono altro bene che la virtù, altro male che il vizio, e reputano la potenza, lo splendore del grado e tutto ciò che è fuori dell'anima, nè un bene nè un male.» Qui voi vedete la dottrina stoica tal quale io ve l'ho testè presentata.
Le virtù del suocero confermarono Elvidio in quelle massime, ed egli eccellentemente vi attinse il sentimento della indipendenza. Munito di tal dottrina ed incuorato da tali esempi camminò dirittamente nella vita e non temè punto la morte. «Cittadino, senatore, marito; genero, amico, egli adempì sempre tutti i doveri della vita, spregiò le ricchezze, stette tenacemente fermo nel bene, e fu inaccessibile al timore.»
Tornato appena dall'esilio, sotto il regno di Galba, si adoperò ad accusare il delatore di Trasea, Marcello Eprio. Siccome la caduta di quest'uomo avrebbe tratto seco molti colpevoli, il Senato si divise, tanto più che Galba mostravasi irresoluto, ed Elvidio fu costretto a desistere dal processo; ma quando si offerse l'occasione, egli non ristette dall'opprimere Marcello sotto il peso della sua infamia. Nel giorno che l'impero fu conferito a Vespasiano, avendo statuito il Senato che si spedissero deputati a questo principe, Elvidio domandò che essi fossero nominatamente eletti dai magistrati sotto la religione del giuramento; ma per timore di non essere in questo modo nominato, Marcello chiese il voto nell'urna. «Perchè, sclamò Elvidio, Marcello paventa egli tanto il giudizio dei magistrati, se non per la ragione che è oppresso dalla rimembranza de' suoi delitti? L'urna e la sorte non giudicano i delitti.»
L'apostrofe era sanguinosa. E sapete voi qual fu la risposta di Marcello? Voglio riferirla, perchè mirabilmente esprime la bassezza di quella razza d'uomini. Egli rispose che non il discorso suo, ma il giudizio del Senato avea condotto a morte Trasea; che quelle false mostre di giustizia erano i balocchi di Nerone; che l'amicizia di un tal padrone gli aveva cagionato tante angosce, quante ne cagiona l'esilio ai proscritti; che desiderava imperatori virtuosi, ma che li tollererebbe quali che fossero; che ammirava egli, semplice membro di quel Senato che aveva accettata al par di lui la servitù, la costanza ed il coraggio d'Elvidio Prisco, ma lo consigliava di non ostentare una troppo grande indipendenza verso il nuovo principe.
Tal linguaggio si addiceva a tal uomo; esso non faceva che renderlo viepiù spregevole. In quanto a Elvidio, egli si mostrò sotto il novello principe qual era sempre stato, qual fu sempre: l'avversario della onnipotenza imperiale. Quando i pretori del risparmio, lamentandosi della miseria dello Stato, chiesero che si moderassero le spese, ed il console designato, sbigottito dalle difficoltà del rimedio, rimetteva l'affare al principe, Elvidio espresse allora il parere di farlo regolare dal Senato. Ma il Senato aveva tanto fatto propria l'abitudine della servilità, che non osò far cosa alcuna da se stesso. Quel nuovo regno doveva essere funesto ad Elvidio. Irritato dalla opposizione di lui, Vespasiano lo fece porre in carcere, poi l'esiliò e finalmente lo fece uccidere.
Sotto il regno seguente, di Domiziano, quel Nerone calvo, come lo appella Giovenale, o, come Tacito lo chiamò, quel mostro dal viso rosso, ed il cui rossore, facendogli una maschera alla vergogna, gli dava modo di contemplare il supplizio delle sue vittime e di contarne i sospiri, Rustico Aruleno, quel giovane che vedemmo pronto a sacrificarsi per salvar Trasea, fu anch'egli messo a morte per aver lodato questo grand'uomo. Un altro stoico, Senecione, pagò similmente colla vita le lodi ad Elvidio. «Non bastò, dice Tacito17, incrudelire contro gli autori, ma altrettanto si fece contro gli scritti; ed i triumviri ebbero lo incarico di bruciare nei Comizi e nel fôro gl'immortali monumenti del loro ingegno. Certo credevasi di soffocare in quelle fiamme la voce del popolo romano, la libertà del Senato, la coscienza dell'uman genere. Ai filosofi si diede lo sfratto, e si esiliarono tutte le arti oneste per fare sparire fin le ultime vestigie della virtù... Lo spionaggio ci ritolse, soggiunse Tacito, il diritto di parlare e di ascoltare; avremmo fin perduto la memoria colla parola, se l'uomo potesse dimenticare con tanta facilità, con quanta può tacere.»
Quando tali cose avvenivano, non era ancora scorso un secolo, dacchè la repubblica aveva dato luogo all'impero.
Voi avete udito Tacito; ora ascoltate un suo recente commentatore. Io non ne citerò se non poche linee; voi non ne tollerereste facilmente di più; ma queste poche voglio citarle almeno come saggio di tal genere di letteratura che oggidì rifiorisce:
«Ciò che gl'imperatori amavano è ciò che bisogna amare. Gl'imperatori amarono le lettere, che adornano e addolciscono lo spirito, le lettere, senza le quali la vita non sembra sceverarsi dalla materia. Gl'imperatori amarono altresì, ed alcuni anche troppo, la filosofia, cioè lo studio di se stesso e del mondo, uno dei più nobili privilegi dell'uomo, una delle forme della ragione pubblica tanto utile all'esperienza, e la cui duplice cooperazione (sic), che Iddio dirige, regola l'incremento dell'umanità. Ciò che gl'imperatori punirono, ciò che infrenarono o vollero infrenare, furono i perturbatori letterati o filosofi; furono quegli spiriti violenti o traviati, i quali non sono nè le lettere nè la filosofia che pretendono di rappresentare, mentre non rappresentano che la loro presunzione18»
Di fronte ai mostri che succedettero sul trono imperiale, da Tiberio a Domiziano, io qui ritrassi, con alcuni dei più illustri esempi, gli uomini che lo stoicismo aveva creati. Ma non sarebbe giusto il non ricordare, al fianco di essi, le donne che seppero esser pari all'altezza dei mariti o dei padri, e delle quali la storia celebrò l'eroismo. Esse non hanno minor diritto alla nostra ammirazione, e ben meritano che a loro si tributi la parte d'omaggio che il poeta fa alle donne:
. . . . . A voi rendasi gloria!
Oh! sì, ben siete il fiero e gentil sesso,
Fervido al sacrifizio, imperturbato
Nei patimenti, in Roma o in Francia sempre
A combatter parato, e la cui bella
Alma pareggia degli eroi l'altezza;
Il qual sovra il cammin dello stupito
Tiranno per colpirlo di spavento
Nel mezzo della sua gloria fugace
ora una vergin pone, ora una madre.
Già vedeste la nobile devozione di Arria, moglie di Trasea, che volea morire col proprio consorte, nè acconsentì a sopravvivergli se non perchè egli la supplicò in nome dei loro figli. Arria desiderava imitare l'esempio di sua madre, quell'altra Arria che, porgendo a suo marito, condannato a morte da Claudio, il pugnale che ella si era confitto in seno, gli disse: «Prendi, non fa male.» Sublime parola, maraviglioso commento della dottrina stoica! Il dolore non è un male, quando parla il dovere o la devozione. Trasea, genero di lei, presente a quella scena, voleva dissuaderla dal morire con Peto, dicendole: «Ma se io dovessi morire, vorresti tu che la figlia tua morisse con me?» – «Sì, rispose, se ella avesse vissuto in unione sì lunga ed intima con te, come io con Peto.»
Sua figlia, moglie di Trasea, mostrossi degna e del padre e del marito, e una terza Arria, figlia di Trasea, e moglie di Elvidio Prisco, si mostrò degna pur essa della madre, dell'avola, del padre e del marito. In queste famiglie stoiche l'eroismo era nelle donne, non meno che negli uomini, una virtù di famiglia.
E così gli stoici ricevevano la ricompensa non solo delle loro private virtù, ma eziandio degli sforzi generosi della filosofia loro per rialzare la dignità morale della donna e la condizione sua nella famiglia. Provavano la soddisfazione di vedere che essa rispondeva al loro ideale; poteano dire morendo che lasciavano dietro di sè figlie o mogli degne di loro, quando esse consentivano di sopravvivere; e quelli sentivansi incuorati, nell'ultima prova, dalla simpatia di ciò che più amavano nel mondo, dopo la virtù.