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Il decreto di Giustiniano, che ricordai sul finire della precedente lezione, chiudendo le scuole dei filosofi che insegnavano in Atene chiude in certo modo ufficialmente l'èra dell'antica filosofia. L'antichità è finita, il medio evo incomincia, e ad un tempo la più violenta tirannide che abbia mai oppresso lo spirito umano. Infatti il medio evo è il regno di quell'autorità ecclesiastica che vedemmo instaurata con ciò che può chiamarsi l'ordinamento cattolico del Cristianesimo; di quell'autorità che, alla fede di tutti imponendo i suoi libri sacri e i dogmi che su di essi pretende fondare, proscrive ogni libero pensiero, dichiara colpevole ogni opinione dissidente, e, per colpire l'eresìa, si vale dell'aiuto della potestà civile o se ne arma ella stessa. Tale era l'autorità che la Chiesa allora esercitava, e la esercitava con uno zelo gelosissimo, in quanto che non aveva solamente da mantenere la sua dominazione spirituale, ma benanco la potestà politica ed i beni temporali acquistati. Ond'è che si studiava d'impedire con un Codice draconiano ogni pensiero indipendente; e quando un tentativo di tale specie si manifestava, lo perseguitava con estremo rigore.
Ma per quanto oppressivo e crudele fosse il dispotismo della Chiesa, non poteva soffocare del tutto il libero pensiero. Impossibile era che questo non si palesasse sotto una od un'altra forma, non ostante tutti gli ostacoli che gli si movevano contro, e non resistesse in qualche maniera al giogo che su di esso pesava, finchè non riuscisse a scuoterlo affatto. Il libero pensiero ebbe adunque rappresentanti anco in questi tempi di oppressione, e il dire che ebbe rappresentanti è dire che ebbe martiri. Uno di questi, uno de' più illustri, è quegli che vorrei mostrare oggi in Abelardo. Primo egli, od almeno uno fra' primi nel medio evo, tentò d'introdurre la dialettica, cioè il ragionamento, nella teologia; «egli mise in disparte, come dice il Cousin21, la vecchia scuola di Anselmo di Laon, che esponeva senza spiegare, e fondò quella che oggidì si chiama il razionalismo;» e pagò questo ardimento, non col sangue, come tanti altri martiri, ma colla sua pace e colla sua libertà.
Del resto tutte le sventure d'Abelardo non ebbero, convien dirlo, la origine loro nella indipendenza del suo spirito e nella novità delle sue idee; ne patì egli alcuna che ebbe affatto diversa causa, ed è quella appunto che rese popolare il suo nome. Ma io non ho da darmi pensiero di questa, perchè io debbo qui mostrarlo sol come martire del pensiero. Ed è bene, perchè il lato ch'io devo lasciar nell'ombra non gli fa tanto onore, quanto gliene fa quello che metterò in luce; e se dovessi l'altro lato mostrare, io, non già sopra Abelardo, ma sopra la donna, da cui egli fu amato con tanta tenerezza e tanta fedeltà, sopra Eloisa, richiamerei tutta la vostra simpatia ed ammirazione. Vi ha nelle Vite dei grandi uomini del signor di Lamartine uno studio sulla storia degli amori d'Eloisa e d'Abelardo, intitolato Eloisa; e questo è invero il gran nome di quella storia.
Nato nel borgo di Palais, presso Nantes, nel 1079, Pietro Abelardo appartiene per nascita e per famiglia alla vecchia Armorica, alla terra di Bretagna, i cui abitanti si distinguono per la natura originale dello spirito e per l'indipendenza del carattere, e che cinque secoli dopo doveva dare il Descartes alla filosofia. Sin dalla giovinezza infiammato dalla passione dello studio, risolse, come il Descartes doveva fare un giorno, di dedicarsi tutto alle lettere ed alla filosofia, e, rinunziando alla professione delle armi, alla quale destinavalo la nobiltà della famiglia, abbandonò ai fratelli la propria eredità e il proprio diritto di primogenitura. E, come fece pure il Descartes, si diede ai viaggi per istruirsi, e inoltre (e qui comincia la differenza tra lui e il Descartes, poichè questi non aveva tempra litigiosa, e curava più la propria quiete) per cercare nella lizza della dialettica avversari da vincere.
Nel corso de' suoi viaggi egli udì, fra gli altri maestri, Giovanni Roscelin, canonico di Compiègne, nato al pari di lui nella Bretagna; al pari di lui spirito indipendente, e che, avendo intorno alla natura degli universali (delle specie e dei generi) posta innanzi una dottrina che pareva incompatibile col dogma della Trinità, fu per tal cosa condannato, nel 1092, da un concilio tenutosi in Soissons, ove Abelardo stesso fu poi condannato, ed ove il Roscelin fece ritrattazione per timor della morte, ed indi ricoveravasi in Inghilterra. Abelardo stimava del resto insensata la dottrina del Roscelin, dottrina che non vedeva negli universali altro che parole, flatus vocis, e che per questa ragione fu designata col titolo di nominalismo. Ma egli non combattè men vivamente la dottrina opposta, la quale sosteneva la realtà degli universali, il realismo. Questa dottrina era professata allora in Parigi da Guglielmo di Champeaux, che con gran riputazione insegnava nella Scuola del chiostro o di Nostra Donna, così chiamata perchè stava nel chiostro vicino alla chiesa metropolitana. Pietro Abelardo si mischiò con la moltitudine degli scolari d'ogni nazione e d'ogni età che si affollavano alle lezioni di quel maestro; ma ben tosto s'illustrò fra tutti per l'ampiezza delle cognizioni, per la sottigliezza della mente, per l'attrattiva della parola, e finalmente per quello spirito d'indipendenza che gli era innato. Quindi è che egli fu spinto a confutare la dottrina incontrastata di colui che aveva il soprannome di Colonna dei dottori.
In breve tempo fu maestro egli stesso, benchè ancora molto giovane, e diè lezioni di dialettica (tal era il nome che allora davasi alla filosofia), prima in Melun, poscia in Corbeil, da ultimo in Parigi nella cattedra di Nostra Donna, che il suo antico maestro aveva lasciata ad un supplente e che questi gli cedette per collocarsi fra i suoi uditori; poi, disapprovato questo accordo da Guglielmo di Champeaux, nuovamente in Melun, e ben presto di nuovo in Parigi, sulla montagna di Santa Genovieffa. Dovunque egli andasse, traeva seco la folla; poichè, per sedurla, oltre una scienza provata ed una eloquenza sublime, alle quali i suoi nemici stessi erano costretti d'inchinarsi, possedeva una originalità di spirito ed un'arditezza di concetti ben rare in quel tempo. Del che fa fede, oltre varie testimonianze, una storia della vita di san Gosvino (il quale, paragonandosi a Davidde che affronta Golia, osò un giorno cimentarsi col gigante, ma fu men fortunato di Davidde): dicebat quod nullus antea præsumpserat, diceva ciò che nessuno aveva mai osato di dire. Lo storico soggiunge che Abelardo eccitava così l'odio di tutti coloro che più saggiamente pensavano, cioè che non pensavano come lui. La forma stessa del suo insegnamento era una cosa tutta nuova; egli temperava le ruvidezze della dialettica con episodi attraenti, con citazioni bene scelte dei poeti che amava più (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano), ed anche con un leggiero celiare; e invece di seguir sempre passo passo i testi e le autorità solite, talora sapeva scostarsi dai loro confini e volar colle proprie ali. Ond'è che si acquistò una immensa fama, e divenne il re dell'insegnamento in Parigi, che a quel tempo era come la metropoli delle lettere e delle arti.
Allora fu che Abelardo concepì il disegno di riformare anche l'insegnamento della teologia, introducendovi la dialettica. A que' giorni la vecchia scuola era rappresentata da Anselmo di Laon, l'insegnamento del quale attraeva un grandissimo numero di uditori, ma era poco più che una glossa del testo della Scrittura. Abelardo si recò a Laon per frequentare le lezioni di quel maestro; ma, non potendo, come egli dice, restare lungamente ozioso all'ombra di quel fico sterile, imprese egli stesso un corso di teologia. Esortato da certuni a differire la sua impresa e ad usare riguardi: «Non è mio costume, rispose egli con vivacità, seguire l'uso, ma obbedire al mio animo.» Risposta che dipinge il carattere e palesa il novatore.
Ma qui comincia la persecuzione d'Abelardo: il vecchio Anselmo, inasprito dall'audacia del giovine dottore, gli vietò di continuare le sue lezioni, e Abelardo dovette tornare a Parigi. Ivi egli riprese con gran favore l'insegnamento sospeso a Laon, e tranquillamente lo proseguì per alcuni anni. Nel corso appunto di quegli anni strinse con Eloisa quel vincolo d'amicizia che doveva essergli tanto funesto, ma che rese così popolare il suo nome. Ognuno di leggieri immagina quanta attrattiva doveva essere tra l'uno e l'altra, tra quella giovane già tanto famosa per tutto il regno, mercè il suo ingegno e il suo sapere, e quel maestro de' maestri, il quale non solo era un filosofo illustre ed un affascinante oratore, ma un poeta attraente ed un incantevole musico. Abelardo raccontò egli stesso nella famosa lettera che contiene la storia delle sue sventure, e d'allora in poi tutti sanno come egli seducesse la nipote del canonico Fulberto, come, per riparare alla colpa, egli la sposasse alla presenza di Fulberto e di alcuni amici, e come quel matrimonio, a cui essa aveva consentito con molta difficoltà, e che doveva rimanere occulto per tema che nuocesse alla gloria ed all'avvenire di Abelardo, non potesse disarmare la vendetta dello zio d'Eloisa. Ma io mi affretto a stendere un velo su quella storia, in cui, secondo l'espressione del Lamartine (senza dire con lui «come sempre,» ma almeno come spesse volte), il cuor della donna fu virile ed il cuor dell'uomo femminile; e torno ad Abelardo, di cui solo dobbiamo qui ragionare.
Fattosi monaco della badia di San Dionigi, mentre Eloisa pigliava il velo nel monastero di Argenteuil, Abelardo non potè a lungo tollerare le sregolatezze ond'era testimone, e, abbandonata quella casa di disordini, andò a dimorare nel priorato di Maisoncelle, posto sulle terre del conte di Champagne, per riaprirvi la sua scuola. Ivi egli trasse una moltitudine sì grande di uditori, che le abitazioni del luogo e gli alimenti di quella terra ben presto divennero insufficienti; ma la persecuzione non lo lasciò gioire a lungo di questo novello trionfo. Volendo accoppiare l'insegnamento del libro a quello della parola, egli imprese a dettare le sue lezioni teologiche, e pubblicò, sotto il titolo di Introduzione alla teologia, un trattato sull'Unità e Trinità divina, nel quale applicava quel metodo nuovo che egli aveva introdotto nell'insegnamento della teologia, e che consisteva nel rischiarare la fede con la ragione. In tal modo ei corrispose al bisogno che allora cominciava a farsi sentire, il bisogno di comprendere ciò che si deve credere, invece di credere ciecamente. «I nostri scolari, dice egli a proposito di questo libro22, volevano ragioni umane e filosofiche, e chiedevano cose che potessero venir comprese, e non cose che solo si dicono e non si comprendono23; essi dicevano che è superfluo il proferire parole che la intelligenza non accompagna; che deve essere creduto solo ciò che fu prima compreso, e che è cosa ridicola insegnare agli altri ciò che nè da noi nè da coloro a cui ci rivolgiamo può essere compreso.» Ma quanta resistenza dovevano mai suscitare questo nuovo bisogno ed il metodo che conteneva in germe il principio del libero esame! Il libro d'Abelardo doveva certo mettere spavento nei teologi. Si credette d'altra parte di scorgere in esso una dottrina che, come quella del Roscelin, scalzasse il dogma della Trinità. Denunziato per questo libro alle autorità ecclesiastiche, Abelardo fu chiamato innanzi ad un concilio convocato apposta a Soissons.
Quando egli giunse in quella città, poco mancò che non fosse lapidato dal popolo insieme con quei discepoli suoi che lo accompagnavano; il popolo lo accusava di predicare e di avere scritto che vi sono tre dii. Con questa calunnia i nemici d'Abelardo avevano aizzato contro di lui quella gente fanatica, che pochi anni addietro aveva di sua spontanea volontà arso vivo un uomo sospettato di manicheismo24. Abelardo però; pubblicamente esponendo le proprie idee, trasse in breve a sè la moltitudine che lo ascoltava; ma i suoi nemici non divennero meno furenti. Erano irati al vedere il Concilio presso al suo termine (un Concilio adunato principalmente per giudicarlo), senza aver ancora parlato di lui. «Forsechè, essi dicevano, i giudici riconobbero che l'errore è dalla loro parte piuttosto che dalla sua?»
Il Concilio difatti era molto impacciato; non voleva assolvere Abelardo, ma non sapeva nemmeno come condannarlo; temeva soprattutto la discussione pubblica che si sarebbe certamente volta ad onore di quel maestro tanto potente nella dialettica e nell'arte della parola, e tanto dotto nella scienza delle Sacre Carte. Epperciò, quando, venuto l'ultimo giorno del Concilio, il vescovo di Chartres, Goffredo di Lèves, in una conferenza preparatoria domandò che Abelardo fosse chiamato dinanzi all'assemblea per rispondere liberamente alle accuse lanciategli contro, e citò le parole dette da Nicodemo per salvar Cristo: «forse che la nostra legge condanna un uomo, se prima non si ascolta e se non si sa ciò che egli ha fatto?» fu tal proposta accolta con mormorio. Si ascoltò invece di buon grado quella espressa dipoi dallo stesso vescovo, cioè di rimandar la questione ad un'altra adunanza, e, frattanto, di far ricondurre Abelardo a San Dionigi per mezzo del suo abate, che era presente; ma coloro che avevano incitato l'arcivescovo di Reims a convocare quell'assemblea, lo persuasero che sarebbe cosa ignominiosa per lui il rimandare la causa ad altro tribunale, e che era da temersi che in tal modo l'accusato sfuggisse ad ogni condanna. Infatti essi temevano che, discutendosi la causa fuori della loro diocesi, il nemico sfuggisse al loro odio. Fu pertanto stabilito che Abelardo fosse giudicato immantinente, cioè punito senza essere interrogato. Abelardo fu così tratto dinanzi al Concilio per vedersi condannato senza esame e senza dibattimento; e si costrinse anco a gettare sul fuoco colle proprie mani il suo libro.
Mentre quel libro ardeva in mezzo al silenzio dell'assemblea, e tutto parea finito, Abelardo ebbe per un momento la speranza di potersi difendere. Avendo un tale a voce sommessa espresso d'aver letto in un libro che Dio padre era il solo onnipotente, il legato, che udì queste parole, gli rispose con gran maraviglia, che nemmeno sulle labbra d'un fanciullo poteva stare un errore siffatto, perchè la fede comune mantiene e professa che vi sono tre onnipotenti. Udita la risposta, un maestro delle scuole, chiamato Terric, sorridendo replicò con queste parole di Atanasio: Eppure vi è un solo onnipotente e non tre. E siccome il suo vescovo voleva riprenderlo, il Teric mantenne il detto, e ricordando le parole di Daniele, soggiunse: «In tal modo, o insensati figli d'Israele, senza giudicare e senza conoscere la verità, voi condannato avete uno dei vostri fratelli. Tornate al giudizio, e giudicate lo stesso giudice... Colui che doveva giudicare si è colla propria bocca condannato. Voglia oggi la misericordia divina che voi rimandiate assoluto un uomo manifestamente non reo, come fu un tempo liberata Susanna dai suoi falsi accusatori.» L'arcivescovo allora, rizzandosi, sostenne il parere del legato, dicendo che infatti il Padre era onnipotente, il Figlio onnipotente e lo Spirito Santo onnipotente, e che l'uomo il quale si allontanasse da questa dottrina era manifestamente nell'errore e non doveva nemmeno essere ascoltato; ma soggiunse che, se piaceva, egli era contento che il frate esponesse la propria fede dinanzi a tutti, affinchè si potesse approvarla o disapprovarla e correggerla. Erasi Abelardo già levato per difendere le proprie idee dinanzi al Concilio; ma i suoi avversari, che aveano stabilito di soffocarne la parola, esclamarono che non occorreva se non fargli recitare il simbolo di Atanasio; e per tema che adducesse il pretesto di non saperlo a memoria, fecero portare il libro e glielo posero sotto gli occhi. «Io lessi come potei, dice Abelardo alla fine del racconto25, lessi come potei fra sospiri, singhiozzi e lagrime.» E soggiunge: «Fui tosto consegnato, come un accusato convinto, all'abate di San Medardo, che era presente, e fui condotto nel suo convento come in un carcere.»
In tal guisa Abelardo espiava il delitto che aveva commesso verso la teologia; egli non voleva già romperla con l'ortodossìa cattolica sulla quistione della Trinità (non si giungeva ancora a tanto nel XII secolo), ma sforzavasi di ragionare sulla fede e d'interpretare la religione colla filosofia, e dava quindi l'esempio di un metodo che, come già dissi, conteneva in germe il principio del libero esame.
Si comprende di leggieri il dolore, la vergogna, la disperazione che invasero il maestro Pietro, quando egli videsi chiuso nel monastero di San Medardo. La buona accoglienza che gli si fece, e i conforti che gli si largirono con la speranza di ritenerlo, non bastarono a raddolcire l'amarezza del suo cordoglio. Egli trovava d'altra parte nello stesso monastero quel Gosvino, con cui lo abbiamo già visto a conflitto sulla montagna di Santa Genovieffa, e che era colà andato per operare, come priore, la riforma degli abusi e la restaurazione degli studi. Importunato dai consigli ipocritamente caritatevoli di quel dottore, che gli predicava instancabilmente la pazienza, la modestia, l'onestà: «L'onestà! l'onestà! sclamò Abelardo: e come mai a me voi tanto predicate e consigliate l'onestà? Molti vi sono che discorrono di tutte le specie di onestà, e non saprebbero rispondere a questa interrogazione: Che cos'è l'onestà? – Dite il vero, rispose prontamente Gosvino con asprezza; molti di coloro che vogliono ragionare sulle specie della onestà, ignorano affatto che cosa ella sia; e se d'ora in poi voi direte o tenterete qualche cosa che si allontani dall'onestà, ci troverete sulla vostra via, e che noi non ignoriamo che cosa sia l'onestà, lo argomenterete dal modo con cui puniamo ciò che è ad essa contrario.» – «A tal risposta ferma e pungente, dice il monaco che scrisse la vita di San Gosvino, il rinoceronte ebbe paura; si mostrò nei giorni seguenti più sommesso alla disciplina e più timoroso dello staffile.» – «Ecco, nota il Rémusat26, dopo aver narrato questo aneddoto, ecco il modo, con cui nei ritiri della vita spirituale il XII secolo trattava ed istruiva gli eroi del pensiero!»
Ricondotto nel suo convento di San Dionigi, dove i monaci lo aveano già tanto tediato co' depravati costumi e coi discorsi indecenti, ed in cui egli trovava quasi altrettanti nemici, quanti erano frati, vi suscitò ben presto una nuova burrasca. Non immaginereste mai certo in quale occasione. Ei deduceva da un passo del venerabile Beda, per caso trovato nelle sue lettere, che Dionigi, fondatore dell'abbazia, non era lo stesso che San Dionigi l'Areopagita, quelli che per opera di San Paolo si convertì. L'indignazione salì al colmo nel convento. L'abate s'affrettò a radunare il suo Consiglio, e al cospetto di tutti i frati vivamente censurò Abelardo; gli disse che avrebbe tosto inviato qualcuno al re, acciocchè egli vendicasse la sua gloria e la sua corona oltraggiate, e comandò che Abelardo fosse vigilato attentamente fino a che lo consegnasse al re. Si dice inoltre che gli venisse inflitta la monacale punizione dello staffile per castigarlo del suo ardimento.
Spinto agli estremi da tanta stupidezza e violenza, Abelardo, d'accordo con alcuni frati che compativano a' suoi mali e con alcuni suoi discepoli, nascostamente fuggì in una notte, pervenne alla terra di Champagne e ricoverossi a Provins nel monastero di Sant'Ayoul, ov'era priore uno degli antichi suoi amici. L'abate di San Dionigi lo minacciò della scomunica, se non tornava tosto all'ovile; ma intanto l'abate morì. Il successore di lui, Suger, quegli che un giorno doveva essere reggente del regno, si mostrò più arrendevole, e Abelardo ottenne il permesso di scegliere il ritiro che gli piacesse. Allora ei si condusse in un luogo deserto, sul territorio di Troyes, presso Nogent-sulla-Senna, e vi eresse un oratorio di canne e di stoppia, nel quale si chiuse con un solo chierico, ripetendo queste parole del salmista: «Ecco, fuggii lontano e dimorai nella solitudine.»
Questo luogo solitario non poteva a lungo restare deserto. Da tutte le parti vi si accorse. Si abbandonavano le città ed i castelli per andare presso il maestro ad abitare sotto tende, a dormir sulla paglia, a nutrirsi di pane grossolano, ma a vivere della sua parola. Quel ritiro divenne adunque per Abelardo un luogo di consolazione, e per la pace che vi rinvenne e per la moltitudine dei discepoli ch'egli vi attirò; e quando costoro ebbero ricostruito di legno e di pietra il suo oratorio, fu dato ad esso il titolo di Paraclito, vale a dire Consolatore. Ma per Abelardo non vi era consolazione durevole; se la gloria lo seguiva nella solitudine, la persecuzione nemmen qui l'aveva obliato.
È questo il momento che vediamo contro di lui levarsi il più formidabile di tutti i suoi avversari, il famoso San Bernardo, abate di Chiaravalle, quel monaco che, come altri egregiamente disse27, sotto la tonaca faceva la polizia dei troni e dei santuari. Il Paraclito, congregazione formata, secondo l'espressione d'uno de' suoi membri, al soffio della logica, doveva naturalmente inquietare il fondatore del monastero di Chiaravalle, nè l'insegnamento d'Abelardo poteva non destar sospetti in quel geloso rappresentante del principio dell'autorità nel secolo XII. Abelardo indica pure fra i principali artefici delle sue sventure in quel tempo un altro novello avversario, quasi tanto formidabile, quanto l'altro. Era costui San Norberto, personaggio riverito nella Chiesa, potente presso i principi, e che, credendo alla venuta prossima dell'Anticristo, vigilava con occhio geloso e con ardente zelo tutto ciò che gli pareva offendere l'unità della fede. Il maestro Pietro si sentì minacciato; ad ogni tratto egli credeva di poter essere trascinato dinanzi ad un nuovo Concilio come eretico e profano. Mal potendo soffrire più a lungo quella vita angosciosa e non isperando ottener mai pace nei paesi cattolici, pensò di ritirarsi tra i pagani, ove confidava di trovare maggior carità: ei si vide ridotto a cercare un asilo fra i nemici di Cristo.
In tali congiunture un'abbazia posta nella Bassa Bretagna, in cima ad una rupe battuta dai flutti dell'Oceano, l'abbazia di San Gilda, parve offerirgli il rifugio ch'egli cercava. La comunità, avendo perduto il suo pastore, elesse Abelardo a farne le veci. Egli accettò per isfuggire alle persecuzioni onde vedevasi minacciato, ma presto ebbe a pentirsi d'aver lasciato il suo Paraclito: volendo scansare rischi temuti corse incontro a pericoli più certi e più terribili. Si trattava di una turba di monaci sregolati, violenti, selvaggi, a cui si aggiungeva un signore formidabile che tiranneggiava il monastero, e i cui satelliti infestavano i dintorni. Abelardo suscitò contro di sè quei monaci disordinati e indomiti, volendo ricondurli a costumi più regolari ed onesti. La sua vita ben presto non fu più sicura; si tentò un giorno di avvelenarlo; un'altra volta si minacciò di ucciderlo. Dovette fuggire nuovamente; giunse alla riva del mare per un passaggio sotterraneo, e si celò in un ritiro, dove neppur là credevasi sicuro da ogni pericolo. Quivi, cercando in qualche modo un sollievo nella rimembranza delle sue sventure, prese a scriverne la storia in una lettera indirizzata ad un amico; ma, quando compose quella lettera già così piena, non era giunto ancora al termine delle calamità. La storia doveva continuare per essere intera.
Ritrovò nondimeno qualche consolazione, e la trovò di nuovo nel Paraclito. Egli lo aveva ceduto ad Eloisa, la quale vi fondò una comunità, di cui era la badessa; egli di buon grado si mise alla direzione di quella comunità, e gustò finalmente in quel pio ricovero un po' di quella quiete che tanto desiderava, ma di cui era condannato a non goder lungamente. Di essa si valse per comporre nuove opere, o ritoccare le antiche, e quei giorni che furono il più tranquillo periodo della sua vita, furono anche quello della sua maggiore operosità, intellettuale. Ei volle anzi ripigliare il suo insegnamento pubblico; nell'età di 57 anni riaprì la sua scuola di dialettica su quella montagna di Santa Genovieffa, che era stata una delle prime sedi de' suoi prosperi successi, e vi trovò il favore della sua giovinezza28. Ma poco dopo troncò le sue lezioni, e non si sa il perchè; forse la persecuzione lo aveva un'altra volta inquietato. Comunque sia, ora la vedremo ricomparire e vibrare contro di lui nuovi colpi.
Un monaco di Cistello, Guglielmo di San-Thierry, denunziò in una lettera indirizzata all'abate di Chiaravalle, San Bernardo, e al vescovo di Chartres, Geoffroy, la Teologia di Pietro Abelardo, nella quale egli aveva scoperto ogni specie di proposizioni condannabili. Difficile era il convincere Abelardo di eresia; ma il suo metodo svegliava sospetti nei rappresentanti del principio d'autorità, ed il suo esempio aveva già rinvigorita la ribellione della ragione individuale in mezzo ai suoi discepoli, più audaci del loro maestro. Uno di essi, Gilberto della Porée, cancelliere della chiesa di Chartres, aveva arrischiato sulla Trinità proposizioni, di cui dovette poi egli stesso rispondere dinanzi ad un Concilio. Un altro, Pietro Béranger, non nascondeva l'odio che gl'inspirava il dispotismo ecclesiastico. Un altro ancora, il celebre Arnaldo da Brescia, che doveva un giorno essere arso vivo in Roma, era bandito da quella città per avervi propugnata la riforma spirituale e temporale della Chiesa cristiana, preludendo così, come dice il Rémusat29, alla sollevazione dei Valdesi, a quella degli Albigesi ed alla Riforma, ed associando insieme alla passione della indipendenza religiosa il sentimento della libertà politica. In tal modo lo spirito di esame e di libertà cominciava ovunque a rinvigorirsi. Come mai, in faccia a tanto pericolo, il principio d'autorità non avrebbe aguzzate le armi? Esso era ancora onnipotente.
Il più gran rappresentante di questo principio in quel tempo, San Bernardo, ruppe ogni freno. Egli denunziò al papa ed ai cardinali Abelardo, e con lui lo spirito umano. «Lo spirito umano, sclama nel suo primo ricorso ai cardinali, usurpa ogni cosa, nulla più lasciando alla fede. Tocca ciò che è più alto; fruga ciò che è più forte di lui; si getta sulle cose divine, sforza più che non apra i luoghi santi.... Leggete, se così vi talenta, il libro di Pietro Abelardo, che egli chiama Teologia30.» Nella sua lettera al papa egli con rigorosa cura mette accanto a maestro Pietro il suo discepolo Arnaldo da Brescia, quei due serpenti che accomunano le loro squame, e finisce supplicando il Santo Padre a pigliare in mano la difesa della Chiesa: «Cingi la tua spada, gli dice. Già l'eccesso della iniquità intiepidisce la carità di molti.» Voi or vedete che cosa è divenuta per quei Cristiani la carità evangelica. In una circolare diretta a tutti i vescovi e cardinali della Corte di Roma, egli presenta Abelardo come un persecutore della fede ed un nemico della croce: «Monaco di fuori, eretico di dentro, religioso senza regola, prelato senza zelo, abate senza disciplina, serpente tortuoso che esce dalla sua tana, idra novella, a cui, recisa una delle sue teste in Soissons, altre sette ne spuntano, ecc., ecc.» Abelardo non volle attendere d'essere trascinato ad un nuovo Concilio, ma si fece incontro, per meglio stornarlo, al colpo che gli si voleva scagliare. Una esposizione solenne delle reliquie della cattedrale di Sens doveva radunare in quella città, con lo stesso re Luigi XII, un gran numero di prelati: Abelardo chiese che quella radunanza diventasse un Concilio, in cui gli si permettesse di rispondere ai suoi avversari e difendere la propria fede. Gli fu concesso, e San Bernardo, dopo aver cominciato col rifiutare il duello teologico che gli fu proposto, dicendo che egli non era che fanciullo dirimpetto a quell'uomo avvezzo ai combattimenti fin dalla gioventù; che, d'altra parte, ei reputava indegno il lasciar così agitare la fede da piccole ragioni umane (humanis ratiunculis), e che finalmente gli scritti di Abelardo bastavano senza discussione a farlo condannare; San Bernardo infine risolse di recarsi al Concilio. E ripeteva senza posa quella sentenza del Vangelo: «Non premeditare la tua risposta; essa ti sarà data al momento di parlare». Ma, nota il Rémusat31, se non si apparecchiava alla discussione, tutto aveva disposto per la sentenza.
L'incontro di questi due uomini (potrei dire di questi due principii) avvenne nella metropolitana di Santo Stefano, al cospetto del re, assiso in trono, dei padri schierati intorno a lui, e della moltitudine dei signori, dei monaci e dei preti. San Bernardo era ritto sul pulpito, tenendo nelle mani i libri incriminati, donde si erano estratte 17 proposizioni reputate eretiche. Abelardo si avanzò in mezzo agli sguardi e al silenzio di tutti. Si narra che, attraversando la folla degli astanti, che aprivasi per dargli il passo, i suoi occhi incontrarono quelli di Gilberto della Porée, di cui già parlai, ed al quale, passando, disse con aria d'avvertimento profetico questo verso di Orazio:
Nam tua res agitur, paries cum proximus ardet32.
Tutti ansiosamente aspettavano la gran discussione che stava per incominciare, e gli amici d'Abelardo non dubitavano che il maestro tanto eloquente e tanto abile non confondesse i suoi avversari e San Bernardo. Ma, cosa singolare! appena fu incominciata la lettura delle proposizioni incriminate, Abelardo l'interruppe esclamando che niente voleva ascoltare, e che altro giudice non riconosceva che il pontefice di Roma, ed uscì.
Gli mancò forse l'animo in quel momento decisivo? oppure, come suppone il Rémusat33, aveva egli letto la propria sentenza sulla fronte de' suoi giudici, e pensato ch'era inutile ogni difesa, e che, tentando giustificarsi, non faceva che accettare ed aggravare la sua sconfitta? Può essere. Checchè sia, quel caso imprevisto cagionò un gran commovimento nell'assemblea, e pose il Concilio in grande impaccio. San Bernardo fece decidere che si continuasse a giudicar la dottrina, anco assente il dottore; ei non voleva lasciarsi sfuggire quell'occasione per condannarlo, e temeva che, se il Concilio senza avere nulla statuito si sciogliesse, l'autorità della Chiesa di Francia fosse scossa.
Si giudicò pertanto la dottrina, lasciando alla Santa Sede, a cui Abelardo si era appellato, la cura di sentenziare sulla persona, e quella dottrina intanto dichiarata perniciosa, manifestamente condannabile, opposta alla fede, contraria alla verità, apertamente eretica. Abelardo lasciò la città nello stesso giorno.
San Bernardo non fu ancora soddisfatto. Scrisse le due lettere sinodali che l'arcivescovo di Sens e quello di Reims indirizzarono al papa per notificargli la cosa, e supplicarlo che confermasse la loro sentenza, e colpisse con giusta punizione coloro che si ostinassero a difendere gli articoli condannati; finalmente che imponesse silenzio al maestro Pietro vietandogli d'insegnare e di scrivere, e abolendone i libri. Egli medesimo scrisse poi in suo nome al Santo Padre per iscongiurarlo a non dubitare un istante di colpire quel Golia ed il suo compagno d'armi, Arnaldo da Brescia, e mandò nel tempo stesso ai primari cardinali di Roma lettere «abilmente studiate, come dice il Rémusat34, per amicarli alla sua causa.» Tutte queste lettere difatti accoppiano una profonda abilità a quello zelo per la casa del Signore che egli scambia colla carità, e da cui gli sono ispirate parole come queste: «Non so se la bocca che così parla sarebbe più giustamente spezzata a colpi di bastone, che confutata col raziocinio.»
Abelardo, da parte sua, nulla omise per difendersi, ed il suo discepolo Béranger scrisse a favore di lui una apologia, dove fa del Concilio che lo aveva condannato una pittura satirica, le cui tinte sono forse un po' cariche, ma che non è al certo senza qualche verità35. In essa ei si rivolge a San Bernardo, e rammentandogli quel detto del profeta: Il giusto mi correggerà in msericordia, soggiunge: «Ove difatti vien meno la misericordia, ivi non è la correzione del giusto, ma la brutale barbarie del tiranno.»
La decisione di Roma stette qualche tempo incerta, e non si conobbe tutta in una volta. Una prima lettera, subito notificata, condannava la dottrina di Pietro, e, come ad eretico, gli imponeva perpetuo silenzio. Una seconda lettera, comunicata il giorno dipoi, ma che doveva essere tenuta per qualche tempo segreta, conteneva quanto segue:
«Col presente scritto noi ordiniamo alla fraternità vostra di far chiudere separatamente, nelle case religiose che vi parranno più convenienti, Pietro Abelardo e Arnaldo da Brescia, fabbricatori di dogmi perversi e aggressori della fede cattolica, e di far abbruciare i libri del loro errore, dovunque siano trovati. Dato dal Laterano, 18° giorno dalle calende d'agosto.»
Intanto Abelardo; che ignorava la sentenza emanata contro di lui dalla Corte romana, erasi posto in cammino, nonostante la sua età e la inferma salute, per andare a difendersi al cospetto del papa. Sorpreso dalla notte, andò una volta a battere alla porta del monastero di Cluny, di cui era priore Pietro il Venerabile. Questi, ben diverso da San Bernardo, avea quella vera carità onde mancava l'abate di Chiaravalle, al quale un giorno ei scrisse: «Voi adempite i doveri penosi e difficili del digiunare, del vegliare, del soffrire, e non potete sopportare il facile dovere di amare36.» Egli accolse Abelardo con compassione e rispetto. In quel ritiro l'infelice filosofo seppe la sentenza che lo aveva condannato, e chiese ed ottenne il permesso di passar ivi il resto de' suoi giorni. Pure non vi morì. Colto da un male che richiedeva cambiamento d'aria, egli fu mandato presso Châlons sulla Sonna, nel priorato di San Marcello, ove morì il 21 di aprile 1142 in età di 63 anni.
Tal fu la sorte, tormentata e procellosa, d'Abelardo. «Egli ha diritto, come dice lo storico della filosofia, Bruker, d'esser annoverato tra i martiri della filosofia.» Infatti egli fu un rappresentante del libero pensiero, come poteva essere un uomo del secolo XII, e per quello fu perseguitato in tutta la vita. Se il principio che tentò di ristabilire, senza scorgerne egli stesso tutta l'importanza, soccombette nella persona di lui sotto il principio contrario, sotto il principio dell'autorità, di cui San Bernardo era allora il più gagliardo campione ed il rappresentante vittorioso, quel principio nuovo doveva però risuscitare, e, passando di generazione in generazione, comunicare agl'intelletti un impulso fecondo, da cui uscirono, alcuni secoli dipoi, la Riforma, e, dopo la Riforma, la filosofia moderna.
. . . . . Inter pocula quaerunt
Pontifices saturi quid dia poemata narrent.
«Poi, quando ad essi giunge il suono di qualche passo sottile e divino, a cui le orecchie pontificali non sono avvezze, l'uditorio ritorna in sè, e più non si ode che un digrignar di denti contro Pietro; e quei giudici, che per veder chiaro in filosofia hanno gli occhi di talpa, esclamano: E che! lasceremo noi vivere un cotal mostro? e tentennando il capo come Ebrei: – Ah! dicon essi, ecco colui che atterra il tempio di Dio! (Matteo, xxvi, 40). Così i ciechi giudicano parole di luce; così uomini ebbri condannano un uomo sobrio, e veri vasi colmi di vino sentenziano contro l'organo della Trinità.... Questi primi filosofi del mondo avevano riempiuta la botte del loro esofago, e i vapori della bevanda erano loro saliti al cervello, dimodochè tutti gli occhi si chiusero immersi in un sopore letargico. Intanto il lettore grida; l'uditore dorme; l'uno si appoggia sul gomito per meglio sonnecchiare, l'altro sopra un guanciale ben soffice e procura di chiudere le palpebre; un terzo china il capo sulle ginocchia. Quindi, allorchè il lettore trovava qualche spina nel campo, gridava alle orecchie sorde dei padri: Damnatis? (condannate voi?). Allora alcuni a stento ridestati dal suono dell'ultima sillaba, con voce sonnolenta dicevano: Damnamus (noi condanniamo); – namus, dicevano altri che, ridestati anch'essi dal rumore che facevano i primi nel dar il giudizio, decapitavano la parola (facendo così allusione alla loro ebbrezza: namus, cioè nuotiamo).»