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Quando Michele Servet giungeva a Ginevra (17 luglio 1553), la tirannia del Governo sacerdotale e monastico stabilito dal Calvino, e le crudeltà esercitate contro i dissidenti, contro il Gruet, per esempio, messo alla tortura e decapitato per motivo di opinione75, avevano prodotta una reazione negli spiriti, e rialzato il partito dei libertini, poco innanzi abbattuto. Questo aveva testè riportata una vittoria nelle elezioni col far entrare alcuni de' suoi nel Piccolo Consiglio, e col far escludere i ministri dal Consiglio Generale. La lotta fra quel partito, nazionale a un tempo e liberale, e il partito del Calvino, straniero e insieme teocratico, diveniva ogni giorno più ardente.
Fu egli forse un tale stato di cose che indusse il Servet a recarsi a Ginevra? Intendeva egli unirsi alla parte dei libertini per fare con essi la guerra al Calvino? Si suppose; ma il contrario è affatto certo. La miglior prova che se ne possa dare è la testimonianza stessa del Calvino. Questi non avrebbe omesso di accusare il Servet dell'essere venuto a Ginevra a bella posta per intendersi co' suoi nemici, se l'accusa avesse avuto il minimo fondamento. Ora, non solo il Calvino non esprime nè insinua nulla di ciò, ma dice al contrario che il Servet fu condotto a Ginevra dalla sua cattiva stella76. E altrove77: «Forse egli non aveva altro disegno che di passare per questa città, poichè non si sa ancora il motivo della sua venuta; egli vi fu riconosciuto, e io credetti che si dovesse arrestare.78» Egli per certo non voleva, ponendo il piede in Ginevra, se non attraversarla per recarsi in Italia, e, come dissi nell'ultima lezione, non appena arrivato pregò l'oste della Rosa di procurargli un battello per tragittare il lago e prendere poi la strada di Zurigo. Pur risolvette restare qualche tempo in Ginevra, ma tenendovisi nascosto quanto più poteva.
Nemmeno questa novella risoluzione prova che egli volesse concertarsi coi nemici del Calvino, poichè il Calvino stesso, come vedemmo, non lo accusò. Tutto quello che si può supporre si è che, udendo d'intorno a sè certi discorsi contro il Calvino, nei quali non si cessava senza dubbio di annunziare la prossima caduta della dominazione di lui, il Servet si sentì indotto a rimanere in Ginevra; che fu ben contento di vedere come vi andrebbero le cose; che sperò forse anche di assistere alla caduta di colui che lo aveva consegnato all'Inquisizione cattolica, o, almeno, se le congiunture divenissero favorevoli, di far col suo avversario una pubblica controversia. Ma ciò ancora non è che una congettura, la quale, se non è priva di ogni verosimiglianza, pure non si fonda su veruna prova.
In quanto all'opinione che pretende spiegare la parte del Servet nel suo processo con gli accordi che avrebbe avuti col partito dei libertini, e che reputa la sua condanna una conseguenza della opposizione stessa di quel partito all'autorità del Calvino; per ingegnosi e dotti che sieno gli argomenti trovati a fine di sostenerla79, essa mi pare priva d'ogni fondamento e verosimiglianza. Togliete a quei tempi la lotta dei libertini contro il Calvino e l'autorità ecclesiastica, i diportamenti del Servet in tutto il corso del processo e della sua condanna non saranno men bene spiegati.
Il Servet non aveva più scampo, dacchè era caduto nelle mani del Calvino. Già conoscete quella lettera (di febbraio 1546), nella quale il Calvino dichiara che se il Servet metteva piede in Ginevra, non ne uscirebbe vivo, per quanto da lui dipendesse. Era questa la sua sentenza di morte data sett'anni avanti.
D'altra parte, allorchè il Calvino denunziava il Servet all'Inquisizione cattolica, per mezzo dell'amico suo Guglielmo Trie e del lionese Arneys, e consegnava i documenti necessari a convincerlo e mandarlo in perdizione, che attenenza questa denunzia e questo tradimento avevano essi col partito dei libertini di Ginevra?
No, per ispiegare il processo del Servet nelle sue particolarità e nella sua catastrofe, non v'è bisogno d'altro principio che del fanatismo teologico del Calvino e della sua scuola, unito al carattere, tutto proprio del riformatore; carattere disinteressato in un certo senso, nol niego, devoto, lo riconosco altresì, all'idea della Riforma, quale ei la intendeva, ma carattere personale, irritabile, vendicativo, e che, come dice ottimamente il Mignet nella sua memoria sullo Stabilimento della Riforma in Ginevra, «poteva essere giustamente accusato di durezza, d'orgoglio, d'esagerazione, di crudeltà.»
Ripiglio ora la mia narrazione al punto dove la lasciai sul finire dell'ultima lezione.
Il Servet era arrestato il 13 agosto 1553 a richiesta del Calvino. Ma per potergli intentare un'accusa criminale occorreva, giusta le leggi allora vigenti in Ginevra, che alcuno consentisse a costituirsi prigioniero con lui, facendosi suo accusatore. Il Calvino diede per questo il suo proprio segretario, un certo Niccola della Fontaine. La legge dichiarava che quegli il quale facevasi parte criminale incorresse, nel caso che l'imputazione fosse dimostrata falsa, nella pena del taglione. Ma il Calvino senza dubbio aveva pienamente rassicurato il suo segretario da quel pericolo, poichè non dubitava punto del successo finale del processo80. Niccola della Fontaine, che ben conosceva la potenza del suo padrone, non ne dovea dubitare neppur egli.
Essendosi adunque il segretario del Calvino fatto accusatore del Servet, il Piccolo Consiglio comandavagli di presentare per iscritto al signor luogotenente gli errori e i passi dei quali lo accusava. Già s'intende che il Calvino (egli stesso del resto lo confessa) s'incaricò di dettare cotal querela. Il suo Niccola81 non era qui se non ciò che dicesi volgarmente un uomo di paglia.
Una tal querela, composta di 38 capi d'accusa, è quella che servì di fondamento a tutto il processo, e innanzi tratto al primo interrogatorio, a cui nel dì appresso il luogotenente Pietro Tissot sottopose il Servet82.
Uno degli articoli della stessa querela, chi lo crederebbe? gli apponeva a delitto l'aver trovato mezzo di fuggire dal carcere di Vienna83. Interrogato sopra questo articolo, il Servet rispose che era stato difatti prigioniero a Vienna, ma soggiunse che ciò era successo per istigazione del Calvino e di Guglielmo Trie; se ne era fuggito, perchè i preti volevano farlo abbruciare. Fu allora che egli disse di essere stato tenuto in carcere, come se si fosse voluto che egli fuggisse.
Io non posso qui far l'analisi di quel lungo atto di accusa, in cui tutti quasi gli articoli sono diretti contro le opinioni del Servet intorno alla Trinità ed alla natura di Gesù Cristo; ma non è da dimenticare ciò che nota il Rilliet de Candolle stesso, che dopo i gravami teologici venivano i gravami personali (sono queste le sue proprie espressioni)84. L'articolo 39 era così concepito: «Item, che nella persona del Calvino, ministro della parola di Dio in questa Chiesa di Ginevra, egli ha diffamato con un libro stampato la dottrina che si predica, proferendo tutte le ingiurie e bestemmie che sia possibile d'inventare.» Il Servet rispose che il Calvino lo aveva egli stesso ingiuriato in molti suoi libri, e che non aveva fatto se non rendergli il contraccambio. Vedrete or ora che in quanto ad ingiurie il Calvino nulla aveva da rimproverare ad altri, e ciò d'altra parte lo attestano tutti i suoi scritti.
Terminato l'interrogatorio, l'accusatore del Servet, Niccola della Fontaine, chiese di poter confutare le negazioni dell'accusato, producendo vari passi de' suoi libri che corroboravano l'accusa. Egli presentò allora due scritti, uno dei quali era la Restituzione del Cristianesimo, stampato in Vienna, e l'altro un manoscritto che il Servet riconobbe essere di suo carattere, soggiungendo che lo aveva mandato al Calvino, da circa sei anni, per averne un giudizio.
Mentre il signor luogotenente mandava al Consiglio il sommario dell'interrogatorio, concludendo che la parte instante avesse facoltà di far gli atti giudiziari, Niccola della Fontaine indirizzava allo stesso Consiglio una richiesta, in cui aveva gran cura di rammentare che, oltre le bestemmie dal Servet scritte contro Dio, ed oltre le eresie, delle quali aveva infettato il mondo, eransi da lui pubblicate inique calunnie e false diffamazioni contro i veri servi di Dio e segnatamente contro il Calvino, ed in cui domandava che l'accusato fosse costretto a rispondere formalmente sopra ciascun articolo senza divagare «acciocchè, soggiungevasi nella richiesta, egli più non si beffi di Dio nè delle Signorie Vostre, e inoltre il detto proponente non sia frustrato della sua ragione.»
Il Consiglio, presa conoscenza della querela e della relazione del luogotenente, risolse che si recherebbe lo stesso giorno al vescovado per interrogare il Servet. Questi fu difatti chiamato a comparire quel giorno dinanzi ai membri della Signoria, col suo accusatore della Fontaine. Rispose come aveva già fatto, ma in termini vieppiù espliciti circa l'articolo 5, che poco mancò che per il Calvino ei non fosse abbruciato vivo in Vienna; e, dopo avere spiegato con molta abilità ad un tempo e franchezza le opinioni, di cui era accusato, giunto all'articolo che gli apponeva i suoi assalti contro la Chiesa di Ginevra nella persona del Calvino, avendo ripetuto che non aveva fatto se non difendersi, propose di confutare le opinioni del suo avversario in piena congregazione con diverse ragioni e autorità della Santa Scrittura. «Egli si doleva, dice il Calvino, che non fosse cosa decente nè convenevole il trattare dinanzi alla giustizia terrena, ed anzi in carcere, gli affari della Cristianità.» Ben aveva egli ragione di lamentarsi d'avere a giustificare dal fondo di un carcere le sue opinioni teologiche dinanzi a magistrati civili.
Ma il Consiglio non accolse quella proposta che il Calvino del resto non respingeva; e ritenuto il Servet per giudicarlo secondo le vie ordinarie, ordinò che il suo accusatore Niccola della Fontaine fosse posto in libertà, ma obbligato a seguitare le sue istanze ed a ripresentarsi ogniqualvolta fosse chiamato. Bisognava che il segretario del Calvino presentasse alcuno per propria cauzione, e questi fu il fratello del Calvino, per nome Antonio, ch'egli indicò per quell'ufficio. Onde in tutte le fasi di questo processo noi troviamo la mano e gli strumenti del Calvino.
All'udienza del giorno appresso, 16 agosto, un nuovo personaggio comparisce per assistere il della Fontaine, in qualità di parlatore o d'avvocato; e fu Germano Colladon, il braccio destro del Calvino, il più abile avvocato che questi potesse dare al suo segretario, il più formidabile antagonista che potesse opporre al Servet, fintanto che non gli convenisse di scendere in persona nell'arringo. Un altro personaggio pur si mostrò per la prima volta, ma tutto diverso dal primo, Filiberto Berthelier, figlio di quell'eroico Berthelier, gran disprezzatore della morte, come lo chiama il Bonivard, morto difatti da vero martire della libertà di sua patria. Filiberto Berthelier, che teneva qui come uditore il posto del luogotenente assente, era con Amiedo Perrin, che vedremo figurare in appresso, il più illustre capo del partito dei libertini e dei patriotti, di quel partito che, in quel momento stesso, era in vivace lotta contro il Calvino ed il suo Governo. Non dipese da essi che la loro patria non si bruttasse dell'uccisione. di Michele Servet. Ma, per mala ventura, tutti gli sforzi loro per salvarlo riuscirono vani: a malgrado della presenza del Berthelier e di Amiedo Perrin nel Piccolo Consiglio, lo spirito del Calvino sempre vi dominava. Nella tornata di cui parlo, il Berthelier prese a difendere il Servet contro il Colladon; ma il sindaco presidente si affrettò a sciogliere l'adunanza per porre fine al dibattimento.
Il Calvino si accorse essere venuto il momento di comparire in persona. Si fece dar facoltà dal Consiglio di assistere egli e «chi egli seco vorrà» agli interrogatorii del Servet, «affinchè meglio potessero a lui essere dimostrati i propri errori.» Da quel punto la sorte del Servet non poteva più essere dubbia.
È triste a vedere nei ragguagli del processo, o nelle relazioni che il Calvino fece egli stesso delle tornate del Consiglio, alle quali assistè, con che violenza e spesso con che mala fede l'avvocato del Calvino, Colladon, o il Calvino stesso, acciecato dal suo fanatismo e dall'odio, combattevano Michele Servet. Essi lo accusavano di essere stato condannato in Alemagna, e citavano per prova dell'accusa vari passi del Melantone e dell'Ecolampadio che severamente biasimavano la sua dottrina. Il Servet rispondeva che l'opinione di quei riformatori non provava che egli fosse stato l'obbietto di una condanna giudiziaria, e il Colladon replicava che se fosse stato il Servet catturato, sarebbe stato certamente condannato. «Argomento comodo, dice assai bene il Rilliet de Candolle85 (che io cito qui tanto più volentieri, quanto che sono raramente con lui d'accordo nei suoi giudizi e nelle sue conclusioni), argomento comodo, in cui l'avvocato stabiliva in fatto ciò che era precisamente questione.»
Ricorderete che il Servet aveva pubblicato in Lione una edizione della geografia di Tolomeo. Il Calvino gli rimproverava come delitto una frase di quella geografia, nella quale la Terra Santa era notata come una contrada sterile, mentre la narrazione di Mosè ne vanta la fertilità. Era questo, diceva il Calvino, un discorso da ateo. Ma io non ho fatto se non tradurre, rispondeva il Servet. – Perchè in tal caso sottoscrivesti tu il lavoro di un altro? – «Fui ben lieto, dice egli medesimo, di chiudere così la bocca a quel miscredente, tanto che, soggiunge, quel sozzo cane, essendo in tal guisa abbattuto da sì vive ragioni, non potè che torcere il muso, dicendo: andiamo innanzi; qui non vi è alcun male.»
Diciamo ancor noi come il Servet: andiamo innanzi; sventuratamente non siamo alla fine.
In un'altra tornata avendo il Servet sostenuto che i padri antecedenti al Concilio di Nicea, e specialmente San Giustino, non avevano riconosciuto esplicitamente la Trinità, il Calvino, a conforto della tesi contraria, allegò un passo dello scrittore greco. «Ora, soggiunge il riformatore (ed è bene lasciar parlare lui stesso), quell'abile uomo del Servet, che si gloriava dappertutto d'avere il dono delle lingue, sa quasi tanto leggere il greco, quanto un fanciullo che fosse all'abbiccì. Vedendosi côlto al trabocchetto con gran confusione, domandò in collera la traslazione latina. Io risposi che non ve n'era, e che mai uomo ne aveva stampata. Il perchè io presi il destro di rimproverargli la sua impudenza. Che vuol dir ciò? Il libro non fu traslatato in latino, e tu non sai leggere il greco? Nondimeno tu fai le viste di avere famigliarmente conversato con Giustino. D'onde ti vengono, di grazia, queste testimonianze che tu produci sì francamente, come se tu avessi l'autore nella tua manica? Egli, colla sua fronte di bronzo, come suole, saltò di palo in frasca, nè diede il minimo segno di essere preso da vergogna.» Infatti non eravi cagione di sentire vergogna. Il Servet sapeva ottimamente il greco, poichè aveva pubblicato un'eccellente edizione della geografia di Tolomeo, e note sulla Santa Scrittura, nelle quali davasi a dotte discussioni filologiche; ma poteva benissimo non essere in istato di leggere speditamente, massime in tal momento, un autore che non aveva studiato addentro, e poi poteva anche averlo citato senza averne fatto uno studio profondo.
Il Calvino trionfava troppo facilmente della pretesa ignoranza del suo avversario. Tutto ciò sarebbe un niente, se il risultato di quel processo, proseguito dal Calvino con tanto accanimento, non avesse dovuto essere una condanna di morte.
Nelle tornate, di cui ho accennato alcun incidente, il Calvino aveva menato i grandi colpi; aveva convinto il Servet di negare la distinzione delle persone nella Trinità ed anche ogni distinzione di sostanza fra Dio ed il mondo86; ei poteva ormai dileguarsi nuovamente dalla scena, senza cessar di stimolare alla cheta lo zelo dei giudici e di regolare con tutti i mezzi che possedeva la loro decisione.
Il suo segretario, Niccola della Fontaine, e suo fratello Antonio, che aveva dato cauzione pel primo, erano stati sciolti da ogni malleveria, ed oramai al procuratore generale, Claudio Girot, era serbato il diritto di proseguire il processo. Un nuovo atto d'accusa venne compilato, in cui non s'insisteva più sugli assalti del Servet contro la dottrina del Calvino, ma egli era accusato sempre di bestemmie, di eresie, di perturbazione della Cristianità, era presentato come uno spirito turbolento e pericoloso. Questi nuovi articoli diedero cagione ad una nuova serie d'interrogatorii, nei quali la persona e la vita del Servet furono sottoposte alla più minuta indagine; ed egli mostrò, come sempre, con molta franchezza molta avvedutezza ed abilità, ma una moderazione maggiore che negl'interrogatorii precedenti, perchè non aveva più di fronte uno strumento del Calvino, o il Calvino medesimo.
Intanto egli aveva fatto al Consiglio una petizione (22 agosto) per chiedere di esser posto fuori dell'accusa criminale; e, a fondamento della domanda, allegava che «è una invenzione ignorata dagli apostoli e discepoli, e dalla Chiesa antica, il far parte criminale per la dottrina della Scrittura, o per questioni procedenti da essa;» e, rinnovando una tesi che egli aveva già sostenuta nelle sue lettere al Calvino, rammentava che, nei primi secoli della Chiesa cristiana, la Chiesa stessa era quella che sentenziava sull'eresia, che non si punivano se non coloro che essa aveva convinti o condannati, quando non volevano sottoporsi alla sua decisione, e che in un caso simile non si faceva altro che sbandirli, come fece Costantino ad Ario. Soggiungeva che mai non aveva fatto in verun luogo il sedizioso e il perturbatore, che le questioni da lui trattate erano difficili nè s'indirizzavano ad altri che a scienziati, ed egli respingeva ogni partecipazione cogli anabattisti «sediziosi contro i magistrati e che vogliono fare le cose comuni.» Gli stava molto a cuore di fare questa dichiarazione, perchè la sua opinione sul battesimo de' bambini lo aveva fatto accusare d'anabattismo, e perchè tale accusa, del resto senza fondamento, era una delle più pericolose che gli si potessero intentare. Chiedeva finalmente che, siccome egli era straniero nè sapeva come bisognasse parlare e procedere in giudizio, si consentisse a dargli un procuratore che parlasse per lui.
Senza far giustizia alla petizione, sì legittima e sì moderata ne' termini, il Consiglio si contentò di farla inserire nelle carte del processo; ma essa attirò al Servet una nuova requisitoria da parte del procuratore generale, o, per dir meglio, del Calvino. Questa requisitoria stabiliva che i primi imperatori cristiani si erano attribuito la cognizione e il giudizio delle eresie, e che le loro leggi comminavano la pena di morte contro i bestemmiatori e contro coloro che opinavano male della fede intorno alla Trinità. Essa manteneva contro il Servet, ma senza veruna prova, l'accusa di anabattismo, ed ecco in quali termini derisorii rigettava la domanda dell'accusato per avere un avvocato difensore:
«Visto che sa così bene mentire, non vi è ragione che domandi un procuratore; poichè, chi è colui che lo possa o voglia assistere in tali impudenti menzogne ed orribili discorsi? Arroge che è vietato dalla legge, nè si vide mai che tali seduttori parlassero per interposizione di procuratore. E di più, non vi è un sol grano d'apparenza d'innocenza che richieda un procuratore. Per la qual cosa dee subito essere rigettata petizione tanto inetta ed impertinente.»
Questa nuova requisitoria diede ancor motivo ad un altro interrogatorio, in cui il Servet mostrossi qual era stato nel precedente, fermo ed abile. Non ne riferirò che un punto, ma di capitale importanza, perchè fa pienamente risaltare l'incoerenza di quei riformatori, i quali contro gli eretici richiedevano il Codice giustinianeo, e perchè mostra nel Servet il verace rappresentante dello spirito che aveva animato la Riforma ne' suoi primordi, e che avrebbe sempre dovuto animarla. Gli si opponeva che, avendo lui studiato il diritto, doveva conoscere gli articoli del codice giustinianeo diretti contro gli eretici. Ei rispose che «Giustiniano non era dell'antica e primitiva Chiesa, ma che nel suo tempo vi erano già molte cose depravate, e che i vescovi cominciavano la loro tirannia, ed erano già introdotte le accuse criminali nella Chiesa.»
Mentre il procuratore generale procedeva così contro il Servet dinanzi al Consiglio, il Calvino, dal canto suo, predicava contro il prigioniero, dal quale non si poteva rispondere, e faceva tutti gli sforzi per soffocare nell'animo del popolo ogni pietà verso la vittima87.
Il Consiglio non era ancora bene convinto della reità del Servet; l'abile difesa dell'accusato teneva un po' irresoluti gli animi. Esso adunque risolse di mettere di nuovo a fronte i prigionieri e i ministri per udirli nella loro discussione contradittoria, e venire quindi ad una conchiusione. Questa determinazione non poteva non essere funesta al Servet, per la ragione che egli aveva nel Calvino un avversario implacabile, ed egli stesso in cospetto dell'uomo che lo aveva tradito e continuava a macchinare la sua perdita, non sapeva serbare la pacatezza e la moderazione ordinaria. Si aggiungano a ciò i patimenti che nel suo carcere soffriva. «I pidocchi mi mangiano vivo, scriveva egli il 15 settembre al Consiglio88; le mie calze sono tutte lacere, e non ho da mutarmi nè giubba nè camicia, se non una meschinissima...» Questi patimenti lo inasprivano sempre più contro l'autore de' suoi mali, che egli accusava nella stessa lettera, di volerlo far morire in prigione89. Nel suo inasprimento egli mette da parte ogni prudenza; e, com'era del resto ben naturale e dirò quasi legittimo in tali circostanze, ma non meno temerario ed in tutti i casi inutile, chiede che il suo falso accusatore sia tenuto prigioniero come lui e punito colla pena del taglione. Rinnova la richiesta medesima in un'altra lettera colla data del 22 settembre, cui finisce con queste parole: «Vi domando giustizia, signori; giustizia, giustizia, giustizia.»
Questo inasprimento non gli lasciò libertà di mente da rispondere alla confutazione scritta che della dottrina di lui aveva fatta il Calvino. Si stette contento a coprire di note e spesso d'invettive i margini e gli intervalli del manoscritto; ma convien dire che le ingiurie non gli erano risparmiate in quella scrittura, benchè il Calvino avesse annunziato che voleva trattar solamente le materie che erano in questione.
Sotto i nomi de' tredici ministri che avevano sottoscritto col Calvino, egli vergò queste fiere parole: «Michele Servet sottoscrive solo, ma ha nel Cristo un protettore certo.»
Rifiutando così di rispondere per iscritto al Calvino, il Servet correva egli, come fu detto90, alla sua perdita? No, perchè era perduto in ogni modo. Caduto che era nelle mani del Calvino e del tribunale, in cui dominava lo spirito del Calvino, non vi sarebbe stato più se non un mezzo di salvarsi, cioè quello di ritrattare le sue opinioni; ma era anche un mezzo al quale ei non poteva abbassarsi.
Intanto il Consiglio, che non faceva così presto come il Calvino avrebbe voluto, ma che doveva finire col dargli soddisfazione, risolvette di consultare le Chiese di Berna, Basilea, Sciaffusa e Zurigo. Il Calvino si oppose a questa decisione, perchè sembrava che ledesse la sua propria autorità, e perchè si rammentava che nel processo del Bolsec le Chiese elvetiche, quella di Berna specialmente, avevano opinato per la moderazione e la mansuetudine. Ma egli aveva prevenuto la mossa collo scrivere ai principali pastori delle Chiese elvetiche: al Bullinger, capo della Chiesa di Zurigo; al Sulzer, pastore della Chiesa di Basilea, ecc., per disporre gli animi ed ottenere il parere che desiderava. Fingeva, come dice il Saisset91, un profondo scoraggiamento, e secondo che era solito fare in tutte le contingenze gravi, annunziava di volersi ritirare. Le lettere delle Chiese elvetiche al Consiglio di Ginevra furono conformi ai raggiri ed ai voti del Calvino; nessuna però, eccetto quella di Basilea, osava indicare la pena di morte, e quella di Berna consigliava chiaramente una pena più mite. «Noi preghiamo il Signore, diceva essa, che vi dia uno spirito di prudenza, di consiglio e di forza, affinchè mettiate la vostra Chiesa e le altre in salvo da cotal peste, e che nel tempo stesso nulla facciate che possa parer disdicevole ad un magistrato cristiano.»
I Governi di Berna e di Zurigo che erano stati egualmente richiesti del loro parere, risposero nel medesimo senso che le Chiese, ma con molto riserbo in quanto alla pena.
Era venuto pel Consiglio il momento di dar la sentenza. Il Calvino non dubitava del resultato: secondo l'espressione del Rilliet de Candolle, ei non mostravasi inquieto. «Non si sa, scriveva egli al Bullinger il 25 ottobre, la vigilia stessa del giorno che si promulgò la sentenza, non si sa ciò che possa avvenire della persona. Nondimeno io suppongo che il giudizio sopra di lui sarà promulgato domani nel Consiglio, e che posdomani egli sarà condotto al supplizio.» Dal canto suo, Amiedo Perrin tentò un ultimo sforzo nel Consiglio per salvar la vita del Servet. Nella tornata decisiva, che si tenne il 25 ottobre, in cui il Consiglio, solennemente convocato, era presso a poco in numero pieno, egli domandò prima di tutto che il Servet fosse dichiarato innocente ed assoluto. Essendogli fallito questo punto, propose che, giusta la domanda fatta dal Servet stesso (nella sua lettera del 15 settembre), la causa fosse portata al tribunale dei Dugento. Mercè delle ultime elezioni, il partito avverso al Calvino era in maggioranza nel Consiglio medesimo, laddove era il contrario nel Piccolo Consiglio. Ma appunto per questa ragione gli sforzi di Amiedo Perrin doveano restar senza buon effetto. Il Consiglio proferì la sentenza capitale che il Calvino chiedeva (salvo il modo della pena), e che è notata in questi termini ne' suoi registri:
«Visto il sommario del processo di Michele Servet, prigioniero, la relazione di coloro che furono consultati, e considerando i suoi grandi errori e bestemmie, è stato decretato: sia condannato ad essere condotto nel Campello, e colà bruciato vivo, e sia giustiziato domani e arsi i suoi libri.» Il Servet non si aspettava una tal sentenza. Essa era in ogni caso sì orribile, che nel primo istante rimase come in delirio, almeno stando al racconto del Calvino.
«Quando gli fu recata, dice questi, la nuova della sua sentenza di morte, egli era ad intervalli come stupefatto, di poi mandava sospiri che risonavano in tutta la sala. Talvolta si dava a urlare come un uomo fuori di mente. Insomma non vi era più contegno che sia in un indemoniato. Sulla fine, il grido soverchiò talmente che senza posa battendosi colla mano il petto, sclamava alla spagnuola: Misericordia! misericordia!»
Questa narrazione è essa affatto vera? È lecito dubitarne, quando si vede il coraggio eroico che il Servet mostrò innanzi al rogo, e la maniera con cui parla il Calvino degli ultimi momenti di esso. Ma io voglio crederne letteralmente esatto il racconto: e che? gli dirò io, quando Gesù Cristo, colui che chiamate il vostro divino maestro e che pretendete pigliare a modello provò sì mortali angoscie all'avvicinarsi del supplizio che gli si apprestava sul Golgota; quando egli sentì un sudor di sangue grondargli dal volto, e prosternando la fronte nella polvere del monte Oliveto, supplicò il Padre suo di allontanare da sè il calice d'amarezza, voi venite a rinfacciare a questa povera creatura umana che torturate in un carcere da tre mesi, e che avete spinta ad una morte orribile, voi venite a rinfacciarle un momento di debolezza, il grido della natura in faccia a quell'orrenda morte, e giungete fino a dileggiar la vostra vittima pel suo accento spagnuolo?
Non un istante cedettero l'orgoglio e la crudeltà del Calvino, neanche nel carcere del Servet e alla presenza della vittima ch'egli aveva atterrata. Il Farel, chiamato dal Calvino a Ginevra per assistere il condannato ne' suoi ultimi momenti, dopo aver tentato invano di strappargli una ritrattazione, procurò un abboccamento fra il Calvino e il Servet, sperando che questi, atterrito dalla sentenza promulgata contro di lui, finirebbe con abiurare le sue opinioni tra le mani del capo della Chiesa di Ginevra. Avendo i consiglieri, che accompagnavano il Calvino nel carcere, domandato al Servet che cosa ei volesse dirgli: «Domandargli perdono, rispose il condannato.» Il Servet si umiliava dinanzi al suo nemico; a lui chiedeva perdono; il Calvino, implacabile, volle ancora atterrare la sua vittima sotto il peso del suo orgoglio. «Tu devi rammentarti, gli disse, che più di 16 anni fa, essendo in Parigi, io non risparmiai fatica per guadagnarti a nostro Signore, e se tu ti fossi accordato colla ragione, mi sarei adoperato a riconciliarti con tutti i buoni servi di Dio. Tu allora fuggisti dalla lotta, e nondimeno io non cessai d'esortarti per lettera; ma tutto riuscì vano; tu scagliasti contro di me non so qual rabbia piuttosto che collera. Del resto, io lascio da banda ciò che riguarda la mia persona: Pensa invece a gridar mercè innanzi a Dio che tu bestemmiasti volendo cancellare le tre persone che sono nella sua essenza; domanda perdono al Figliuol di Dio, che tu sfigurasti e quasi rinnegasti per Salvatore.» Queste altere parole non erano certamente tali da riconciliare il Servet. D'altra parte, se egli aveva potuto gridar misericordia, e domandare perdono anche al Calvino, ritrattarsi non voleva. «Vedendo finalmente, continua a dire il Calvino, che le mie esortazioni a nulla servivano, io non volli essere più saggio del nostro Maestro; e, secondo il precetto di san Paolo, mi separai da quell'eretico che si era condannato da sè stesso.»
Lo stesso giorno, 27 ottobre, alle 11 antimeridiane, fu condottò il Servet dal carcere del vescovado alle porte del palazzo di città per la lettura solenne della sentenza, che stava per essere posta ad esecuzione. Dopo aver udito risuonare le ultime parole di quel lungo decreto, il quale, «in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo,» lo condannava ad essere bruciato vivo92, il Servet, atterrito di nuovo dalla sentenza orribile, esclamò che aveva errato per ignoranza, che egli aveva sempre voluto attenersi alla Sacra Scrittura, e supplicò che si facesse perire di spada. Avendogli detto il Farel che, per ottenere quella grazia, bisognava che egli confessasse la sua colpa e ne attestasse orrore, il Servet si contentò di rispondere che non aveva meritata la morte e che pregava Dio di perdonare a' suoi accusatori.
È da notare che in quel momento supremo, come in tutto il corso del suo processo, non uscì mai parola di ritrattazione dalla sua bocca; le sue convinzioni erano irremovibili, ed egli aveva fatto il sacrifizio della vita alla causa della verità. Era già lungo tempo che egli aveva predetta la sua morte. In una lettera ad un collega del Calvino, Abele Poupin, e che rimase annessa ai documenti del processo, egli diceva: «Io so di certo che sono destinato a morire per confessare la verità; ma l'anima mia non si perde di coraggio, e io voglio essere in tutto un discepolo degno del divino maestro93.»
Mentre era condotto al luogo del supplizio, il Farel, che lo accompagnava, fece nuovi sforzi per ottenere da lui la confessione del suo delitto, vale a dire la ritrattazione delle sue opinioni. Lo minacciò insino, di non seguirlo sino al rogo, se si ostinasse a voler sostenere la propria innocenza: il Servet non rispose sillaba; che cosa poteva rispondere quella vittima destinata e votata al sacrifizio? Eppure il Calvino chiama «brutale stupidezza» questo nobile silenzio!
Quando il sinistro corteggio fu giunto sulle alture di Campello, nel sito dove era preparato il rogo, il Farel invitò il Servet a raccomandarsi alle preghiere del popolo, affinchè ciascuno pregasse con lui. Il Servet obbedì; poscia, terminata la preghiera, egli montò in silenzio sopra il rogo. Un palo innalzavasi nel mezzo; il carnefice vi attacca il paziente con una catena di ferro, e vi ferma il collo di lui con una grossa fune. Il capo di esso è cinto da una corona di stoppia inzuppata di zolfo, ed il suo libro della Restituzione del Cristianesimo, libro di una metafisica certamente disputabile (qual metafisica non è tale?), ma sublime, e che conteneva pensieri di mente altissima, gli è legato ad una coscia per essere abbruciato con lui. Ben presto è appiccata al rogo la fiamma; nel vederla innalzarsi, uno straziante grido prorompe dal petto del paziente, ed agghiaccia di terrore la moltitudine presente a quella esecuzione. Si narra che i tormenti della vittima durarono mezz'ora, e che, per abbreviarli, alcuni del popolo corsero a cercare legne secche che gittarono nel rogo.
«Chi mai dirà, esclama il Calvino, dopo aver riferito a suo modo, cioè nella maniera più odiosa94, gli ultimi momenti del Servet, chi mai dirà che questa sia una morte da martire?»
Io lo dirò, o Calvino, e meco chiunque non è cieco al pari di voi per fanatismo e per orgoglio. Sì, con vostra pace, il Servet fu un martire, e morì da martire. Una parola di ritrattazione poteva salvarlo; questa parola nè voi, nè il vostro buon fratello Guglielmo Farel, nè altri poteste strappargliela di bocca. Egli poteva fare ciò che fece in appresso a Ginevra Valentino Gentili, altra vittima del vostro fanatismo, il quale per isfuggire alla morte ritrattò la sua opinione sulla Trinità ed abbruciò di propria mano il libro, in cui era deposta la sua dottrina. Il Servet, in faccia alla morte stessa ed al più tremendo supplizio, niente volle ritrattare. E voi non volete che questa si chiami una costanza da martire, e questa morte una morte da martire? Ben è vero che non usano i carnefici rendere omaggio ai martiri.
«Il processo fatto e formato innanzi a noi temuti signori sindaci, giudici delle cause criminali di questa città, a procedimento ed istanza del signor luogotenente della città stessa, le dette cause instando
«Contro
«Michele Servet da Villanova, nel regno di Aragona in Ispagna.
«Il quale primieramente è stato imputato di avere, da 23 a 24 anni circa, fatto stampare un libro in Agnon nell'Alemagna, contro la santa ed individua Trinità, contenente parecchie e grandi bestemmie contro di essa, grandemente scandaloso alle chiese delle dette Alemagne (sic): il qual libro egli spontaneamente confessò d'aver fatto stampare, non ostante ogni ammonizione e correzione a lui fatta delle sue false opinioni dai sapienti dottori evangelisti delle dette Alemagne.
«Item, ed il qual libro fu dai dottori di esse chiese d'Alemagna, come pieno d'eresie, riprovato; e il detto Servet si rese fuggiasco dalle dette Alemagne a cagion del detto libro.
«Item, e non ostante ciò il detto Servet perseverò ne' suoi falsi errori, infettando molti con questi più che poteva.
«Item, e non contento di ciò, per meglio divulgare e spargere il detto suo veleno ed eresia, da poco tempo in qua egli ha fatto stampare un altro libro di soppiatto in Vienna, nel Delfinato, pieno delle dette eresie, orrende ed esecrabili bestemmie contro la santa Trinità, contro il Figliuolo di Dio, contro il battesimo dei bambini, ed altri parecchi santi passi e fondamenti della religione cristiana.
«Item, ha spontaneamente confessato che in questo libro egli chiama trinitari ed atei coloro che credono nella Trinità.
«Item, e che egli chiama la detta Trinità un diavolo e mostro a tre teste.
«Item, e contro il vero fondamento della religione cristiana e bestemmiando detestabilmente contro il Figliuol di Dio, ha detto Gesù Cristo non esser figliuol di Dio fin dall'eternità, ma esser tale solamente dopo la sua incarnazione.
«Item, e contro ciò che dice la Scrittura, Gesù Cristo essere figliuol di David secondo la carne, egli ciò nega sventuratamente, dicendo essere questi creato della sostanza di Dio Padre, avendo ricevuto tre elementi da lui, ed uno solamente dalla Vergine; nel che empiamente ei pretende abolire la verace ed intiera umanità di nostro Signore Gesù Cristo, suprema consolazione del povero genere umano.
«Item, e che il battesimo dei pargoletti non è che una invenzione diabolica e stregoneria.
«Item, e parecchi altri punti ed articoli ed esecrande bestemmie, di cui è il detto libro zeppo, grandemente scandaloso, e contro l'onore e maestà di Dio, del Figliuolo di Dio e dello Spirito Santo, il che è un crudele ed orribile strazio, perdizione e rovina di molte povere anime, essendo tradite dalla detta sleale e detestabile dottrina. Cosa spaventevole a dirsi!
«Item, e il quale Servet, pieno di malizia, intitolò questo suo libro, così diretto contro Dio e la sua santa dottrina evangelica, Christianismi restitutio, vale a dire la restituzione del Cristianesimo, e ciò per meglio sedurre e ingannare i poveri ignoranti, e per più agevolmente infettare col suo sciagurato ed empio veleno i lettori di detto suo libro, sotto colore di buona dottrina.
«Item, ed oltre il sopra detto libro, assalendo anche con lettere la nostra fede, e adoperandosi a infettarla col suo veleno, ha volontariamente confessato e riconosciuto di avere scritte lettere a uno dei ministri di questa città, nelle quali, fra le altre molte orribili ed enormi bestemmie contro la nostra santa religione evangelica, egli dice il nostro Vangelo essere senza fede e senza Dio, e che per Dio abbiamo un Cerbero a tre teste.
«Item, e ha di più volontariamente confessato che nel suddetto luogo di Vienna, a cagione di quel malvagio ed abbominoso libro ed opinioni, ei fu fatto prigioniero; le quali carceri perfidamente ruppe, e se ne fuggì.
«Item, e non si è solamente rivolto il detto Servet, nella sua dottrina, contro la vera religione cristiana, ma, come arrogante novatore d'eresie, contro la papista ed altre, talchè a Vienna istessa fu abbruciato in effigie, e de' suoi detti libri cinque balle si arsero.
«Item, e non ostante tutto ciò, essendo qui nelle carceri di questa città detenuto, non ha cessato di persistere maliziosamente nei suddetti empi e detestabili errori, procurando di sostenerli con ingiurie e calunnie contro tutti i veri Cristiani e fedeli mantenitori della pura immacolata religione cristiana, chiamandoli trinitari, atei e stregoni, non ostante ogni ammonizione fattagli da lungo tempo in Alemagna, come si è detto, e ad onta delle riprensioni, carceramenti e correzioni fattegli tanto altrove, quanto qui, come più ampiamente e a lungo è contenuto nel suo processo.
«E noi sindaci, giudici delle cause criminali di questa città, avendo visto il processo fatto e formato dinanzi a noi ad istanza del nostro luogotenente per le dette cause instante, contro di te, Michele Servet da Villanova, nel regno d'Aragona in Ispagna, pel quale e per le tue volontarie confessioni fatte nelle nostre mani e più volte reiterate, e pei tuoi libri innanzi a noi prodotti, ci consta e apparisce che tu, Servet, hai da lunga pezza posto innanzi dottrina falsa e pienamente ereticale, e, lasciando da parte ogni ammonimento e correzione, l'hai con maliziosa e perversa ostinazione perseverantemente seminata e divulgata fino a stampar libri publici contro Dio Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, insomma contro i veri fondamenti della religione cristiana, e perciò tentato di fare scisma e turbamento nella Chiesa di Dio, onde molte anime poterono essere rovinate e perdute; cosa orrenda e spaventevole, scandalosa e pestilenziale, e non hai avuto vergogna nè ribrezzo di sollevarti totalmente contro la maestà divina e la santa Trinità; e ti sei affaticato e adoperato pertinacemente a infettare il mondo colle tue eresie e pestifero veleno ereticale; caso e delitto d'eresia grave e detestabile, e meritevole di grave punizione corporale. Per tali cagioni ed altre che a ciò ci muovono, desiderando purgar la Chiesa di Dio da questa infezione e recidere da essa un tal membro marcio; avendo avuto buona partecipazione di consiglio coi nostri cittadini, ed avendo invocato il nome di Dio, per far retto giudizio, sedendo pro tribunali nel luogo de' nostri maggiori, avendo Dio e le sue Sante Scritture dinanzi ai nostri occhi, dicendo in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, per questa nostra definitiva sentenza, la quale diamo qui per iscritto, Te, Michele Servet, condanniamo a dover essere legato e condotto al luogo di Campello, e colà dover essere attaccato ad un palo, e abbruciato vivo col tuo libro tanto scritto di tua mano, quanto stampato, sino a che il tuo corpo sia ridotto in cenere; e così finirai i tuoi giorni per dare esempio agli altri che un caso simile volessero commettere.
«E a voi, nostro luogotenente, comandiamo che la nostra presente sentenza facciate porre ad esecuzione.»