Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

TERZA LEZIONE Ipazìa

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TERZA LEZIONE

Ipazìa

Signore e Signori,

Mentre Roma era preda degl'imperatori, per divenir poi quella dei Barbari; mentre il cesarismo operava il dissolvimento della società antica, che lo stoicismo invano studiavasi di rigenerare colle sue forti e grandi dottrine e co' suoi esempi eroici; una nuova religione era nata in una delle provincie più remote e più oscure dell'impero romano, era nata una religione novella, la quale, trovando in certa guisa il mondo preparato a riceverla, ben presto dovea succedere all'antica, ed assorbire per secoli la filosofia istessa. Quella religione bandiva al pari dello stoicismo, ma sotto forme e con l'autorità che una semplice dottrina filosofica non poteva prendere, il dogma della unità di Dio ed il principio della fratellanza di tutti gli uomini e della carità universale. La morale ch'essa insegnava era tanto semplice, quanto sublime; facile a conoscersi da tutte le intelligenze, anco dalle persone più ignoranti, si rivolgeva a tutti gli uomini, senza distinzione di classi e di condizioni sociali; rammentava loro che, ricchi o poveri, potenti o deboli, padroni o schiavi, erano tutti fratelli; e perciò dicea loro: «Amatevi scambievolmente.» E questa legge di amore e di carità la predicava in nome di un Dio di bontà, di pace e di misericordia. Ma, strano a dirsi! questa religionepura, sì santa ad un tempo e sì umana, trasse seco una intolleranza ed una oppressione del libero pensiero che il mondo antico non aveva conosciuta. Come si spiega questo singolar fenomeno?

Ciò vorrei ricercare prima di narrare la storia di qualcuna delle principali vittime di questa nuova specie d'intolleranza che sono costretto a chiamare intolleranza cristiana, ma che vorrei pur non chiamare con tal nome, perchè mi ripugna di unire alla trista parola, intolleranza, un epiteto tratto dal nome istesso di colui che diede agli uomini il Vangelo (la buona novella), e che, in premio della sublime sua dottrina, sofferse anch'egli la persecuzione e la morte.

Ho parlato della intolleranza pagana, e mostrato in Socrate una vittima di essa. Ma conviene prima intenderci sulla natura di quella intolleranza. Nell'antichità, greca o romana, la religione non avea una dottrina ben definita, un codice sacro, un corpo di sacerdoti incaricato di conservare, d'interpretare e di svolgere la tradizione, sia scritta, sia orale, e che formasse un potere indipendente dal politico, un clero, una Chiesa. Non dogmi precisi, ma una raccolta di tradizioni vaghe ed incoerenti, vale a dire miti e leggende venuti non si sa donde, e formati non si sa come. Non un testo sacro; non si aveano altri libri, quando se ne aveano, se non quelli dei poeti. Finalmente, non autorità ecclesiastica: i preti non erano che i rappresentanti dello Stato. Un tal ordine di cose era singolarmente favorevole alla libertà del pensiero, almeno alla libertà speculativa. Pure il paganesimo, come io dissi e dimostrai, ebbe anch'esso la sua intolleranza e le sue vittime. Donde ciò? Da questo, che presso gli antichi la religione confondevasi collo Stato, n'era parte essenziale, e niuno poteva combatterla senza combattere lo Stato medesimo, schernirne o solamente trascurarne le cerimonie, senza contravvenire alle leggi dello Stato. Perciò si perseguitavano piuttosto gli atti che le opinioni. Guai a chi non sacrificasse agli dèi, a chi non si associasse alle religiose cerimonie, o, che è più, guai a chi le volgesse in derisione! Egli era condannato come quello che avea violate le leggi dello Stato. Eccettuato questo, ognuno poteva in generale interpretare la religione a suo senno, e liberamente darsi alle speculazioni filosofiche. Onde, per far condannare Socrate, Melito lo accusò di non riconoscere gli dèi della città, vale a dire, di non sacrificare a quegli dèi, e di abbandonarsi a stranezze demoniache, cioè di astenersi in tal modo dal ricorrere ai riti consacrati; e quando Socrate per discolparsi dall'accusa d'introdurre iddii stranieri rappresentò il suo genio come un interprete preferibile alle indicazioni tratte dal volo degli uccelli, suscitò violenti bisbigli tra i suoi giudici, e diè in certa maniera ragione, legalmente, a' suoi accusatori. Indicai accanto a Socrate il sofista Diagora di Melo, condannato per motivo di empietà, e sul cui capo si mise una taglia; il motivo della sua condanna non fu l'ateismo speculativo, bensì il sacrilegio che aveva egli commesso, osando contraffare, in compagnia d'Alcibiade e d'altri giovani, le cerimonie d'Eleusi. Era accusato d'essersi fatto beffe dei misteri sacri delle grandi dee, d'averli svelati, e dissuasi i suoi amici dall'iniziarvisi. Quanto ad Aristotele, che fuggì da Atene per togliere l'occasione agli Ateniesi di un nuovo attentato contro la filosofia, non erano già le sue opinioni filosofiche che lo mettevano in pericolo, ma veniva imputato d'aver commesso un sacrilegio innalzando altari alla memoria della sua prima moglie e del suo amico Ermia. Tal era l'accusa che gli moveva il gran sacerdote Eurimedonte, sostenuta da un cittadino chiamato Demofilo. Ben lo vedete, quella che io dissi intolleranza aveva il suo principio nelle necessità dello Stato molto più che della religione stessa, e per conseguenza colpiva gli atti esteriori molto più che le opinioni: un liberissimo corso lasciavasi a queste, finchè non si manifestassero con qualche atto tacciato d'empietà e tenuto per sacrilegio19. Laonde, a malgrado della condanna di Socrate, può affermarsi che la libertà filosofica fu grandissima in Grecia e specialmente in Atene. Può dirsi altrettanto di Roma fino ai tempi degl'imperatori: la libertà filosofica non vi era minore; sotto gl'imperatori, almeno fino al tempo che or ora noterò, la libertà di pensare rimase ciò che era, in materia filosofica e religiosa. I Cesari non perseguitavano negli stoici la libertà speculativa, ma sì la loro coraggiosa opposizione alla onnipotenza ed alla insania imperiale. Soggiungo che la tolleranza religiosa fu molto più larga in Roma che in Atene. Socrate non vi sarebbe stato certamente condannato per aver voluto introdurvi una divinità nuova; tutte le divinità aveano il loro tempio, e ciò avveniva perchè Roma non era la città greca co' suoi numi particolari ed il suo spirito esclusivo, ma bensì la gran città, larga abbastanza da comprendere tutti gli dèi: tutti gli dèi, eccetto, ben s'intende, quello che la nuova religione annunziava come il solo Dio vero, perchè egli era la negazione stessa della religione esistente. Laonde la religione stabilita divenne per forza intollerante verso la nuova che appunto la negava e la voleva cacciar da' suoi templi. E siccome lo Stato, di cui essa facea parte, era allora rappresentato da un uomo che governava come assoluto padrone della libertà e della vita dei sudditi, e che dalla ebbrezza dell'onnipotenza era trasformato in mostro, è facile comprendere le atroci persecuzioni che tutti i Cristiani soffersero. Tal è la spiegazione semplicissima di quelle persecuzioni orrende. I Cristiani, predicando un solo vero Dio, combattendo tutte le divinità del paganesimo come vani idoli, ricusando di associarsi alle cerimonie del culto consacrato, offendevano la religione dello Stato; e siccome lo Stato era allora l'imperatore, e questi voleva essere obbedito in ciò come in tutto il resto, così essi irritavano contro di loro l'animo tanto facilmente irritabile dell'imperatore. Avevano un bel dire che davano a Cesare ciò che era di Cesare: rifiutando di adorare gli dèi, a cui gl'imperiali decreti prescrivevano di rendere omaggio, essi disobbedivano alla sovrana volontà, e divenivano in tal modo ribelli. Perciò, come potevano eglino non essere trattati nella guisa in cui furono? Ma i Cristiani, operando a modo loro, resistendo agli ordini degl'imperatori o dei proconsoli per durare costanti nella propria fede, tutte sfidando le minacce ch'essa tirava loro addosso, morendo per essa tra i più crudeli supplizi, non solamente obbedivano alla loro religione che vietava di adorare i falsi dèi e comandava di morire piuttosto che commettere un tal delitto, ma rappresentavano inoltre la inviolabilità della coscienza umana di fronte alla onnipotenza dello Stato o del dispotismo d'una arbitraria volontà, onde questi martiri della fede cristiana hanno diritto eglino pure agli omaggi di tutti gli amici della libertà di coscienza20. In quanto a me, (occorre egli dirlo?) qui sto coi Cristiani contro i carnefici loro, come sto sempre con tutti i martiri contro tutti i carnefici, con tutte le vittime contro tutti i persecutori. Ma per questo appunto da essi mi separo, allorchè essi pure si fanno persecutori; e qui torno al fenomeno che io cerco di spiegare.

Ecco, a parer mio, le cagioni principali di questo fenomeno:

Ordinandosi in certa guisa a immagine dell'impero, in mezzo al quale si va svolgendo il Cristianesimo, che diviene allora il Cattolicesimo, costruisce una dottrina unica ed universale, che devesi accettare tutta quanta, da cui niuno ha diritto di scostarsi nella minima parte, e che non è più neanche permesso discutere. Esso stabilisce quella dottrina ad un tempo sull'autorità dei libri santi, vale a dire, non solamente del Vangelo, ma benanco dell'Antico Testamento, e sopra quella eziandio della Chiesa, la quale, determinato il dogma con tutta la sottigliezza dello spirito alessandrino, ne mantiene e difende la integrità con tutta la gelosia dello spirito giudaico. Esso fonda così la propria ortodossìa che sottomette la libertà del pensiero ad un'autorità esteriore, e per la quale ogni dissidenza, risultante dal libero esame, è una colpevole eresìa. Laonde il libero esame non è più ammesso, e non solamente gli atti, ma le stesse opinioni possono divenire colpevoli.

Per assicurar meglio il mantenimento di quella ortodossia, il Cristianesimo, trasformandosi, fa lega col dispotismo dei Cesari, ricambiando l'uno all'altro i servigi. Fermiamoci un momento sopra questo fatto essenziale.

Quando gl'imperatori videro che, nonostante le loro persecuzioni, il Cristianesimo faceva ogni nuovi progressi, che già riempiva il mondo, e che insinuavasi financo nella famiglia loro, essi compresero che miglior cosa era accettarlo, valersene come d'uno strumento di regno. Si fecero adunque Cristiani. Ma, tostochè il Cristianesimo divenne la religione dell'imperatore, e, per conseguenza dello Stato, che l'imperatore personificava, il paganesimo e la eresia diventarono sediziosi, appunto come dianzi era sedizioso il Cristianesimo, e furono perciò per lo stesso titolo e colle armi medesime proscritti.

Ieri la potestà politica perseguitava il cristiano in nome della religione dell'impero; oggi, in nome della religione dell'impero, essa perseguita i pagani e gli eretici. I giudici e i carnefici rimangono gli stessi; solamente le vittime son mutate.

Che fanno intanto i vescovi? Protestano essi contro questa intromissione della potestà politica nel regno della coscienza, e contro le persecuzioni che gli eretici ed i pagani debbono soffrire? No. Il clero lascia fare alla potestà civile, quando pure non la stimola esso medesimo a incrudelire. Il libero esame non è forse vietato? Ogni dissidenza non è colpevole? Quindi, perchè mai si farebbe egli scrupolo di lasciar punire o di far punire i dissidenti? Tanto meno se ne farà scrupolo in quanto che crede, consegnandoli al braccio secolare di favorire il loro maggior bene e di applicare ad essi la legge della carità. La Chiesa consegna dunque l'eretico, da lei tenuto per colpevole, allo Stato che lo colpisce come un nemico. E così è soffocata nel sangue la libertà dello spirito umano.

Finalmente, non solo la Chiesa in tal modo ricorse alla potestà civile, ma aspirava, e le riescì, di diventar ella stessa una potestà politica; e tale diventa infatti sotto i Cesari, aspettando il momento per mettersi in luogo loro.

Da Costantino in poi i vescovi si convertono in magistrati dell'ordine civile; partecipano almeno in certa parte alla potestà politica, e ne praticano essi medesimi i procedimenti d'uso.

Tali sono le principali cagioni che, alterando lo spirito primitivo del Cristianesimo, lo spirito stesso del Vangelo, generarono un'intolleranza nuova, all'antichità pagana sconosciuta, e la cui oppressione, dopo tanti secoli, ancor dura.

Certamente io potrei tener dietro, in seno al Cristianesimo stesso, agli effetti delle persecuzioni rivolte contro l'Arianesimo e le altre eresie. Ario infatti è condannato nel primo Concilio ecumenico convocato da Costantino, che ne presiedette la prima tornata; e (ciò che conferma quanto io diceva testè), appunto perchè si stacca dalla Chiesa, Ario è giudicato nemico dello Stato. Costantino lo esilia insieme con tutti i suoi seguaci, richiamandoli poi quando gli converrà di favorire a vicenda gli ariani contro gli ortodossi. La spada imperiale serve poscia ad estirpare totalmente l'Arianesimo. Ben sanguinosa è la storia di quella setta; e molti martiri del libero pensiero in essa troverei, se molto potessi estendermi. Ma è tempo di giungere a ciò che deve essere argomento di questa lezione, cioè a quella vittima d'intolleranza cristiana nel V secolo, a quella martire del libero pensiero, la quale ha nome Ipazìa.

Trasportiamoci colla mente in Alessandria, sede della sua gloria e del suo supplizio.

Fondata da Alessandro sulla sponda del Nilo e divenuta coi Lagidi la metropoli di un grande impero, e insieme un nuovo centro intellettuale, ove lo spirito greco erasi modificato per opera dello spirito orientale, Alessandria fu, verso la fine del II secolo dopo Gesù Cristo, e precisamente nel momento che il Cristianesimo cominciava a conquistare il mondo, la culla d'una scuola filosofica, ultima espressione della filosofia greca, e che si chiamò il neoplatonismo, perchè rinnovava l'idealismo di Platone mischiandolo con le dottrine mistiche dell'Oriente. Nel tempo di Ipazìa la precipua sede di quella scuola era stata trasferita in Atene; ma Alessandria rimaneva sempre uno de' grandi centri della greca filosofia, e, a malgrado dei progressi del Cristianesimo, quella filosofia eravi ancora molto onorata.

Dall'altro canto il Cristianesimo aveva già trascinato seco gran parte di quella mista cittadinanza greco-egiziana, e la sede episcopale di Alessandria, la più importante allora della cristianità dopo Roma, si era arrogata od acquistata per decreti imperiali un'autorità formidabile.

Da ciò scaturiva una doppia rivalità in Alessandria: da una parte, rivalità dei cristiani e dei pagani o degli altri eretici; e dall'altra, rivalità dei vescovi che rappresentavano la Chiesa, e dei prefetti che rappresentavano l'impero. Questi, ancorchè fossero cristiani, erano costretti, per far contrappeso alla soverchia autorità dei primi, di cercar ausiliari sin tra le file dei pagani.

In questa città, ed in condizione siffatta di cose, nacque Ipazìa, e vi doveva perire dopo aver gettato un vivissimo splendore.

Figlia del primo matematico ed astronomo del suo tempo, Teone d'Alessandria, Ipazìa era salita presto in fama per la sua rara intelligenza; in una età, nella quale gli stessi uomini intraprendono a stento gli studi gravi, essa aveva coltivato, diretta dal proprio padre, le parti più difficili delle matematiche e dell'astronomia, a cui ella univa lo studio della filosofia. Per compiere questi forti studi, cominciati in Alessandria, essa si recò in Atene, che allora, come testè dissi, era la principal sede della nuova filosofia, chiamata ora la scuola d'Atene, ed ove insegnavano professori illustri, fra i quali Plutarco, il capo della scuola medesima, e sua figlia Asclepigenia. Ricondottasi alla sua città nativa, essa diedesi, imitando la figlia di Plutarco, ad insegnare la filosofia, che aveva profondamente studiata. Era non meno eloquente che dotta, e la filosofia che ella insegnava, cioè la filosofia neoplatonica, la quale allo splendore della poesia di Platone accoppiava quello dell'immaginazione orientale, meravigliosamente aiutava la eloquenza. Aggiungi che quella giovane, sì dotta e sì eloquente, era bella; bella, non dirò come un angelo, poichè parlasi qui d'una pagana, ma come una Musa (infatti le davano il nome di Musa).

Bene intenderete l'entusiasmo che essa deve aver destato in una città come Alessandria. Gli uditori si accalcavano intorno alla cattedra ch'essa saliva, coperta dal manto dei filosofi; non poteva uscire senza essere circondata di ammiratori che le facevano un glorioso cortèo. Più d'una volta dovette fermarsi sulla pubblica piazza per ispiegare le dottrine di Platone e di Aristotele. Intenderete altresì che una tal persona dovette far nascere molte passioni tra i suoi uditori; ma essa non ne ricambiò alcuna, perchè interamente erasi dedicata alla filosofia. Ben presto si acquistò un'immensa fama, e si accorreva da lontani luoghi per udirla. Sinesio, il futuro vescovo di Tolemaide, andò ad ascoltar le sue lezioni; essa fece sull'animo di lui una profonda e durevole impressione, e tra loro si formò una di quelle amicizie, le quali non finiscono che colla vita. La testimonianza di quella impressione e di quell'amicizia ci fu conservata nelle lettere stesse di Sinesio.

Ecco ciò che egli scriveva ad un amico, dopo il suo ritorno nella Cirenaica:

«Omero dice, per celebrare Ulisse, che egli imparò molto ne' lunghi suoi viaggi, e conobbe i costumi e le città d'un gran numero d'uomini; ma questi erano i Lestrigoni ed i Ciclopi, gente selvaggia; deh! come avrebbe egli allora cantato il nostro viaggio, nel quale fu a noi concesso di riscontrare tali maraviglie, il cui racconto ci pareva incredibile? Noi vedemmo, noi sentimmo colei che presiede ai sacri misteri della filosofia (L. CXXXVII).»

In un'altra lettera (IV), Sinesio scrive che Ipazìa è santa e cara alla Divinità, e che i suoi uditori sono il coro felice che si bea della sua voce divina.

Fra le lettere di Sinesio che pervennero fino a noi, sette sono indirizzate ad Ipazìa, alla, come dice il titolo loro, filosofessa.

«Tutte, dice il signor Druon nel suo reputato studio intorno alla vita e alle opere del vescovo di Tolemaide, dal quale desunsi le citazioni che precedono, tutte fan fede della viva affezione di Sinesio per Ipazia; ei la chiama sua benefattrice, sua maestra, sua sorella, sua madre: le darebbe un altro titolo, se potesse trovarne uno che attestasse meglio la sua venerazione. Quand'anche i morti dimenticassero sotterra, le dice, io mi ricorderò sempre della mia diletta Ipazìa. Per voi sola io potrei disdegnare la mia patria (L. CXXIV).» Alla riputazione di lei raccomanda alcuni giovani, ai quali è affezionato (L. XXXI); per mezzo di lei fa pervenire le lettere a' suoi amici d'Alessandria. La consulta sulle sue opere e dichiara di sottomettersi al giudizio che essa darà, disposto ad offrirle ai poeti ed agli oratori, o a seppellirle nell'obblio, secondo che saranno da essa approvate o condannate (L. CLIV). Finalmente nelle sue pene ei cerca consolazione presso di lei (L. X e XVI); il cuore d'Ipazìa è, colla virtù, il più sicuro suo asilo.

Quando Sinesio frequentava le lezioni d'Ipazìa, non era ancora cristiano; ma, anche dappoi che tale divenne, siccome restò sempre molto amico alla filosofia neoplatonica, così conservò sempre un'ammirazione e un rispetto grande per Ipazìa. Lo stesso sventuratamente non era di tutti i Cristiani. Quanto più Ipazìa otteneva favore come filosofessa, tanto più destava la gelosia e il sospetto nei seguaci del Cristianesimo, e specialmente nel vescovo di Alessandria. E tal cosa meglio comprenderete quando avrò soggiunto che, oltre l'influenza filosofica ch'ella esercitava sugli animi, ne aveva pure una politica. I magistrati le dimostravano molta deferenza e volentieri la consultavano sugli affari pubblici. Il prefetto Oreste, segnatamente, benchè fosse cristiano, le professò grande amicizia e ripose in lei molta fiducia; e questa fiducia appunto fu quella che, insieme con la filosofica importanza di lei, fu cagione della sua morte.

In quel tempo (412) Cirillo, di cui la Chiesa fece un santo, fu inalzato alla sede vescovile d'Alessandria. Il nuovo vescovo, che succedette a suo zio, l'imperioso Teofilo, si mostrò subito ancor più imperioso e più violento del predecessore.

Si narra che, passando egli un giorno davanti alla casa d'Ipazìa, fu fermato nel suo cammino dall'affluenza dei visitatori che la filosofessa traeva a , ed ei ne provò tanta gelosia che risolse di farla perire. Che Cirillo vedesse con dispetto, col dispetto d'un vescovo e specialmente d'un patriarca d'Alessandria, l'affluenza di visitatori o uditori che Ipazìa traeva a , e l'autorità ch'ella aveva presso il governatore, è naturale; ma, come afferma colui che riferisce l'aneddoto da me qui accennato, cioè il filosofo Damascio, si spinse egli proprio fino a farsi l'istigatore dell'uccisione di quella troppo potente emula? La testimonianza di Damascio non è sufficiente, senza dubbio, ad accusarlo di questo delitto; ma la condotta antecedente di Cirillo e le circostanze stesse della uccisione, se non dimostrano perentoriamente la complicità del vescovo d'Alessandria, pesano almeno grandemente nella bilancia.

Era un terribile personaggio san Cirillo! Giudicatene voi. Un giorno, per vendicare uccisioni commesse una notte dagli Ebrei sui Cristiani, e delle quali si erano catturati gli autori, il vescovo Cirillo, fattosi capo di bande armate che aveva raccolte, occupa tutte le sinagoghe, scaccia gli Ebrei dalla città, e ordina il saccheggio dei loro beni. Una tal giustizia non poteva garbare al governator d'Alessandria. Oreste se ne lagnò vivamente; scrisse all'imperatore, denunziando il procedere del vescovo e chiedendo la riammissione degli abitanti, di cui egli aveva spopolata la città. Ma Cirillo scrisse ei pure, e fece confermare la cacciata degli Ebrei. Governava allora Pulcheria gli affari dell'impero sotto il nome del suo giovine fratello Teodosio.

Poco tempo dopo, crescendo viepiù la ostilità fra il governatore ed il vescovo, certi monaci, che abitavano sulle montagne vicine, scesero dal loro monastero in numero di 500 circa, e si sparsero nella città per difendere, dicevano, il vescovo. Incontrato il governatore che veniva nel suo cocchio, lo ingiuriarono, chiamandolo pagano e idolatra. Questi, sospettando una insidia del vescovo Cirillo, rispose loro che aveva ricevuto il battesimo e che era cristiano (il che era verissimo); ma quei forsennati, non tenendo in verun conto le sue parole, continuarono ad opprimerlo di ingiurie, e uno di essi, chiamato Ammonio, gli trasse una pietra nel capo, che sanguinò. Fortunatamente il popolo accorse in aiuto del prefetto, disperse i monaci, s'impadronì di Ammonio, e lo mise nelle mani di Oreste. Il monaco fu sottoposto alla tortura, e ne morì. Che fece il vescovo Cirillo? Fece fare solenni esequie al sedizioso, ne disse pubblicamente l'elogio nella chiesa, lo celebrò come se avesse perduto la vita per la difesa della religione, e lo pose nel novero dei martiri. Un tal modo di procedere non ammansava certo l'animo del governatore.

Intanto la città soffriva per la scissura tra il vescovo e il prefetto; e siccome Ipazìa era amica del governatore, il quale si comportava, a detta del pubblico, secondo i consigli di lei, si diede ad intendere al popolo che ella fosse la cagione della scissura, fu cosa difficile aizzarlo contro di quella. Se san Cirillo non fu egli medesimo l'istigatore dello scempio, è almen certo che un lettore della sua chiesa, nominato Pietro, fu l'esecutore del misfatto.

Un giorno di quaresima, in principio dell'anno 415, mentre Ipazìa usciva di casa nel suo cocchio, una torma di forsennati, condotta da Pietro, la strappa dal cocchio e la trascina fino alla chiesa grande chiamata la Cesarea. Quivi è spogliata delle sue vesti, e uccisa sotto una grandine di sassi, di tegoli, di rottami di vasi; il suo corpo è tagliato a pezzi; per le vie d'Alessandria sono portati questi vergognosi trofei, e si danno finalmente alle fiamme in un luogo nominato Cinarone.

Questa azione, soggiungono gli storici, fece gran torto al vescovo Cirillo ed agli altri Cristiani d'Alessandria.

La storia che vi ho brevemente narrata, è singolare, e per più ragioni. Essa ci mostra quanta fosse allora la potenza d'un vescovo cristiano, principalmente del patriarca d'Alessandria, e qual fosse il carattere di essa; quali conflitti e quali disordini suscitasse la rivalità di quell'immensa autorità con quella dei prefetti; fin dove potesse trascorrere la violenza di quei vescovi che la Chiesa santificò; qual fosse la brutalità di quei monaci, la cui vita si presentava come una immagine della perfezione evangelica (e non eravamo ancora se non al IV o al V secolo dell'èra cristiana); finalmente qual fosse già il fanatismo delle cristiane popolazioni, quando esse avevano per vescovi uomini come Cirillo!

Ipazìa morì vittima di quel fanatismo, e se non venne uccisa per istigazione di Cirillo istesso, ebbe morte dai Cristiani aizzati dal suo lettore. E i colpevoli non ebbero dal vescovo verun rimprovero; anzi, in grazia sua, ottennero la impunità.

Con Ipazìa cadde una delle ultime glorie delle scuole d'Alessandria e di Atene. Un secolo circa dopo questa uccisione barbara, nel 529, un decreto dell'imperatore Giustiniano vietava l'insegnamento della filosofia in Atene, prima culla ed ultimo rifugio della filosofia, ed i filosofi erano costretti a gire in cerca d'un asilo nella Persia presso il re Cosroe. Degno di un successore dei Cesari era un tal decreto. Ma se si può trucidare o perseguitare i filosofi, la filosofia non muore; o se par che muoia, è, come la fenice, per rinascere dalle proprie ceneri.





19 Cf. Vacherot, Histoire critique de l'Ecole d'Alexandrie, deuxième partie, liv. II, chap. II.



20 Jules Simon, La liberté de conscience, première leçon.



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