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Io dissi che il Risorgimento e la Riforma incominciavano un'èra novella ed inauguravano il regno di un novello spirito, il quale si manifesta luminosamente in questa sentenza del Lutero, nel suo Appello all'imperatore e alla nobiltà tedesca sulla riforma del Cristianesimo (23 giugno 1520): «Bisogna convincere gli eretici con la Santa Scrittura, e non vincerli col fuoco! Ciò è contro lo Spirito Santo.» Ancor meglio si palesa quello spirito in queste parole del Zuinglio (1523): «Nessuno deve essere scomunicato, eccettuato quello che cagiona uno scandalo pubblico co' suoi delitti. Coloro che non riconoscono gli errori propri e che non li abbandonano, debbono essere lasciati al libero giudizio di Dio, nè si deve usare verso di loro alcuna violenza, se con diportamenti sediziosi e ribelli non costringano i magistrati a punirli per salvare l'ordine pubblico44.» Parole ammirabili non meno che nuove, le quali precorrono di due secoli a quelle che sì giustamente furono lodate nel Montesquieu45.
Sembra quindi che, almeno nel grembo della Riforma, abbia avuto fine lo spirito del medio evo, quello spirito che chiama la violenza ed i supplizi in soccorso della fede, la quale esso pretende imporre, e che, se vi saranno ancora nel mondo giudici e carnefici per punire l'eresia, vale a dire il libero esame, ciò avverrà nel campo dei Cattolici e non già in quello dei Protestanti.
Ma, ohimè! anche fra questi i carnefici stanno per succedere ai martiri, e i martiri stessi diventeranno carnefici. Quell'orrenda legislazione che punisce collo esilio o colla morte ogni dissidenza in materia di fede, quella legislazione che sorse nei tempi del romano impero, e che fu dal medio evo conservata vieppiù aggravandola, ma contro cui la Riforma nascente protestò subito, venne dalla Riforma adulta tosto ripigliata per proprio vantaggio. L'esilio, il carcere, la tortura, la spada, il fuoco, tutti i supplizi minacceranno e castigheranno, in mano ai Protestanti, il libero esame, il libero pensiero, il libero esercizio della ragione.
Strano e deplorabile spettacolo è quello dei riformatori, degli eretici, i quali non isfuggono alla persecuzione e alla morte se non per perseguitare e uccidere altri eretici che, nell'asilo loro, pensano diversamente. Strana e deplorabile contraddizione è quella dei Protestanti, i quali, dopo avere ripudiato in virtù del loro diritto d'esame certi dogmi della Chiesa, pretendono comandare colla forza alla fede di tutti, e sottrarre ad ogni libera discussione i dogmi che piacque loro di conservare; e, mentre dichiarano di voler ricondurre la morale cristiana alle pure massime del Vangelo, passano dalla schiera delle vittime a quella dei persecutori. È questo un fenomeno, di cui ognuno stupisce e si addolora.
Ben so tutto quello che si può dire per ispiegarlo; ma non si potrebbe cancellare nè la contraddizione, in cui cadevano i Protestanti che divenivano persecutori, nè quanto era di odioso nei supplizi che essi infliggevano a coloro che avevano la sventura di non partecipare alle loro idee.
Essi volevano, dicesi, salvar la fede della loro Chiesa! Ma lo stesso appunto dicevano i persecutori cattolici. Con qual diritto, dopo essersi separati dalla cattolica Chiesa, cui accusavano di tiranneggiare le coscienze, pretendevano essi imporre il loro simbolo? Se lo facevano in nome dell'autorità della Chiesa loro, ricadevano nel principio cattolico che avevano ripudiato; se lo facevano in nome della verità intrinseca della loro dottrina, bisognava procurare di convincere gl'intelletti colla virtù stessa di quella verità, invece di costringerli con la violenza. La loro novella Chiesa non poteva fondarsi, pena la incoerenza, che sul libero consenso dei fedeli, e doveva perciò escludere l'uso della forza. Eglino avevano sottoposto al loro libero esame il dogma cattolico; messo innanzi cotal principio, non avevano più il diritto di dirgli: «Non andrai più oltre.» Volevano, in ogni modo, ristaurare la morale di Cristo, e nel Vangelo cercavano la giustificazione delle loro violenze e dei loro diportamenti sanguinari!!
Lo spirito dei tempi, pur dicesi, era quello che così voleva. Ma ciò non è esatto. Udiste poc'anzi le parole del Lutero e quelle del Zuinglio. Quando tali parole erano uscite dalle labbra dei riformatori, conveniva che i riformatori restassero ad esse fedeli. Tali parole non rimasero vane, del resto, nel secolo XVI, ed i sentimenti che esse significavano non erano poi in quel tempo tanto rari, come altri vorrebbe far credere. Dopo il supplizio di Michele Servet, Sebastiano Chastillon (che era stato tolto dal ministero, e costretto a rinunziare il proprio uffizio di rettore delle scuole, ed a partire da Ginevra per avere espresso idee differenti da quelle del Calvino sul Cantico de' Cantici e sulla discesa di Cristo all'inferno, e che si era ritirato a Basilea, ov'era molto stimato e come ecclesiastico e come professore di lingue antiche), Sebastiano Chastillon46, sotto il pseudonimo di Martino Bellius, combatteva il preteso diritto di punire gli eretici in un libro47, nel quale v'ha questo ammirabile passo: «Chi mai vorrebbe divenire cristiano vedendo che coloro, i quali confessano il nome di Cristo, sono martoriati dai Cristiani col fuoco, coll'acqua, colla spada senza misericordia alcuna, e trattati più crudelmente che masnadieri od assassini? Chi mai non penserebbe che Cristo fosse qualche Moloch o altrettale Dio, se egli vuole che gli uomini gli sieno immolati ed arsi vivi? Chi mai vorrebbe servire Cristo a condizione che, giudicato ora, in mezzo a tante controversie, discordante in alcuna cosa da coloro che hanno potenza o dominazione sugli altri, sia bruciato vivo per comando di Cristo stesso, anche più crudelmente che entro il toro di Falaride, se pur si querelasse ad alta voce in mezzo alle fiamme, e gridasse a squarciagola che crede in lui48?»
Così parlava lo Chastillon, e, checchè altri abbia detto, la sua voce non fu sola, anco tra i ministri del Vangelo, a levarsi contro la condanna del Servet e contro il diritto di punire gli eretici49. Se il Calvino in questo linguaggio non vedeva altro che insopportabili bestemmie50; se egli scriveva un trattato per provare che è lecito punire gli eretici51; se Teodoro di Beza, dal canto suo, al libro del Chastillon opponeva una confutazione in forma52; quel libro era certamente reputato come un'opera collettizia53, e più teologi a Basilea si dichiararono contro la dottrina micidiale di quelli di Ginevra. Altri pastori, per esempio, quello di Nyon, Zebedeo54, protestarono contro il processo intentato al Servet; e in Ginevra stessa, oltre all'essere stata la questione del principio apertamente agitata da un giureconsulto italiano, chiamato Grimaldo, il quale aveva voluto difendere ad un tempo le opinioni del Servet e la tolleranza, ma aveva dovuto per tale arditezza abbandonare quella città ove si era rifuggito per motivi di religione, alcuni ministri, sinceramente affezionati alle dottrine calviniste, pur sentivano, come riconosce il signor Rilliet de Candolle55, un'assai viva ripugnanza per la pena capitale in materia di eresia. «Pareva loro pericoloso ad un tempo ed illogico il servirsi delle stesse armi, il cui uso era riputato odioso nelle mani dei loro avversari Cattolici.» Ma essi non osavano o non potevano protestare ad alta voce. Parecchi furono cassati, scomunicati o sbanditi per avere biasimato, in colloqui familiari, le persecuzioni esercitate per opinioni religiose. I loro nomi furono citati da G. B. G. Galiffe56, e sono: Enrico della Mar, allora decano dei pastori ginevrini; Amato Megret; Amato Champereau; Claudio Veyron; Matteo Essautier.
Vero è che le Chiese svizzere, consultate dal Calvino nell'affare del Servet, opinarono come desiderava il riformatore di Ginevra; ma non si erano mostrate sempre così intolleranti. Nell'affare del Bolsec (altra vittima del Calvino, che, dopo essere scampato colla fuga ai rigori ond'era minacciato in Francia per le sue opinioni protestanti, fu messo in carcere a Ginevra, dov'erasi riparato e, dopo una lunga detenzione, fu condannato al bando perpetuo, comminata la pena dello staffile, per avere espresso opinioni differenti da quelle del Calvino sulla Bibbia, e segnatamente sul dogma della predestinazione) le Chiese di Berna e di Basilea, consultate da Ginevra, avevano raccomandato la tolleranza e la carità con parole che esse non avrebbero dovuto dimenticare a proposito del Servet. Udite ciò che rispondeva allora la Chiesa di Berna (7 dicembre 1551):
«È nostra ferma opinione che non si proceda con troppa severità contro i teologi viaggiatori, per tema che, volendo tutelare la purezza del dogma, non si disobbedisca poi alla regola dello spirito di Cristo: la carità fraterna. Gesù ama la verità, ma non ama meno coloro che si smarriscono, senza volerlo, nei sentieri dell'errore; egli con dolcezza li rimena all'ovile. Noi lodiamo dunque il vostro zelo nel mantenere la verità, e preghiamo Dio che vi doni il privilegio di conservarla pura ed immacolata. Ma vi supplichiamo di considerare che lo spirito umano è inclinato all'errore, e che più generoso e più facile è il ravviare gli uomini colla dolcezza che colla severità. Venendo dunque alle dottrine che sono l'obbietto della vostra controversia col Bolsec, vi diremo che molte persone rispettabilissime parteggiano per la grazia universale; credono che sia impossibile l'attribuire a Dio la condanna di un uomo, senza merito nè demerito da parte del riprovato. Aver di Dio una tale opinione è, a parer loro, ammettere un'orrenda bestemmia...
«Quanto al Bolsec, noi non lo conosciamo; parecchi affermano ch'egli è un uomo dabbene, ma noi vorremmo vedere tra lui e voi un accordo fondato sullo spirito di Cristo e sulla carità... Se ogni spirito di disputa fosse sbandito, facile sarebbe l'accordo tra voi ed il vostro avversario. Preghiamo Iddio che v'infonda collo spirito di verità lo spirito di pace e di edificazione che riconduce l'unità nel seno delle Chiese.»
In questo medesimo affare del Bolsec, promulgata la sentenza che lo condannava ad uscire da Ginevra in ventiquattr'ore ed a non più tornarvi, sotto pena di essere staffilato nei crocicchi, si sollevarono proteste da ogni parte. Mentre egli era, prigioniero, condotto dinanzi al palazzo di città, una turba di donne gridò: «Che si vuol fare a quest'uomo? Egli è buono e non sostiene che buone dottrine; sarà messo alla prova colla Santa Scrittura? Il Calvino non fa che calunniarlo; più di diecimila persone ne sono già scandalizzate.» Per questi discorsi furono condotte al concistoro, e la cena fu interdetta alle più ostinate57. Così molte persone in Ginevra, e specialmente molte donne, non approvavano i rigori esercitati dal Calvino contro coloro che non pensavano come lui. Sovente ho considerato che in tutti i tempi di persecuzione e d'iniquità le donne, alle quali Dio pose tanta pietà nell'animo, e che sentono nel cuore ciò che gli uomini non sempre comprendono coll'intelletto, avevano dovuto prendere la parte delle vittime contro i persecutori, ma che la forza o il coraggio mancarono loro per protestare altamente contro l'ingiustizia, contentandosi di gemere in secreto. Qui invece esse non temettero di far sentire le loro proteste, e io vedo che, se alcune si disdissero, molte dimostrarono rara fermezza. Onore a queste nobili donne!
Inoltre v'era in quel tempo a Ginevra un gran partito, quello dei Libertini, che nel XVI secolo, precorrendo al XVIII, difendeva il principio della libertà civile e della libertà di coscienza contro le usurpazioni politiche e la tirannide religiosa della potenza ecclesiastica. Lo vedremo in azione nell'affare del Servet; e perciò non mi vi fermo, ora.
Che cosa voleva io dimostrare? Che pure nel secolo XVI, ancora tanto barbaro, il fanatismo religioso incontrava non pochi avversari. Vi è dunque esagerazione grande nel dire, come fa Emilio Saisset in uno studio, del resto molto notevole, sopra Michele Servet, che in quel tempo «Cattolici e Protestanti, tutti affermavano che un errore in religione fosse un attentato punibile e dovesse quindi essere dalla magistratura represso58.
Il Saisset cita il protestante Farel, il quale esclamava: «Perchè il papa condanna i fedeli per delitto di eresia, è assurdità il concludere che non si debbano mettere a morte gli eretici.» Tal era l'opinione del Farel e quella del Calvino, di Teodoro di Beza e di tanti altri; ma tale non era, e dianzi lo vedeste, quella di tutti i teologi, di tutti i pastori, e, a più forte ragione, di tutti i laici di quel tempo. Il Saisset attribuisce perfino al Servet stesso le dottrine dei suoi carnefici59, per avere scritto, in una lettera al Consiglio di Ginevra: «Se io avessi preteso che l'anima fosse mortale, mi condannerei da me stesso alla morte.» Ciò non significa necessariamente che condannato egli avrebbe alla morte gli altri in un caso simile. Egli scriveva venti anni prima all'Ecolampadio che reputava crudeltà l'uccidere uomini, perchè essi erravano nella interpretazione della Bibbia; e lo vedremo nel suo processo protestare altamente contro la legislazione barbara che Cristiani riformati osavano togliere in prestito dall'arsenale del Cattolicesimo60. Non è dunque vero che il fanatismo teologico del Calvino o d'altri riformatori e le violenze sanguinarie che si facevano lecito di esercitare contro quelli cui essi pure giudicavano eretici, avessero complice lo spirito del loro tempo; perocchè in quel tempo stesso molti seppero elevarsi a tutt'altre dottrine e protestare energicamente, anche arrischiando la vita loro, contro quel fanatismo e quelle violenze. Ciò che possiamo dire è che, sebbene la Riforma portasse in certo modo nelle pieghe del suo manto il principio del libero esame, i riformatori non ebbero sempre un'idea perfettamente chiara della natura e dell'importanza di quel principio, e talvolta anzi per una singolare incoerenza essi lo negarono formalmente (Teodoro di Beza chiama la libertà di coscienza un dogma diabolico61), e in ogni caso si arretrarono innanzi alle conseguenze più naturali e più legittime di detto principio; insomma lo spirito nuovo, nel Protestantesimo nascente, non abbandonò ancora abbastanza l'uomo vecchio, l'uomo del medio evo. Ma è vero altresì che quello spirito, come si rivelò, condanna le persecuzioni esercitate nel seno stesso del Protestantesimo contro i pretesi eretici o i liberi pensatori. Si avrà un bello spiegare queste persecuzioni; ben conviene che tutto si spieghi; non resteranno perciò meno odiose; ed è una giusta sentenza il detto dello storico Gibbon a proposito del Servet: «Io sono più altamente scandolezzato dal solo supplizio di Michele Servet, che dalle umane ecatombe immolate sui roghi della Spagna e del Portogallo.»
Nè il supplizio di Michele Servet è il solo che noi abbiamo a deplorare nel Protestantesimo. Quante altre vittime del fanatismo teologico, quanti altri martiri del libero pensiero bisogna aggiungere a quello! Oh come gravano sulla memoria del solo Calvino! Già ebbi occasione di toccare alcuni di questi martiri, e ne potrei citare ben altri62; ma è tempo che veniamo a Michele Servet del quale io debbo parlare molto diffusamente, benchè la sua storia sia la più conosciuta.
Dovetti appunto presceglierlo, perchè è il più illustre dei martiri del libero pensiero immolati dal fanatismo protestante. Egli ci mostra poi uno degli esempi più puri della indagine filosofica, come invece il suo antagonista, o, per dir meglio, il suo carnefice, una delle più spiccate figure del fanatismo teologico nella Riforma.
Michele Servet (Micael Serveto), nato nel 1509 a Villanova, piccola città d'Aragona, aveva lasciato la Spagna in età di 19 anni per andare a studiare leggi in Tolosa; ma, colto dallo spirito nuovo che allora soffiava, egli abbandonò ben presto lo studio della giurisprudenza per abbracciar quello della Bibbia e delle quistioni religiose. Le sue meditazioni lo condussero a veder nella Trinità, invece di tre persone distinte, la triplice manifestazione d'un Dio invisibile, e a negare perciò che Cristo fosse figlio di Dio. Compreso da queste idee, e desideroso di diffonderle mischiandosi nel moto della Riforma, si recò in Alemagna, ove sperava di trovare gl'intelletti disposti ad accoglierle, ed i mezzi di pubblicare il libro che aveva già composto. Dapprima si volse al riformatore di Basilea, Ecolampadio; ma le idee del Servet intorno alla Trinità e alla natura di Cristo spaventarono quel saggio riformatore. Esse fecero il medesimo effetto sull'animo di Martino Bucero e del Capitone, coi quali abboccossi poscia il Servet in Strasburgo: al pari dell'Ecolampadio, essi non videro nel Servet che un bestemmiatore ed un messo del Diavolo, e il Swingle si unì a loro per maledire il malvagio e scellerato Spagnuolo63. Tuttavia il Servet non si scoraggiò; volendo appellarsi al pubblico dall'anatema dei capi della Riforma, pubblicò in Haguenau, nel 1532, il suo libro sugli Errori della Trinità64, e l'anno seguente alcuni Dialoghi sullo stesso argomento65. Questi due scritti, in cui è già il suo sistema in germe, fecero un tale scandalo in Alemagna che il Servet dovette cambiar il suo nome, fin d'allora maledetto, con quello di Michele da Villanova, e si determinò di ritornare in Francia per cercarvi un'altra professione senza però abbandonare le quistioni religiose.
Giunto a Lione, stremo d'ogni cosa, fece il correttore di stampe presso i fratelli Trechsel; ma questi, avendo in breve riconosciuta la sua scienza e la sua abilità, gli affidarono la pubblicazione d'una nuova edizione della Geografia di Tolomeo, che vide la luce nel 1535. Fornito, mercè il suo lavoro, d'una forte somma di denaro, si recò a Parigi per istudiarvi le matematiche e la medicina, vi prese due anni appresso la berretta di dottore, e professò con molto buon successo nel collegio dei Lombardi. D'immaginazione ardente, di spirito arrisicato e sovente chimerico, il Servet, come tanti altri scienziati del suo tempo, diede nelle mattezze dell'astrologia giudiziaria, e fece sopra questa un corso pubblico, pel quale fu denunziato al Parlamento66; ma nel tempo stesso col suo potente spirito d'investigazione e colla penetrazione singolare del suo intelletto egli poneva la scienza sulla via d'una delle più grandi scoperte dei tempi moderni: scopriva la circolazione polmonale, e apriva la strada all'Harvey nella scoperta della circolazione del sangue67.
Questo solo titolo basterebbe ad eternare il suo nome.
Tuttavia il Servet non aveva dimenticato le quistioni teologiche, il cui amore gli doveva essere tanto funesto. Parigi stessa fu il campo, ove il suo destino lo gettò in certa guisa incontro al suo futuro carnefice. Ebbe col Calvino parecchie conferenze intime. Si diedero anche la posta per una disputa teologica che doveva farsi alla presenza di testimoni in una casa di via Sant'Antonio; ma il Servet, se ne ignora la cagione, non vi si recò. Ei non doveva più rivedere il suo antagonista se non a Ginevra, per sua sventura; ma, perchè una tale sventura potesse compiersi, egli aveva poco stante ad incominciare un carteggio con lui.
Avendo lasciato Parigi nel 1538, il Servet menò per parecchi anni una vita errante, e troppo spesso vicina alla miseria: non sempre trovava mezzi sufficienti nell'esercizio della medicina, ed era costretto per vivere a porre la sua penna in servizio dei librai. Finalmente nel 1541, essendosi incontrato a Lione con un antico suo discepolo, Pietro Paumier, divenuto arcivescovo di Vienna nel Delfinato, questi lo fece suo medico, e gli diede alloggio in una casa contigua al suo palazzo. Quivi il Servet venne in gran fama per la sua scienza e l'abilità nella propria arte, nel tempo stesso che fecesi amare da tutti, ricchi e poveri, per la rara garbatezza e la piacevolezza dell'indole. Così visse in Vienna un dodici anni tranquillo e felice; ma l'ardore delle questioni religiose ed il desiderio di aprire una novella via alla Riforma lo perseguitavano sempre.
Profittò dei momenti d'ozio che il suo stato gli dava per comporre l'opera che meditava da lungo tempo, e da cui doveva venirgli la morte. Questa opera, come indicava il titolo stesso, Restitutio Christianismi, doveva essere, nel concetto dell'autore, quasi il fondamento di una nuova ristaurazione del Cristianesimo. Ma, innanzi di pubblicarla, il Servet volle conferire coll'autore dell'Istituzione cristiana, cioè col Calvino, o sia che sperasse trarlo alle proprie idee, o pensasse che una controversia con un sì vigoroso intelletto non potesse che riuscire profittevole a lui medesimo. Un carteggio cominciò fra loro, per mezzo del libraio lionese Freslon; ma ben presto il Calvino, irritato di una ostinazione che non poteva vincere, offeso inoltre dai sarcasmi che il Servet non gli risparmiava, troncò ogni commercio con esso. Così operando, era egli di certo nel suo diritto; ma non già nella via della giustizia e nello spirito del Vangelo, quando diceva in una lettera al Farel (15 giugno 1546): «Il Servet mi ha scritto testè, ed ha unito alla lettera un volume delle sue opere... Egli mi offre di venire a Ginevra, se ciò mi aggrada. Ma io non voglio obbligare la mia parola; imperocchè, se egli viene qua, io non soffrirò, per poco che la mia autorità prevalga, che n'esca vivo.»
Se un riformatore così parlava del Servet, quali pericoli la pubblicazione di un libro come il suo non doveva far correre all'autore in un paese cattolico? Ne andava la vita. Ciò il Servet non ignorava, ma il pensiero del pericolo, a cui si esponeva, non lo rattenne. Soltanto tutte le cautele che la prudenza esigeva furono prese da lui e dal libraio, il quale aveva consentito a stamparne il libro, Baldassarre Arnoullet; ma essi avevano fatto i conti senza il Calvino. Il libro fu stampato nel più profondo secreto, e comparve nel 155368 senza che in Francia potesse alcuno sospettarne l'autore e lo stampatore. Ci volle l'aiuto del Calvino, acciocchè l'Inquisizione cattolica potesse squarciare il velo dell'anonimo.
Uno dei primi esemplari dell'opera del Servet venne in mano del riformatore di Ginevra, non si sa come: forse lo stesso Servet gliel'aveva fatto inviare. Comunque sia, questo libro doveva irritarlo e ferirlo profondamente. Che era difatti quell'opera? Io non potrei entrare qui nell'analisi della dottrina filosofica e religiosa che essa contiene, e ciò, del resto, non importa allo scopo che mi proposi; non ho da mostrare nel Servet che il rappresentante ed il martire del libero pensiero; ma posso almeno dirne in poche parole il carattere. L'opera del Servet, qual ne sia il valore o la verità per la dottrina che in sè racchiude, è l'applicazione del libero esame al dogma cristiano tuttoquanto; è, in virtù di questo libero esame, un saggio di spiegazione naturale di tutti i misteri del Cristianesimo, e, come conseguenza, colla negazione della Trinità ortodossa, una nuova interpretazione della divinità di Gesù Cristo, vale a dire le due grandi eresie che egli aveva già spiegate nelle prime sue opere, e da cui tanto scandalo era venuto ai riformatori. Ognuno intende che quell'uso ardito ed illimitato del libero esame e i risultati che il Servet ne traeva, ben dovevano aver esasperato il Calvino. Si aggiunga che il Servet aveva unito al suo libro una serie di lettere al Calvino stesso, la cui forma doveva singolarmente offendere l'orgoglio di colui che era chiamato il teologo. Ma se tutto ciò vale a spiegare, tutto ciò non potrebbe, non dico giustificare, ma nemmeno purgare la condotta del Calvino, che faceva per modo indiretto denunziare, e consegnava quindi insidiosamente Michele Servet alla Inquisizione cattolica.
È questa una delle più tristi e odiose pagine della vita del Calvino. «In quell'occasione, dice il Gaberel, autore della Histoire de l'Eglise de Genève, il Calvino si mostra talmente acciecato dal fanatismo, che giunge a non avere più nozioni distinte intorno al bene ed al male69». Io non cerco, per parte mia, di denigrare per sistema il Calvino: non ebbi, altamente lo dichiaro, veruna specie di prevenzione contro di lui nel pormi a questo studio, nè lascio di riconoscere le sue grandi qualità, ma conviene pure che io lo mostri qui tal quale si mostrò da se stesso, e ciò tanto più è necessario, quanto che, come nota il Saisset, quel primo atto del dramma di Michele Servet fu generalmente negletto.
Eravi allora in Ginevra, tra i rifuggiti del partito del Calvino, un lionese per nome Giuseppe Trie. Questi teneva carteggio con un suo parente di Lione, Antonio Arneys, fervente cattolico, il quale si studiava di ricondurlo nel grembo della Chiesa; ma siccome non era quegli abbastanza istruito da sostenere da sè la controversia, mostrava le lettere del cugino suo al Calvino, che gli suggeriva o gli dettava le risposte. Ora, in una lettera colla data del 16 febbraio 1553, rispondendo al rimprovero che il suo parente gli aveva fatto di abitare una città, dove non era veruna disciplina ecclesiastica, e dove coloro che insegnavano avevano introdotto una licenza per porre la confusione dappertutto, Guglielmo Trie gli dice che i vizi però sono meglio corretti qua (in Ginevra) che nelle giurisdizioni cattoliche, e che si sostiene là (in Francia) un eretico, il quale ben merita di essere bruciato pertutto. Quindi cita parecchie frasi del libro che erasi stampato clandestinamente in Vienna, nominando il tipografo, rivelando il vero nome dell'autore: «L'uomo, di cui vi parlo, fu condannato in tutte le Chiese, le quali voi riprovate... Egli è uno spagnuolo portogallese, nominato Michele Servet col suo vero nome, ma egli si chiama al presente Villanova, di professione medico. Stette qualche tempo in Lione, ora è in Vienna, dove il libro, del quale discorro, si è stampato da un tale che ha messo su là una tipografia, per nome Baldassarre Arnoullet.» Tutte queste rivelazioni non potevano venire che dal Calvino, e Guglielmo Trie era qui, come si vede chiaro, il suo strumento; è anzi probabile che il riformatore di Ginevra avesse egli medesimo dettata quella lettera; vi si riconosce troppo bene il suo artiglio70. Finalmente Guglielmo Trie mandava a suo cugino, per prova della sua denunzia, i primi fogli del libro del Servet, che non era fatto ancora di pubblica ragione, ma un esemplare del quale, come sopra io dissi, già trovavasi nelle mani del Calvino. Avvertito in tal modo dall'amico del Calvino, il fanatico Arneys non potea far a meno di portar la cosa al tribunale dell'Inquisizione. Appena ha egli ricevuto la lettera di suo cugino, che la consegna coi documenti di prova al grand'inquisitore, fra Matteo Ory, che l'arcivescovo di Lione, cardinale di Tournon, aveva fatto venire a bella posta da Roma per aiutarlo ad estirpar l'eresia. Il grand'Inquisitore si recò in gran fretta presso l'arcivescovo di Lione, che risedeva nel suo castello di Rossiglione, a tre leghe da Vienna; e questi, d'accordo col vicario generale dell'arcivescovo, richiese tosto al signor di Maugiron, luogotenente generale pel re nel Delfinato, di procedere senza indugio contro Michele di Villanova. Citato innanzi al luogotenente generale, il Servet, dopo essersi fatto aspettar più di due ore, che senza dubbio aveva spese nel far sparire di casa sua e dalla tipografia ogni carta sospetta, si presenta con volto sicuro. Il signor di Maugiron gli dichiara che si hanno certe informazioni contro lui, dalle quali risultano alcuni sospetti che danno giusta ragione di ricercare nella sua casa se vi sia qualche libro sospetto d'eresia od altra cosa simile. Il Servet risponde imperterrito che egli praticò spesso i predicatori ed altri facienti professione di teologia, ma che è pronto ad aprire in ogni parte la sua casa per togliere ogni sinistro sospetto. Il gran vicario ed il segretario del luogotenente generale vanno alla casa dell'accusato, e visitano tutte le sue carte, ma senza trovarvi nulla di quanto cercavano. Il giorno dopo si fruga senza miglior successo la tipografia dell'Arnoullet: s'interroga suo cognato Guéroult e tutti gli operai separatamente, mostrando loro i primi fogli della Restituzione del Cristianesimo, e minacciandoli di consegnarli nelle mani della Inquisizione, se non rivelano ciò che sanno. Tutta questa indagine non produce verun risultato, ed il tribunale è costretto a dichiarare che non vi sono ancora sufficienti indizi a fare veruna carcerazione
Contuttociò l'inquisitore non si sgomenta. Tornato a Lione, fa scrivere dall'Arneys al suo cugino di Ginevra, affinchè questi mandi l'intero libro di Michele Servet. Che fa allora il Calvino? Ei non aveva più in quel momento il libro nelle mani, avendolo spedito al Farel. D'altra parte il Servet poteva continuare a negare un'opera stampata, ma non poteva negare la propria scrittura. Il Calvino adunque manda a Lione le lettere autografe che aveva ricevute da Michele Servet, e che aveva diligentemente serbate, benchè questi l'avesse con istanza pregato di rimandargliele71, e vi unisce alcuni foglietti del suo libro della Restituzione del Cristianesimo, coperti di note marginali di pugno del Servet. Egli somministrava così all'Inquisizione cattolica un mezzo certo di confondere colui che egli voleva rovinare72.
Munito di tali documenti, il grand'inquisitore si reca di nuovo al castello di Rossiglione per conferirne coll'arcivescovo di Lione. L'arresto di Michele da Villanova e di Baldassarre Arnoullet è risoluto. L'arcivescovo di Vienna ed il suo gran vicario presenti all'assemblea, nella quale fu presa quella decisione, tornano a Vienna, per farla eseguire.
Il vicebalivo, incaricato di arrestare il Servet, va a trovarlo in casa del signor di Maugiron, cui egli curava in quel momento, e lo prega di andar con esso al palazzo destinatogli per visitarvi parecchi prigionieri malati e feriti. Il Servet risponde che, anco non considerando che la sua professione di medico l'obbliga a far tali buone opere, ei vi si sente portato dal suo buon naturale. Si reca pertanto al carcere; e mentre fa la sua visita ai malati, il gran vicario, avvertitone, viene a trovare il vicebalivo, e il Servet è fatto improvvisamente prigioniero. Il tipografo Arnoullet era arrestato anche egli per mezzo di simile astuzia.
Si trattava di far confessare a Michele da Villanova che egli era l'autore delle lettere consegnate dal Calvino, vale a dire che era Michele Servet, contro cui si procedeva sulla denunzia del riformatore di Ginevra. Ecco qual mezzo adoperò a questo effetto lo scaltro, inquisitore Matteo Ory, che era tornato a Vienna per istruire il processo. Dapprima lesse al Servet una di quelle note che questi aveva scritte in margine del libro del Calvino, e gliene domandò la interpretazione. Il Servet incappò nella rete; cercando di spiegare il pensiero che quella nota conteneva, implicitamente confessò di esserne l'autore, nè potè negare di poi che fosse di sua mano. Le lettere indirizzate al Calvino erano dello stesso carattere; onde il Servet videsi costretto a riconoscere, quando gli furono presentate, che esse erano egualmente sue, talchè fu convinto di essere infatti Michele Servet.
Il carceriere del palazzo aveva ricevuto l'ordine dal vicebalivo di trattare gentilmente il suo prigioniero, e di lasciarlo andare in un giardino che separava il carcere dal cortile del palazzo di giustizia. Michele Servet una mattina evase da quel giardino. Forse, come si credette generalmente in Vienna, il vicebalivo, la cui figliuola era stata guarita dal Servet, avea voluto favorirne la fuga. Vedemmo che in principio di questa faccenda il luogotenente generale, signor di Maugiron, non aveva proceduto con molto rigore contro Michele da Villanova, e che gli aveva lasciato il tempo e il mezzo di far iscomparire ogni carta pericolosa73; seppure non s'intese col vicebalivo per far iscampare il loro comune amico, Michele Servet, era senza dubbio dispostissimo a chiudere gli occhi. Quello che vi ha di certo si è che riuscì molto facile al Servet il fuggire. Nel carcere, disse poi nel suo interrogatorio di Ginevra, egli era tenuto come se si volesse che egli scampasse. È ben da dolere che nelle carceri di Ginevra non fosse tenuto nello stesso modo.
Il processo non perciò fu interrotto. Si scoprì la tipografia clandestina dell'Arnoullet; si sequestrarono balle di esemplari della Restituzione del Cristianesimo, e fu promulgataa una sentenza che condannava Michele Servet a una multa di mille lire tornesi a favore del re delfino:
«E ad essere, tostochè fosse preso, condotto sopra una carretta, co' suoi libri; nel prossimo giorno di mercato, dalla porta del palazzo delfinale, e pei quadrivi e luoghi soliti fino alla piazza del mercato della presente città, e successivamente sopra quella chiamata la Charnève, e colà ad essere bruciato vivo a lento fuoco, talmente che il suo corpo sia ridotto in cenere. È intanto la presente sentenza eseguita in effigie, colla quale saranno abbruciati i detti libri.»
Egli infatti fu arso in effigie a Vienna il 17 giugno 1553; ma a Ginevra doveva essere abbruciato in persona.
Sfuggito dalle carceri di Vienna, il Servet andò qualche tempo vagando. S'indirizzò prima verso la Spagna, ma il timore dei gendarmi lo fece tornare indietro. Pensò allora di trasferirsi in Italia, e andar ad esercitare la medicina nel regno di Napoli, posto sotto il dominio spagnuolo. Due strade a lui si offerivano per valicare le Alpi: quella che attraversa la valle del Lemano, e quella del Piemonte. Perchè scelse egli la prima invece della seconda? «Forse, dice il Saisset74, non ebbe altro motivo se non che quella strada era la più prossima e lo sottraeva più prontamente alla terribile sentenza sopra il suo capo sospesa.» Ma quel Calvino che lo aveva denunziato all'Inquisizione cattolica, era onnipotente in Ginevra. Spinto da non so qual vertigine, il Servet recasi non ostante a Ginevra, dove giunge il 17 luglio, e smonta all'osteria della Rosa. Ei non voleva certamente se non attraversare la città, in cui non era conosciuto da altri che dal Calvino. Sua prima cura, giungendo, è di chiedere all'oste e all'ostessa che gli si trovi una barca per arrivare all'alto del lago, e di là muovere alla volta di Zurigo. Ma presto muta pensiero, ed anzichè partire da Ginevra vi rimane quasi un mese; giunto il 17 di luglio, eravi arrestato il 13 d'agosto.
Come mai spiegare la nuova e funesta risoluzione? Plausibili e fondate sono esse le spiegazioni che se ne diedero? O non vi fu egli, da parte del Servet, che una cieca imprudenza? Io differisco tali questioni alla prossima lezione, insieme col processo e col supplizio di Michele Servet.
Gian Valentino Gentili, di Cosenza, condannato a perire nel fuoco per aver espresso opinioni differenti da quelle del Calvino sul dogma della Trinità, opinioni ch'egli aveva però ritrattate in faccia al pericolo. Ei non fu tosto messo a morte, a motivo dell'indignazione generale che aveva suscitato quella sentenza, ma fu assoggettato a far penitenza per le vie della città, in camicia, colla torcia in mano, a piedi, ecc. (1558). Venne giustiziato però in Berna, otto anni dopo, e dimostrò morendo la più ammirabile dignità e il più raro coraggio.
Gian Paolo Alciati, di Savigliano (in Piemonte), rifuggito a Ginevra per motivo di religione, e ivi fatto cittadino. Gli sarebbe toccata la sorte del Gentili o del Servet, se non gli fosse riuscito di sottrarsi al mandato d'arresto spiccato contro di lui a motivo della sua opinione sulla Trinità. Siccome insidiosamente cercavasi di farlo ritornare, egli dichiarò saviamente che non rimetterebbe piede in Ginevra finchè vivesse il Calvino; ma questi nondimeno ottenne contro di lui una sentenza di cassazione della cittadinanza e di bando perpetuo sotto pena di morte (1559).
Giorgio da Biandrate, di Saluzzo, medico celebre e autore di parecchi trattati teologici. Rifuggitosi in Ginevra per motivo di religione ed ivi ammesso alla cittadinanza nel 1557, egli dovette fuggirsene per evitare gli effetti della collera del riformatore, al quale candidamente comunicato aveva le proprie idee circa la Trinità. Ei doveva essere arrestato durante una lezione del Calvino, benchè gli si fosse data sicurtà che non correva verun rischio.
Nominai già Matteo Gribaldo, come quegli che aveva sposato il partito del Servet e difesa la causa della tolleranza. Egli aveva proposto al Calvino una discussione pacifica sui punti disputati; ma, dopo la risposta che ne ricevette, non istimò prudenza d'avventurarsi alla discussione. Citato poscia per rendere conto della sua fede, ebbe l'ordine di sgombrare dalla città. Teodoro di Beza, soggiunge il Galiffe, caritatevolmente afferma che la peste, da cui egli restò colpito nel 1564, non fece che prevenire l'ultimo supplizio, il quale non poteva mancargli.
Altri dotti, italiani furono avvolti nelle persecuzioni dirette contro i prenominati: Ippolito di Carignano, Niccolò Gallo, Battista Giustiniani, Fausto Zucchi. – Silvestro Telio, da Fuligno, fatto cittadino di Ginevra nel 1555, ebbe la stessa sentenza dell'Alciati.
Guglielmo Du Bois imprigionato più volte, messo ai ferri, poi condannato all'ammenda onorevole in camicia, a piedi, colla torcia in mano, e al bando (1546 a 1547) per aver detto che il Calvino aveva disdetto uno dei suoi scritti.
Thivent Bellot, condannato ai tormenti, torturato e sbandito sotto pena dalle sferzate (1545) per aver ricusato di dar giuramento in tribunale, come cosa vietata da Dio.
Guglielmo Guainier, di Parigi, sbandito sotto pena delle sferzate (1551) dopo una disputa dommatica col Calvino.
Francesco Leteinturier, colpito della stessa pena (1552) per aver sostenuto, in una conversazione privata, le opinioni del Bolsec intorno alla predestinazione.
Matteo Antoine, condannato a gridar misericordia, e sbandito per sempre sotto pena delle sferzate (1556) per aver detto che non si dovevano abbruciare gli eretici.
Ognissanti Mesquin, di Dompierre, condannato a domandar misericordia in ginocchio, a portar la torcia per la città, col capo scoperto, a piedi nudi, e in camicia, poscia sbandito in perpetuo sotto pena di essere impiccato, per aver combattuto la predestinazione calvinista.
Antonio d'Argillères, già frate domenicano, predicatore protestante, torturato più volte; fu poi decapitato ed ebbe inchiodata la testa al patibolo (1561 a 1562), per aver in pulpito otto anni prima a Pont-de-Veyle, nella Bresse, parteggiato a pro del Servet contro il Calvino.
Antonio Narbert, tipografo nel Delfinato, condannato ad avere la lingua forata con un ferro rovente al Molard, poi sbandito per sempre sotto pena d'essere decapitato, per avere scagliato nell'ebbrezza invettive contro il Calvino ed i ministri.
Dionigi Billonnet, di Boussac nel Berry, correttore di stamperia, fatto cittadino di Ginevra, nel 1563, e condannato in quello stesso anno ad essere sferzato a sangue pei crocicchi della città e intorno ad essa, poscia marchiato in fronte con ferro rovente e sbandito in perpetuo, pena la vita, per avere mal parlato e mal pensato della predestinazione di Dio.
Aggiungete a questo elenco già sì numeroso, quantunque imperfetto ancora, Giacomo Gruet, il cui gran delitto agli occhi del Calvino era di avere sopra un esemplare del suo libro contro gli anabattisti scritto: Tutte follie. Accusato d'eresia, egli fu posto alla tortura e decapitato. Si volle sforzarlo a denunziare Francesco Favre, che il Calvino voleva far perire; ma i tormenti non gli poterono trar parola; egli domandava con alte grida che gli si desse la morte. Questa fu la grazia che gli si fece un mese dopo.
«Mio signor cugino, vi ringrazio moltissimo di tante belle ammonizioni che avete fatte, e punto non dubito che voi procediate per buona amicizia quando vi adoperate a ricondurmi nel luogo donde io sono partito. Siccome io non sono uomo versato nelle lettere al pari di voi, mi sto contento di soddisfare ai punti e articoli che voi mi allegate. Nondimeno, nella conoscenza che Iddio mi ha dato, io avrei bene di che rispondere... Voi mi rimproverate fra le altre cose che noi non abbiamo veruna disciplina ecclesiastica nè ordine, e che coloro che c'insegnano hanno introdotto una licenza per porre la confusione dappertutto; e nondimeno vedo, la Dio mercè, che i vizi sono meglio corretti qua che non in tutte le vostre giurisdizioni. E in quanto alla dottrina e a ciò che riguarda la religione, sebben vi sia maggior libertà che fra voi, non si soffrirà che il nome di Dio si bestemmi, e che sieno seminate le malvage dottrine e opinioni senza che vengano represse. Vi posso allegare un esempio che è a vostra gran confusione, poichè bisogna dirlo. Gli è che là si sostiene un eretico, il quale merita di essere bruciato pertutto dove sarà. Quando io vi parlo di eretico, intendo un uomo che sia condannato dai papisti del pari che da noi, o per lo meno che debba essere condannato. Imperocchè, sebbene noi siamo differenti in molte cose, pure confessiamo ciò per cosa comune, che in una sola essenza di Dio vi son tre persone, e che il Padre generò il Figlio suo, che è la sua sapienza eterna innanzi a tutti i tempi, e che ebbe la sua virtù eterna, che è il suo Spirito Santo. Ora quando un uomo dirà che la Trinità, la quale noi riconosciamo, è un Cerbero e mostro d'inferno, e vomiterà tutte le villanie che è possibile di pensare contro tutto ciò che la Santa Scrittura c'insegna della generazione eterna del Figlio di Dio e che lo Spirito Santo è la virtù del Padre e del Figlio, e si farà beffe a squarciagola di tutto ciò che gli antichi dottori ne dissero, in qual conto e stima, di grazia, lo avrete voi?... L'uomo, di cui vi parlo, fu condannato in tutte le Chiese, le quali voi riprovate. Nondimeno è fra voi tollerato, anche fino a fare stampare i suoi libri, che sono tanto pieni di bestemmie da non doverne io dire di più. Egli è uno spagnuolo portogallese, col suo vero nome Michele Serveto, ma si chiama al presente Villanova, di professione medico. Stette qualche tempo in Lione; ora è in Vienna, dove il libro, del quale discorro, fu stampato da un tale per nome Baldassarre Arnoullet. Ed affinchè non crediate che io parli a caso, vi mando il primo foglio per mostra... Senza neppure avvedermene io sono stato, nel narrarvi questo esempio, quattro volte più lungo che non credeva; ma la enormità del caso mi fece oltrepassare la misura, e ciò sarà cagione che non vi farò più lungo discorso intorno ad altre materie... Il perchè, facendo fine alla presente, pregherò Dio che vi dia orecchio per udire e cuore per obbedire. Intanto egli vi abbia nella sua santa custodia, raccomandandomi di tutto cuore alla vostra buona grazia e del mio signor cugino, fratello vostro.»
Il Calvino negò, è vero, ogni partecipazione a questa lettera; ma la sua mano è anche troppo visibile, e in tutti i casi resta incontrastabile che da lui venivano le rivelazioni e i documenti di prova spediti a Lione.