Jules Romain Barni
I martiri del libero pensiero
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I MARTIRI DEL LIBERO PENSIERO

OTTAVA LEZIONE Giordano Bruno – Tommaso Campanella – Giulio Cesare Vanini – Galileo Galilei.

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OTTAVA LEZIONE

Giordano BrunoTommaso Campanella
Giulio Cesare VaniniGalileo Galilei.

Signore e Signori,

L'Italia fu la vera sede di quel risvegliarsi dell'umano spirito, che ben si chiamò il Risorgimento. Essa non solamente diede alla civiltà incomparabili artisti che rapirono gli animi coi lor capilavori, ma anche arditi navigatori che ampliarono i limiti del mondo, ma scienziati di sommo ingegno che apersero vie nuove alle scienze fisiche e trasformarono colle scoperte loro la cognizione della natura; ma finalmente filosofi audaci che spinsero il pensiero umano fin dove poteva giungere, e che all'arditezza dello spirito seppero unire l'eroismo dell'apostolato e il coraggio del martirio. Tal fu, tra gli ultimi, Giordano Bruno, del quale ho scritto primo il nome nel gruppo di martiri italiani che voglio oggi presentarvi.

Nato nel mezzo del XVI secolo (verso il 1550) in Nola, piccola città situata a non molte miglia da Napoli, nella Terra di Lavoro, Giordano Bruno, cui piaceva dirsi da il Nolano, era venuto al mondo ed era stato allevato, com'egli con vera gioia rammenta, «sotto il cielo più benigno95,» ma sopra un suolo vulcanico, ed in un tempo, nel quale il pensiero umano bolliva come le lave del Vesuvio. In grande oscurità, del resto, sono avvolti i primi anni della sua vita e la sua educazione. Tutto ciò che ne sappiamo è che, come fece venti anni dopo il Campanella, egli entrò per tempo nell'ordine dei Domenicani. Egli era, così dice egli stesso, desideroso di sacrificare alle Muse in un santo ritiro, e certo era tirato dalla carriera oratoria che quell'ordine di frati predicatori offeriva alle splendide doti che sentiva dentro di fermentare. Ma si era illuso: una congregazione, che sì grandemente sentiva del Medio Evo; una congregazione, in cui la malvagità si mesceva con l'ignoranza, e l'ipocrisia con la tirannide, non conveniva ad un'anima pari alla sua; essa non servì che a svolgere in lui lo spirito di filosofia e di libero esame.

«Dopo avere a lungo, egli racconta, coltivato le lettere, la poesia, fui portato alla filosofia, al libero esame dalle mie guide stesse, da' miei superiori e dai miei giudici. Ministri della gelosia, servi dell'ignoranza, schiavi della malvagità, essi pretendevano assoggettarmi ad una vigliacca e stupida ipocrisia

Destatosi in lui cotale spirito d'indipendenza, Giordano Bruno doveva certo aver molte liti coll'autorità, da cui dipendeva: ne ebbe non solamente in Napoli, ma anche in altre città, come Genova, Nizza, Milano, Venezia; e, per isfuggire alle persecuzioni che le sue idee gli muovevano contro, o sopra alcuni dogmi cattolici, come la transustanziazione o l'immacolata Concezione, o sopra Aristotele, la cui scolastica era divenuta una seconda autorità superiore, come la Chiesa stessa, ad ogni discussione, fu costretto ad uscir dall'Italia in età di trent'anni (1580). «Abbandonai la mia patria, diceva egli, tenni in lieve conto i miei penati, in disprezzo i miei averi.» Ei sacrificava i propri beni, i penati, la patria, alle sue convinzioni, finchè venisse il tempo di sacrificar loro la vita. Allora non si credeva condannato che ad un esilio temporaneo; sperava che col trascorrere degli anni s'acqueterebbero le ire e gli odii che aveva contro di suscitati. Ma doveva essere disingannato crudelmente dieci anni dopo. Il Bruno venne dapprima a Ginevra, ove lo tiravano le sue simpatie per la Riforma; ma non vi ebbe però a stare gran tempo di buon animo. Il Calvino da 16 anni non era più; ma lo spirito di lui dominava sempre. Il suo successore, Teodoro di Beza, teneva al pari di esso il principio della libertà per un dogma diabolico; e, pensando al pari del maestro che «i ladri non si raunano dove son le forche,» ei credeva che bisognasse punire gli eretici col ferro o col fuoco, e che nulla potevasi fare di più accetto a Dio. In ciò andava d'accordo, nonostante la differenza delle religioni, col papa San Pio V, il quale scriveva alla madre degli ultimi Valois: «Guardatevi bene dal credere che si possa fare cosa più grata a Dio che il perseguitare apertamente i suoi nemici con uno zelo pio per la religione cattolica.» Laonde il Bruno trovava a Ginevra l'intolleranza religiosa che lo avea fatto fuggir d'Italia. Vi trovò anche lo stesso fanatismo per Aristotele: «I Ginevrini hanno decretato (aveva risposto Teodoro di Beza al Ramus, che chiedeva la permissione di venire ad insegnare la filosofia in Ginevra), i Ginevrini hanno decretato, una volta per sempre, che pur in logica in alcuna categoria del sapere si deve scostarsi in casa loro dai sentimenti di Aristotele96.» Anche da questo lato il soggiorno di Ginevra non era buono pel Bruno che pendeva verso la filosofia neoplatonica di Michele Servet, e che, al pari del Ramus, si dichiarava avversario di Aristotele. Partì adunque dalla città calvinista, o che avesse ricevuto l'ordine di sgombrare dalla città stessa, come avvenne a tanti altri suoi concittadini, o che avesse voluto prevenirlo.

A Tolosa, dove si recò dopo aver dimorato qualche tempo in Lione, suscitò contro di quello che chiamava egli stesso il furore scolastico; e, imitando l'esempio di Pantagruel, che «non vi si fermò troppo, vedendo che si facevano abbruciar vivi i loro reggenti come aringhe secche,» s'affrettò ad abbandonare quel focolare di fanatismo, dove il suo concittadino Vanini fu abbruciato trentasei anni appresso.

Non poteva egli non sentirsi tratto verso Parigi. In una dimora che vi fece dal 1582 al 1583, avendo ottenuta permissione d'insegnar la logica, si restrinse a commentare l'arte di Raimondo Lullo, metodo che riguardava come meraviglioso per la invenzione, per la disposizione delle idee, per l'argomentazione; e nonostante l'aridezza del subbietto, egli, certamente per la attrattiva della sua parola, tirò a una folla di uditori, e formò anche settatori entusiasti. Poscia, in una seconda dimora che vi fece, dopo l'intervallo d'un viaggio nell'Inghilterra, si avventurò fino ad entrare in lotta contro la fisica d'Aristotele.

Dal Ramus in poi e mercè del Ramus, gl'intelletti avevano fatto progressi non piccoli; ma ne restavano loro ancor molti da fare. Il Bruno ottenne dal rettore dell'Università licenza d'istituire una pubblica palestra, in cui fossero discussi i principii della fisica d'Aristotele, e la giostra si fece nei giorni festivi della Pentecoste dell'anno 1586. L'epistola ch'egli indirizzò al rettore per domandare questa licenza e il discorso, col quale entrò in lizza, sono informati da concetti alti e nuovi, e giustificano bene il titolo che il Bruno dava a se stesso di risvegliatore: excubitor. «La verità, diceva egli, è forse piuttosto nuova che antica. Se è nuova, ogni Università che ama tanto il vero, deve bramare di conoscerla; se è vecchia, nessun colpo la potrebbe crollare; il più fiero assalto non varrà che a confermarla. In tutti i casi deve essere permesso a ciascuno in filosofia di pensare e di esprimere liberamente il proprio pensiero...» È questo il principio del libero esame francamente enunziato.

Il Bruno contrappone all'autorità esterna della parola scritta la luce interna della coscienza e della scienza; vuole che la ragione sola, la percezione di ciò che è manifesto per se stesso, decida tra i sistemi e che, aspettando quella evidenza, sappiasi dubitare saviamente. Già sono le idee ed il linguaggio stesso del Descartes. Ecco un altro pensiero che precorre all'età del Descartes, e che il Pascal e il Malebranche pare abbiano tolto dal Bruno: «Non avvi antica opinione che un tempo non sia stata nuova. Se l'età è un suggello di verità, il nostro secolo è più degno di fede che quello di Aristotele; poichè il mondo ha oggi quasi venti secoli più.» Ma quelle idee non trovavano ancora gl'intelletti abbastanza preparati a riceverle, e le opinioni ardite che il Bruno metteva innanzi sul moto della terra e sull'infinità dei mondi, dovevano vieppiù scandalizzarli. Non impunemente poteva un filosofo a quei giorni abbattere il sistema del mondo, sostituire il moto all'immobilità della terra e atterrare le barriere del cielo. Il Bruno si vide costretto ad allontanarsi da Parigi, come erasi allontanato dall'Italia, da Ginevra e da Tolosa. In quanto all'Inghilterra, dov'erasi fermato due anni (1583-85) nell'intervallo dell'una e dell'altra dimora da lui fatta in Parigi, le sue idee avevano suscitato contro di lui quelli ch'ei chiama «i pedanti di Oxford;» ma l'ambasciatore di Francia, Michele di Castelnau, presso il quale era ospitato, lo protesse contro di loro, ed anche, soggiunge egli, contro la fame. Era cosa degna del traduttore del Ramus l'offerire un ricovero nella propria casa al filosofo Giordano Bruno.

Nel partire dalla Francia il Bruno s'indirizzò verso l'Alemagna, e ristette dapprima a Marburgo nell'Assia. In quella Università la dialettica del Ramus aveva preso il luogo della filosofia d'Aristotele; e ciononpertanto il Bruno, dopo esservisi fatto matricolare nella qualità di dottore in teologia, non vi potè ottenere la licenza di dare lezioni di filosofia. Il rettore la rifiutò «per gravi cagioni (ob arduas causas),» dicono gli annali dell'Università di Marburgo, ma senza dichiararle. Le gravi cagioni non erano altro, senza dubbio, che la indipendenza di spirito e l'arditezza di concetti che distinguevano il Bruno.

In Vittemberga, l'Atene della Germania, com'ei la chiama, il Bruno trovò maggior tolleranza, e si compiacque egli stesso di rendere omaggio alla libertà filosofica che v'incontrò. «Voi permetteste, egli scriveva al Senato di Vittemberga, a uno straniero, ad un uomo alieno dalla vostra fede, d'insegnare in pubblico: quale umanità! La vostra giustizia non ascoltò le insinuazioni seminate contro il suo carattere e le sue opinioni. Voi tolleraste con mirabile moderazione la sua veemenza nell'impugnare la filosofia di Aristotele che vi è cara.» Nel suo discorso di commiato ei fece un elogio entusiastico del Lutero. Fu egli per questo forse che venne accusato d'aver lodato il diavolo in pubblico a Vittemberga e venduta l'anima sua a Satana? Checchè sia intorno a questo punto, non si lasciò di conchiudere dal discorso del Bruno, ch'egli avea abbracciata la fede luterana; ma, in sostanza, quell'elogio del Lutero non era se non l'omaggio di un filosofo a colui che reputava come «il liberatore degl'intelletti, il rinnovatore dell'ordine morale.» Quanto a lui, dice benissimo il suo recente storico, il dotto e compianto Cristiano Bartholmèss97, non è partigiano di Vittemberga, di Roma; spera che verrà tempo in cui «non si adorerà più il Padre su questa montagna, a Gerusalemme (S. Giov. IV, 21);» professa «una teologia più elaborata, più depurata ancora che quella dei riformati.» Che cos'è questa fede più depurata? Quella che egli chiama a vicenda amore degli uomini, humanitas, philantropia, o amore della saggezza, sapientia, philosophia.

Io non seguirò il Bruno nelle altre sue peregrinazioni in Alemagna: all'Università di Praga, alla Corte di Brunswich, ove gli si diede l'incarico di compiere la educazione del giovinetto duca Enrico Giulio; all'Università di Helmstædt, città del ducato di Brunswich, ove, essendo stato il suo alunno chiamato al trono per la morte del duca regnante, egli insegnò filosofia, e tre mesi dopo fu scomunicato in pieno tempio dal capo del clero; a Francoforte sul Meno, città libera, ove regnava la tolleranza ed ove egli pubblicò tre delle sue opere, ma che lasciò d'improvviso per tornarsene in Italia.

Erano trascorsi dieci anni, dacchè il Bruno era partito dal suo paese, o, per dir meglio, n'era fuggito. La riputazione che avevasi acquistata, e gli scritti che aveva pubblicati in quei dieci anni d'una vita non meno splendida che errante, non avevano potuto non inacerbire gli sdegni e gli odii che lo avevano costretto a spatriare. Ritornando in Italia, egli veniva ad abbandonarsi da se stesso alla persecuzione ed all'ultimo supplizio. Come dunque spiegare la determinazione che ve lo riconduce? Trascinato certo da un ardente desiderio di rivedere la patria, si fece illusione sopra i pericoli che ve lo aspettavano, o sperò di superarli. Ma il pericolo era così certo, che il male del paese dovè colpire la sua mente di vertigine, perchè non lo vedesse chiaramente. «Dicesi (scriveva uno dei suoi antichi discepoli di Helmstaedt, il quale trovavasi allora in Bologna, ad un amico che stava a Padova), dicesi che il Nolano, da voi già conosciuto a Vittemberga, viva ed insegni nel paese vostro in questo momento. È proprio vero? Che viene dunque a fare quest'uomo in Italia d'onde, per sua confessione, ei dovette fuggire? Io ne sono maravigliato, stupefatto, posso credere a tal voce, benchè sia stata sparsa da persone degne di fede

Il Bruno era difatti a Padova, e, che è più, v'insegnava. L'Inquisizione non poteva fare a meno di chiedere la sua preda. Fu egli arrestato in Padova stessa o in Venezia, dove sarebbesi trasferito per iscampare dalle persecuzioni del clero padovano? Certo è che arrestato nel settembre 1592, l'anno stesso che, per una singolare coincidenza, Galileo aveva cominciato in Padova il suo corso di matematiche, stette per sei anni nelle carceri di Venezia, dette I Piombi, prima di essere mandato a Roma per essere giudicato dal Sant'Ufficio. Il grande inquisitore residente in Roma aveva domandato il Bruno sin dal suo arresto, ed è curioso il conoscere i motivi sui quali egli si fondava per chiederne la estradizione. «Quest'uomo, diceva, è non solamente eretico, ma eresiarca: egli compose varie opere, in cui molto loda la regina d'Inghilterra ed altri principi eretici; scrisse diverse cose attinenti alla religione e contrarie alla fede, benchè le esprimesse da filosofo; è apostata, essendo stato prima domenicano; visse alcuni anni in Ginevra ed in Inghilterra; fu processato per gli stessi motivi in Napoli e in altri luoghi.» Il padre inquisitore vivamente insistè sopra tutti questi capi d'accusa, e parlò del Bruno come d'uomo ch'egli non avesse perduto d'occhio da vent'anni.

Poichè i Savi avevano differita la loro decisione, egli tornò ad insistere nel pomeriggio del giorno stesso; ma questa volta i Savi risposero che «quell'affare essendo importante e di conseguenza, e le faccende della Repubblica molte e gravi, era impossibile il prendere veruna risoluzioneVenezia ritenne dunque il suo prigioniero e lo custodì per sei anni; ma finalmente cedette alle istanze ognora rinnovate della Santa Inquisizione, la quale non voleva perdere la sua preda, e sapeva bene che a forza di pertinacia finirebbe con ottenerla. L'estradizione del Bruno si fece nel 1598. Avuto che l'ebbe nelle sue carceri, la Santa Inquisizione prese a convertirlo. I primi teologi di Roma, fra gli altri il cardinale Bellarmino, uomo letterato ed elegante nei suoi scritti, non isdegnarono di discutere con esso, e fecero tutti ogni prova per trarlo alle loro opinioni. Il Bruno, al pari di Michele Servet, si mostrò irremovibile nelle proprie convinzioni. Si volle costringerlo a ritrattarle, con minacciargli l'estremo supplizio. Egli poteva quindi salvare la propria vita; e al vederlo talvolta perplesso si dovette credere che il timore del rogo finirebbe con istrappargli la ritrattazione che tanto desideravasi. Ma non era questa che una debolezza momentanea, come quella che abbattè per un istante il coraggio dell'Huss, di Girolamo da Praga, e di tanti altri martiri del pensiero; la forza dei suoi convincimenti e del suo carattere doveva uscire trionfante da una tal lotta contro la natura. La filosofia era per lui un apostolato; egli dispregiava i filosofi che ne facevano mestiere; perciò doveva determinarsi a morire da apostolo. Solamente cercò di guadagnar tempo. Ma il Sant'Ufficio, vedendo che di nulla poteva venire a capo col suo prigioniero, risolvette di finirla.

Ai 9 febbraio 1600, dopo due anni passati nelle carceri dell'Inquisizione, ei fu condotto al palazzo del grande inquisitore. Colà, in presenza dei cardinali, dei teologi e del governatore di Roma il Bruno fu costretto a inginocchiarsi ed ascoltare la sua sentenza. La quale narrava la vita, gli studi, le opinioni di lui, lo zelo che gl'inquisitori avevano mostrato per convertirlo, la sua ostinazione ed empietà, e conchiudeva dichiarando che egli doveva essere consegnato al braccio secolare per essere punito con quella maggiore clemenza che si potesse, e senza spargimento di sangue98; il che significava, nella infernale ipocrisia del linguaggio della Chiesa, il supplizio del fuoco. Finita la lettura, il Bruno fu solennemente scomunicato e degradato. La sua fermezza, durante quella ceremonia, non cessò pur un istante. Quando ei si rialzò: «forse (disse egli ai suoi giudici, volgendo sopra di essi uno sguardo sicuro), forse la sentenza che voi proferiste contro di me vi maggiore turbamento che non a me stesso.» Questa è la parola di Socrate; è quella di tutti i martiri. Dopo una tale cerimonia la giustizia ecclesiastica consegnò il Bruno al braccio secolare incaricato di punirlo colla clemenza da me sopra accennata. Nondimeno una dilazione di otto giorni gli fu concessa per la confessione de' suoi delitti. Ma siccome egli si ostinava a non riconoscerne alcuno, cioè a non ritrattare le proprie convinzioni, fu menato in gran pompa al Campo di Fiori, ove il rogo era preparato dinanzi al teatro di Pompeo, ed ove erasi adunato un immenso popolo. Il Bruno salì il rogo col più maschio coraggio, ed il suo contegno restò fermo sin tra le fiamme. Mentre era presso a morire, gli fu presentato un crocifisso; egli stornò il capo con isdegno. Una specie d'abiura si voleva in tal modo strappargli nel momento supremo, ma non gli convenne di piegarvisi. D'altra parte, non era egli forse stato ritenuto per otto anni nelle carceri di Venezia e di Roma, e ora condannato al fuoco in nome del Cristo, di cui gli si dava a baciare l'immagine? Quando il supplizio ebbe termine, le ceneri della vittima furono gittate al vento. «In tal guisa (conchiude un testimone di questo supplizio in una lettera ove ne fa il racconto99), in tal guisa il Bruno perì miseramente, e io credo che sarà andato a raccontare, negli altri mondi immaginati da lui, come i Romani sogliono trattare i bestemmiatori e gli empiCelia odiosa, ma almeno il caritatevole cristiano, che scherzapiacevolmente, non nega al Bruno l'onore di essere morto con una costanza da martire.

Il destino di Tommaso Campanella non fu senza analogia con quello di Giordano Bruno. Come lui, egli fu napoletano100; come lui, entrò per tempo nell'ordine dei Domenicani; come lui, la ruppe collo spirito di quella congregazione, combattendo Aristotele e la filosofia del Medio Evo; come lui, finalmente, fu un eroe ed un martire del pensiero. Se non perì, come Giordano Bruno, sul rogo, restò per ventisette anni nei ferri, venne rinchiuso in cinquanta carceri, messo quindici volte in giudizio, e sottoposto ben sette volte alla tortura più crudele. Un autore contemporaneo e degno di fede101 racconta che il Campanella sostenne per trentacinque ore una torturaspietata, che tutte le vene ed arterie che sono intorno al cuore essendosi rotte, il sangue che sgorgava dalle sue ferite non potè essere arrestato, e che tuttavia egli sofferse quella tortura con tanta fermezza, che non una sola volta si lasciò sfuggire una parola poco degna di un filosofo. Egli stesso fece la narrazione de' suoi patimenti nel proemio del suo libro, l'Ateismo vinto. Ascoltiamolo102:

«Fui rinchiuso in cinquanta carceri, e sottoposto sette volte alla più aspra tortura. L'ultima volta essa durò quaranta ore. Legato con funi strettissime e che mi laceravano le ossa; sospeso, colle mani avvinte dietro il dorso, sopra una punta di legno aguzzo che mi divorò la sedicesima parte delle mie carni, e trasse dieci libbre di sangue; guarito per miracolo dopo sei mesi di malattia, venni gittato in una fossa. Quindici volte fui posto in giudizio. La prima volta, quando mi fu domandato: come dunque sa egli ciò che non apprese mai? ha egli un demonio a' suoi comandi? Io risposi: per apprendere quello che so, io consumai più olio che voi non beveste vino. Un'altra volta mi accusarono d'essere autore del libro Dei tre impostori, il quale era stampato trenta anni prima che io fossi uscito dal ventre materno. Fui anche accusato d'aver le opinioni di Democrito, io che feci libri contro Democrito. Mi s'imputarono sentimenti avversi alla Chiesa, a me che scrissi un'opera sulla monarchia cristiana, in cui ho dimostrato che nessun filosofo aveva potuto immaginare una repubblica pari a quella che fu stabilita in Roma sotto gli apostoli. Mi si accusò d'essere eretico, io che composi un dialogo contro gli eretici del nostro tempo... Finalmente mi si accusò di ribellione e di eresia per aver detto che vi sono segni nel sole, nella luna e nelle stelle, contro Aristotele che fa il mondo eterno ed incorruttibile... Per questo mi gittarono, come Geremia, nel lago inferiore, ove non è aria, luce... Io non presumo di essere irreprensibile... Ma sostengo bensì che non vi è cagione di punirmi a questo modo

Il racconto da me letto, svelandoci gl'incredibili patimenti del Campanella, ne mostra altresì ciò che lo distingue dal suo concittadino Giordano Bruno. Questi la rompe colla Chiesa cattolica, e pretende innalzarsi per mezzo della filosofia sopra le Chiese tutte; il Campanella, al contrario, glorifica la Chiesa, e sopra di essa vuole appoggiarsi; vi scorge lo strumento che deve servire a rigenerare il mondo e ad avverare il regno di Dio sulla terra. Tale è il senso dell'opera sulla Monarchia cristiana che testè avete udito rammentare. Il Campanella è un platonico rimasto cattolico, o che almeno crede di essere, mentre Giordano Bruno è un platonico od un pitagorico affatto razionalista. Questi è veramente un libero pensatore in tutta la forza del termine; non si potrebbe qualificare così il Campanella, benchè sia stato martire del pensiero, e martire eroico.

Inoltre il Campanella non si contenta, come il Bruno, di parlare e di scrivere, ma unisce al pensiero l'azione. Ordisce nei conventi e nei castelli della Calabria una congiura di frati e di gentiluomini a fine di liberare il suo paese dal giogo spagnuolo. Fu questa la cagione per cui fu arrestato e chiuso nelle carceri, ove rimase ventisette anni; poi le accuse teologiche si mischiarono con le politiche.

Egli profittò di quella lunga e crudele prigionia. Preso, fin nel suo carcere, dall'idea della rigenerazione del mondo e della felicità del genere umano, vi meditò le opere che dovevano indicare agli uomini la via da battere; vi cercò anche con ogni sforzo il perfezionamento della scienza. Perciò nella prefazione di un suo libro103 ringrazia il cielo d'averlo tolto a tutte le distrazioni del mondo per procurare nel silenzio e nella solitudine il perfezionamento della scienza; si rallegra d'essere stato strappato al mondo della materia e di aver potuto vivere liberamente in quello dello spirito. Aggiungete che dal fondo del suo carcere egli difese il sistema di Copernico e compose un'apologia di Galileo, mentre questo illustre vecchio era giudicato dall'Inquisizione; «vittima eroica, scrive il Cousin104, che scrive a favore d'un'altra vittima nell'intervallo di due torture!» Infatti, dove mai trovare più mirabile eroismo?

Nondimeno egli uscì di carcere sotto il pontificato di Urbano VIII che lo fece trasferire a Roma col pretesto di farlo giudicare dalla Inquisizione, ma veramente per rimetterlo in libertà. Il Governo spagnuolo, adombratosi di quella libertà restituita ad un nemicoformidabile, lo fece catturare in Roma dai suoi agenti; ma potè il Campanella sfuggire dalle loro mani, e, per la protezione del conte di Noailles, ambasciatore di Luigi XIII, riparò in Francia, dove il Richelieu, in lui proteggendo l'avversario della potenza spagnuola piuttosto che il filosofo, gli concedette una pensione, e dove quegli visse fino al 1639.

Giulio Cesare Vanini, napoletano105 al pari, di Giordano Bruno e del Campanella, è un personaggio molto meno eroico e per tutti i rispetti meno attraente degli altri due; ma la sua morte lo pone nel novero dei martiri del libero pensiero.

Il Vanini non ha, per vero dire, la sincerità il valore morale che distinguono il Campanella e il Bruno. Nel primo scritto da lui pubblicato in Lione (1615), sotto il titolo di Anfiteatro della Provvidenza universale106, si copre della maschera della religione; e in una seconda opera, pubblicata a Parigi un anno dipoi107, dichiara (trista confessione per un filosofo!) che scrisse nella precedente molte cose, alle quali non crede niente. Così va il mondo, egli dice con disinvoltura. In questa opera fa mostra di un materialismo pratico, di una indecenza e di una sfrontatezza veramente intollerabili. E quest'uomo stesso nel suo carcere affetta una sì grande pietà, che i suoi carcerieri dicono di lui che si diè loro a custodire un santo.

Ecco ciò che bisogna riconoscere; ma conviene anche riconoscere che la sentenza, con cui egli fu condannato ad essere arso vivo per le sue opinioni filosofiche, non è meno esecrabile; e si deve, per la verità, soggiungere che, proferita la condanna, e in faccia al supplizio, il Vanini dimostrò il massimo coraggio.

Io non cerco se l'accusa di ateismo diretta contro di lui avesse buon fondamento. È noto come egli vi rispondesse. Avendo visto a' suoi piedi un fil di paglia, lo raccolse; poi, mostrandolo a' giudici: «Questo fil di paglia, disse, mi sforza a credere che vi è un Dio;» e svolse l'argomento che ne traeva con sì grande eloquenza, che per un momento sedusse il tribunale. Il Vanini era egli sincero nel parlar così, o voleva solamente salvare la propria vita? Ammetto che avesse di fatti professato l'ateismo che gli s'imputava; il supplizio inflitto ad un giovane per un errore di dottrina resta sempre abbominevole cosa. Esso fu opera del cieco e crudele fanatismo che regnava in Tolosa, «città cattolica per eccellenza,» come dice il Cousin108, ove l'Inquisizione aveva messo la sua sede, e il cui Parlamento non era meno fanatico del clero. Il Vanini, il quale al pari del Bruno aveva visitato quasi tutti i paesi dell'Europa, dove la filosofia era coltivata, l'Alemagna, l'Olanda, il Belgio, l'Inghilterra, Ginevra, e aveva dimorato qualche tempo in Francia, a Lione e a Parigi, commise l'imprudenza di venirsi a stabilire in questa città. Denunziato per ateo, fu arrestato, condotto innanzi al Parlamento, e condannato sol per causa di ateismo. Così il Vanini perì a trent'anni vittima di quell'odioso fanatismo che aveva allora in Tolosa uno de' suoi più ardenti focolari, e che non vi doveva morire con lui.

Dissi già che se prima della sua condanna il Vanini fece quanto potè per salvar la propria vita, mostrò, data che fu la sentenza, un vero coraggio. Non domandò grazia, e andò al supplizio con risoluto contegno. È questo un onore che si volle rapirgli, ma che è impossibile negargli, se si giudichi dal racconto stesso dei testimoni che glielo hanno contrastato109. Il Mercure de France osò rendergli questa giustizia: «Il Vanini, dice, morì con tal costanza, pazienza e volontà, che mai non videsi la maggiore in altr'uomo. Perocchè, uscendo dalla Conciergerie come gaio e allegro, proferì queste parole in italiano: «andiamo allegramente a morire da filosofo.» E verso qual supplizio s'incamminava? Giudicatene dalla sentenza che vi leggerò110; e che fu letteralmente eseguita:

«Sabato di febbraio M.V.C.IXX., nella gran Camera, e con essa la Camera criminale adunata, presenti i signori di Mazuyer, primo presidente, di Berthier e Segla, altri presidenti, Assezat, Caulet, Catel, Melet, Bartolomeo di Pins, Maussac, Oliviero di Hautpoul, Bertrand, Prohenques di Noé, Chastenay, Vezian, Rabondy, Cadilhac;

«Visto dalla Corte, le due Camere adunate, il processo fatto da esse a richiesta del procuratore generale del re, a Pompeo Ucilio, napoletano di nazione, prigioniero alla Conciergerie, carichi ed informazioni contro lui fatti, audizioni, confronti, obbiezioni da lui proposte contro i testimoni con lui confrontati, tassa e denunzia sopra ciò fatte, dire e conclusione del procuratore generale del re contro il detto Ucilio udito nella gran Camera: sarà detto che il processo è in istato di essere giudicato definitivamente senza informare della verità di dette obbiezioni, e così facendo, la Corte dichiarò e dichiara il detto Ucilio reo e convinto dei delitti di ateismo, bestemmie, empietà ed altri delitti risultanti dal processo, per punizione e riparazione dei quali condannò e condanna esso Ucilio ad essere consegnato nelle mani dell'esecutore dell'alta giustizia, che lo strascinerà sopra un graticcio, in camicia, con ritortola al collo, e portante sulle spalle un cartello con queste parole: Ateo e bestemmiatore del nome di Dio; e lo condurrà dinanzi alla porta principale della chiesa metropolitana di Santo Stefano, ed essendo ivi in ginocchio, capo e piedi nudi, tenendo in mano una torcia di cera accesa, domanderà perdono a Dio, al re e alla giustizia di dette bestemmie; poi lo menerà sulla piazza del Salin, e, attaccatolo ad un palo che vi sarà piantato, gli reciderà la lingua e lo strangolerà; e quindi sarà il suo corpo abbruciato sul rogo che vi sarà apprestato, e le ceneri gittate al vento; e confiscò e confisca i suoi beni, detratte da questi le spese di giustizia, a pro di coloro che le esposero, riservata la tassa

Questa orribile sentenza fu posta ad effetto il 9 febbraio 1619.

Aggiungiamo finalmente a questo funebre elenco che oggi percorriamo, un nome glorioso nella scienza, più glorioso, è vero, pel sovrano intelletto che per la fermezza del carattere, ma che le persecuzioni procurategli dalle sue immortali scoperte collocano pure tra i martiri del pensiero. Intendo parlare di Galileo, il quale ripigliò, per dimostrarla scientificamente, l'ipotesi del Copernico sul moto della terra intorno al sole, quell'ipotesi alla quale il Bruno e il Campanella si erano appigliati da filosofi.

Io leggeva di recente in una nuota raccolta111 la traduzione d'un dialogo di Giacomo Leopardi, in cui l'autore mette in iscena il sole e il Copernico, e che così finisce:

«Copernico. Ci resterebbe una certa difficoltà solamente.

«Sole. Via, qual è?

«Copernico. Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice; perchè accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri come fa quell'uccello, e di non vedere mai più da quell'ora innanzi la faccia della Signoria Vostra.

«Sole. Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura o altra cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch'io posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo proposito dedicalo al papa. In questo modo ti prometto che anche hai da perdere il canonicato

Il Copernico fece per l'appunto quello che qui il Sole gli consigliò; dedicò il suo libro a papa Paolo III; e del resto, avendo in certa guisa voluto aspettare il termine della sua vita per pubblicare le proprie idee sulle rivoluzioni dei corpi celesti, egli morì il giorno stesso che gli fu recato il primo esemplare del suo libro (1543).

Ma Galileo fu meno prudente, e non seppe morire a tempo.

Un decreto del 1616 vietava di sostenere che il sole sia fisso nel centro del mondo, e che la terra giri sopra se stessa correndo intorno ad esso! «La dottrina attribuita al Copernico, diceva quel decreto, che la terra si mova intorno al sole, e che il sole si tenga immobile nel centro dell'universo senza muoversi da oriente ad occidente, è contraria alle Sante Scritture e per conseguenza non può essere professata difesa

Galileo stimò d'aver trovato il mezzo di eludere questo inetto decreto; compose alcuni dialoghi (1632) in cui pose a fronte il sistema di Tolomeo e quello del Copernico, a fine, diceva egli nella prefazione con ironia molto trasparente, di mostrare agli stranieri che il salutare editto, il quale proibisce il sistema del Copernico, non fu pubblicato in Roma senza una perfetta cognizione di causa. Ma era troppo chiaro che Galileo ben voleva far trionfare sotto questo velo il sistema dalla Chiesa interdetto; e per colmo d'imprudenza ei metteva in bocca al difensore del sistema ortodosso argomenti che aveva raccolti dalla bocca stessa di papa Urbano VIII. Tal era, fra gli altri, questo bell'argomento: che Iddio, essendo onnipotente, può dare all'elemento dell'acqua il moto di flusso e di riflusso, che vediamo succedere nel mare, in un'infinità di modi incomprensibili al nostro intelletto, e che perciò è un attentare alla sua onnipotenza il cercar di spiegare quel moto con qualche sistema particolare.

Il papa fu naturalmente molto sdegnato della pubblicazione di una tale opera, la Inquisizione potè lasciar posare i suoi fulmini in faccia a tanto scandalo. Si ordinò tosto al libraio di sospendere lo spaccio del libro, poi s'intimò a Galileo di recarsi a Roma per essere giudicato dal sant'Uffizio. Invano l'illustre vecchio allegò i suoi 70 anni e le sue infermità; invano mise in opera tutte le protezioni alle quali poteva ricorrere; gli bisognò ubbidire alla intimazione fattagli per iscampare dalle violenze di cui era minacciato.

Giunse a Roma il 13 febbraio 1633, e smontò alla casa dell'ambasciatore del granduca di Toscana, Ferdinando II, il quale lo protesse quanto potè, ma non seppe sottrarlo agli artigli dell'Inquisizione. Il suo processo durò quattro mesi, nel corso de' quali ei restò prigioniero, o nella casa dell'ambasciatore, o nel palazzo stesso del Sant'Uffizio. È ora accertato ch'egli non venne messo alla tortura, come a lungo si credette112; ma resta indubitato che gliene fu fatta la minaccia. Se questa non si eseguì, fu perchè il povero vecchio concesse tutto ciò che gli si richiese.

Finalmente, condotto alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, egli udì innanzi ai cardinali ed ai prelati della congregazione lettura del decreto che lo condannava, e che finiva come segue:

«Affinchè questo grave e pernicioso errore non resti del tutto impunito, e tu sia per gli altri un esempio che li distolga da ogni delitto di tal sorta, noi decretiamo che il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei sia proibito per pubblico editto; ti condanniamo al carcere di questo Santo Uffizio per un tempo che determineremo a grado nostro, e ti ordiniamo di recitare, a titolo di penitenza, una volta per settimana, per 3 anni, i salmi penitenziali; riservando a noi il moderare, cambiare o abolire, in tutto o in parte, le pene e le penitenze di sopra stabilite

Terminata questa lettura, l'uomo di sublime ingegno, così stupidamente condannato, fu costretto, oh infamia! a fare in ginocchioni l'abiura seguente:

«Io Galileo Galilei, fiorentino, figlio di Vincenzo Galilei, dell'età di 70 anni, costituito personalmente in giustizia, essendo in ginocchio al cospetto vostro, eminentissimi e reverendissimi signori cardinali, inquisitori generali di tutta la cristiana repubblica contro l'empietà eretica, avendo innanzi agli occhi i santi Vangeli, che tocco di mia propria meno, giuro che sempre credetti, che credo ora e coll'aiuto di Dio crederò sempre in avvenire tutto ciò che ammette, predica e insegna la santa Chiesa cattolica, apostolica e romana... Che se mi avvenga (e Dio me ne liberi!) di contraddire con qualche parola alle mie promesse, proteste e giuramenti, mi sottopongo a tutte le pene e supplizi che furono stabiliti e promulgati dai sacri canoni e dalle altre costituzioni generali e particolari contro i colpevoli di tale specie. Così Dio m'aiuti e i suoi santi Vangeli che tocco di mia propria mano... Io, il suddetto Galileo Galilei, ho abiurato, giurato e promesso e mi sono vincolato come sopra, in fede di che ho sottoscritto di proprio pugno il presente manoscritto, e l'ho recitato parola per parola

«No! (esclama il dotto signor Biot alla fine di questa esatta relazione del processo di Galileo, il tono della quale è in generale così singolarmente riserbato), no! Galileo non fu torturato nel corpo; ma quale orrenda tortura morale non dovette egli soffrire, quando sotto la terribile minaccia dei supplizi e della prigione si vide miseramente costretto a spergiurare contro se stesso, a rinnegare le immortali conseguenze delle sue scoperte, a dichiarar vero ciò che egli credeva falso, e a far giuramento di non più sostenere d'allora in poi quello che credeva la verità! Si possono elle ben intendere le angosce di quel martire, le amarezze onde quella eletta intelligenza fu abbeverata? E non si proscrissero solamente i suoi pensieri del tempo innanzi; anche si volle incatenarli per sempre. Da quel giorno funesto del 1633 fino alla sua morte, avvenuta l'8 gennaio 1642, cioè durante gli ultimi nove anni della sua vita, lo sventurato Galileo rimase in uno stato di sospetto sordo e di vigilanza inquieta, il cui rigore lo seguitò oltre la tomba. Alcuni teologi fanatici vollero contrastare la validità del suo testamento, e fargli negare la sepoltura ecclesiastica, come ad uomo che era mancato di vita sotto un gastigo datogli dall'Inquisizione. Ma questi odiosi tentativi furono giudizialmente respinti, e Firenze, sua patria, non ebbe da arrossire di essersi mostrata infedele verso la memoria d'un sì grande intelletto, che le fece tanto onore

«E dopo due secoli, esclamava dal canto suo il nostro caro e grande proscritto, Edgardo Quinet, in una di quelle splendide lezioni, in cui sì vigorosamente combatteva lo spirito clericale113, dopo due secoli, il corifeo della reazione neo-cattolica, signor di Maistre, crede di sbrigarsela con tutto quel passato, quando col riso del carnefice ha deriso il lungo supplizio che egli chiama la storiella di Galileo. Ah! signori, si ponga fine almeno all'ironia! Nuovi difensori della Chiesa, non insultate i martiri

Si disse che Galileo rialzandosi aveva mormorato queste parole: Eppur si muove! Non è probabile che il povero vecchio le abbia proferite; ma se questo motto (come tanti altri che si dicono storici) non è vero storicamente, tal è, mi sia lecito dirlo, filosoficamente, e per questa ragione resterà immortale. Eppur si muove! è la protesta della verità contro le stupide persecuzioni del fanatismo.

Fate pur mettere in ginocchio quell'uomo di altissimo intelletto, e costringetelo a ritrattare la sua dimostrazione del moto della terra: Eppur si muove! Eppur si muove! è il motto che si addice a tutti i martiri della ragione, della luce, del progresso. Fanatismo, ignoranza, vieta consuetudine, spremete i vostri veleni, accendete i vostri roghi, chiamate in vostro aiuto tutti i supplizi, sforzatevi di soffocar la verità nel sangue e nelle lagrime: Eppur si muove!





95 V. Giordano Bruno, per Cristiano Bartholmèss. Cito qui una volta per tutte questa eccellente opera, che ho costantemente seguita nella biografia del filosofo di Nola.



96 Cf. quinta lezione.



97 Giordano Bruno, nota a pagina 160.



98 Ut quam clementissime et ultra sanguinis effusionem puniretur.



99 Schoppe (Scioppius), protestante convertito. Vedi la sua lettera fra i documenti dell'opera del signor Bartholmèss, t. 1, pag. 332. Il signor Cousin, il quale ne recò qualche passo (Fragments de philosophie cartésienne, pag. 10), mal credette che non fosse mai stata tradotta in francese. Ne era già pubblicata la traduzione prima dal Lacroze (Entretiens p. 287-303), poi dal Naigeon in un'aggiunta all'articolo Giordano Bruno dell'Enciclopedia del Diderot. Vedi Encyclopédie méthodique, Philosophie ancienne et moderne pel Naigeon, t. III, pag. 61.



100 Nacque a Stilo in Calabria nel 1568.



101 Citato dal Cousin nei Fragments de philosophie cartésienne, p. 12.



102 Tolgo pure dal Cousin (ibid.) il seguente estratto.



103 Philosophiæ realis partes.



104 Ibid., pag. 13.



105 Nacque in Taurisano, presso Napoli, nel 1585.



106 Ecco questo titolo in tutta la sua estensione e pompa: AMPHITHEATRUM ÆTERNÆ PROVIDENTIÆ DIVINO-MAGICUM, CHRISTIANO-PHISICUM, NECNON ASTROLOGO-CATHOLICUM, ADVERSUS VETERES PHILOSOPHOS, ATHEOS, EPICUREOS, PERIPATETICOS ET STOICOS, auctore Julio Cæsare Vanino, philosopho, theologo ac juris utriusque doctore; Lugduni, 1615. Il libro è dedicato a Sua Eccellenza don Francisco de Castro, duca di Taurisano, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede.



107 Sotto questo titolo: Julii Cæsaris Vanini, neapolitani, theologi, philosophi et juris utriusque doctoris, DE ADMIRANDIS NATURÆ REGINÆ DE ÆQUE MORTALIUM ARCANIS, libri quatuor, Parigi, 1616. Questa seconda opera è dedicata a un uomo di guerra e di buontempo, il Bassompierre, «il cui nome nessuno si aspettava, dice il Cousin (Fragments de philosophie cartésienne, pag. 45), di trovare in fronte ad un'opera di filosofia



108 Loc. cit., pag. 67.



109 V. l'estratto del processo verbale del Campidoglio, citato dal Cousin, ed i passi delle Memorie manoscritte del Malenfant e del racconto del Gramond, col quale egli lo raffronta (loc. cit., pag. 89-91).



110 Copio questo decreto dal Cousin che lo pubblicò per la prima volta (loc. Cit., p. 86).



111 La Réforme littéraire, num. III, 2 febbraio 1862.



112 V. La vérité sur le procès de Galilée, par Biot (Mélanges scientifiques et littéraires, tom. III).



113 L'Ultramontanisme ou l'Eglise romaine et la société moderne, lezione quarta (Oeuvres complètes, tomo II, pag. 200).



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