Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

QUINTA LEZIONE Ramus (Pietro della Ramée.)

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QUINTA LEZIONE

Ramus (Pietro della Ramée.)

Signore e Signori,

Lascio oggi il Medio Evo che dopo Abelardo ci darebbe ancora molti eroi e molte vittime, se potessi qui seguire il libero pensiero in tutti i suoi combattimenti contro il principio d'autorità e scrivere la storia di tutti i martiri; e vengo all'epoca del Risorgimento e della Riforma, cioè ai tempi moderni. Difatti una nuova êra ivi comincia. Il Risorgimento, riaprendo le fonti sino allora chiuse o mal conosciute della sapienza antica, ridesta e feconda gli spiriti assiderati e inariditi dalla scolastica. Nel tempo stesso la Riforma, assalendo l'autorità sino allora onnipotente della Chiesa cattolica, opponendo a quella l'autorità del Vangelo interpretato dalla ragione individuale, e per conseguenza appellandosi, almeno in certa misura, al libero esame, la Riforma viene in aiuto, per la parte sua, alla emancipazione dello spirito umano. Nello stesso tempo altresì, per una maravigliosa coincidenza, la invenzione della stampa fornisce lo strumento più atto a moltiplicare e propagare l'espressione del pensiero antico e moderno. Ma il vecchio principio non depone le armi; esso lotta disperatamente contro lo spirito nuovo, colpisce dovunque arriva, e fa d'intorno a un immenso numero di vittime. Chi difatti potrebbe enumerare tutte quelle che soccombettero sotto i suoi colpi in quell'epocaagitata e sanguinosa della storia dello spirito umano, sì feconda d'eroi e di martiri? Prendiamone uno fra tutti (come facemmo pel Medio Evo), uno de' più illustri e de' più gloriosi, e quello altresì che rappresenta meglio la causa del libero pensiero, della filosofia, Pietro della Ramée, o, per lasciare al suo nome la forma latina che gli diede il XVI secolo, e con cui diventò immortale, Ramus.

In tutti i tempi di trasformazione37 vedonsi a conflitto due specie d'uomini: gli uni, spiriti novatori, anime generose, imprendono a scoprire o a propagare le idee riformatrici, e a questa nobil causa immolano il loro riposo, gli agi, la vita stessa; gli altri, al contrario, ciecamente attaccati alle vecchie autorità, alle vecchie istituzioni, a tutti i pregiudizi, in cui vivono e di cui vivono, si sdegnano vedendo che altri osa battere in breccia la loro arca santa, e, tanto più furibondi quanto più angusta è la loro mente e le cupidigie loro più ardenti, chiamano in aiuto tutte le persecuzioni e tutti i più crudeli supplizi. Tipi veramente spiccati di queste due specie di uomini sono il filosofo Ramus ed il suo nemico Charpentier, il novatore martire, e il reazionario persecutore; l'uno dei quali rappresenta egregiamente lo spirito di progresso e di libertà in ciò che ha di più nobile, e l'altro lo spirito di consuetudine e d'autorità in ciò che ha di più esoso.

Quell'indomito coraggio tanto necessario agli uomini che abbracciano la causa del progresso, lo dimostrò il Ramus fin dalla puerizia: in età di ott'anni, spinto dall'amore dello studio fuori del nativo suo villaggio, (Cuth, fra Soissons e Noyon), egli fa solo e a piedi il viaggio di Parigi; e, dopo esserne stato cacciato dalla miseria, vi torna la seconda volta per esserne una seconda volta cacciato dalla stessa cagione. Finalmente potè stabilirvisi, mercè di uno zio materno che aveva consentito a tenerlo in sua casa; ma, rimasto privo di un tale appoggio nell'età di dodici anni, trovò modo di continuare i suoi studi facendo da servitore a un ricco studente del collegio di Navarra. Occupato durante il giorno nel servizio del suo giovane padrone, dava al lavoro una gran parte delle notti. «Ammirabile modello di coraggio e di pazienza (dice molto bene il signor Waddington38 dopo aver riferito un altro esempio dello stesso genere e dello stesso tempo, quello cioè dello scienziato Guglielmo Postel); nella povertà, nei domestici servigi quegli uomini di vigorosa tempra conservavano tutta la loro libertà di spirito, e conducevano a buon fine lavori, il cui racconto farebbe impallidire la gioventù de' tempi nostri. Il Ramus poteva adunque dire con giusto orgoglio: Sopportai per molti anni la più aspra servitù, ma l'anima mia restò sempre libera, si vendette o degradò mai.

Con questo coraggio pieno di alterezza, che si mostrò in lui sì per tempo e che non lo abbandonò per tutta la vita, il Ramus non tardò molto a sentire ed a manifestare quella indipendenza di spirito, quell'abborrimento dalla cieca consuetudine e quell'amore alle riforme, che furono sua gloria e sua sventura. Ci narrò egli medesimo in un passo de' suoi scritti che il signor Waddington39 saviamente paragona col Discorso del metodo del Descartes, come, terminato l'intero corso degli studi, pigliò in uggia la filosofia scolastica, e cercò fuori dell'autorità d'Aristotele un metodo meno sterile e più pratico. Ognuno sa che cosa era per la scolastica l'autorità d'Aristotele: la parola del filosofo greco, bene o mal compresa, era divenuta un che di sacro, il quale si accettava senza esame e non era lecito discutere: Il maestro lo disse. Ciò stava in luogo dei raziocini e delle argomentazioni; con ciò ognuno credevasi sciolto da ogni altra ricerca, e chiudeva la bocca ai contradittori. In tal guisa lo spirito umano esauriva le sue forze in un circolo d'artifizi logici, in cui la libertà e la vita mancavano ad un tempo. Il grande intelletto del Ramus si sentì soffocare in questo circolo, ed ei risolse di liberarne la filosofia. Assalì adunque l'autorità di Aristotele, in nome del quale si opprimeva tanto il pensiero; e, come la maggior parte dei novatori, oltrepassando lo scopo che voleva toccare, intraprese di provare che «quanto aveva detto Aristotele non era che falsità.» Tal fu il subbietto della tesi che egli scelse pel suo esame di laurea. Questa tesi era senza dubbio troppo ingiusta verso un alto intelletto, a cui non si doveva imputare il dispotismo che tanto a lungo si era esercitato in suo nome, ma era il primo colpo scagliato ad un'autorità posta fino allora al disopra d'ogni discussione, e questo colpo era tanto più strepitoso, quanto che era senza moderazione. Perciò grave fu lo scandalo fra i dottori del tempo. Essi ebbero un bel fare, ma non poterono impedire il trionfo del Ramus.

Questo primo buon successo, che destò un romore grandissimo, lo incuorò senza dubbio, ma non gli turbò la mente. Divenuto maestro egli pure, si diede, come poscia il Descartes, a rifare da per tutti gli studi, cominciando dai fondamenti; e, in tal guisa apparecchiato, scese di nuovo in lizza contro la filosofia scolastica e contro Aristotele insieme. Le due opere che pubblicò nell'età di 28 anni, sette dopo la sua tesi, erano al pari di questa dirette contro la filosofia regnante e l'idolo di essa. Osando assalire di fronte una sì formidabile potenza, ei non ignorava i pericoli a cui si esponeva; ma non era tal uomo da indietreggiare davanti al pericolo, allorquando si trattava di combattere per la filosofia e la libertà del pensiero. «È una morte intrepida e gloriosa, egli esclama, che, occorrendo, si deve accettare.» E il fatto provò ad esuberanza ch'egli non esagerava la grandezza del pericolo. Ma, prima che giunga la morte, una morte orrenda, ecco la persecuzione. I rettori della Università, turbati nella loro consuetudine, gelosi poi della simpatia che gli studenti dimostravano al Ramus, si sollevarono contro di lui; e, dopo aver fatto censurare i due suoi libri dalla Facoltà di teologia, ne chiesero istantemente l'abolizione presso i magistrati della città. Essi presentavano il Ramus come un nemico della religione e dell'ordine, e lo accusavano di voler corrompere la gioventù, inspirandole un pericoloso amore delle novità. La causa fu portata dinanzi alla gran Camera del Parlamento, poi avocata al Consiglio del re, indi rimandata a un Consiglio d'arbitri, e finalmente giudicata contro il Ramus da' suoi nemici, senza difesa.

Francesco I, quel padre delle lettere, come lo chiamarono, si affrettò a dar la sua sanzione reale alla sentenza emanata da quello strano tribunale, ed il Parlamento registrò senza difficoltà l'editto del re. I nemici del Ramus avevano indirizzato suppliche a Francesco I, acciocchè si compiacesse di condannare quell'uomo alla galera; fortunatamente si fece comprendere al monarca che quel mezzo di proteggere le lettere non era il più conveniente: egli si contentò di abolire le due opere incriminate e di vietare che il loro autore insegnasse filosofia. Condanna siffatta, qual che si fosse, destò vivissima gioia tra gli scolastici; fu stampata in latino ed in francese, indi sparsa a profusione ed affissa dappertutto; si abbruciarono solennemente, sulla piazza pubblica, le due opere del Ramus, e si andò tant'oltre da rappresentare nei collegi alcune commediole, in cui il Ramus era beffeggiato come un tempo Socrate sul teatro di Atene. Ond'è che si paragonava egli volentieri con quel filosofo, di cui aveva impreso a restaurare il metodo. «Per assomigliarmi a lui in tutto, diceva, non mi mancò che la cicuta.» La cicuta verrà in appresso, ed anche peggio

La persecuzione, che abbatte i deboli, non serve che a viepiù rinfrancare l'animo de' forti. Il Ramus non si reputò battuto; aspettò che nuove congiunture gli dessero modo di ricominciar la guerra contro la filosofia scolastica. Intanto si restrinse all'insegnamento dell'eloquenza e delle matematiche. «Qui almeno, diceva egli, i pensieri sono sempre liberi;» ma le matematiche anch'esse dovevano recargli sventura. Nell'anno 1545, avendo un'epidemia cacciato da Parigi tutti gli studenti e tutti i maestri, e spopolate tutte le scuole, il Ramus fu invitato a voler riavvivare col proprio insegnamento il collegio di Presles: divenuto il capo di questo collegio, che ben presto, mercè sua, fu il più florido di tutti quelli di Parigi, vi portò il suo spirito di riforma, e venne accusato, fino dinanzi al Parlamento, di scompigliarlo; egli ardiva mettere in discussione Quintiliano, e far osservazioni sopra Cicerone! Poco mancò che non fosse condannato per questo delitto; ma, mercè l'arcivescovo di Reims che assisteva all'adunanza, fu assoluto. Da ultimo, l'esaltazione di Enrico II al trono gli rese la libertà, che Francesco I gli aveva tolta, quella cioè di parlare e di scrivere sulle materie filosofiche. Carlo di Lorena, antico precettore e favorito del novello re, era stato condiscepolo del Ramus; lo sostenne al cospetto del suo signore, il quale, secondo le espressioni dell'ardente filosofo, consentì a sciogliergli la lingua e le mani. Fece di più: benchè il Ramus, per le sue arditezze contro gli autori tradizionali e per le sue innovazioni nell'insegnamento, provocato avesse nuove liti coll'Università, il cardinale di Lorena fece instituire in favore di lui nel Collegio reale una cattedra d'eloquenza e di filosofia, dandogli così il modo di proseguire con maggior autorità e innanzi ad una gioventù numerosissima la riforma filosofica che aveva già intrapresa. È tristo a pensare che questo stesso cardinale di Lorena celebrò più tardi una messa di rendimento di grazie in onore della strage di San Bartolommeo, in cui l'antico suo amico Ramus perì tanto miserabilmente. Vero è che tra il filosofo e il cardinale si frapporrà il Protestantesimo.

Uno spirito così novatore, com'era il nostro Ramus, non poteva non sentirsi attratto verso la riforma religiosa. Colui che si era proposto di riformare la filosofia emancipandola dal giogo di un'autorità reputata infallibile, doveva ben vedere con simpatia l'opera di affrancamento che il Protestantesimo compiva nella religione, rigettando quell'altra autorità infallibile, molto più formidabile della prima, l'autorità della Chiesa. Tanto più egli doveva applaudirla, quanto che la Chiesa aveva accolto sotto il suo patrocinio Aristotele, si poteva combattere quel filosofo senza essere tacciato subito di eresia. Altre cagioni cooperarono a spingere il Ramus fuori del grembo della Chiesa; per esempio, la vergognosa ignoranza del clero, nel quale, giusta il detto del vescovo di Valenza, Giovanni di Montluc, in dieci preti non ve ne erano otto che sapessero leggere, e il contrasto di quell'ignoranza barbarica coll'amore della scienza e dei lumi che infiammava i Protestanti. Ma, oltrechè questi rappresentavano il progresso, la loro causa era pur quella degli oppressi; ciò, per un'anima come quella del Ramus, era una ragione di più per abbracciarlo. Il Protestantesimo era odiosamente perseguitato; il Ramus perciò doveva diventarne fautore. Il supplizio di Anna Dubourg lo spingeva, anzi che distornelo, verso la Riforma. La sua conversione accadde al tempo del colloquio di Poissy, cioè nel 1561; a quel colloquio egli si recò coll'intenzione di vedere chiariti i meriti delle due religioni che si erano data la posta, e ne uscì affatto protestante. E non furono, cosa singolare! per nulla i ragionamenti di Teodoro di Beza, rappresentante della dottrina calvinista, che lo indussero a convertirsi, ma i discorsi, al contrario, del cardinale di Lorena. Questo difensore del Cattolicesimovivamente dipinse i vizi del clero e la corruzione della Chiesa, che più non restò il minimo dubbio al Ramus sulla necessità della Riforma. Preso il suo partito, si mostrò nel campo della religione ciò che fu sempre in quello della filosofia, pieno d'ardore e di risolutezza. Quando si fece l'editto del 27 gennaio 1562, che per la prima volta concedeva ai Protestanti il libero esercizio del loro culto, Giovanni di Verneuil, rettore dell'Università, recossi al Parlamento per supplicarlo, in nome dell'intera sua corporazione, di non promulgare quell'editto. Il Ramus dichiarò che non aveva preso parte veruna a quella domanda, e protestò contro il violento discorso che Giovanni di Verneuil aveva proferito. Ma i pericoli, ai quali lo esponeva il suo mutamento di religione, non potevano tardar molto a cadergli sul capo; e la persecuzione da lui sofferta per la filosofia nel primo periodo della sua vita era un nulla a paragone di quella che lo aspettava.

Nel 1562, dopo la guerra civile che la strage di Vassy, preludio di quella di San Bartolommeo, aveva suscitata, il Ramus si vide costretto a lasciar Parigi; una decisione del governatore, il maresciallo di Brissac, ne bandiva tutti i Calvinisti, «pena la forca.» Egli si ritrasse a Fontainebleau, dove la regina madre gli aveva offerto un asilo; ma, non ostante quell'alta protezione, fu perseguitato da' nemici fin nel suo regale ricovero, scansò la morte se non con una fuga precipitosa. Indi a poco si ravvicinò a Parigi, sperando di tornarvi e ripigliar possesso del suo collegio, di cui una risoluzione del vescovo di Parigi, confermata dal Parlamento, lo aveva spogliato a profitto di un teologo ben pensante; ma, reietto dalla Università, nuovamente dovette allontanarsi, e per la seconda volta poco mancò che non cadesse in balìa de' nemici. Quindi vagò di terra in terra sotto mentite spoglie, accolto qua e da alcuni uomini generosi, ora errante per la campagna, ora celato in qualche asilo, dove intrepidamente proseguiva i suoi lavori; giunse in tal modo all'anno seguente, in cui la pace d'Amboise gli assicurò finalmente il ritorno a Parigi.

Reso all'antico suo ufficio di capo del collegio di Presles e di regio professore, il Ramus, senza abbandonare la filosofia, si dedicò con un ardore prodigioso allo studio delle matematiche, le quali allora erano a stento coltivate in Francia, ed alle quali egli diede un vigoroso moto. Per meglio dedicarsi alla scienza aveva risoluto di smettere il pensiero d'ogni sorta di polemica; ma aveva fatto i conti senza i suoi nemici, contro il suo riposo congiurati. Del resto era impossibile che, amico della scienza e de' suoi progressi come egli era, non desse loro ben presto qualche nuovo argomento d'odio. Egli è appunto in que' giorni ch'ei ridestò e inacerbì mortalmente quello d'uno de' suoi nemici più antichi e più pericolosi, Charpentier, facendo alte lagnanze contro la scelta di tale uomo alla cattedra di matematiche nel Collegio di Francia. Il furore dello Charpentier e de' suoi amici non conobbe più limite alcuno. Odiosi libelli, diffamazioni d'ogni sorta, tentativi d'assassinio, tutti i mezzi eran buoni per loro. «Un giorno, dice il biografo del Ramus, Nancel, citato dal Waddington40, un uomo furibondo gli entrò in casa tutto armato, e fece atto di ucciderlo. Essendo riuscito al Ramus di afferrarlo, si contentò di farlo staffilare invece di consegnarlo ai magistrati, e lo fece mettere fuori del collegio. Un'altra volta erasi mossa contro di lui una sollevazione, e i più rinomati spadaccini dell'Accademia erano venuti ad assediare il collegio di Presles. Il Ramus fece aprire ad essi le porte, e indirizzò loro un'arringa, la quale produsse su quegli animi un sì grande effetto che l'intera turba si disperse, senza che un solo di quei furfanti osasse attentare alla sua vita, benchè una vendetta privata fosse allora facilissima, e quasi certa di rimanere impunita

Ben presto essendo di nuovo nata la guerra civile, il Ramus fu un'altra volta costretto a sgombrare da Parigi, per non venire ammazzato. Quando vi tornò, rinvenne vuoti gli scaffali della sua bibliotca, di cui si era fatto saccheggio, e trovò nel suo posto di rettore quello stesso teologo ben pensante che lo aveva già occupato. Egli potè nondimeno riassumere il proprio ufficio; ma, accorgendosi che contro di lui si preparava un'altra tempesta, risolse di domandare al re un congedo, e di effettuare un disegno che da lungo tempo meditava, cioè quello di fare un viaggio nell'Alemagna. Non solamente il re consentì alla domanda di lui, ma gli affidò l'incarico di visitare le principali accademie dell'Europa.

Il suo viaggio nella Svizzera e nell'Alemagna fu una serie di trionfi. L'accoglienza che egli ricevette dagli scienziati ed anche dal popolo in Strasburgo, in Basilea, in Zurigo ed in tutte le altre città ove passava, era tale da consolarlo dei mali che la novità delle sue opinioni filosofiche e la sua conversione religiosa gli avevano tirati addosso nel suo paese. Solo in Eidelberga ei vide levarsi una di quelle tempeste che pur troppo conosceva, ma che sapeva anco volgere in sua gloria. Avendo l'elettore palatino, Federico III, fatto invito al Ramus d'incaricarsi delle pubbliche lezioni di morale, come professore straordinario, durante il tempo che la guerra lo tenesse lontano dal suo paese, i professori dell'Università, che parteggiavano quasi tutti per la filosofia scolastica, indirizzarono rimostranze all'Elettore. Non avendone questi fatto verun conto, ed avendo invece pregato il Ramus a incominciare il suo corso, uno spaventevole trambusto si suscitò alla prima lezione. Prima che giungesse il professore, alcuni studenti aristotelici avevano immaginato di toglier via i gradini della cattedra; il Ramus non potè salirvi se non col mezzo di uno studente francese, il quale gli offerse la propria schiena a guisa di scala; quando ei volle incominciar a parlare, fischi, urli ed un pestar di piedi lo interruppero. Ma il professore dominò in breve tutto quel tumulto colla sola forza del suo carattere e del suo ingegno. Se la gioventù per un istante può lasciarsi traviare verso il passato, non resiste lungamente all'attrattiva delle idee nuove, massime quando vi si aggiunge quella dell'eloquenza. Il discorso del Ramus era tanto nuovo per quelle orecchie piene di scolastica, e la sua perorazione fu così eloquente, che egli finì col forzare agli applausi tutta l'assemblea. Ma i vecchi scolastici non si arreserofacilmente, e il Ramus dovette rinunziare ben presto a proseguire le sue lezioni nell'Università di Eidelberga. Continuando il suo viaggio attraverso l'Alemagna e la Svizzera, andò a fare in Ginevra ed in Losanna lezioni che ebbero felicissimo successo e durevole influenza. Appunto in Losanna ricevette la novella del trattato di pace che era stato concluso a Saint-Germain-en-Laye tra i Protestanti e la Corte, onde gli parve bene di tornarsene a gran fretta in patria. Per quanto splendida e lusinghiera sia l'ospitalità sulla straniera terra, il ritorno in patria è sempre il sogno dell'esule, e non viene mai troppo presto il giorno che gli è concesso di rivederla. Tanto era l'amore del Ramus pel paese nativo, non ostante tutto ciò che in esso aveva sofferto, che, non volendo staccarsene per sempre, aveva egli rigettate le più splendide proposte di principi e di accademie. Laonde si affrettò a tornare in Francia tosto che gliene furono dischiuse le porte; ma tornandovi incontrava nuovamente la persecuzione più viva che mai, o piuttosto, orrendo a dirsi! correva al macello.

Il Ramus tosto intese che, non ostante l'editto di pacificazione, il quale l'aveva richiamato in patria, lo stato della Francia non era certo migliore di quando l'aveva lasciata. Trovò il suo posto nel collegio di Presles e nel Collegio reale occupato da due uomini, il cui nome non ci è pervenuto, «ingegni anonimi, dice il Waddington41, quali un arbitrario Governo incontra sempre a sua voglia, allorchè trattasi di soppiantare il vero merito;» ma questa volta ei non potè ripigliare il suo uffizio. Due anni prima l'Università, sempre accanita contro coloro che essa chiamava «i disertori della fede,» aveva ottenuto dal re e dal Parlamento ordinanze e decreti che escludevano dall'insegnamento privato o pubblico tutti coloro che non facessero pubblica professione della religione cattolica, apostolica e romana.

Quando i professori del Collegio di Francia furono chiamati a dare giuramento di cattolicità, otto soli risposero alla chiamata, ed alcuni di loro per paura; gli altri tutti sacrificarono, senza esitare, l'uffizio alla propria coscienza; non credevano essi che un giuramento fosse una formula vana, e che loro fosse lecito di accettare gli accomodamenti della gran morale. Il Ramus era di coloro che ne conoscono una sola; quindi si vedeva escluso dal suo collegio e dalla sua cattedra fino a che l'insegnamento era subordinato a tali condizioni; ma poteva sperare che quegli odiosi provvedimenti sarebbero rivocati un giorno da un Governo meglio illuminato. L'editto del 1570 sembrò che venisse ad avverare le sue speranze, ma la illusione presto svanì. Una clausola di quell'editto di pacificazione vietava il libero esercizio della religione riformata in Parigi e nei sobborghi; il rettore Sagnier, non meno zelante de' suoi predecessori, si giovò di essa clausola per indirizzare al re sue rimostranze contro la determinazione di rimettere in uffizio i professori protestanti. «Il re, dice il Crevier, accolse questo savio e pio richiamoIndarno il Ramus scrisse all'antico suo protettore, il cardinale di Lorena, lettere piene di convenienza e dignità; l'ambizioso prelato erasi allora avventurato in una politica che non gli consentiva di aiutare un tal uomo. Egli aveva sostenuto, d'accordo col vescovo di Parigi, Pietro di Gondi, il richiamo del rettore dell'Università; non si prese adunque la briga di difendere il Ramus, quando, ottenuto dal re un nuovo editto contro i professori protestanti, e fattolo registrare al Parlamento, l'Università chiese un'ultima conferma delle regie lettere per liberarsi definitivamente dal Ramus e dagli altri miscredenti della sua qualità. Laonde il Ramus videsi spodestato irremissibilmente, non solo della sua cattedra nel collegio di Francia, ma anche del suo rettorato nel collegio di Presles, che egli a ragione reputava come frutto del suo lavoro. Allora pensò a ritirarsi in Ginevra, e fece parlare a tal uopo a Teodoro di Beza; ma, per avere il diritto d'insegnare nell'Accademia di quella città, non bastava il non essere più cattolico, bisognava pur sempre giurare sulla parola di Aristotele. Ognun vede che da questo lato il Ramus non aveva guadagnato molto nel mutar di religione42.

Costretto a non più parlare dalla cattedra, pensò il Ramus che poteva ancora rendere grandi servigi colla penna. Egli aveva disegnato di scrivere in francese su tutte le arti liberali, incominciando dalla grammatica e terminando con la morale e la politica; gli riuscì di fare in modo che questo disegno fosse accetto al re ad alla regina madre, ed ottenne quindi un asilo che gli fece abilità di restare nel «suo regno di Presles,» ivi scegliendo da se stesso il proprio successore, e conservando le sue rendite ordinarie. Di più gli si conservò, ed anzi gli si raddoppiò lo stipendio di professore emerito nel Collegio di Francia. Così la stessa autorità regia mostravasi non di rado meno violentemente persecutrice del clero, dell'Università e del Parlamento. Non dimentichiamo che questo rappresentante della autorità regia è il principe stesso che doveva indi a poco ordinare la strage dei Protestanti in tutta la Francia, e che dalle finestre del Louvre doveva poi tirare egli medesimo contro i propri sudditi.

Poco tempo innanzi a questa abbominevole strage un caso avvenne che avrebbe salvato il Ramus, se la lealtà e la nobiltà del carattere gli avessero consentito di giovarsene. Il 17 agosto 1572 Giovanni di Montluc, vescovo di Valenza, partiva alla volta di Polonia come ambasciatore. Egli volle addetto il Ramus alla sua legazione, sperando che la eloquenza di quell'abile oratore gli sarebbe di grande aiuto nell'incarico che gli era commesso; trattavasi di preparare la elezione del fratello di Carlo IX, Enrico d'Angiò. Forse anche egli pensava di salvare il Ramus, perocchè aveva presente il tremendo colpo ond'erano minacciati i Protestanti, e, prima di partire, aveva dato l'avvertimento al conte di Larochefoucault che stesse bene all'erta. Pure egli, nonostante le più vive istanze e le promesse più splendide, non potè indurre il Ramus ad accompagnarlo, questi volle consentire a mettere la sua eloquenza al servigio di una candidatura regia odiosa a' suoi correligionari. «Un oratore, diceva egli, deve prima di tutto essere un uomo dabbene; non deve mai vendere la propria eloquenzaSette giorni dopo la partenza del vescovo Giovanni di Montluc, il 24 agosto, suonava a stormo la campana di San Bartolommeo.

Ma, prima di raccontare come perisse il Ramus in quell'orrenda carnificina, giova far comparire colui che certamente spinse il braccio degli assassini, cioè lo Charpentier. Lo Charpentierr era il contrapposto del Ramus; quanto amava questi le idee nuove e pigliava a cuore gl'interessi dello spirito umano, altrettanto quegli s'incaponiva nella cieca consuetudine e adorava la servitù del pensiero. Non meno presuntuoso che ignorante, invidioso, violento, vendicativo e sanguinario; tal era il nemico del Ramus. Il suo odio contro quel nobile spirito era antico. Fin dall'anno 1550 essendo a forza di raggiri salito al rettorato dell'Università, egli aveva mosso una persecuzione contro il Ramus, perchè i professori del collegio di Presles si facevano lecito di aggiungere la spiegazione de' poeti e degli oratori a quella dei filosofi, e perchè, invece di spiegare letteralmente Aristotele, si prendevano la libertà di commentarlo.

Egli aveva perciò dato l'interdetto al collegio, sostenuto in questo fatto, com'era naturale, dalla Facoltà di teologia; bisognò nientemeno che l'intromissione del Parlamento per sottrarre il Ramus ed il suo collegio ai provvedimenti che il rettore aveva presi. Benchè il Parlamento avesse dato licenza al Ramus ed a' suoi partigiani d'insegnare secondo il suo metodo, almeno in certi giorni e a certe ore, lo Charpentier non cessò di perseguitare il capo del collegio di Presles, o dinanzi all'Università, o dinanzi al Parlamento stesso; ma questo mantenne le proprie decisioni. Vinto su tal campo, l'ostinato persecutore si gittò in un altro; si appigliò al libello infamatorio. «Maledico, plagiario, sofista, commediante, scettico, corruttore della gioventù, impudente, cinico, malfattore;» ecco un piccolo saggio delle ingiurie ch'ei vomitava contro il suo avversario. Persino la barba del Ramus era segno ai dileggi dello Charpentier, il quale aveva, pare, buone ragioni per non amarla. Ma, chi il crederebbe? dietro quelle graziose celie stava nascosta una persecuzioncella; si voleva far rimettere in vigore un vecchio regolamento che proibiva ai capi di collegio il portar la barba, e lo Charpentier ed i suoi amici speravano così, giusta la loro espressione, di spogliare il pavone delle sue piume. Tutto ciò non sarebbe che ridicolo, se l'odioso e il tragico non vi si mischiassero. Ma in quello stesso libello lo Charpentier deplorava la indulgenza che erasi usata verso il Ramus: «Ad un uomochiacchierone, diceva egli, e che dava segni tanto evidenti di follia, si doveva infliggere l'esilio perpetuo

A tutte queste piacevolezze ed a questi caritatevoli voti il Ramus rispose col silenzio, e lo Charpentier ne fu quindi più irritato; il suo amor proprio ne soffriva crudelmente, tanto più che nel tempo stesso il Ramus non isdegnava di rispondere a certi avversari, per esempio, al Turnebo. Ei rinnovò parecchie volte i suoi assalti, senza mai avere una sillaba di risposta. Ma ciò che ne accrebbe il furore smisuratamente e fece del suo odio una di quelle feroci passioni, le quali non si saziano se non col sangue, fu la fermezza onde il Ramus combattè in lui l'indegno professore che senza la minima nozione della geometria presumeva di poter occupare nel Collegio di Francia una cattedra di matematiche acquistata a prezzo di danaro. Il Ramus voleva che egli si assoggettasse almeno all'esame pubblico, cui un'ordinanza regia aveva imposto al suo predecessore e a tutti coloro in generale che si presentassero per insegnare nel Collegio di Francia. Quell'ordinanza erasi fatta dopo la richiesta appunto del Ramus che voleva confondere l'ignoranza di un certo Dampestre Cosel; ma il successore, a cui egli, mediante non so qual traffico, cedette la sua cattedra, era anche più inetto di lui. Il Ramus pertanto si comportò contro lo Charpentier, come comportato si era contro il Dampestre Cosel, ed ottenne un secondo editto che confermava il primo. Ricusando sempre il novello professore di assoggettarsi all'esame, la faccenda fu portata dinanzi al Parlamento. Quivi lo Charpentier, benehè confessasse la sua profonda ignoranza nelle matematiche, ostentò tanto zelo per la filosofia di Aristotele e per la cattolica religione da far dimenticare che si trattava soltanto di una cattedra di matematiche. Del resto egli si obligava ad apprendere matematica in meno di tre mesi; non era mestieri di maggior tempo per imparare «quel gioco da bambini.» Egli fu adunque confermato, almeno temporaneamente; gli si diede anzi facoltà d'incominciar subito le lezioni, purchè imparasse in tre mesi ciò che aveva incarico d'insegnare. Venuto in possesso della cattedra, non si brigò punto di por mano alle matematiche ed agli autori che in quel tempo servivano ad insegnarla; onde i duemila scolari che la curiosità aveva attirati alla sua prima lezione, ben presto si ridussero, secondo che dice il Ramus, a tredici povere ciabatte. Contuttociò gli riuscì di rimanere definitivamente nel suo posto. Aveva saputo acquistarsi il favore del cardinale di Lorena per le stesse ragioni che lo avevano tolto al Ramus; il quale tanto dispiaceva all'ambizioso prelato per la indipendenza dello spirito e del carattere, quanto alla politica di lui piaceva l'altro per lo zelo feroce che mostrava contro i Protestanti. La protezione del cardinale di Lorena non impedì tuttavia che l'ultimo fosse condannato al carcere per le sue calunnie contro il Ramus; ei fu costretto a ritrattarsi. Aspettò una migliore occasione, per vendicarsi, ed essa non indugiò molto. Quest'uomo che non contentavasi di scrivere i più odiosi libelli, ma che si vantava di aver capitanato una di quelle bande di fanatici ordinate sotto il nome di milizia borghese, e di avere così mantenuto l'ordine (sono queste le sue parole), quest'uomo chiedeva con tutto l'animo la proscrizione o il macello dei Protestanti. «Il terrore, di cui vi dolete, diceva egli rivolgendosi a un altro de' suoi nemici, a Dionigi Lambino, il terrore è un mezzo legittimo per rattenere tanti uomini traviati... Quanto alle proscrizioni, badate bene che, parlandone troppo, non vi si ricorra. Non pochi bramerebbero che il re fosse più innamorato di questo provvedimento; e, a dire tutto il mio pensiero, io non sono alieno dal loro sentimento.» Perciò, quando la strage di San Bartolommeo venne ad appagare tutti i suoi voti, ei la chiamava, in una dedicatoria al cardinale di Lorena «la più bella e più dolce giornata che siasi mai vista in Francia.» Ognuno di leggieri comprenderà come un tal uomo non siasi fatto scrupolo di assoldare gli assassini che trafissero il Ramus; la reità dello Charpentier è del resto perfettamente accertata. Gli è questo un punto che il Waddington mise in piena luce, raccogliendo e ponderando le circostanze tutte, mettendo insieme e sottoponendo a critica tutte le testimonianze; non vi fu mai requisitoria più aggravante. Dopo averla letta è impossibile di non conchiudere col Waddington che «il Ramus morì vittima d'una vendetta privata, e che l'assassino è veramente Giacomo Charpentier43

Il Ramus ebbe morte nel terzo giorno di quella carnificina. Il martedì 26 d'agosto vari assassini pagati, condotti da un sarto e da un sergente, forzarono l'ingresso del collegio di Presles e si diedero a frugare la casa tutta. Il Ramus si era rifuggito al quinto piano, e quivi egli attendeva nel raccoglimento e nella prece. Gli assassini scoprono tosto il suo luogo di rifugio; sfondano la porta, e si precipitano furibondi nella camera, dove trovano il Ramus in ginocchio, colle mani giunte e cogli occhi rivolti al cielo. A tal vista una specie d'involontario rispetto arresta per un istante il loro braccio. Il Ramus allora si alza in piedi, e comincia a parlare ad essi, sperando di disarmarli co' suoi discorsi; ma, accorgendosi che ora ha dinanzi a implacabili assassini, raccomanda a Dio la propria anima: «O mio Dio, esclama, peccai contro di te; feci il male al tuo cospetto; i tuoi giudizi sono giustizia e verità; abbi pietà di me, e perdona a questi infelici, poichè non sanno quello che si facciano...» Non aveva terminato di proferire queste parole, che uno degli assassini gli scarica nel capo un'arme da fuoco, le cui due palle vanno a conficcarsi nel muro, mentre che un altro gl'immerge la spada nel corpo. Il sangue sgorga copiosamente, ma il Ramus non è ancora morto; gli assassini lo gettano giù dalla finestra alta da terra più di cento scalini. Il corpo cadendo trova un tetto che si sfonda, e il Ramus piomba palpitante in mezzo al cortile del collegio. Egli respira ancora; gli sono legati i piedi con una corda, ed è trascinato per le vie fino alla Senna, dov'è gittato. «Alcuni che di passarono; soggiunge il Nancel, con uno scudo dato a barcaiuoli fecero portare alla riva il cadavere che galleggiava presso al ponte San Michele, e stettero a contemplarlo. Insomma il furore incredibile dei nemici del Ramus non si satollò che mediante tutte le crudeltà e tutti i raffinamenti della barbarie.

Il Nancel s'inganna; la morte del Ramus, per quanto orribile fosse, non ammansò il furore de' suoi nemici. Essi lo perseguitarono ancora. Uno de' colleghi suoi del Collegio di Francia, amico dello Charpentier, Leger du Chesne, pubblicò una collezione di poesie latine, in cui celebrava come giuste punizioni del cielo l'assassinio del Ramus e quello del Coligny. Lo Charpentier istesso, l'assassino del Ramus, osò inserire nella prima opera che pubblicò dopo la strage di San Bartolommeo, versi latini di quel medesimo Leger du Chesne, nei quali il poeta scherzava sul tardo tonfo del suo collega: citius nando tulisset opem. Venti anni dopo, un altro amico dello Charpentier, un arcivescovo, Gilberto Genebrard, glorificando la strage di San Bartolommeo, come conveniva ad un principe della Chiesa, disse che il Ramus era stato giustamente punito per la sua turbolenza e follia, perocchè aveva osato assalire le lingue, le arti, le scienze e la teologia stessa.

Ma i delitti, di cui lo accusavano i suoi fanatici contemporanei, sono appunto i suoi titoli di gloria presso i posteri. Il Ramus non era un ingegno creatore, ma uno spirito novatore, e applicò felicemente l'intelletto a quasi tutti i rami delle umane cognizioni, che in quel tempo erano da riformare o da rifare. Fu il primo che ardì combattere di fronte l'autorità di Aristotele e la vecchia scolastica; fu il primo che scrisse in francese un trattato di dialettica. Intraprese anche la riforma della teologia, e voleva che si traducessero le Sante Scritture in lingua volgare. Se i consigli di lui fossero stati intesi; noi avremmo ciò che possiede l'Alemagna dal Lutero in poi, una versione popolare della Bibbia. Egli portò il suo spirito riformatore fin nella grammatica; e se il suo sistema non era accettabile in generale, pure alcune delle sue idee trionfarono. Egli attese inoltre alla riforma delle matematiche, le quali erano allora nell'infanzia, e col suo testamento fondò in favore di esse nel Collegio di Francia una cattedra che durò fino alla Rivoluzione. Il Ramus è veramente uno dei precursori dell'età moderna; ciò non solamente pel suo spirito di riforma, ma ben anco per quello di libertà. Egli in ogni cosa era fautore dichiarato della libertà del pensiero, in religione non meno che in filosofia, e sapeva unire una grande moderazione ad una grande fermezza. Protestante pieno di zelo, non partecipò mai alle passioni feroci di alcuni de' riformatori; si tenne sempre estraneo alle guerre civili che desolavano la Francia, e predicò di continuo la concordia e la pace. La sua devozione agl'interessi della scienza ed ai progressi dello spirito umano era assoluta. Se, mercè la sua operosità immensa, egli potè uscir dalla povertà, in cui era nato, e farsi una certa agiatezza, aveva però fatto alla sua causa il sacrifizio del proprio riposo ed anche della vita. Già ho citato di lui, a tale proposito, belle e profetiche parole; eccone altre che non sono meno notabili: «Benchè queste prove mi sieno sembrate dure e molto amare, io non posso ricordarle senza un profondo sentimento di gioia e di felicità. Sì, io sono felice pensando che se fui sbattuto dalla tempesta, se dovetti attraversare tanti scogli, le mie sventure avranno almeno servito a rendervi la via men difficile e più sicura.» Bisogna fermarsi dopo queste parole; esse dimostrano fino a qual punto il Ramus aveva coscienza della grandezza e dei pericoli dell'impresa assunta. La sua vita fu un nobile combattimento, e la sua morte un glorioso martirio.





37 Tutto il rimanente di questa lezione è la testuale riproduzione di due articoli da me pubblicati per render conto d'un eccellente libro del signor Carlo Waddington intorno al Ramus, negli ultimi numeri dell'Avenir, raccolta letteraria e filosofica fondata a Parigi nel 1855 da alcuni amici miei e da me (a cui aveva fatto ozio il nuovo Governo francese), ma abolita dopo pochi mesi di vita dalla polizia correzionale. Lessi questo lavoro, non solamente perchè era acconcissimo allo scopo di questa lezione, e perchè il mio incarico era così bell'eseguito, ma altresì perchè era per me un'occasione di mostrare al pubblico ginevrino l'anzianità delle mie idee e simpatie.



38 Ramus, sa vie, ses écrits et ses opinions, p. 20.



39 Ivi, p. 25.



40 Pag. 184.



41 Pag. 222.



42 Nel 1585 la dialettica del Ramus era ancora vietata in Ginevra, come attestano i registri della Venerabile Compagnia. Un supplente professore, avendo letto il Ramus nella prima classe del collegio, fu altamente ripreso; ed alquanti mesi dopo (12 novembre) era «avvertito che, secondo la risoluzione già presa, non si tollererebbe che la dialettica del Ramus fosse letta in Ginevra pubblicamente privatamente in camera, se non ne avesse licenza dal rettore, il quale avrebbe interrogato la Compagnia.» Ma nell'anno seguente si tornò su quella decisione. Ecco ciò che portano su questo argomento i registri della Compagnia in data del 21 gennaio 1586:

«Provveduto che si disdicessero certe declamazioni, le quali si erano fatte nella prima classe il mercoledì precedente, ed in cui si era sparlato del defunto signor Ramus, nel lunedì seguente si provvederebbe al da farsi.

«Nel lunedì le declamazioni summentovate furono riferite alla Compagnia, e furono giudicate cosa insopportabile, tanto più che il defunto Ramus vi era dipinto in modo affatto indegno, mentrechè, per essere stato un uomo di gran sapere e martire della pura religione, egli fu piuttosto degno di lode. Provveduto che il signor Jaquemot (rettore) vada nella prima classe per rampognare vivamente coloro che fecero tali declamazioni, e statuire che niuno scelga verun argomento di suo capriccio, e che lo dia il maestro, e tanto più che pareva essere il maestro caduto in fallo sopportando che ciò avvenisse, provveduto altresì che privatamente egli fosse ripreso; il che fu fatto nel martedì seguente



43 Pag. 283.



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